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Intelligenza creativa e libera volontà: così l’Italia torna a volare

In questi anni, in seguito alle difficoltà legate alla crisi economica, il tema del lavoro è divenuto centrale nelle politiche europee. Il rilancio dell’occupazione è fondamentale ma siamo sicuri che la ricchezza di un paese dipenda unicamente dal lavoro? L’economista meridionale Antonio Genovesi, nelle Lezioni di economia civile, riteneva che la ricchezza di un paese fosse sempre da porre in relazione alla somma delle “fatiche”. Secondo Genovesi il lavoro che un governo avrebbe fatto bene ad incoraggiare doveva essere quello che dava una rendita in base alle richieste del mercato. Scriveva l’economista napoletano:

Antonio Genovesi (1713-1769)
Antonio Genovesi (1713-1769)

La ragione di tal principio è di per se chiara: imperciocché è manifesto, che le ricchezze di una Nazione sieno sempre in ragion della somma delle fatiche. Di qui segue, che quanto è minore il numero degli uomini che non rendono, tanto essendo maggiore quello di coloro che rendono, maggiore ancora debba essere la somma delle fatiche e conseguentemente maggiori le rendite della Nazione. E per contrario, quanto è maggiore il numero di quei che non rendono, tanto è minore la somma delle fatiche; e perciò delle rendite così private come pubbliche” (A. Genovesi, Lezioni di commercio, Venezia 1769, pp.165-166).

Per Genovesi occorreva ridurre tutte le classi che non rendevano a partire dai dotti i quali, a suo giudizio, non producevano con il loro lavoro una rendita immediata. Si trattava di una posizione per nulla isolata se pensiamo che Adam Smith, pochi anni dopo, avrebbe affermato addirittura che le classi dotte “non producono valore veruno”.

Genovesi aveva visto giusto quando affermava che il lavoro fosse importante nel favorire la ricchezza delle nazioni. Eppure, a ben vedere, non è una condizione sufficiente. Altrimenti non si spiega la differenza tra i paesi economicamente avanzati che continuano a produrre ricchezza nonostante alti tassi di disoccupazione e, viceversa, paesi in via di sviluppo ove il lavoro non aiuta i cittadini ad uscire dalla povertà. Teniamo presente che in questi paesi gli stipendi sono inferiori ai due dollari giornalieri. Il lavoro in sé quindi non basta a rendere ricca una Nazione.

Carlo_Cattaneo
Carlo Cattaneo (1801-1869)

Il grande intellettuale e storico milanese Carlo Cattaneo fu uno dei primi a capire il nesso che lega la qualità del lavoro alla ricchezza di un paese. A rendere ricca una nazione non basta la somma delle fatiche. Occorrono per Cattaneo due altre condizioni: la prima riguarda la presenza nel tessuto sociale del maggior numero di persone capaci di avere “un’intelligenza creativa”, quell’intelligenza che rende possibili le scoperte scientifiche e le invenzioni tecnologiche. La seconda condizione è la libertà d’impresa: questa consente di passare dalla teoria alla pratica, di realizzare i prodotti più avanzati. In altre parole, di dare libero sfogo alla volontà individuale.

Veniamo alla prima condizione: l’intelligenza creativa. Le scuole e l’università contribuiscono certamente a stimolarla. Oggi però non bastano. Esse devono cambiare e devono farlo in profondità. Non possono basarsi su un sapere prettamente nozionistico. In fondo, i maggiori inventori non furono uomini colti e neppure eruditi. Cattaneo ci dice che da quando l’uomo comparve sulla terra – ben prima quindi che esistessero le scuole e le università – il progresso è dipeso dalle menti acute, rapide nel conoscere, nello sfruttare i risultati di una scoperta per inventare una tecnica o un oggetto che fosse in grado di rispondere meglio e prima di altri ai bisogni della comunità.

In un saggio memorabile pubblicato sulla rivista “Il Politecnico” nel 1861 intitolato Del pensiero come principio di economia pubblica, Cattaneo scriveva:

non fu il più dotto pensatore del suo secolo che raccolse nei selvaggi prati dell’Asia il primo grano di frumento e lo ripose entro terra col proposito di vederlo ripullulare; né quello che saltò per primo sul dorso di un cavallo; o si trovò d’aver indurato col foco la sottoposta argilla…tutte le invenzioni furono atti d’intelligenza scaturiti in menti sagacissime dall’immediata osservazione dei singoli fatti e non da deduzione scientifica”.

Va bene Gabriele. Bello questo discorso sulle invenzioni. Ma alla fine come può l’Italia tornare a crescere?

Riprendendo il pensiero di Cattaneo, la soluzione risiede a mio parere nel connubio tra libertà e istituzioni. Alle istituzioni – pubbliche e private – spetta il compito di istituire scuole che sappiano formare i ragazzi stimolando le menti alla conoscenza produttiva, a una conoscenza che non sia mera erudizione. Cattaneo ci dice che la trasmissione dei saperi in campo umanistico e scientifico deve essere costantemente piegata ai bisogni di una società in perenne trasformazione. Tradotto nel mondo di oggi. Le nostre scuole, per essere produttive, dovrebbero essere finanziate da imprese che riscuotono un successo mondiale nella produzione e nella vendita dei prodotti Made in Italy. In questo modo i giovani imparano a lavorare, ad innovare nei campi in cui le imprese italiane hanno raggiunto livelli di eccellenza senza perdere tempo.

In fondo, si tratterebbe di recuperare il modello d’insegnamento tipico della Società d’incoraggiamento di arti e mestieri – l’istituto lombardo di cui Cattaneo fu segretario generale per alcuni anni – ove i giovani non solo assistevano alle lezioni dei professori, ma imparavano un mestiere secondo le tecniche più avanzate per la società di allora. Solo in questo modo i giovani, formati in una scuola che sappia fondere in modo armonico il sapere umanistico con quello scientifico, possono liberare la loro creatività contribuendo a rafforzare il successo del Made in Italy nel mondo.

Le maggiori scoperte scientifiche – ci ricorda Cattaneo – sono avvenute non già perché una persona fosse più colta di un’altra. La persona di successo è quella che ha saputo mettere a frutto il suo patrimonio di conoscenze selezionando i dati culturali che gli servivano per realizzare il progetto vincente.

Steve Jobs non era una cima nel campo degli studi. Difatti non terminò l’università. Perché ha fatto fortuna? Perché è diventato ricco? Il merito di Jobs fu di aver realizzato un personal computer dotato di una grafica che per la prima volta era assai più bella e sviluppata rispetto agli altri pc. I caratteri del Mac erano avanti anni luce rispetto agli altri calcolatori. Questo – ci direbbe Cattaneo – fu l’atto dell’intelligenza di Jobs. Come fu reso possibile questo atto d’intelligenza? La ragione sta tutta nella cultura cognitiva di Jobs. Fu la frequentazione di un corso di calligrafia a suscitargli l’amore per i caratteri ben disegnati. Nel celebre discorso tenuto ai neolaureati dell’Università di Stanford nel 2005, l’inventore del Mac disse:

Steve Jobs (1955-2011)
Steve Jobs (1955-2011)

Il Reed College a quel tempo offriva probabilmente i migliori corsi di calligrafia del paese…ho imparato dei caratteri serif e sans serif, a come variare la spaziatura tra differenti combinazioni di lettere, e che cosa rende la migliore tipografia così grande. Era bellissimo, antico e così artisticamente delicato che la scienza non avrebbe potuto ‘catturarlo’, e trovavo ciò affascinante. Nulla di tutto questo sembrava avere speranza di applicazione pratica nella mia vita, ma dieci anni dopo, quando stavamo progettando il primo computer Machintosh, mi tornò utile. Progettammo così il Mac: era il primo computer dalla bella tipografia. Se non avessi abbandonato gli studi, il Mac non avrebbe avuto multipli caratteri e font spazialmente proporzionate”.

Jobs non ci dice nulla sugli insegnanti che ebbe a quel corso di calligrafia ma è evidente che se un pessimo docente avesse tenuto le lezioni, la passione di Jobs per la bellezza dei caratteri non sarebbe germinata così facilmente.

Ma veniamo al secondo termine del connubio: libertà. Cattaneo ci ricorda che le società più ricche sono quelle in cui i poteri pubblici riconoscono ed incoraggiano la libera iniziativa dei cittadini abbassando la tassazione sul lavoro. Le imposte troppo alte infatti, “accrescendo li attriti che stancano l’industria, rallentano la pubblica prosperità in quanto essa scaturisce dalla volontà”.

Se pensiamo alle imprese italiane che resistono alla crisi e continuano ad eccellere nel design, nella moda, nell’alimentazione, la lezione da trarre potrebbe essere questa: solo libertà d’impresa e una scuola piegata all’innovazione ci consentiranno di riprendere a volare e a volare alto. Questi i due compiti che spettano al governo: liberare le imprese dai lacci della burocrazia e dal peso della tassazione; investire nella ricerca e nella formazione scientifica riformando in profondità le istituzioni scolastiche e universitarie.