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Un turista russo a Milano sulle orme di Stendhal

Uno dei turisti russi che nel secolo scorso visitò Milano ricavandone un’impressione indelebile è lo storico dell’arte Pavel Muratov (1881-1950). Dopo aver soggiornato a Roma nel novembre 1911, Muratov si spostò nell’Italia settentrionale ove visitò Venezia e Milano. Nella città del Duomo trascorse alcuni mesi del 1912. Le sue riflessioni su quel viaggio furono pubblicate molti anni dopo, in un volume, Obrazy Italii, pubblicato nel 1924. In effetti, non è la prima volta che mi occupo di un turista russo in visita a Milano. In un post di un anno fa ho descritto ad esempio il soggiorno del pittore Vladimir Jacovlev avvenuto nel 1847.

Torniamo allo storico Muratov. Quando giunse a Milano, questi fu colpito da un certa aria di modernità. Rispetto alle città d’arte che aveva visitato nei mesi precedenti – Roma e Venezia – la città ambrosiana gli appariva animata da uno spirito d’intraprendenza, da un dinamismo tipico delle grandi metropoli europee. Al turista che amasse l’Italia per le sue antichità, per le sue maestose rovine segno di un grande passato, il primo contatto con Milano avrebbe destato una certa delusione.

Al viaggiatore, di ritorno da Roma o da Venezia, Milano appare come una città europea qualsiasi, situata oltre i confini dell’Italia vera e propria, cui la unisce soltanto un tenue legame. Non senza sforzo egli si impone di soffermarsi sul passato artistico milanese, mentre inevitabilmente i suoi pensieri e i suoi sentimenti lo riportano a ciò che ha appena lasciato.

[Per questi e altri passi dell’opera di Muratov si veda la traduzione in italiano a cura di Patrizia Deotto pubblicata in “Storia in Lombardia”, anno XXXIII, n.1., 2013, pp.59-94]

Queste tuttavia – si affrettava a chiarire Muratov – erano impressioni superficiali che potevano cogliere il turista che ad esempio avesse prenotato un albergo vicino alla Stazione Centrale, che si trovava a quei tempi in piazza della Repubblica. Per chi invece avesse voluto visitare attentamente la città ambrosiana, entrando in contatto con il vero spirito milanese, il suggerimento era di pernottare nel centro cittadino, magari a Piazza Fontana dove – sono parole di Muratov – “gorgoglia l’acqua delle Sirene e fino al mattino risuonano i canti e le arie dei concittadini della Scala, che rientrano a casa dai teatri e dai caffè senza pretese”. Le sirene sono le statue in marmo di Carrara della fontana disegnata dal Piermarini e realizzata da Giuseppe Franchi nel 1782.

La Milano che visitò Muratov nel 1912 era un città che si andava urbanizzando: la costruzione di nuovi edifici varcò la tradizionale cerchia dei bastioni fino a lambire i Comuni limitrofi. Ricordiamo che l’annessione del vasto Comune anulare dei Corpi Santi era avvenuta nel 1873; pochi anni dopo, nel 1923, altri Comuni sarebbero stati uniti a Milano fino a farle raggiungere l’estensione attuale.

Nel descrivere la città, Muratov oscillava tra due posizioni. Da un lato traspariva la sua ammirazione per la capitale morale del Paese, la città simbolo dell’Italia che guarda al futuro, dell’Italia industriosa che vive nella modernità differenziandosi nettamente da un’Italia “museo” immersa nel culto delle sue rovine e dei suoi monumenti.

Milano rimane una grande città, dove la modernità prevale su tutto il resto. […] Il soggiorno a Milano, probabilmente, ci insegnerà a riconciliarci con l’Italia di oggi. Tutti noi, ospiti di questo paese, avremmo dovuto da tempo considerare come un nostro dovere tale atteggiamento. Guardare alle città italiane soltanto come a musei, a cimiteri o a rovine romantiche, dove gli abitanti di oggi non sempre sono le degne comparse, significa mostrarsi irriconoscenti verso l’ospitalità che il paese e la nazione ci riservano. Questa nazione vive, respira, esiste; ha non soltanto un passato, ma anche un presente.

D’altra parte Muratov era affascinato dal tessuto medievale della vecchia Milano, che nei primi anni del Novecento era possibile cogliere ancora in modo significativo. Egli pareva bocciare gli interventi radicali della seconda metà dell’Ottocento che avevano compromesso l’unità del nucleo urbanistico originario.

Muratov ricordava il viaggio che Stendhal aveva compiuto quasi un secolo prima. In una delle sue celebri passeggiate per il centro, lo scrittore francese era partito dal Teatro alla Scala e, dopo aver attraversato la contrada di Santa Margherita, era giunto alla piazza dei mercanti per terminare il suo giro in piazza del Duomo. Muratov decise di ripercorrere l’itinerario di Stendhal, ma non mancò di rilevare le grandi differenze tra la città che aveva visto lo scrittore francese (che nel primo Ottocento contava 120.000-150.000 abitanti) e la città da lui visitata. Una Milano popolata ai primi del Novecento da più di 700.000 abitanti.

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Caseggiati demoliti per l’apertura di Via Dante. Foto del 1886.

La demolizione dell’antica piazza dei Tribunali con le sue cinque porte storiche ove convergevano i principali corsi cittadini era ricordata dallo storico russo come esempio imperdonabile di cancellazione dell’antico isolato medievale: sulle loro macerie furono costruite via Mercanti e via Dante per collegare il Duomo al Castello Sforzesco. A proposito di via Dante, Muratov non esitò a bocciarla con un giudizio netto. Ricordava poi la demolizione degli isolati antistanti al Duomo, che furono abbattuti per far luogo alla piazza immensa esistente oggi:

La Piazza dei Mercanti, un tempo pittoresca, che si affacciava con le sue cinque porte sulle vie attigue, è attraversata da una nuova strada che poco più avanti assume un aspetto respingente, nonostante porti il nome di via Dante. Nel 1859 la piazza del Duomo ha perso i suoi antichi portici, che risalivano all’epoca di Gian Galeazzo Visconti. Innumerevoli tram compiono il loro eterno giro della piazza, accompagnati dal fastidioso stridere delle ruote e dal suono del campanello. La folla accorre a frotte all’imbocco della Galleria – prototipo di tutti i passages a vetrate.

Sugli “antichi portici” Muratov commetteva un errore. Il Coperto dei Figini era un  edificio quattrocentesco che non risaliva al governo di Gian Galeazzo Visconti, bensì al periodo sforzesco essendo stato edificato tra il 1467 e il 1480 su disegno di Guiniforte Solari:

In fondo la Milano più cara a Muratov era quella secolare risalente alla tarda romanità, al medioevo, all’antico regime fino a Napoleone, la cui cifra urbanistica egli era in grado di cogliere nelle antiche contrade che portavano verso l’Ospedale Maggiore, verso Sant’Eustorgio o il palazzo Borromeo nell’omonima piazza:

Lasciamo ora il Duomo e la Scala e inoltriamoci nell’intrico di vie che conducono verso l’Ospedale Maggiore, il Palazzo Borromeo, la Chiesa di Sant’Eustorgio. Qui non c’è quasi nulla della Milano moderna, mentre molto si conserva della Milano antica, costruita con impeccabile buongusto e discrezione nel Cinquecento, nel Seicento e persino nel Settecento fino all’epoca napoleonica. Questa Milano è rimasta, almeno per tre quarti, intatta….

A me pare che oggi sia molto difficile cogliere nella sua interezza il vecchio tessuto urbanistico della città. Qualcosa è possibile ancora vedere nel quartiere vicino al palazzo Borromeo, dove si trovano le Cinque Vie e i resti della Milano romana ma anche lì ci sono stati interventi radicali come ad esempio nella zona attorno alla Borsa e alla piazza degli Affari. Molto meno si è conservato in Porta Ticinese o verso l’Università degli Studi: qui gli interventi di epoca fascista hanno sconvolto ancor più in profondità l’antica impronta medievale. Gli isolati del Bottonuto furono demoliti – com’è noto – negli anni Trenta per costruire piazza Diaz. Considerazioni non molto dissimili possono essere fatte per la zona intorno a piazza della Vetra in Porta Ticinese. Il vecchio tessuto urbanistico riemerge qua e là, quasi a macchia di leopardo. Il turista attento, che possa contare su una buona guida, è ancora in grado di vedere gli edifici del tempo antico, spesso nascosti dietro i palazzi moderni.

In fondo, le memorie di Muratov sono importanti perché ci consentono di individuare i segni materiali, gli elementi tipici di questa Milano vecchia: dalle case nobili, che presentavano cortili interni articolati in colonne di granito secondo il disegno delle case patrizie dell’antica Roma, alle strade in pietra, agli stessi campanili delle chiese.

Queste antiche vie milanesi sono eleganti con le loro facciate dei palazzi in ombra, con le due caratteristiche strisce di listoni di pietra che corrono parallele al centro dell’acciottolato. Spesso alla fine di queste strade svettano tipici campanili lombardi quadrangolari, in laterizio, segnalando la presenza di alcune chiese storiche di Milano: Sant’Ambrogio, Sant’Eustorgio, San Sepolcro, San Gottardo. Molte di esse erano situate ad anello intorno alla vecchia Milano, lungo il “Naviglio”, lo stretto canale che circondava la città.

Questo, il Naviglio Interno, era un altro prezioso elemento della Milano di Stendhal che la Milano del 1912 ancora conservava. Una infrastruttura secolare che consentiva la navigazione dai laghi alla città. Elemento distintivo dell’identità milanese, il Naviglio interno fu costruito alla fine del Quattrocento. Com’è fin troppo noto, esso venne chiuso dai fascisti pochi anni dopo la visita di Muratov, nel 1929/30.

Lo storico russo osservava come il Naviglio cingesse ancora gran parte del centro storico, attraversando da un lato i quartieri di Porta Ticinese e di Porta Romana, popolati da un’operosa borghesia di artigiani, commercianti e impiegati, dall’altro i quartieri aristocratici di Porta Orientale e Porta Nuova, ove si trovavano gli eleganti giardini dei palazzi nobiliari, luoghi d’incantevole bellezza.

Sul Naviglio, che spesso lambiva non le rive, ma le facciate stesse delle case oppure i recinti dei giardini e dei cortili, si possono scorgere i lati più pittoreschi della vita milanese: quella popolare nei dintorni di San Nazaro e di San Lorenzo e quella signorile dalle parti della Chiesa di Santa Maria della Passione, famosa per l’iscrizione incisa sul suo portale: “Amori et dolori sacrum”.

Sulla riva del Naviglio si affaccia il Palazzo Visconti di Modrone, [tuttora esistente nella via omonima], che ispirò ad André Suarez queste righe per il suo Voyage du condottière:

Il giardino Visconti di Modrone sul Naviglio Interno di Porta Orientale, foto di Arnaldo Chierichetti risalente ai primi del Novecento,
Il giardino Visconti di Modrone sul Naviglio Interno di Porta Orientale, foto di Arnaldo Chierichetti risalente ai primi del Novecento,

“Sembra fatto apposta per offrire un rifugio agli amori segreti e forse peccaminosi. Un giardino di alberi secolari, pieno di gelsomini e di rose, cade a picco sullo specchio delle acque morte; è delimitato da una balaustrata di pietra, pomposa e un po’ pesante, e pur tuttavia elegante. Il verde e i fiori animano il silenzio, e la loro presenza appassionata è l’unica festa in questo quartiere miserabile della città. Degli amorini sorreggono uno stemma…la giovane vite e i rami degli alberi carezzano lievi ogni voluta, ogni riccio della balaustrata. Tra le foglie si delinea un loggiato a sei archi che separa le due ali del palazzo. Dolce giardino segreto, incantevole riparo! Lo zampillo di una fontana lancia il suo getto cangiante nel sole. Il canale riflette i rami degli alberi, lasciando galleggiare le foglie sulle sue acque meste. A Milano non c’è altro rifugio per il sogno, l’amore e la malinconia”.

Il Duomo nella Milano napoleonica

Alla fine del Settecento la facciata del Duomo di Milano era ancora incompiuta. Una parte dei lavori era iniziata nella seconda metà del XVI secolo quando San Carlo Borromeo diede incarico a Pellegrino Tibaldi, detto Pellegrini, di costruire alla ‘romana’, vale a dire in uno stile che si allontanasse dal gotico cui era informato il resto della cattedrale. Alcuni portali erano stati edificati ma le operazioni avevano subito nuove interruzioni. Nella prima metà del Seicento un altro architetto della Milano barocca, Francesco Maria Ricchini ultimò le finestre a timpano (oggi visibili sopra i portali). Nel corso del XVIII secolo i lavori erano però assai lontani dal concludersi. Ci si era concentrati soprattutto sulla parte superiore del Duomo: risale al 1769 la guglia centrale con la celebre Madonnina, opera di Francesco Croce. Per la facciata le opere erano ancora in alto mare. Si pensi che a quell’epoca neppure i portali potevano dirsi compiuti.

Edward Gibbon, nel corso di un viaggio compiuto a Milano nel 1764, non nascondeva la sua delusione alla vista di una facciata tanto “meschina”:

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La facciata incompiuta del Duomo di Milano in una celebre veduta di Marc’Antonio Dal Re risalente al 1745

Siamo andati a vedere la chiesa. L’esterno non mi ha fatto nessun effetto. Per prima cosa si vede un portale incompiuto; è estremamente ornato ma sembra appena grande quanto basta per un edificio così immenso.

Il periodo napoleonico segnò una svolta. Il decreto dell’8 giugno 1805 ebbe un ruolo decisivo. Esso introduceva una razionalizzazione nel campo degli ordini regolari riducendo il numero di conventi e monasteri nel territorio del regno italico. Lo Stato ne avrebbe incamerato i beni ma alcuni di questi sarebbero stati venduti per reperire risorse pari a cinque milioni di lire milanesi da destinare, come recitava l’articolo 34, “al compimento del Duomo di Milano”. L’articolo 35 stabiliva inoltre che la Fabbrica del Duomo – l’istituzione che da secoli era chiamata a dirigere i lavori di costruzione – avrebbe venduto un numero d’immobili sufficiente ad affrontare le prime spese; spese che il decreto stimava non inferiori al milione e duecento mila lire milanesi.

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Napoleone con il costume e la corona ferrea di re del Regno italico (1805)

Pochi anni dopo, un decreto imperiale del 20 febbraio 1810 attribuiva al ministro delle finanze Giuseppe Prina il compito di assegnare alla fabbrica del Duomo un complesso di beni immobili pari a due milioni di lire italiane (corrispondenti all’incirca alle due milioni e duecento mila lire milanesi previste dal citato decreto dell’8 giugno) per consentire alla fabbrica di far fronte in via immediata alle spese di costruzione.

I lavori, affidati inizialmente a Giuseppe Zanoia, passarono presto sotto la direzione dell’architetto Carlo Amati, che li portò a termine nel giro di due anni. Nel 1812 un opuscolo anonimo dedicato al Duomo di Milano, L’Ottava Meraviglia del Mondo osservata nel Duomo di Milano in occasione dell’ora compiuta facciata (stampato dalla tipografia Pulini in contrada del Bocchetto, vicino alla Borsa degli Affari nel sestiere di Porta Vercellina) poteva celebrare il compimento dell’opera inneggiando a Napoleone re d’Italia e imperatore dei francesi:

Questo insigne tempio rimasto sarebbe per avventura  tuttora imperfetto se la mano benefica di Sua Maestà Imperiale e Regia data non gli avesse quella provvida spinta per la quale ha potuto giugnere al suo più alto compimento.

Proseguendo in tono enfatico, l’autore del piccolo opuscolo tesseva ancor più le lodi di Napoleone, le cui gesta – in linea con la retorica del regime diffusa a quell’epoca – erano poste sullo stesso piano della civiltà greco romana:

E se i Greci ed i Latini per rendere immortale la fama de’ loro eroi, e le epoche gloriose delle loro nazioni innalzavano marmorei e grandiosi edifizj, potrà il nostro Duomo egualmente essere considerato come un perpetuo monumento della gloria e della munificenza di questo grande Monarca, e tramandare ai più tardi posteri la memoria di un sì grande avvenimento.

Pochi anni dopo, nella Milano tornata sotto il dominio austriaco nei primi anni della Restaurazione, Stendhal poteva mirare il Duomo scintillante di marmo bianco evocando lo spirito dell’amore.

Duomo-di-Milano-sera5 novembre 1816. Tutte queste sere, verso l’una di notte, sono tornato a vedere il Duomo di Milano. Illuminata da una bella luna, la chiesa offre uno spettacolo incantevole ed unico al mondo. […] Alle persone nate con un certo gusto per le belle arti dirò: “Questa architettura fantasiosa è un gotico senza l’idea della morte; è la gaiezza di un cuore melanconico; e poiché quest’architettura destituita di ragione sembra fatta dal capriccio, essa s’accorda con le folle illusioni dell’amore”.

Meno entusiaste le sue riflessioni in merito alla facciata, anche se non mancò di apprezzarne la linearità. Il suo consiglio ai visitatori era di guardarla al tramonto del sole:

La facciata semigotica del Duomo non è bella, ma graziosa assai. Bisogna vederla illuminata dalla luce rossastra dl sole cadente.

I milanesi dell’Ottocento visti da due stranieri d’eccezione

Nel diciannovesimo secolo Milano attirava i viaggiatori d’Oltralpe per il suo fascino discreto, quasi nascosto. Stendhal, che la visitò nel primo Ottocento, se ne innamorò perdutamente. Come avviene tuttora a larghissima parte dei turisti, il Duomo destò in lui un’ammirazione sconfinata.

Henry Beyle Stendhal (1783-1842) da www.greatthoughtstreasury.com
Henry Beyle Stendhal (1783-1842) da www.greatthoughtstreasury.com

Ricordiamo però Stendhal anche perché fu un attento osservatore degli usi e dei costumi milanesi. Lo scrittore francese ricordava ad esempio la consuetudine di camminare nel tempo libero sui Bastioni di Porta Renza (Bastioni di Porta Orientale) perché vi si godeva un panorama spettacolare sulle montagne lombarde. Noi oggi facciamo fatica a capire come una strada sopraelevata su cui sfrecciano macchine, moto e motorini potesse costituire una meta di svago per i milanesi dell’Ottocento. Dobbiamo però considerare che a quei tempi le cose erano molto diverse da oggi: Milano aveva una popolazione di 130.000 abitanti e il suo territorio non oltrepassava la cinta delle mura spagnole. Insomma, era più una cittadina che una metropoli.

All’esterno il panorama era dominato da una campagna intervallata da cascine e da basse case rurali; non esistevano i palazzoni che vediamo oggi. Pensate che il Duomo era visibile anche a chi si fosse trovato a una distanza di 20 chilometri da Milano.

La nostra strada sopraelevata, piena di traffico e di smog, era allora un bel viale alberato che collegava i Bastioni di Porta Venezia con i Bastioni di Porta Nuova e di Porta Comasina per terminare all’Arena Civica vicino al Castello Sforzesco. Un corso frequentato nel periodo estivo dalla ricca borghesia e dalla nobiltà. Scriveva Stendhal a proposito di Milano in Rome, Naples et Florence:

D’estate, dopo il pranzo, al tramonto, all’Ave Maria, come si dice qui, tutte le carrozze della città si recano al “Bastion di Porta Rense”, che si eleva di trenta piedi sopra alla pianura. Vista di là, la campagna assomiglia a una foresta impenetrabile, ma di là da essa si scorgono le Alpi con le cime ricoperte di neve. E’ uno dei panorami più belli che possa rallegrare la vista….lo spettacolo è bello; ma non è per goderselo che tutte le carrozze sostano per una mezz’ora sul Corso. Si tratta di una specie di parata della buona società”.

Mark Twain, altro turista d’eccezione che visitò Milano nel 1867, ci ha lasciato un ritratto divertente dei milanesi. Ma prima di dare la parola al nostro simpatico americano domandiamoci: questi milanesi…. come passano oggi il tempo libero dopo il lavoro? La risposta è semplice e si riassume in una parola: aperitivo.  Verso le 18.30-19 le vie si popolano di giovani. Da Porta Ticinese ai Navigli, da Brera al Castello, da Porta Genova a Porta Garibaldi trovi una selva di locali in cui trascorrere il tempo con gli amici. L’aperitivo funziona così: ordini un cocktail e hai libero accesso alle fantasie della gola. In quei momenti puoi mangiare a volontà attingendo a un buffet che, se hai scelto il locale giusto, è ricco di cibi gustosi e prelibati.

A quel tempo l’aperitivo non esisteva ma Twain, l’americano Twain, nella sua opera The Innocents Abroad pubblicata nel 1869, ci dice che i milanesi si divertivano comunque a modo loro. Egli ravvisava nel senso della vita spensierato, lontano dalle ansie del lavoro, una differenza abissale rispetto ai ritmi della società americana. Lo scrittore definiva curiosamente “europeo” questo stile di vita.

In America siamo sempre di fretta, che è un bene, ma quando la giornata di lavoro è finita, continuiamo a pensare ai guadagni e alle perdite, facciamo i programmi per il giorno successivo, ci portiamo perfino a letto il pensiero degli affari, e ci giriamo e rigiriamo preoccupati, quando invece dovremmo ristorare col sonno il nostro corpo e la nostra mente tormentati…

Marc Twan (1835-1910) da www.thefamouspeople.com
Mark Twain (1835-1910) da www.thefamouspeople.com

Invidio questi europei per la comodità che si prendono. Una volta che la giornata di lavoro è finita, se la dimenticano. Alcuni vanno con mogli e figli in qualche locale, si siedono tranquilli a bere un boccale o due di birra, ascoltando la musica; altri passeggiano per strada, altri ancora vanno in carrozza lungo i viali; ci sono quelli che si riuniscono nelle grandi piazze sul far della sera, per godere della vista e della fragranza dei fiori e per ascoltare le bande militari…e ancora ci sono quelli del popolo che si siedono all’aria aperta, di fronte ai caffè, mangiano gelati e bevono bevande leggere, che non farebbero male ad un bambino. Vanno a letto abbastanza presto e dormono della grossa. Sono sempre tranquilli, ordinati, allegri, comodi e amanti della vita in tutte le sue multiformi manifestazioni.

I milanesi di Twain sembrano molto diversi da quelli di oggi. E’ probabile che lo scrittore americano si fosse servito di loro per stigmatizzare gli americani del suo tempo. Eppure, se visitasse Milano al giorno d’oggi, Twain probabilmente troverebbe molto spirito americano sotto la Madonnina.