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Annale 2023 di ASL: tra armi e comunità

L’ultimo numero dell’Annale della Società Storica Lombarda si segnala per diversi contributi afferenti al tema della guerra dal Medioevo all’Età Moderna.

L’Annale 2023 dell’Archivio Storico Lombardo presenta notevoli spunti d’interesse nel panorama degli studi storici. La linea editoriale che si è affermata negli ultimi anni presenta la prima sezione del volume dedicata a un tema di attualità o ritenuto meritevole di analisi specifiche. Nell’Annale 2023 ci si è dedicati al tema delle guerre e dell’amministrazione militare nel ducato di Milano tra Medioevo ed Età Moderna con saggi di notevole spessore scientifico.

Il contributo di Paolo Grillo si concentra sulla devastazione di Como avvenuta nel 1127 ad opera dei milanesi, trentacinque anni prima della celebre distruzione di Milano compiuta dalle truppe filoimperiali delle città ghibelline lombarde. 

Il saggio di Giancarlo Andenna, muovendo da un robusto apparato di fonti, ricostruisce gli anni difficili vissuti dai cittadini di Novara alla fine del XV secolo, quando dovettero far fronte non solo a una lotta aspra tra le fazioni locali dei guelfi e ghibellini, ma anche ai problemi legati all’occupazione francese di Louis d’Orléans e all’assedio del duca Ludovico Maria Sforza nel 1495. Eventi ulteriori che segnarono profondamente la storia cittadina furono nel 1500 la cattura dello Sforza da parte dell’Orléans, re di Francia da alcuni anni con il nome di Luigi XII, la pestilenza scoppiata l’anno successivo e un nuovo assedio, questa volta francese, avvenuto nel 1513. 

Il saggio di Emanuele Pagano si concentra su un tipo particolare di uomini armati presenti negli Stati italiani tra XVI e XVIII secolo. Oltre agli eserciti regolari comandati dalla grande nobiltà specializzata nel mestiere delle armi, articolati in corpi di archibugieri, picchieri, moschettieri e cavalieri, vi erano infatti le milizie che si aggiungevano alle truppe regolari e venivano impiegate per lo più nella difesa delle piazzeforti o nel controllo del territorio al posto delle guarnigioni professionali. In alcuni casi le milizie erano impiegate anche in guerra, al fianco degli eserciti regolari. Le caratteristiche di questi corpi paramilitari risiedevano nella loro diretta dipendenza dal sovrano e nella presenza di personale che non apparteneva solo alla grande nobiltà. Si trattava di uomini reclutati nelle fasce comprese tra i 16 e i 60 anni di età, con una netta prevalenza di giovani provenienti per la maggior parte dallo strato sociale dei contadini o degli artigiani. I cavalieri, per lo più nobili, erano gli unici che potevano permettersi di pagarsi la cavalcatura e le armi. Diverso il caso dei fanti, le cui spese per l’apparato militare ricadevano in parte su di essi, in parte sullo Stato e sui corpi locali. 

La nobiltà che comandava i vari corpi di milizia era uno strumento fondamentale per il sovrano, perché assicurava da un lato un valido collegamento con la nobiltà più influente presente negli eserciti regolari attraverso legami di fedeltà di natura clientelare, dall’altro assicurava il servizio di un maggior numero di uomini comuni in forza dei legami – anch’essi clientelari – esistenti a livello locale nei più remoti interstizi della società civile. Queste dinamiche assicuravano al sovrano il consenso della popolazione. Varrà la pena ricordare che i miliziani godevano di particolari diritti rispetto al resto della società: oltre al porto d’armi, gli arruolati in questa tipologia di corpi paramilitari potevano contare su specifiche tutele giuridiche, come il diritto di essere giudicati per alcuni reati da tribunali speciali oppure una serie di privilegi connessi anche al diritto di proprietà. 

Interessanti le analisi di Pagano sulla milizia nazionale mantovana, un corpo paramilitare che ebbe una storia di notevole rilievo nell’amministrazione del ducato gonzaghesco, molto simile alle “cernide” della repubblica di Venezia. Il prestigio di cui godeva la milizia mantovana fu decisivo nel garantirne la sua conservazione anche nel corso del Settecento e questo per volontà degli Asburgo di Vienna, nei cui domini il ducato era stato inglobato dopo l’estinzione della dinastia ducale. Nettamente diverso il caso delle milizie nel ducato di Milano, che non furono formate con la stessa regolarità e sistematicità. Questo fu dovuto probabilmente all’esistenza di forze regolari assai ben munite e articolate nel periodo della dominazione spagnola e nei primi decenni del Settecento. I corpi paramilitari delle milizie furono impiegati quindi in modo per lo più saltuario, solo in anni di particolare crisi internazionale, quando le guerre del primo Seicento o del primo Settecento richiedevano l’impiego di formazioni ausiliarie da dislocare nelle piazzeforti o in campo aperto al fianco delle truppe regolari impegnate in battaglia. 

Al centro del saggio di Alessandra Dattero vi è la battaglia di Tornavento (22/VI/1636), presa in esame nelle sue ricadute in campo politico e finanziario nell’amministrazione del ducato nel periodo particolarmente complesso costituito dalla guerra dei Trent’Anni.

Oltre alla sezione dedicata alla guerra che si è per sommi capi ricordata, sono presenti altri saggi di argomento diverso che si concentrano su  molti aspetti della storia lombarda e italiana dal Medioevo al Novecento. Due contributi, il primo di Lavinia M. Galli e il secondo di Annalisa Zanni si focalizzano sulle origini del Museo Poldi Pezzoli di Milano e sulla nascita della omonima fondazione artistica. Giampiero Fumi prende in esame il primo periodo di attività di un istituto di credito dalla storia lunga e prestigiosa come la Cassa di Risparmio delle Province Lombarde, focalizzandosi sugli anni dal 1823 al 1860.

Ancora al tema della guerra è dedicato il saggio di Marino Viganò, che pone al centro della sua indagine i primi mesi del 1945 nel periodo sofferto e drammatico che vide nel Nord Italia lo scontro feroce tra i partigiani e l’esercito della repubblica di Salò: Viganò prende in esame la milizia francese, un battaglione della forza militare ausiliaria della repubblica di Vichy di cui il governo nazifascista di Salò si servì in Valtellina contro i partigiani. 

Pietro Verri

Occorre infine ricordare i due contributi di Maria Francesca Turchetti e Carlo Capra che prendono in esame la corrispondenza epistolare tra l’economista milanese Pietro Verri ed esponenti del patriziato della Milano settecentesca quali Francesco IV d’Adda e Alfonso Castiglioni. Lettere preziose perché consentono non solo di capire la mentalità dei gentiluomini del Settecento e il loro modo di rapportarsi di fronte ai problemi della vita, ma anche di comprendere sotto diversi punti di vista eventi importanti come la guerra dei Sette Anni o le riforme asburgiche nel ducato di Milano. Sull’epistolario di Pietro Verri – una fonte straordinaria per capire il Settecento europeo – si attende un lavoro di ripubblicazione integrale all’interno dell’Edizione Nazionale delle Opere di Pietro Verri.

Dalle carte d’archivio aspetti poco conosciuti sulla vita di Leonardo

Allestita nel palazzo dell’antico Collegio Elvetico di via Senato una notevole esposizione di documenti sul genio toscano.

Cessata la paura per il Coronavirus che ha suscitato nella collettività reazioni di panico e paure ingiustificate, oggi si può dire che Milano abbia ripreso a respirare e con ogni probabilità nei prossimi giorni verranno riaperti musei e istituti culturali. Merita in proposito di essere visitata un’interessante mostra su Leonardo Da Vinci allestita nel palazzo ove ha sede l’Archivio di Stato di Milano in via Senato 10.

Inaugurata il 16 gennaio scorso e aperta fino al 28 marzo, l’esposizione non si segnala soltanto per il ricco materiale documentario. A suscitare curiosità è anche il percorso multimediale allestito nella mostra che, rivolto a un pubblico non specialistico, conduce quasi per mano il visitatore alla scoperta della vita di Leonardo e del mondo in cui visse. Due video ripercorrono le varie tappe della sua esistenza nell’Europa rinascimentale.

Leonardo Da Vinci, La Vergine delle Rocce. Parigi, Museo del Louvre.

Tra i documenti esposti nella mostra è opportuno ricordare il contratto che Leonardo, giunto da un anno a Milano, firmò nel 1483 con la confraternita dell’Immacolata Concezione per la realizzazione di un dipinto da collocare nella chiesa di San Francesco. Questa basilica oggi non esiste più: venne demolita negli anni del dominio napoleonico, quando il governo del Regno d’Italia costruì in quell’area una caserma destinata ai Veliti, uno dei corpi militari istituito da Napoleone re d’Italia. Si tratta dell’attuale Caserma Garibaldi, a pochi passi dall’Università Cattolica del Sacro Cuore. Però all’epoca di Leonardo la chiesa di San Francesco non solo esisteva, ma era una delle più importanti nel panorama cittadino. Essa era aperta al pubblico, gestita dai frati francescani che vivevano nel convento attiguo. Come ricorda Carlo Bianconi, estensore di una interessante guida artistica di Milano pubblicata nel 1795, la basilica fin dal Medioevo era addirittura uno dei templi più grandi della città quanto all’estensione della superficie. Nel contratto, che Leonardo aveva firmato con i membri della confraternita, l’artista era tenuto a realizzare un dipinto avente per oggetto la Vergine Maria e il Bambin Gesù. Le fasi del lavoro furono tuttavia tormentate. La scelta del soggetto su cui venne impostata la narrazione pittorica deluse i committenti: i religiosi pensavano probabilmente che la Madonna dovesse essere dipinta nel rispetto della tradizione e non si aspettavano che Leonardo – agendo per così dire “di testa propria” e ultimando il lavoro dopo molto tempo – realizzasse un’opera sui generis come la Vergine delle rocce , un capolavoro dell’arte pittorica. Nella mostra è esposto il contratto originale del 1483 che si è sopra ricordato: Leonardo lo firmò scrivendo il proprio nome in minuscolo, un errore che i grafologi hanno fatto risalire al disagio con cui visse la sua condizione di figlio illegittimo.

Donato di Montorfano, La Crocifissione, con interventi di Leonardo nel ritratto della famiglia Sforza. Parete Sud del Refettorio di Santa Maria delle Grazie, Milano.

Il resto dei documenti che sono esposti al pubblico copre un periodo storico esteso a tutta l’Età Moderna (secoli XVI-XIX). Riguardano in larga parte le fasi di realizzazione del celebre Cenacolo in Santa Maria delle Grazie. Una delle carte più importanti è il reclamo del duca Ludovico il Moro rivolto a Leonardo: questi era sollecitato a portare a termine il suo capolavoro nella parete nord del refettorio dei domenicani. Tale insistenza era dovuta all’urgenza di vedere ultimata la pittura anche nella parete sud, ove Donato di Montorfano andava dipingendo la celebre Crocifissione. Il duca di Milano voleva che Leonardo ritraesse, in questa parete, i membri della sua famiglia sempre con la tecnica, già adoperata per il Cenacolo, della pittura a secco. Oltre alla sua stessa persona, dovevano essere ritratte la moglie Beatrice D’Este e i figli: un reclamo che non sortì però i suoi effetti se pensiamo che noi oggi possiamo vedere queste figure solo abbozzate nella parete sud. Come si può facilmente immaginare, il documento del Moro riveste un’importanza straordinaria per gli storici: aprendo un filone di ricerche oggi pressoché inesplorato, esso consente di verificare se le figure della famiglia Sforza tratteggiate ai piedi della Crocifissione siano effettivamente attribuibili alla mano di Leonardo.

L’annale 2019 dell’ “Archivio Storico Lombardo” pubblicato dalla casa editrice Scalpendi.

In riferimento alle celebrazioni per il cinquecentenario dalla morte di Leonardo, occorre ricordare due saggi importanti sull’argomento contenuti nell’ultimo numero dell’Archivio Storico Lombardo (2019), l’annale pubblicato dalla Società Storica Lombarda che approfondisce con studi rigorosi temi afferenti alla storia del territorio lombardo in età medievale e moderna. Il primo contributo, dello storico dell’arte Edoardo Rossetti, Un diluvio di appunti: l'”Archivio Storico Lombardo” e qualche nota inedita su personaggi vinciani (Evangelista da Brescia e Pietro Monte) (pp.221-248), si segnala per la novità riguardante una più precisa individuazione del luogo in cui si trovava la celebre vigna che Ludovico il Moro donò a Leonardo da Vinci. Muovendo dallo studio di un documento relativo all’acquisto di un terreno, Rossetti è riuscito a localizzare con precisione il luogo della vigna, che si trovava nel sestiere di Porta Vercellina. Essa confinava da un lato con l’antico naviglio che scorreva nell’attuale via Carducci, dagli altri lati con le proprietà dei gesuati di San Gerolamo e di altri privati. Si trattava di una posizione di assoluto rilievo nella Milano rinascimentale, a poca distanza dalla chiesa di Santa Maria delle Grazie, dall’attiguo convento dei domenicani e dal quartiere che il Moro aveva voluto formare tra le attuali vie Zenale, San Vittore e Corso Magenta affinché potessero abitarvi i membri più fedeli del suo governo.

Il secondo saggio dello studioso Cesare S. Maffioli, Alle origini del mito di Leonardo Da Vinci ingegnere dei navigli di Milano (pp.249-270), ricostruisce le origini cinque-seicentesche di una vecchia tesi secondo la quale il genio toscano sarebbe stato l’inventore del naviglio Martesana e delle chiuse. Si tratta, come si può facilmente constatare, di un errore storico perché il sistema delle conche per gestire i dislivelli e i salti d’acqua esisteva da tempo nel ducato di Milano; inoltre varrà la pena ricordare che il Naviglio Martesana venne costruito sotto il ducato di Francesco Sforza (1450-1466), molto tempo prima quindi dell’arrivo di Leonardo in città. L’autore del Cenacolo contribuì invece a perfezionare il sistema dei navigli, lavorando alla conca di San Marco che consentiva di collegare la Martesana con la Fossa Interna del centro cittadino, resa in quell’occasione navigabile e collegata al Naviglio Grande presso la pre-esistente Conca di Viarenna (oggi via Conca del Naviglio).

A Leonardo si dovette inoltre, negli anni del dominio francese seguiti alla cacciata del Moro, l’idea di elaborare un progetto per la navigazione dell’Adda dal Lago di Como fino all’incile del Naviglio Martesana presso Trezzo, il che avrebbe consentito di navigare da Lecco fino a Milano mediante il trasporto di merci e persone. Un’idea per nulla fuori luogo all’epoca, se pensiamo che un risultato analogo era stato conseguito dai milanesi fin dal XIII secolo mediante la realizzazione del Naviglio Grande, che collegava il Lago Maggiore con la Darsena cittadina: in quell’occasione tuttavia le opere non si erano rivelate particolarmente difficili, non trovandosi in quei luoghi un dislivello imponente tra la parte pedemontana e la pianura. Cosa diversa era invece la zona a nord-est di Milano, ove l’Adda scorreva in un letto accidentato e scosceso. Molti anni dopo l’idea leonardesca venne ripresa dall’ingegnere Giuseppe Meda, che nel 1590 ottenne l’approvazione delle autorità spagnole al suo progetto di naviglio. Le operazioni, quantunque iniziate con i migliori auspici, vennero tuttavia interrotte a seguito di alcune calamità naturali (inondazioni ripetute dell’Adda), ma soprattutto per gli scontri ripetuti che avevano opposto il Meda ai colleghi che lo affiancavano nell’esecuzione dell’opera. Inoltre la sua morte (1599) finì con il bloccare definitivamente i lavori che pure erano stati iniziati lungo il corso dell’Adda. Com’è noto, il Naviglio immaginato da Leonardo venne costruito solo nella seconda metà del Settecento: il canale – il Naviglio di Paderno – fu ultimato nel 1777 sotto il regno di Maria Teresa d’Asburgo negli anni del dominio austriaco della Lombardia.

Il pesce e la carne, cibo dell’anima e cibo del corpo

In quel celebre manifesto della Milano viscontea che è il De Magnalibus Urbis Mediolani, Bonvesin de La Riva scriveva alla fine del XIII secolo che tra i vari alimenti di cui la città di Ambrogio era particolarmente ricca ve n’era uno assai importante: il pesce. Con ogni probabilità egli esagerava quando elencava con dovizia di particolari le varie specie ittiche presenti nei torrenti, nei fiumi e nei laghi del milanese. Scriveva Bonvesin:

I pescatori che quasi ogni giorno pescano in abbondanza  nei laghi del nostro contado, più di diciotto, pesci d’ogni tipo, trote, dentici, capitoni, tinche, temoli, anguille, lamprede, granchi e ogni altro genere infine di pesci grossi o minuti, e che pescano nei fiumi, più di sessanta, e che portano in città pesce pescato nei ruscelli innumerevoli dei monti, assicurano di essere più di quattrocento. 

Quando citava i fiumi e i torrenti dai quali i pescatori traevano il pesce che vendevano nei mercati cittadini, Bonvesin ne ricordava alcuni che ci sono familiari: la “Muzza” a sud-est verso Paullo, il “Fossato di Milano” che diventerà alla fine del Quattrocento il naviglio interno in centro città, il “Nirone”, la “Vettabbia”, l’“Olona”, il “Lambro merdario” (sic!), il “Ticino”, il “Ticinello” verso Abbiategrasso.

Libro-dOre-Milano-1473-circa-MorganQueste notazioni di Bonvesin ci inducono ad alcune considerazioni. Anzitutto ricaviamo una grande differenza rispetto alla società odierna. Sappiamo che Milano oggi può vantare un mercato di pesce tra i più forniti della penisola. Si tratta in larga parte di pesce di mare che viene trasportato in città. Nel Medioevo il pesce che si poteva trovare sui mercati era invece pesce di fiume perché la lentezza dei mezzi di trasporto non consentiva l’arrivo del pesce fresco proveniente dalla Liguria o da Venezia. Esisteva certamente il pesce salato, che poteva essere conservato per lungo tempo. Esso era diffuso soprattutto tra le classi popolari: dalle aringhe al merluzzo, quest’ultimo presente nelle tavole europee a partire dalla fine del Quattrocento.

Bisogna poi ricordare che al pesce si ricorreva in circostanze particolari. Nel Medioevo e in età moderna la base dell’alimentazione era costituita dalla carne: cibo raccomandato dai medici del tempo, la carne era importante perché le sue calorie aiutavano a resistere in ambienti in cui non esisteva il riscaldamento; garantiva al corpo la forza necessaria per affrontare la guerra o il pesante lavoro dei campi. I nobili mangiavano carne fresca, in genere dopo una battuta di caccia (attività riservata all’aristocrazia guerriera). Il marchese che imbandiva i suoi banchetti con carne di vitello, ostentava la sua potenza giacché consumare carne di vitello voleva dire sprecare una risorsa, permettersi uno spreco uccidendo un animale che non aveva superato l’anno di età. I contadini invece si cibavano con legumi, formaggi e, quando potevano permettersi un piatto di carne, ricorrevano agli insaccati (salumi).

macellazione suiniOggi è risaputo che la consumazione continua di carne non fa bene alla salute. Inoltre un’alimentazione sana è quella che non ingrassa, che nutre senza esagerare. Nel Medioevo e nell’età moderna ci troviamo in una condizione opposta. Il consumo di carne non solo era raccomandato dai medici, ma costituiva il desiderio inconfessato di tutti coloro che non potevano permettersi quel tipo di alimentazione. L’uomo e la donna grassi erano inoltre segno di salute, mentre le persone magre denotavano povertà e situazioni di disagio sociali. Aldobrandino da Siena, nel XIII secolo, tesseva un elogio della carne con queste parole:

Vous devés savoir ke sour totes coses qui norrissement dounent, doune li chars plus de norrisement au cors de l’homme, et l’encraisse et l’enforce. [Dovete sapere che fra tutte le cose che nutrono l’uomo, la carne è quella che lo nutre maggiormente, l’ingrassa e gli dà forza].

Come ha scritto lo storico dell’alimentazione Massimo Montanari, il pesce godeva quindi di uno “statuto ambiguo”. Era un alimento cui ricorrevano tanto i ceti popolari quanto i ceti nobiliari nei periodi in cui la chiesa vietava di mangiare carne, ad esempio nei periodi di quaresima. Ce lo dice lo stesso Bonvesin quando afferma che gran parte del pesce finiva nelle mense cittadine precisamente in Quaresima. Perché in questo periodo si mangiava il pesce? Fu la Chiesa ad introdurre questa usanza: concepita come sacrificio, essa significava la privazione di un bene fisico (la carne) per un bene spirituale rappresentato dal pesce. Varrà la pena ricordare che le lettere dell’antico lemma greco di pesce, ICHTHYS, costituivano le iniziali di Gesù: Iesus, CHristos, THeù, HYios, Sotèr, vale a dire: “Gesù Cristo figlio di Dio Salvatore”. Non stupisce quindi che il pesce fosse concepito come alimento religioso per eccellenza nel difficile cammino di purificazione in cui il divieto di mangiar carne significava la rinuncia, temporalmente limitata, a un tipo di alimentazione ritenuto “normale”.

Il riso era un altro alimento assai diffuso a Milano. Proveniente dall’Oriente, esso fu introdotto in Lombardia al tempo di Ludovico il Moro, nella seconda metà del XV secolo. Da allora divenne un elemento basilare nella cucina settentrionale. Le prime testimonianze di ricette a base di riso risalgono ai primi decenni del Settecento: dal risotto al brodo di carne al risotto al burro, dal risotto con salsiccia al mitico risotto allo zafferano. Fino al Novecento esso costituirà un elemento insostituibile nella tavola lombarda.

Ma cosa si mangiava nella Lombardia dell’ancien régime? Nei documenti conservati all’archivio di Stato di Milano abbiamo importanti informazioni al riguardo. Gli elenchi degli alimenti consumati dagli ambasciatori riuniti a Vaprio d’Adda per il trattato del 1754 tra la Repubblica di San Marco e lo Stato di Milano, ci informano che furono consumate carni insaccate (salumi, cotechini, salsicce), pesce di lago (lucci, trote, tinche), formaggi e frutta. Poco rilevante la verdura, definita genericamente come “erbe”. Se vuoi saperne di più, ti consiglio di visitare l’interessante mostra Dal riso alla pastasciutta  allestita presso l’Archivio di Stato di Milano, in via Senato 10, fino al 31 ottobre.

Dall’uva dei ‘borghi’ alla vigna di Leonardo

Settembre è il mese della vendemmia.  Milano ha molto da raccontare. Nei secoli dell’età moderna e ancora a metà Ottocento, quando la città era racchiusa entro la cerchia dei bastioni, esistevano alcune zone ove si produceva e si vendeva il vino. Tale fenomeno interessava soprattutto i luoghi di campagna, i “borghi” come venivano chiamati in relazione alle sei porte medievali che si trovavano nelle vicinanze (Porta Orientale, Romana, Ticinese, Vercellina, Comasina, Nuova). Situati tra la cerchia del Naviglio Interno e il perimetro dei bastoni spagnoli, i borghi erano spazi agresti attraversati da una grande arteria stradale, dominati fino alla metà dell’Ottocento dai giardini delle ville patrizie, dagli orti dei conventi e dai campi di alcuni proprietari privati. In fondo, i borghi di Milano riproducevano in piccolo i tratti della campagna milanese che si stendeva fuori dalle mura, nei territori dei Corpi Santi e dei Comuni limitrofi.

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Il palazzo Castiglioni-Stampa in un’incisione settecentesca di M.A. Dal Re

Ma torniamo al punto dal quale siamo partiti: la vendemmia nella Milano Sette-Ottocentesca. Chi fosse entrato a Milano in questo periodo dell’anno, passeggiando lungo i borghi cittadini, avrebbe trovato in parecchi isolati il cartello “si vende uva”. Dalle fonti sappiamo che alcune case nei pressi delle vie Quadronno, Commenda (nel borgo di Porta Romana), Vivaio (nel borgo di Porta Orientale) o nel borgo delle Grazie in Porta Vercellina (oggi corso Magenta verso piazzale Baracca), possedevano ettari di terreno piantati a vite. Bisogna però ricordare che la produzione e la vendita dell’uva non riguardava solo i borghi fuori del naviglio. Anche all’interno delle mura medievali, nel fitto reticolo cittadino, c’erano residenze nobiliari i cui proprietari mettevano a disposizione i sotterranei per vendere l’uva. Un caso emblematico era la stupenda casa Castiglioni-Stampa (poi Silvestri), l’edificio bramantesco tuttora esistente in corso Venezia. Nel mese di settembre, quando era attivo il mercato dell’uva, i milanesi la conoscevano come la cantinetta  de Cà Castiona.

Certo, noi oggi fatichiamo a immaginare che in zone fittamente urbanizzate del centro potessero trovarsi spazi adibiti alla coltura della vite. Tale realtà diviene però comprensibile se consideriamo le dimensioni di Milano in età moderna (la città si attestava intorno al 1851 sui 158.000 abitanti), il ruolo fondamentale rivestito dall’agricoltura nell’economia del tempo e i tratti agresti dei borghi all’interno delle mura.

D’altra parte, piantare viti e produrre vino in centro città non è cosa irrealizzabile. Qualcuno ci sta provando con grande passione e competenza. In fondo, il centro cittadino non è così urbanizzato come sembra a prima vista. Molti palazzi dispongono di ampi spazi verdi. Ma chi ha avuto il coraggio di produrre il vino nella Milano di oggi?  Sei curioso eh? Per spiegartelo, devo raccontarti una breve storia.

Il Borgo delle Grazie dalla Pianta di Milano di Marco Antonio Dal Re, 1734
Il Borgo delle Grazie dalla Pianta di Milano di Marco Antonio Dal Re, 1734

Alla fine del Quattrocento Ludovico il Moro progettò di costruire un quartiere residenziale che avrebbe rivestito un ruolo ambizioso nella Milano sforzesca: il borgo delle Grazie attorno alla omonima chiesa di Santa Maria. Nelle intenzioni del duca, esso sarebbe stato ingrandito e impreziosito con edifici di notevole valore architettonico. Tra i progetti, rimasti per lo più incompiuti in seguito alla conquista francese del ducato di Milano avvenuta nel 1499, c’era il mausoleo degli Sforza da costruire nella basilica di Santa Maria delle Grazie. Una parte di quel progetto poté tuttavia essere realizzata. Il Cenacolo venne portato a compimento. La parte absidale di Santa Maria delle Grazie fu disegnata da Bramante in stile rinascimentale. D’altra parte Ludovico fece in tempo ad assegnare ai suoi favoriti alcune proprietà nella zona. Due case del borgo furono donate agli Atellani, funzionari ducali fedeli alla signoria sforzesca. Negli anni Venti del secolo scorso Piero Portaluppi le ristrutturò e ne valorizzò le parti rinascimentali fondendole in un unico complesso tuttora visitabile: la Casa degli Atellani.

Leonardo da Vinci, che si trovava a Milano al servizio del Moro come ingegnere militare, ricevette in dono una vigna che superava di poco l’ettaro di dimensione. Si trovava in un’area compresa tra le attuali vie Carducci (ove scorreva il naviglio di san Gerolamo), corso Magenta, via Zenale e via San Vittore. Qualcuno potrebbe chiedersi per quale motivo il duca di Milano avesse regalato a Leonardo una vigna. Il genio toscano era stato allevato in una famiglia di vignaioli ed è lecito ipotizzare che fosse un raffinato estimatore del vino.

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Quel che restava della Vigna di Leonardo in una foto del primo Novecento (Portaluppi)

Oggi, grazie agli studi storici rigorosi promossi dalla Fondazione Portaluppi, è stato possibile individuare il luogo ove si trovava una parte della vigna leonardesca, quella compresa nella proprietà della Casa degli Atellani. Dopo alcune analisi condotte sul terreno, gli studiosi della Facoltà di Scienze Agrarie dell’Università degli Studi di Milano hanno ritrovato le tracce del vitigno originario ricostruendone il profilo genetico. Si è così scoperto che il vitigno leonardesco apparteneva a un tipo di Malvasia assai diffuso nell’Italia del Quattrocento: la Malvasia di Candia Aromatica.

Oggi la Fondazione Portaluppi restituisce a Milano una pagina dimenticata di storia milanese: la vigna di Leonardo. Sessanta viti a piede americano prodotte in serra sono state piantate nel luogo dell’antica vigna rispettando i filari originali. Grazie a questo lavoro, la vigna di Leonardo è tornata a rivivere.

Se vuoi saperne di più, guarda questo video 😉

 

Il coraggio di un Re nella “battaglia dei giganti”

Sono in corso le celebrazioni per l’anniversario della celebre “Battaglia dei Giganti” combattuta nei pressi del paese di Marignano (oggi Melegnano) il 13 e il 14 settembre 1515.  Son passati 500 anni.

Di cosa si tratta? Vediamo di capirci qualcosa.

La battaglia ebbe luogo in uno dei periodi più tormentati della storia milanese. Persa l’indipendenza politica in seguito alla cacciata di Ludovico Sforza detto “il Moro”,  il ducato di Milano fu conteso per più di vent’anni tra francesi, svizzeri e spagnoli. Saccheggi e rapine furono compiute ai danni della popolazione. La nobiltà lombarda, divisa tra la fedeltà all’uno o all’altro dominatore, subì requisizioni, confische e tasse ingenti.

Massimiliano Sforza
Massimiliano Sforza, duca di Milano dal 1512 al 1515

Partiamo dagli antefatti. Conquistato dal re di Francia Luigi XII nel 1499/1500, il Milanese fu soggetto al dominio francese fino al 1512 quando gli Svizzeri, membri di una “Lega Santa” composta dal Papa, dalla Repubblica di Venezia, dal re di Spagna e dall’Inghilterra, riuscirono a mutare la situazione. Il congresso di Mantova stabilì che il ducato dovesse tornare agli Sforza nella persona del figlio primogenito di Ludovico il Moro, Massimiliano. Questi fu riportato a Milano sotto la “protezione” dei Cantoni elvetici. Una protezione per modo di dire: gli svizzeri obbligarono il duca a firmare provvedimenti tesi a favorire i loro interessi, tra i quali vi era il costoso mantenimento delle truppe. Divenuti padroni di vaste zone tra Como e Varese (in quegli anni conquistarono i distretti di Domodossola, Bellinzona, Lugano, Locarno), gli svizzeri avevano le idee chiare: il loro obiettivo era espandersi nelle terre tra il Lago Maggiore e il Lago di Como per farne un grande spazio soggetto al loro dominio.

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Il vescovo di Sion, il cardinale Matteo Schiner

Una nuova alleanza tra Francia, Venezia e Inghilterra cambiò gli equilibri geopolitici. Il re di Francia Francesco I tentò la riconquista del ducato di Milano. Si arrivò così alla cruenta battaglia del 13/14 settembre quando sui campi di Marignano gli svizzeri comandati dal vescovo di Sion, Matteo Schiner, si scontrarono contro i francesi guidati personalmente dal re: 30.000 francesi contro 20.000 svizzeri.

Da un secolo gli svizzeri erano guerrieri formidabili, specializzati nell’uso della picca. Le potenze europee del Quattrocento versarono ai Cantoni ingenti somme di danaro pur di avere i loro uomini in guerra. I fanti elvetici armati di picca, protetti ai lati da archibugieri e alabardieri, si erano rivelati una forza inarrestabile, un riccio contro cui si erano sfaldati molti eserciti fondati ancora sulla cavalleria nobiliare. Gli Svizzeri sapevano maneggiare la picca con precisione. Avanzavano compatti in formazioni quadrate.

batmarignano1La battaglia di Marignano si basò in gran parte su questo tipo di tecnica militare. Nella prima giornata i picchieri svizzeri ebbero la meglio sui francesi. La tattica consisteva nello sfondare le linee nemiche e catturare i pezzi dell’artiglieria. Il tentativo riuscì però solo in parte. I lanzichenecchi al servizio dei francesi furono decimati ma l’intervento personale del re, che affrontò il nemico esortando i suoi a resistere, impedì agli svizzeri di portare a termine il loro piano. Scriveva un cronista dell’epoca, il comasco Paolo Giovio, nel ricordare il coraggioso contributo di Francesco I:

 

Francesco I di re di Francia
Francesco I di Valois, re di Francia dal 1515 al 1547

Et esso con la sopravesta reale, di colore azzurro co gigli d’oro, generosamente appresso de nemici et de suoi facendosi conoscere per re, si mise nella prima battaglia [primo schieramento], dove animosamente feriva i nemici, et qua et là spronando il cavallo pericolosamente affrontava i più valorosi nemici; et finalmente non solo con le parole et con conforti, ma anchora con honorato essempio di vero valore faceva animo a suoi.

Al calare della notte gli svizzeri cantarono vittoria. Il giorno seguente si accorsero invece di essere in netta minoranza perché molti dei loro compagni erano morti.

Il re di Francia ebbe la meglio per tre fattori decisivi. Si servì dell’artiglieria (cannoni) che gli svizzeri non erano riusciti a neutralizzare: in tal modo annientò molti quadrati nemici. Comandò alcune cariche di cavalleria approfittando dell’estrema vicinanza tra i due fronti e dei pochi nemici rimasti sul campo. In terzo luogo l’arrivo della cavalleria veneziana, guidata dal condottiero Bartolomeo d’Alviano, fu decisivo nell’aiutare i francesi.

Il maresciallo Gian Giacomo Trivulzio, che combatté contro gli svizzeri, colpito dall’estrema durezza della lotta, sostenne che quello scontro era stata una “battaglia di giganti”. Così la ricordò Francesco Guicciardini in una pagina memorabile della Storia d’Italia (Libro XII, Cap.XV):

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Affermava il consentimento comune di tutti gli uomini non essere stata per moltissimi anni in Italia battaglia più feroce e di spavento maggiore; perché, per l’impeto col quale cominciarono l’assalto i svizzeri e poi per gli errori della notte, confusi gli ordini di tutto l’esercito e combattendosi alla mescolata senza imperio e senza segno, ogni cosa era sottoposta meramente alla fortuna; il re medesimo, stato molte volte in pericolo, aveva a riconoscere la salute più dalla virtù propria e dal caso che dall’aiuto de’ suoi; da’ quali molte volte, per la confusione della battaglia e per le tenebre della notte, era stato abbandonato. Di maniera che il Triulzio, capitano che avea vedute tante cose, affermava questa essere stata battaglia non d’uomini ma di giganti; e che diciotto battaglie alle quali era intervenuto erano state, a comparazione di questa, battaglie fanciullesche. Né si dubitava che, se non fusse stato l’aiuto delle artiglierie era la vittoria de’ svizzeri, che, entrati nel primo impeto dentro a’ ripari de’ franzesi, tolto la più parte delle artiglierie, avevano sempre acquistato di terreno; né fu di poco momento la giunta [l’arrivo] dell’Alviano, che sopravvenendo in tempo che la battaglia era ancor dubbia dette animo a i franzesi e spavento a i svizzeri, credendo essere con lui tutto l’esercito veneziano.

Nei giorni seguenti il re permise agli Svizzeri di tornare ai loro paesi. Stando al resoconto di un cronista furono molti i feriti, entrati a Milano da Porta Romana, ad attirare l’attenzione dei cittadini per lo stato miserevole in cui versavano:

Ma una meraviglia certo era et compassione a vedere li fugienti sviceri, che a Milano per Porta Romana ritornavano, l’uno avendo tagliato un brazzo, l’altro una gamba; et chi guasto dall’artiglieria, et chi fatto bressagio de passatori, l’un l’altro amorevolmente portandosi, che proprio pareano i peccatori imaginati da Dante nella nona bolgia dell’Inferno… 

G. A. Prato, Storia di Milano scritta in continuazione ed emenda del Corio dall’anno 1499 al 1519, a cura di Cesare Cantù in «Archivio Storico Italiano», anno I, tomo II (1842), pag.325.

Francesco fu talmente colpito dalle dinamiche fortunose di quella battaglia che, tornato in Francia, diede ordine a Leonardo da Vinci e a Domenico da Cortona di organizzare una festa di corte al castello di Amboise per ricordare quel fausto evento. Tale festa ebbe luogo tra il 1517 e il 1518.  Per saperne di più, ti consiglio di visitare il sito  Marignan: histoire d’une célébration ove alcuni filmati ripercorrono il lavoro svolto da storici, attori, costumisti ed esperti nella ricostruzione della festa reale.

 

Alla corte dei duchi di Milano: il libro di lusso

L’arte di rilegare, decorare, miniare e scrivere i libri acquisì una sua dignità nel Medioevo quando i monaci, seduti negli scriptoria, ricopiarono con opera indefessa i testi dell’antichità compatibili in larga parte con i valori etici e morali del cattolicesimo. Recentemente ho letto Il Nome della Rosa di Umberto Eco, il celebre romanzo ambientato in un’abbazia dell’Italia del Nord. Quando penso ai codici miniati, il pensiero corre alle decorazioni incompiute di frate Adelmo nei volumi del suo scrittoio. Il romanzo è ambientato nella prima metà del XIV secolo eppure, già a quell’epoca, la Chiesa non era più la sola istituzione a curare la rilegatura, la scrittura e la decorazione dei libri.

Nell’Italia del XIV e XV secolo i poteri secolari – signorie, principati e repubbliche – si fecero portatori di una politica culturale tesa a legittimare i fondamenti del potere. I libri sfarzosamente cesellati – come avveniva per gli affreschi, le pitture e le sculture nelle chiese – rientravano in un disegno teso ad esaltare il regime politico esistente. Anche per le famiglie della nobiltà il libro di lusso costituì un segno di status, il mezzo con cui mostrare il potere cui erano pervenute.

Milano fu una delle città più attive nell’elaborazione dei codici miniati. Nella seconda metà del Trecento la città ambrosiana acquisì un ruolo centrale nell’arte del libro. Gli inizi si collocano sostanzialmente negli anni successivi alla fondazione dell’Università di Pavia per intervento di Galeazzo II Visconti (1361) e al soggiorno di Petrarca a Milano tra il 1353 e il 1361. In questo periodo la famiglia Visconti formò una prima biblioteca, la cui struttura si poneva nel quadro tipico di un casato appartenente alla nobiltà feudale. Uno dei primi capolavori della miniatura gotica lombarda può essere considerato il Libro d’Ore di Bianca di Savoia, moglie di Galeazzo, risalente al 1378 ca. In questo codice, conservato a Monaco presso la Bayerische Staatsbibliothek (ms. lat.23215), oltre alle iniziali miniate, sono presenti 35 pitture a tutta pagina opera di Giovanni di Benedetto da Como, che nei suoi interventi riprese motivi e decorazioni presenti nella pittura a fresco.

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Codice del Guiron Le Courtois, Galvano salva Arturo, 1370-1380ca

Anche il fratello di Galeazzo, il signore di Milano Barnabò Visconti, commissionò alcuni codici di altissimo valore. Ricordo il volume Guiron le Courtois (conservato a Parigi, Bibliotèque Nationale, ms. nouv,acqu. 5243), ove sono narrati episodi cavallereschi di Artù e di Lancillotto, il ciclo bretone assai diffuso nelle corti di Francia, Inghilterra e Bretagna. Questa letteratura, diffusa nei territori ove si parlava la lingua d’oil, si affermò notevolmente in area padana tra Due e Trecento. Il codice Guiron si caratterizza per l’altissimo pregio delle miniature e dei disegni. Un altro codice è il Lancelot du Lac (Parigi, Bibliotèque Nationale, ms.fr.343), rimasto però incompiuto per la morte di Bernabò avvenuta nel 1385.

Gian Galeazzo, conquistato il potere mediante un colpo di Stato che portò all’arresto dello zio Barnabò, riconosciuto duca di Milano dall’imperatore Venceslao nel 1395, condusse una politica ambiziosa e fortunata che lo rese signore di un vasto territorio esteso all’Italia centro settentrionale. Siamo al periodo d’oro della signoria viscontea.

Allo stesso Gian Galeazzo risale la formazione della biblioteca ducale mediante azioni ben definite. Anzitutto occorre ricordare la requisizione dei libri presenti nelle ricche biblioteche delle città conquistate: arrivò così a Milano una lunga fila di carri contenenti i preziosi volumi che provenivano da Vicenza, Verona e Padova. Anche nella stessa città ambrosiana, presso famiglie che erano vicine ai Visconti per ragioni di sangue o di lavoro, si ebbe un risultato analogo: ad esempio, l’arresto e l’uccisione di Bernabò coincise naturalmente con la requisizione della sua biblioteca e lo stesso accadde al cancelliere ducale Pasquino Capelli, morto nelle prigioni viscontee.

Nel 1426, più di vent’anni dopo la scomparsa di Gian Galeazzo, la biblioteca ducale contava 988 codici ponendosi ai livelli delle maggiori corti europee. Risale a questo periodo l’Offiziolo Visconti (conservato a Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, B.R.397): la prima parte fu opera di Giovannino de Grassi, uno dei massimi esponenti della cultura gotico cortese lombarda, che rivestì l’ufficio di direttore della Fabbrica del Duomo; a decorare la seconda parte fu chiamato nel 1412 Belbello da Pavia su commissione del nuovo duca Filippo Maria Visconti, che proprio in quell’anno era asceso al potere in seguito alla morte improvvisa del fratello Giovanni Maria, pugnalato nella chiesa di San Gottardo (dietro al palazzo Reale).

Non è qui possibile fare una storia del libro di lusso nella Milano rinascimentale. Basterà ricordare che la ricca biblioteca viscontea, parzialmente danneggiata in seguito all’instabilità politica nel breve periodo della repubblica ambrosiana (1447-1450) – tornò in auge sotto gli Sforza per merito soprattutto dei duchi Galeazzo Maria (1466-1476) e Ludovico il Moro (1480-99).

I nuovi stilemi del rinascimento italiano furono introdotti a Milano dal miniatore Cristoforo de Predis, che lavorò non solo per la corte ducale, ma anche per una famiglia importante dell’aristocrazia quale i Borromeo. Merita di essere ricordato in proposito il celebre Libro d’Ore Borromeo, risalente agli anni 1471-1474: questo codice, conservato nella Biblioteca Ambrosiana di Milano (segnatura SP 42), presenta il testo arricchito per la prima volta mediante l’artificio di una pergamena, dipinta come se fosse appesa al di sopra degli spazi riservati alle miniature.

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Giovan Pietro Birago, Frontespizio della Sforziade di Giovanni Simonetta destinata al duca Gian Galeazzo Sforza, 1490.

Altro artista di notevole valore fu Giovan Pietro Birago, attivo negli anni di Ludovico il Moro: meritano di essere citati i quattro stupendi frontespizi della Sforziade, l’edizione a stampa in lingua volgare di Giovanni Simonetta.

La caduta di Ludovico Sforza, la conquista francese del ducato di Milano portarono alla dispersione della ricca biblioteca visconteo-sforzesca: una parte cospicua di quei preziosi volumi venne portata in Francia come bottino di guerra. Basti ricordare che quasi 400 libri oggi conservati alla Biblioteca Nazionale di Parigi possono essere ricondotti alla corte visconteo-sforzesca.

Tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento la stagione del libro di lusso era sostanzialmente finita. La stampa a caratteri mobili, che rivoluzionò il mercato rendendo accessibile l’acquisto dei volumi a un vasto pubblico, segnò il netto declino del libro di corte.

Lo Stradone e i chiostri di Sant’Ambrogio nel sestiere di Porta Vercellina

Lo "Stradone di Sant'Ambrogio" quale appare oggi dopo i lavori urbanistici.
Lo “Stradone di Sant’Ambrogio” quale appare oggi dopo i lavori urbanistici.

Guardando la basilica di Sant’Ambrogio, costeggiando l’attigua piazza sulla sinistra si accede all’ampio viale che corre parallelo all’antico naviglio di San Girolamo (oggi via Carducci). Quel viale era conosciuto come Stradone di Sant’Ambrogio. Oggi, dopo i lavori urbanistici che hanno interessato l’isolato per molti anni, è divenuto finalmente una piacevole area pedonale intervallata da spazi verdi fino alla Caserma Garibaldi. A quel punto il viale, dopo aver costeggiato i giardini e le case della basilica ambrosiana, piega a gomito sulla destra per terminare in Largo Gemelli.

La strada è percorsa in prevalenza dagli studenti della vicina Università Cattolica. L’ateneo ha sede proprio lì, in quei magnifici chiostri dietro la basilica di Sant’Ambrogio che facevano parte anticamente di un convento abitato dai monaci benedettini dal 789 d.C. fino alla fine del Quattrocento. I canonici, vale a dire i chierici addetti al servizio in chiesa, abitavano invece nelle case vicine all’altra area della basilica. I rapporti tra i monaci e i canonici furono a dir poco complessi, segnati da rivalità che nel Medioevo erano assai diffuse tra corporazioni gelose dei loro diritti particolari.

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La basilica di Sant’Ambrogio e la Caserma San Francesco. Litografia ottocentesca a cura di Giuseppe Elena e Pietro Bertotti.

Vi siete mai chiesti per quale motivo la basilica di Sant’Ambrogio ha due campanili? Semplice: perché i canonici, stanchi di suonare le campane con i monaci del vicino convento, convinsero l’arcivescovo Anselmo V della Pusterla, nel 1128, a costruire a spese del Comune un secondo campanile sul lato opposto della facciata. E pazienza se per completare i lavori fu necessario abbattere il fianco sinistro della chiesa: per i canonici era più importante salire sul “loro” campanile. Chissà quante risate si saranno fatte i monaci quando guardavano i loro vicini dall’alto del “loro” campanile!

I benedettini risero meno quando alla fine del Quattrocento, accusati di cattivi costumi, furono costretti a sloggiare. I chiostri di Sant’Ambrogio furono affidati in commenda al cardinale Ascanio Sforza: uomo colto e raffinato, fratello del duca Ludovico il Moro, l’abate Ascanio affidò la ristrutturazione di quegli edifici religiosi all’architetto Donato Bramante, al cui stile dobbiamo la linea sublime dei capitelli a due ordini, nonché le raffinate logge in pietra e in cotto. Il cardinale assegnò questi spazi ai cistercensi di Chiaravalle, che vi abitarono fino all’arrivo degli eserciti francesi del generale Bonaparte: l’edificio, ora demaniale, divenne un ospedale militare. A tale uso continuò ad essere destinato fino agli inizi degli anni Trenta quando vi fu trasferita l’Università Cattolica. Questa però è un’altra storia che vi racconterò in un altro post….