Il 15 luglio 1776 l’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo approvò il progetto dell’architetto Giuseppe Piermarini per la costruzione di un teatro di corte nel luogo in cui si trovava l’antica chiesa di Santa Maria della Scala.
Da cinque mesi Milano era sprovvista di un luogo in cui potesse riconoscersi la colta società cittadina. Il vecchio teatro ducale, un suntuoso edificio comprendente 800 posti che si trovava in un’ala del palazzo del governatore (oggi Palazzo Reale) era stato distrutto da un incendio il 26 febbraio. Incendio che, oltre a rendere inagibili per alcuni anni le stanze della residenza di corte costringendo gli arciduchi a traslocare nel palazzo Clerici, aveva privato la città di un teatro importante, che era stato costruito nel 1725 con i fondi del patriziato milanese.
L’imperatrice Maria Teresa ordinò la pronta costruzione del nuovo edificio: i lavori, iniziati il 5 agosto 1776 con la demolizione della chiesa scaligera, terminarono due anni dopo. Il 3 agosto 1778 il Teatro alla Scala apriva al pubblico con l’opera in due atti l’Europa riconosciuta di Antonio Salieri. Furono inoltre eseguiti due balletti, uno a metà dell’opera, l’altro al termine.
Qual era il normale allestimento dello spettacolo in un teatro del Settecento? Anzitutto non dobbiamo pensare che vi fosse un direttore e che l’orchestra fosse nascosta, al di sotto del palco, come avviene oggi. Queste furono invenzioni del compositore, poeta e musicista tedesco Richard Wagner (1813-1883) che vennero introdotte progressivamente nei teatri europei verso la fine dell’Ottocento.
Nel XVIII secolo l’orchestra era situata sul palco ove si svolgeva la scena principale. Allo spettacolo principale (commedia o melodramma) era affiancata l’esecuzione di scene mute nei palchi situati ai lati. Il melodramma poteva essere intervallato da balletti.
Scrisse Montesquieu in un passo delle Lettere persiane (pubblicate nel 1721) ove descriveva una rappresentazione teatrale all’Opera di Parigi:
La gente verso la fine del pomeriggio si raduna per fare una specie di recita che ho sentito chiamare commedia. L’azione principale si svolge su una scena che si chiama teatro. Ai due lati, in certi piccoli ridotti, che si chiamano palchi, si vedono degli uomini e delle donne che rappresentano insieme delle scene mute… Qui c’è un’amante afflitta che esprime il suo abbattimento; un’altra con occhi vivaci e aspetto appassionato, divora con gli occhi il suo amante, che la guarda allo stesso modo; tutte le passioni sono dipinte sui visi ed espresse con un’eloquenza che, essendo muta, è ancora più viva.
Gli spettacoli teatrali nella Milano settecentesca non dovevano essere molto diversi da quelli descritti da Montesquieu.
Ma torniamo a quel 3 agosto 1778, giorno dell’inaugurazione del teatro alla Scala. La Gazzetta di Milano, nel descrivere l’entusiasmo con cui i presenti avevano assistito allo spettacolo, non mancò di accennare alla grandiosa architettura del teatro, soffermandosi in particolar modo sull’impegno con cui le famiglie milanesi, proprietarie dei palchi, avevano contribuito a rendere memorabile quella serata addobbando gli ambienti con mobili e oggetti lussuosi. Anche l’impresa teatrale aveva arredato sontuosamente i ridotti, le stanze ove si praticava il gioco d’azzardo. A quell’epoca l’impresa teatrale era stata appaltata dallo Stato ad alcuni nobili milanesi. Dal 1776 vi facevano parte il conte Carlo Ercole Castelbarco Visconti, il marchese Antonino Menafoglio, il marchese Bartolomeo Calderara amico intimo di Cesare Beccaria, il marchese Giacomo Fagnani. L’impresa curava l’amministrazione del teatro vendendo i posti accessibili al pubblico, curando lo smercio delle bevande, allestendo i tavoli per il gioco d’azzardo.
Sulla Gazzetta di Milano si leggeva questo resoconto pochi giorni dopo l’inaugurazione:
Nella sera di Lunedì scorso giorno 3 del corrente, giusta quanto erasi già da due mesi annunciato, si fece l’apertura di questo nuovo Regio Ducal Teatro colla prima rappresentazione intitolata L’Europa riconosciuta in due Atti…
Non potevasi con pompa maggiore solennizzare un’Epoca di simile pubblica allegria in questa Città. E ben lo meritava la grandiosità, e magnificenza dell’Edificio disegnato ed eretto dal Regio Professore ed Architetto Signor Don Giuseppe Piermarini, il quale mediante il favore di Sua Altezza Reale il Serenissimo nostro Arciduca [l’arciduca Ferdinando di Asburgo Lorena, figlio di Maria Teresa, governatore della Lombardia] e la splendidezza de’ Proprietari de’ Palchetti, lo seppe rendere in questo genere il migliore forse d’Europa.
Frontispizio, solidità, forma, compartimento, grandezza, comodi, ornamenti, proporzione, risonanza, visuale, tutto in esso è ammirabile, tutto grandioso, tutto il meglio all’uso adattato. Corrispondente a sì bella fabbrica è pure il lusso ed il buon gusto, con cui, e ciascun Particolare adornò il proprio Palchetto e la nobile Associazione della teatrale impresa sfoggiò negli ornati e ne’ mobili delle vaste Sale de’ Ridotti; onde senza esagerazione potrebbe assicurarsi non ritrovarsi altrove un pubblico luogo da potersi a questo in ricchezza e beltade uguagliare.
L’apertura di un tal Teatro: il Dramma di composizione nuovo, di genere inusitato: la prima rappresentazione, che da’ nobili Associati dopo l’impegno da loro assunto si esponeva: la notorietà del dispendioso apparecchio, che da lungo tempo questi facevano, erano motivi, che tanto avevano l’universale aspettazione ingrandito, che credevasi difficile il poterla bastantemente appagare. Con tutto ciò lo Spettacolo ebbe un felicissimo incontro, ed il Pubblico restò soddisfatto…
In realtà, l’architettura del teatro sollevò alcune perplessità nei contemporanei. Pietro Verri, in una lettera al fratello Alessandro scritta nel luglio 1778, ammise la sua delusione per la mole dell’edificio il cui loggiato, distaccandosi dalla facciata per consentire il passaggio delle carrozze, spezzava a suo giudizio l’armonia complessiva della fabbrica. Bisogna tener presente che allora non esisteva piazza della Scala, che fu costruita nel 1858 mediante l’abbattimento delle case tra palazzo Marino e il teatro. Verri, passeggiando in via Santa Margherita, non disponeva quindi di spazio sufficiente per ammirare la facciata nella sua interezza, il che finiva per rendergli sproporzionata la mole dell’edificio rispetto all’asse della strada. Verso la fine della lettera, l’illuminista lombardo accennava curiosamente a “un casotto”, termine con cui si riferiva al tetto, eccessivamente alto.
La facciata del nuovo teatro è bellissima in carta, e mi ha pure sorpreso quando la vidi prima che si mettesse mano alla fabbrica; ma ora quasi mi dispiace. Nel disegno tu vedi la facciata come una sola superficie, nella esecuzione sono tre pezzi. Il portico di bugne si avanza molto, e servendo al passaggio delle carrozze che vanno al teatro ti copre e offusca parte dell’edificio. Se ti scosti poi per vedere scemata la deformità, ti spunta un casotto in cima alla facciata che è poi il tetto assai alto.
Mi chiedo cosa direbbe oggi Pietro Verri se vedesse la colossale torre scenica a forma di cubo o l’edificio a pianta ellittica: due recenti costruzioni che troneggiano sopra il vecchio tetto del teatro.