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Il maresciallo Trivulzio nella Milano del primo ‘500

Camminando lungo il corso di Porta Romana da piazza Missori, prima di arrivare all’incrocio con via Francesco Sforza, si apre a sinistra la piazzetta di San Nazaro in Brolo. La chiesa omonima, di origine medievale, fu una delle prime basiliche paleocristiane ad essere costruita per volontà di Sant’Ambrogio.

Non voglio annoiarti facendo la storia della chiesa, che puoi trovare in una delle tante guide cittadine. Desidero ricordare la curiosa struttura architettonica. E’ infatti l’unico caso a Milano di una basilica la cui facciata sia interamente coperta da un altro edificio: il Mausoleo Trivulziano.

La Trivulza
San Nazaro in Brolo in corso di Porta Romana. Ingresso nel Mausoleo Trivulzio

Quando entrai per la prima volta in questa cappella, ebbi una sensazione di lugubre solennità. Progettato dall’architetto Bartolomeo Suardi detto il Bramantino, edificato in parte da Cristoforo Lombardi, il mausoleo risale alla prima metà del XVI secolo. E’ una fabbrica a pianta quadrata che, se non si trovasse nella parte anteriore della chiesa, sembrerebbe una torre anziché un luogo di sepoltura.  D’altra parte il Bramantino, che era stato a Roma tra il 1508 e il 1510, parve richiamare in questo edificio le linee architettoniche dei grandi monumenti della Roma imperiale. All’interno otto nicchie, collocate in posizione elevata, accolgono i sepolcri di alcuni Trivulzio, una famiglia nobile che abitava in un bel palazzo situato in via Rugabella, oggi purtroppo scomparso.

Sepolcro Trivulzio
Il sepolcro del maresciallo Gian Giacomo Trivulzio

Nella parte del mausoleo che confina con l’ingresso della chiesa spicca il sepolcro del maresciallo Gian Giacomo Trivulzio (1442-1518), il maggiore esponente del casato. L’iscrizione che ricorda il defunto recita solennemente: “IO. IACOBUS/MAGNUS TRIVULTIUS/ANTONII FILIUS/QUI NUNQUAM/ QUIEVIT QUIESCIT/TACE”; tradotto in italiano significa: “Riposa Gian Giacomo Trivulzio, figlio di Antonio, che mai ebbe pace”.  Una frase concisa, che sembra quasi ammonire il visitatore a non disturbare il sonno eterno di un grande personaggio che visse una vita tormentata.

Chi fu questo nobile milanese? Per saperne di più, ti consiglio una fonte preziosa che è stata pubblicata da pochi mesi dalla Fondazione Trivulzio. L’opera, curata da Marino Viganò, si intitola Le imprese dell’illustrissimo Gian Giacomo Trivulzio il Magno: l’autore è un monaco cistercense di Chiaravalle che visse a fianco del maresciallo nei primi anni del Cinquecento: Arcangelo Madrignano.

So già cosa mi dirai: Gabriele, la solita opera noiosa scritta da un uomo di chiesa con stile ampolloso. Cosa me ne faccio?

IMG_5818Non si tratta di un’opera noiosa per due ragioni. Anzitutto perché scritta da uomo che, benché si chiamasse Arcangelo e facesse parte di un ordine religioso, fu tutt’altro che uno stinco di santo. Il che, se non contribuisce di per sé a renderci l’autore simpatico, lo rende certo meritevole della nostra attenzione. Un uomo, il Madrignano, che non esitò nel corso della sua vita a tradire i confratelli, a cambiare casacca per convenienza politica, a perseguitare altri religiosi pur di conseguire ricche prebende e compiacere i suoi superiori.

In secondo luogo il testo, il cui intento apologetico non inquina la ricostruzione di alcune vicende, contiene proverbi popolari, massime di scienza politica, riflessioni che sono una fonte preziosa per comprendere l’Italia del primo Cinquecento.

L’opera racconta le imprese del condottiero di ventura Gian Giacomo Trivulzio dal 1465 fino al 1494, l’anno della calata in Italia del re di Francia Carlo VIII.  Il testo venne scritto tra il 1503 e il 1509, il periodo di massima fortuna politica del maresciallo.

Bisogna riconoscere che il Trivulzio ebbe pessima fama nella Milano del primo Cinquecento e nella storiografia risorgimentale. Negli anni del suo declino politico, venne accusato di essersi venduto al re di Francia, di aver tradito la dinastia sforzesca. Nell’Ottocento ritornò ancora questa “macchia”: aver tradito Ludovico il Moro, uno dei simboli del Rinascimento italiano.

G.G._Trivulzio
Il maresciallo Gian Giacomo Trivulzio (1442-1518)

In realtà, il Trivulzio non può essere considerato un traditore della patria. Il mestiere del condottiero di ventura lo poneva in una condizione che non è equiparabile a quella del soldato odierno. Il condottiero di ventura arruolava il maggior numero possibile di “lance”: squadre di armati ciascuna delle quali era composta mediamente da 5/7 uomini tra i quali un cavaliere vestito con armatura pesante.  Queste lance, reclutate a centinaia, erano impiegate al servizio della repubblica o del principato con cui era stata firmata una lettera di “condotta”: ecco per quale motivo tali uomini erano chiamati “condottieri di ventura”. Oggi appare inconcepibile questo modo di gestire le operazioni militari, ma la guerra del Rinascimento era fatta così. Era una faccenda in larga parte “privata”. Il Trivulzio, come il coetaneo Giovanni dalle Bande Nere o prima di lui Francesco Sforza, furono brillanti condottieri di ventura, pronti a vendere la loro professionalità in campo militare al migliore offerente.

Ludovico Sforza detto il Moro, in una pala del 1495. Museo di Brera
Ludovico Sforza detto il Moro, in una pala del 1495 conservata al Museo di Brera

L’impopolarità del Trivulzio nella Milano del primo ‘500 – impopolarità che segnò la vita tormentata del maresciallo come ci ha ricordato l’iscrizione funeraria in San Nazaro – fu dovuta all’accusa di aver tradito la dinastia sforzesca. Il rifiuto di riconoscere Ludovico Sforza “il Moro” come duca di Milano era considerato da molti coetanei un tradimento feudale. In realtà il maresciallo – che non fu certo il solo nobile lombardo a ‘tradire’ il duca di Milano – si rifiutò di riconoscere l’autorità del “Moro” perché riteneva che questi si fosse impadronito del potere estromettendo il nipote, Gian Galeazzo Maria Sforza, morto in circostanze misteriose nel 1494. E’ molto probabile che il Moro avesse fatto avvelenare quello scomodo parente. Tuttavia bisogna riconoscere che Ludovico Sforza era riuscito in quello stesso anno ad ottenere l’investitura ducale dall’imperatore Massimiliano d’Asburgo, conseguendo in tal modo quel riconoscimento giuridico in campo internazionale che agli Sforza era mancato fin dai tempi in cui erano ascesi al governo dello Stato di Milano.

Molti nobili lombardi – e tra questi il già citato Gian Giacomo Trivulzio – rifiutarono tale investitura. Ritenevano che il re di Francia Luigi XII, discendendo da Valentina Visconti – figlia del primo duca di Milano Gian Galeazzo Visconti e andata in sposa a Luigi duca di Orléans – avesse maggiori diritti nella successione. Per questo motivo giurarono fedeltà a Luigi XII e lo aiutarono a conquistare il ducato nel 1499/1500.

Diversamente dalle opere scritte in quel medesimo torno di tempo da Donato Bossi e da Bernardino Corio per celebrare Ludovico il Moro, il Madrignano ci descrive una Milano preda dell’instabilità, funestata da violenze e da congiure, mostrando un taglio narrativo ostile allo Sforza. Una testimonianza preziosa che aiuta a comprendere meglio il filo delle drammatiche vicende in cui il Trivulzio fu chiamato a vivere.

La Società Svizzera: astro dell’associazionismo milanese di fine ‘800

Negli anni Ottanta del XIX secolo Milano vide il fiorire di molte associazioni attive nel campo della cultura, dello sport, della scienza. Questo fenomeno fu dovuto sostanzialmente a due ragioni. La prima si legava alla libertà di associazione garantita dall’articolo 32 dello Statuto Albertino, la Costituzione del Regno d’Italia sabaudo estesa alla Lombardia nel 1859: esso riconosceva il diritto di riunione in luoghi chiusi anche se questo era vincolato alla preventiva autorizzazione del governo. I milanesi poterono disporre in tal modo di un margine di libertà che trent’anni prima, sotto il dominio austriaco, sarebbe stato inimmaginabile.

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Apertura della ferrovia del San Gottardo (23 maggio 1882) da “Centotrentanni della Società Svizzera di Milano”, a cura di Renata Broggini, Jean Pierre Hardegger, Marino Viganò, Hoepli-Seb editrice 2013

L’aumento del fenomeno associativo era dovuto in secondo luogo al proliferare di una classe piccolo borghese bisognosa di spazi in cui condividere i propri hobby. A ben vedere, la formazione di società di questo tipo non riguardava solo i milanesi ma anche i tanti stranieri che, stabiliti a Milano per ragioni di lavoro, desideravano ritrovarsi nel tempo libero e condividere l’amore per la patria lontana. La Società Svizzera di Milano costituiva a tal proposito un caso emblematico. Fondata il 15 dicembre 1883, riuniva al suo interno le associazioni elvetiche esistenti in città. La data di nascita non fu casuale: il sodalizio nasceva infatti per aiutare i cittadini della Confederazione che, in seguito all’apertura della linea ferroviaria del San Gottardo (1882), giungevano numerosi a Milano dai cantoni di lingua tedesca in cerca di lavoro.

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Il volume pubblicato dalla Società Svizzera di Milano

L’anno scorso la Società Svizzera ha pubblicato un bel volume per festeggiare i 130 anni della sua attività. Il libro, Centotrentanni della Società Svizzera di Milano 1883-2013 (curato da Renata Broggini, Jean Pierre Hardegger e Marino Viganò, Hoepli-Seb Editrice 2013) prende in esame la storia del sodalizio mediante il ricorso ai preziosi documenti conservati dalla Società.

Ulrico Hoepli
Ulrico Hoepli

Tra i primi soci troviamo i nomi di tante personalità che diedero lustro a Milano. E’ il caso soprattutto di Ulrico Hoepli, presidente della Società Svizzera dal 1886 al 1889, fondatore della celebre libreria oggi in piazzale Meda. Originario del villaggio di Tuttwill (nel cantone di Turgovia), giunse a Milano all’età di 23 anni. Fissata la prima attività nel campo editoriale in Galleria De Cristoforis, Hoepli divenne famoso per aver fondato l’omonima casa editrice che pubblicò una fortunata serie di manuali nei più svariati campi delle scienze e delle arti.

Fu Hoepli a trovare i primi locali alla Società Svizzera: quattro stanze prese in affitto in via Silvio Pellico 6 con vista su piazza del Duomo. Qui il sodalizio tenne le riunioni dal 1886 al 1914, quando l’aumento dei soci rese necessario l’acquisto di una casa in via Disciplini 11, nel sestiere di Porta Ticinese. Il trasferimento nel nuovo stabile fu però contrastato. Oggi via Disciplini è una tranquilla strada del centro la cui importanza si collega al suo tracciato peculiare: assieme alla parallela via Cornaggia, essa infatti mostra tuttora alcuni ruderi delle antiche mura romane. La situazione era ben diversa nei primi anni del Novecento: l’isolato faceva discutere perché di fronte all’edificio acquistato dalla Società Svizzera si trovava una casa di tolleranza la cui fama non era certo legata a iniziative nel campo dello sport o della cultura. La decisione di trasferirsi in quella via provocò quindi un certo disaccordo tra i membri del sodalizio, sollevando polemiche che culminarono nell’abbandono di 30 soci. La Società Svizzera seppe tuttavia guadagnarsi nel tempo la simpatia dei milanesi, dando vita a tante iniziative che contribuirono a migliorare le condizioni dell’isolato.

La bandiera del "Mannerchor", 1887 da "Centrotrentanni della Società Svizzera di Milano"
La bandiera del “Mannerchor”, 1887 da “Centrotrentanni della Società Svizzera di Milano”

Negli anni Venti e Trenta la Società Svizzera era formata dalle Sezioni più antiche: il gruppo dello Schweizer Gesangverein (esistente dal 1869) riuniva i cultori dei canti patriottici immersi nell’atmosfera romantica di Friedrich Schiller e Wilhelm Tell. Gli appassionati del gioco dei birilli o Kegelspiel (dal 1875) contribuirono a far conoscere ai milanesi uno sport tipico della Svizzera che può essere considerato – nonostante alcune differenze nel regolamento di gioco – l’antenato del bowling britannico. V’era poi la Sezione Ginnasti (1874) che riuniva giovani sportivi legati in amicizia con la milanese “Forza e Coraggio”. La sezione Tiratori (1889) consentì di mantenere vivo a Milano l’amore per un altro sport di origine svizzera. Nel 1914 venne costituita la Sezione Signore su iniziativa di Sophie Vonwiller: nata poco dopo lo scoppio della Grande Guerra, questa sezione procurò il vestiario ai soldati in partenza per il fronte.

La Società Svizzera ebbe sede in via Disciplini fino alla seconda guerra mondiale, quando i bombardamenti spinsero il sodalizio a cercare un altro edificio. Nel 1951, grazie al sostegno della Confederazione, venne inaugurata la parte bassa dell’attuale sede in piazza Cavour. Si tratta di un complesso imponente, costruito dagli architetti Armin Meili di Zurigo (1892-1981) e Giovanni Romano (1905-1990) per ospitare le istituzioni elvetiche: oltre alla Società Svizzera, vi hanno sede oggi il Consolato generale, la Camera di Commercio e l’Ufficio nazionale svizzero del turismo. Nel 1952 venne ultimata la torre tra piazza Cavour e via del Vecchio Politecnico: un edificio di 20 piani, alto 78 metri, che costituiva a quell’epoca il più alto grattacielo di Milano.