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La Milano di Sala: città modello per il Paese

La presentazione, avvenuta ieri, dei punti programmatici che la giunta Sala affronterà nel corso del suo mandato quinquennale mi ha fatto pensare al motto “conoscere per fare” concepito da Romagnosi e fatto proprio da Carlo Cattaneo. Scriveva Gian Domenico Romagnosi in un passo Dell’indole e dei fattori dell’incivilimento: “qui dunque, in ultima analisi, si tratta di fare, e se si vuol conoscere è per fare”. Una frase che da sola aiuta a capire le ragioni di quella progettualità concreta, fattiva, capace di confrontarsi con i problemi della società, che ha consentito ai milanesi di pensarsi in divenire, di reinventarsi nei grandi tornanti della storia senza perdere il treno del progresso.

Milano può contare oggi su quattro risorse. La prima riguarda una cultura del buongoverno che ha prodotto – soprattutto negli ultimi anni – una buona amministrazione. Certo, errori sono stati fatti in passato (tanto nelle giunte di centrodestra che di centrosinistra) ma se la situazione di oggi è quella che vediamo, ciò è dovuto a una cura per la cosa pubblica che ha radici storiche di lungo periodo. La seconda risorsa riguarda la ricerca scientifica di altissimo livello che ha il suo fulcro nelle università milanesi. La terza risorsa è il capitale umano: gli istituti educativi della metropoli forniscono ai giovani un patrimonio di competenze da mettere a frutto. Potremmo parlare di “una generazione incendiaria”, che ha tanta voglia di fare ma in Italia non trova le opportunità per crescere. La quarta risorsa è un fitto tessuto di imprese, attive soprattutto nel digitale, che trova a Milano e solo a Milano un ambiente fertile, aperto all’innovazione tecnologica. La giunta Sala e il governo nazionale avranno nei prossimi anni il compito immane di mettere a frutto queste risorse perché la città sia un modello di sviluppo in grado di contribuire alla crescita dell’Italia.

Il Sindaco di Milano, Giuseppe Sala

Il Sindaco ha una sua idea della città per i prossimi dieci – quindici anni. Non basta però avere visioni. Occorre saper costruire. Sala è uomo concreto, fattivo, pragmatico. Ama grandemente Milano. Ha già ottenuto un brillante risultato: ha convinto il governo a puntare sulla città ambrosiana. Tutto questo in un momento d’incredibile distanza tra Milano e Roma: nella capitale la Sindaca Raggi ha iniziato ad amministrare nel segno della pulizia morale e dell’onestà; fa i conti tuttavia con una giunta in cui gli assessori sembrano fare a gara per dimettersi prima degli altri. Insomma, l’impressione è che in Campidoglio si brancoli nel buio. Se guardiamo a Milano sembra di essere su un altro pianeta. Qui domina la concretezza sui paroloni, l’agire paziente diretto al risultato effettivo. Per dirla con Max Weber, domina a Milano una zweckmässige Verwaltung, un’amministrazione orientata a uno scopo. In fondo, la città non ha mai cessato di essere asburgica in questo operoso riformismo finalizzato al progresso e al bene comune.

Due stile di governo diversi. Se la Raggi non ha esitato a rinunciare al progetto delle Olimpiadi per evitare fenomeni di corruzione e di malgoverno – un progetto che, se ben gestito, sarebbe stato una risorsa importante per lo sviluppo urbanistico di Roma – Sala si è affrettato a far firmare a Renzi il Patto per Milano impegnando il governo nazionale in corposi finanziamenti pubblici destinati alla rigenerazione della città: pensiamo soltanto allo Human Technopole nell’ex area Expo, un progetto fondamentale che consentirà alle università milanesi di essere coinvolte in un centro di ricerca internazionale sulle scienze della vita. Tempismo azzeccato quello di Sala, che ha saputo muoversi bene perchè conosce bene i punti di forza di Milano. E’ riuscito ad impegnare il governo a spendere risorse qui, in una metropoli che collabora con lo Stato facendo la sua parte. E’ il “conoscere per fare” di Romagnosi da cui siamo partiti.

Un’altra situazione che dimostra la fattiva operosità di Sala, la sua volontà di approfittare di ogni opportunità per il bene di Milano è stata la Brexit. Sala è andato a Londra, ha cercato di convincere i responsabili di importanti istituzioni europee a trasferire le loro sedi a Milano. Obiettivo ambizioso e al contempo difficile da raggiungere per le obiettive difficoltà in cui versa l’Italia. Eppure, una di queste istituzioni, l’Agenzia Europea per il Farmaco, sembra essere interessata a trasferirsi qui. Sala ha un dossier su questo tema. Milano è pronta a muoversi ma occorre il supporto del governo nazionale. Cosa farà Gentiloni? Sarà disposto a confermare l’asse di Renzi con Milano?

Nel segno di Romagnosi e di Cattaneo si pone infine il “Fare Milano”, il titolo che la giunta Sala ha scelto per riassumere il senso del suo operato nei prossimi 5 anni. Si tratta d’interventi complessi, che dovranno incidere in profondità affrontando in primo luogo il problema delle periferie. Grazie al “Patto per Milano” firmato dal Sindaco con il Governo nazionale, grazie anche all’intesa con il Governatore della Regione Lombardia Roberto Maroni, saranno destinati 356 milioni di euro per il recupero delle periferie. Fondi destinatati in gran parte, come hanno chiarito gli assessori Mirko Mazzali e Gabriele Rabaiotti, alla ristrutturazione delle case popolari nelle zone Lorenteggio-Giambellino e QT8-Gallaratese.

L’assessore all’urbanistica, Pierfrancesco Maran

Relativamente all’urbanistica verrà portato a compimento il recupero degli ex scali merci. La tabella di marcia fissata dall’assessore Pierfrancesco Maran è stringente: terminata la fase del confronto pubblico nel marzo 2017, l’accordo di programma verrà chiuso definitivamente nell’estate prossima per avviare le procedure dei concorsi, consentire gli usi temporanei degli spazi, elaborare i piani attuativi. I lavori per la rigenerazione degli scali verranno condotti tra il 2019 e il 2022. Come ho già avuto modo di ricordare in un articolo pubblicato in questa sede, il progetto è di fondamentale importanza per Milano. I diversi piani di edilizia sociale e residenziale, gli interventi per la realizzazione di vasti parchi verranno presentati dagli esperti di architettura e di urbanistica in incontri pubblici che si terranno a partire da dopodomani, dal 15 al 17 dicembre. Non mancate di iscrivervi e di partecipare numerosi!

L’assessore alla Mobilità, Marco Granelli

Importanti novità sono previste anche sul piano della mobilità, come ha sottolineato l’assessore Marco Granelli. Il completamento dei lavori della M4, è fissato per il 2022 con un anno di anticipo rispetto a quanto previsto originariamente. Il prolungamento delle linee metropolitane esistenti consentirà una migliore integrazione della città con l’area metropolitana. La M1 verrà portata da Sesto FS a Monza Bettola entro il 2020. Sul lato di Milano Bisceglie, i lavori per il collegamento con il quartiere Baggio-Olmi cominceranno nel 2021. Per la M5 si darà avvio agli interventi per le fermate Milano-Bignami-Monza città e Monza Ospedale San Gerardo. La tratta Milano Bignami-Monza città sarà attiva già nel 2020. Per quanto concerne la mobilità sostenibile, una novità importante sarà l’attivazione di una piattaforma tecnologica (MAAS: mobility as service) che consentirà via app o via Web di attivare alcune tipologie di abbonamento comprensive dell’utilizzo di treno, metro, autobus, bikemi, car-sharing, scooter sharing. Un servizio che andrà di pari passo con il potenziamento delle attuali dotazioni di biciclette, macchine e scooter e – dato più importante – con la costruzione di 55 aree di interscambio per la mobilità sostenibile.

In sinergia con i privati l’amministrazione Sala ha messo in campo svariati interventi nel campo del welfare e della cultura. Notevoli le iniziative culturali, dai city days (Bookcity a novembre, Prima Diffusa a dicembre, Museocity a marzo, Pianocity a maggio) alle settimane dedicate alle arti (Art Week in primavera, Music Week in autunno, Photo Week in estate, Movie week in inverno). Nel 2017 si terrà a Palazzo Reale una mostra dedicata ad Eduard Manet; le opere di Caravaggio saranno esposte nel biennio 2017/2018. Gli hub culturali gestiti da privati (Fondazione Feltrinelli in Porta Garibaldi inaugurata oggi, Fondazione Prada in Porta Romana/Ripamonti, Casva a QT8), i teatri pubblici alcuni dei quali riaperti al pubblico o costituiti ex novo (si pensi ad esempio al Teatro Lirico o al Teatro dell’infanzia e dell’adolescenza che verrà costruito ex novo in piazzale Maciachini), i musei e spazi espositivi (da Palazzo Citterio a Brera al Museo dell’Arte Etrusca in Corso Venezia) daranno alla città un’ulteriore visibilità internazionale, migliorando in prospettiva il già ottimo risultato di quest’anno: come ha osservato l’assessore alla cultura Filippo Del Corno, Milano è stata la città più visitata d’Italia nel 2016 (dati del Global Destination Cities Index).

L’unica mancanza, in questa visione concreta sul futuro della città illustrata da Sala, è stata l’indicazione di una data per il referendum sulla riapertura dei Navigli che, come il Sindaco ha annunciato in campagna elettorale, si terrà nel 2017. Attendiamo notizie su questo tema importante per il futuro urbanistico di Milano.

Cattaneo e il trasporto merci via acqua

In alcune lettere scritte all’amico federalista Enrico Cernuschi tra il 1854 e il 1855, Carlo Cattaneo,  che dopo il fallimento della rivoluzione del ’48 si era stabilito nella svizzera Castagnola per sfuggire agli arresti della polizia austriaca, si faceva promotore di un progetto assai ardito. Val la pena soffermarsi su questo tema perchè può aiutare a comprendere non solo l’originalità del pensiero di Cattaneo, ma anche il diverso modo di affrontare una questione attuale come il trasporto merci nell’area metropolitana milanese.

Così Cattaneo descriveva il delicato tema delle infrastrutture in Lombardia e nell’Italia del Nord in una lettera all’amico dell’ottobre 1854:

Il Lago Maggiore che tocca i tre territorj piemontese, svizzero e lombardo veneto ha la sua superficie a poco meno di 200 metri sopra il livello del mare. Dal lago le barche discendono per un tronco del fiume Ticino (lungo 26 chilometri) fino a Tornavento ov’entrano in un Canale (lungo 50 chilometri) pel quale discendono fino a Milano. Da Milano per altro Canale (lungo 33 chilometri) scendono a Pavia; quivi entrano nel basso Ticino (5 chilometri) e di là pel Po (104 chilometri) arrivano all’Adriatico. La discesa continua dal Lago Maggiore al mare somma a chilometri 251 e si può percorrere senza dispendio di forza motrice. La linea passa in vicinanza di molte buone città e attraversa tutte le linee ferrate dell’Alta Italia.

[I carteggi di Carlo Cattaneo, a cura di Margherita Cancarini Petroboni  e Maria Chiara Fugazza, Serie I, vol.III, 1852-56, pag.182]

Il trasporto merci lungo i fiumi e i canali era quindi opportuno secondo Cattaneo – si tenga presente questo punto – perché avveniva “senza dispendio di forza motrice”.

Le merci che giungevano a Milano dal Nord Europa erano trasportate a quei tempi mediante la “forza motrice” degli animali da tiro (al cui nutrimento bisognava provvedere mediante l’acquisto di mangimi), delle prime locomotive (che occorreva alimentare con il carbone importato) oppure attraverso la via “gratuita” dell’acqua fluviale.

Oggi in Paesi dell’Europa settentrionale e centrale come ad esempio la Germania, la Francia, l’Olanda, l’Austria, l’Ungheria, la Repubblica Ceca, il trasporto di alcune tipologie di merci avviene ancora su chiatte: questi tipi d’imbarcazione attraversano non solo i grandi fiumi come il Reno, la Mosella, il Danubio, la Senna, ma anche i canali artificiali come ad esempio avviene in Olanda: penso ai legnami, alla calce, al cemento. L’Italia fa eccezione: da noi si ricorre in via pressoché esclusiva ai treni merci e al trasporto su gomma. Risultato: autostrade e strade piene di Tir e camion di ogni specie.

Ai tempi di Cattaneo la situazione in Lombardia – fatte ovviamente le distinzioni di tempo – era più vicina ai paesi del Nord Europa. Nella lettera a Cernuschi era fornita una descrizione assai indicativa del commercio tra Milano e i comuni lombardi da una parte e il Lago Maggiore dall’altra mediante le “vie d’acqua” lungo il Naviglio Grande e il Ticino. Cattaneo faceva previsioni ottimistiche su un incremento di questo tipo di trasporti:

Il Lago Maggiore somministra graniti, marmi, torba, carbone, legna da fuoco e costruzione. Il nuovo sviluppo della navigazione del Po potrà estendere il consumo dei graniti, dei marmi saccaroidi, e d’altre pietre cristalline in lastre e in ciottoli provenienti dalle Alpi, alle costruzioni e al selciato d’altre città, come Piacenza, Parma, Modena, Bologna, Ferrara etc. alle quali li Appennini non possono somministrare se non pietre calcari e arenarie assai deboli.

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Carlo Cattaneo (1801-1869)

Veniamo però al progetto che Cattaneo presentò a Cernuschi. Esso era teso a risolvere un grave problema, assai sentito a quell’epoca: la navigazione contro corrente. Era relativamente facile trasportare le merci dai laghi verso Milano con la corrente favorevole. Il problema si poneva quando si faceva il percorso inverso. I milanesi avevano cercato di risolverlo facendo trainare le cobbie – così erano chiamate le barche vuote – da vecchi cavalli ai quali restavano pochi anni di vita. La lentezza del trasporto era però notevole. Quando scriveva Cattaneo – siamo verso la metà del XIX secolo: la ferrovia si stava imponendo come mezzo privilegiato sulle lunghe distanze – i tempi del trasporto su acqua in risalita erano sempre meno convenienti.

L’attenzione dell’economista lombardo era concentrata soprattutto nel tratto del Ticino tra Sesto Calende e Tornavento. Il Naviglio Grande, che dal XIII secolo porta l’acqua del fiume alla Darsena di Porta Ticinese, è il canale più facile da navigare perché la pendenza è tendenzialmente progressiva e non ha conche lungo il suo percorso. A quei tempi le operazioni di risalita delle barche avvenivano senza grandi difficoltà lungo il Naviglio. I problemi si ponevano dopo Tornavento. La corrente del Ticino diveniva fortissima. Cattaneo, nella lettera a Cernuschi più volte citata, spiegava il problema operando un raffronto tra il dislivello (la caduta) del Ticino tra Sesto Calende e Tornavento e quello del Danubio tra Vienna e il Mar Nero:

Il fiume [Ticino] in questo breve intervallo di 26 chilometri ha una caduta di metri 47. Per dare un’idea comparativa dell’intensità di questa caduta basti dire che la caduta del Danubio da Vienna al Mar Nero, sopra una lunghezza quasi cento volte maggiore, è di soli metri 133, ossia nemmeno il triplo. E nulladimeno la navigazione del Danubio è giudicata ancora difficile. Inoltre questa discesa di 47 metri è ripartita molto ineguabilmente formando undici Rapide, alcune delle quali ammontano al 6 per mille.

[I carteggi di Carlo Cattaneo…cit, pag.183]

Si era tentato di risolvere il problema caricando le merci su imbarcazioni più piccole in quel tratto di fiume, più adatte da manovrare per affrontare le rapide senza pericoli. Così commentava Cattaneo i dati del dazio milanese ove era segnato il numero delle barche arrivate in Darsena:

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La Darsena di Milano in una foto del 1954

Consta dai registri della Dogana di questa capitale [Milano] che il numero annuo delle barche pervenute dal Lago Maggiore varia da 4 mila a 7 mila. Consta inoltre che codeste barche nell’intervallo tra Sesto Calende e Tornavento, ossia tra l’uscita del lago e l’ingresso del canale, non possono in molti mesi dell’anno scendere per le rapide del Ticino senza subire la necessità di alleggerirsi; e che a tal fine il carico si divide momentaneamente sopra due o tre barche, per riunirsi poi nuovamente in una sola barca all’ingresso del canale. Perloché il numero di 4 mila a 7 mila barche che figura alla dogana di Milano, rappresenta il movimento di 7 mila a 10 mila tra Sesto Calende e Tornavento. […]

Compiuta la discesa e deposto il carico, tutte le barche rimontano vuote il canale: 1) perché questo ha un corso assai rapido, dovendo esso portare una gran massa d’acqua ad uso della irrigazione; 2) perché non ha chiuse, essendo stato costruito tre secoli prima che nel Paese medesimo si facesse l’invenzione delle chiuse. Giunte le barche all’estremità superiore del Canale presso Tornavento, rimontano, parimenti vuote, il fiume Ticino fino al Lago Maggiore presso Sesto Calende.

Restava il grande problema della lentezza del trasporto merci non solo nelle fasi di risalita del fiume, ma anche in quelle della discesa perché, come ricordava Cattaneo, nel tratto di fiume tra Sesto Calende e Tornavento occorreva trasferire le merci su barche più piccole. Come rendere più veloci i commerci?

L’idea di Cattaneo si basava sull’utilizzo della ferrovia. Egli non pensava affatto a una linea ferroviaria da Milano a Sesto Calende. La sua proposta consisteva nell’utilizzare un tronco di strada ferrata che il governo austriaco aveva messo in vendita. Gli austriaci restavano i suoi nemici, ma quando si trattava di affari non si guardava in faccia nessuno. Il tratto di ferrovia messo in vendita dal governo interessava l’altopiano tra Sesto Calende e Tornavento. Le barche provenienti da Milano e dirette al Lago Maggiore, anziché risalire quel tratto impervio di fiume, sarebbero state sistemate su un “treno all’americana” e trasportate su un tratto di ferrovia a gestione privata fino a Sesto Calende. In tal modo non ci sarebbe stato alcun bisogno di caricare o scaricare le merci su imbarcazioni più piccole nel tratto delle rapide. Il risparmio di tempo era assicurato, soprattutto nella risalita. Scriveva a Cernuschi:

Da ciò nacque il pensiero di costruire sull’altipiano che domina le rapide del fiume un breve tronco di via ferrata all’Americana, ossia a semplice forza animale (Tram Road) con armamento leggero e con più commodo limite nelle pendenze. Su questa rotaia devono le barche vuote ritornare dalla estremità superiore del Canale Naviglio al Lago Maggiore, senza lottare coll’impeto del fiume…

Mentre la linea d’acqua colle sue tortuosità misura 26 chilometri, la linea ferrata sarebbe meno di 17. Il tempo della salita che ora varia da tre giorni a due settimane e anche più si ridurrebbe costantemente a 4 ore di marcia a piccolo passo.

A questo punto sorgono spontanee tre domande:

  1. Perché Cattaneo pensò a una ferrovia leggera trainata da sola forza animale e non a un treno merci mosso da una locomotiva?
  2. Per quale motivo Cattaneo non propose la costruzione di una linea ferroviaria diretta da Milano a Sesto Calende, magari limitata al trasporto merci?
  3. Perché Cattaneo volle rendere partecipe di questa idea l’amico Cernuschi?

Procediamo con ordine. In effetti Cattaneo aveva preso in considerazione la possibilità di fare uso di una locomotiva: non riteneva tuttavia che fosse conveniente per le spese elevate di costruzione e di allestimento di officine specializzate. In questo sbagliava giacché il trasporto merci su rotaia mediante l’uso di locomotive alimentate a carbone si sarebbe affermato in modo sempre più marcato nella seconda metà dell’Ottocento. Occorre però considerare che il suo progetto si rivolgeva al finanziamento dei privati, il che lo portava ad evitare spese eccessive e a ricercare soluzioni economiche, alla portata di singoli finanziatori che non fossero lo Stato. Il che ci consente di rispondere alla terza domanda: vale a dire per quale ragione avesse scritto al suo vecchio amico e patriota federalista.

Enrico Cernuschi
Enrico Cernuschi (1821-1896)

Cernuschi, emigrato in Francia dopo il fallimento dei moti del ’48 – ’49, stava percorrendo una luminosa carriera nel settore della finanza parigina. Nel giro di pochi anni era divenuto membro del consiglio di amministrazione del Credit Mobilier, una banca che era stata fondata nel 1852 dai fratelli Emile e Isaac Pereira. Cattaneo intendeva convincere l’amico a finanziare il suo progetto o a trovare persone disposte a farlo. Le sue attese andarono però deluse. Cernuschi chiarì che il Credit Mobilier era un istituto specializzato nella compravendita di titoli e azioni; non rientrava nei suoi compiti quello di farsi promotore di imprese industriali. E’ probabile tuttavia che Cernuschi, banchiere con un acuto senso degli affari, volesse evitare di esporsi in un’operazione i cui ritorni erano molto incerti. Occorre inoltre aggiungere che il Credit Mobilier non versava in buone acque: di lì a pochi anni, nel febbraio 1859, Cernuschi si sarebbe dimesso abbandonando la barca prima che affondasse. Il fallimento del Credit sarebbe arrivato nel 1867. Tutto questo spiega per quale motivo il piano di Cattaneo fosse destinato a restare sulla carta.

Eppure, in queste lettere, traspare la preferenza di Cattaneo per il trasporto via acqua, più conveniente perché consentiva di operare “senza dispendio di forza motrice”. I costi d’importazione del carbon fossile per l’utilizzo di una locomotiva rendevano nettamente migliori le vie d’acqua. In una lettera a Cernuschi del 17 maggio 1855 l’economista si esprimeva in questi termini:

I rapporti tra il Lago Maggiore e la pianura sono indistruttibili; la discesa di legname, carbone, torba, calce, marmo e granito non può non accrescersi al contatto di tante nuove linee navigabili e ferroviarie…La discesa per forza spontanea e gratuita d’acqua costerà eternamente meno di qualsiasi altro espediente, massime in paese privo di carbon fossile.

[I carteggi di Carlo Cattaneo…cit, pag.222. Le parole sono sottolineate da Cattaneo]

Qui Cattaneo riecheggiava il pensiero di Beccaria il quale, ottant’anni prima, nei suoi corsi di economia pubblica presso le Scuole Palatine di Milano, aveva toccato l’argomento in questi termini:

Rifletteremo…essere voce universale di tutti gli scrittori d’economia che i trasporti per acqua siano di gran lunga preferibili ai trasporti per terra. Calcolano essi il trasporto per acqua essere un quinto del trasporto per terra; vale a dire che una nazione che trasportasse quattro volte più lontano d’un’altra per acqua quelle stesse merci che la seconda deve portare una sol volta per terra, averebbe ciò nonnostante la preferenza.

[C. Beccaria, Elementi di economia pubblica in C. Beccaria, Scritti economici, vol.III della Edizione Nazionale delle Opere di Cesare Beccaria, Milano, Mediobanca 2014, pag.172].

Dalle tenebre alla luce: l’illuminazione pubblica

L’illuminazione pubblica è un servizio che rientra nella normalità di qualsiasi paese ad economia avanzata. Non è così nelle società povere. Non fu così in età medievale e per buona parte dell’età moderna quando il calar della notte spingeva i cittadini a rinchiudersi in casa per evitare di essere derubati o assaliti.

A Milano l’illuminazione notturna fu introdotta per la prima volta nel 1784, quando l’imperatore Giuseppe II decise di finanziare tale servizio con i fondi ricavati dai proventi del gioco del lotto e dalla tassazione sugli edifici.

Lampadee
Addetto all’accensione delle lanterne pubbliche. Incisione del primo Ottocento.

La visibilità risultava tuttavia scarsa perché la luce che proveniva dai lampioni era troppo debole, limitata a pochi metri di distanza. La situazione non mutò nel periodo napoleonico. Milano, pur essendo elevata al rango di capitale dello Stato italico, continuò a subire disagi. Il servizio d’illuminazione notturna, gestito direttamente dal Comune, mostrava gravi carenze. In una lettera al prefetto dell’Olona del 15 dicembre 1812, il ministro dell’interno rimarcava il pessimo servizio gestito dagli impiegati del Comune:

Intorno alla pubblica illuminazione notturna di questa capitale due principali inconvenienti si rimarcano…cioè la poca esattezza nella sua esecuzione, e quindi la negligenza di quelli, che sono incaricati d’accendere i fanali; secondo il cattivo sistema di non accendere le lampade nelle notti e nelle ore in cui dovrebbe risplendere la luna, il di cui raggio ci è impedito quando l’aria è nuvolosa, versando così sovente in tenebre le contrade della città.

(Il ministro dell’interno Luigi Vaccari al prefetto dell’Olona Gaudenzio Maria Caccia di Romentino, 15 dicembre 1812 pubblicata in E. Pagano, Il Comune di Milano in età napoleonica, Milano, Vita e Pensiero, 2002, pag.190).

Occorreva una luce più forte che, oltre ad assicurare un migliore decoro pubblico, fosse in grado di garantire la mobilità dei cittadini anche di notte. Negli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento, furono compiuti alcuni tentativi in questa direzione.

Carlo Cattaneo
Carlo Cattaneo (1801-1869)

Giovanni Battista Brambilla (nato nel 1803), titolare di una banca col fratello Pietro denominata “Brambilla & Compagno”, socio di un’azienda milanese specializzata in seta e spedizioni, in una lettera  del 23 marzo 1837 alla delegazione provinciale sosteneva di voler fornire un’illuminazione a gas derivante da combustibili fossili. Carlo Cattaneo fu incaricato da Brambilla di scrivere alcune lettere su questo tema. Il tratto innovativo del progetto consisteva nell’abbandono degli oli combustibili (olio di oliva e olio di noce) e nell’utilizzo dei combustibili fossili da cui trarre il gas con cui alimentare le lampade. Scriveva Cattaneo alla delegazione provinciale:

La Ditta…di questa Regia Città a termini della Sovrana Patente 31 marzo 1832 notifica colla presente un suo progetto di miglioramento che consiste nell’applicare alla illuminazione generale pubblica e privata di questa Regia Città il gas estratto dai combustibili fossili della Monarchia (mediante la costruzione di vasti serbatoi collocati all’aperto e forniti di gazometro e degli opportuni meccanismi di sicurezza praticati in Inghilterra e nel Belgio) il che deve alleviare la spesa giornaliera dei pubblici stabilimenti e delle famiglie e produrre un vantaggio allo Stato in preferenza all’uso delle materie oliacee…

(I Carteggi di Carlo Cattaneo, a cura di Maria Chiara Fugazza e Margherita Cancarini Petroboni, Serie I, volume I, Firenze-Bellinzona, Le Monnier – Casagrande, 2001, pp.80-81).

Il progetto di Brambilla parve avere esito positivo: il 19 maggio l’imperatore Ferdinando gli concesse il privilegio di gestire il servizio in via esclusiva per un tempo di 15 anni. Seguì la fondazione di una società che avrebbe operato a Milano e a Trieste. Nell’atto di costituzione, risalente al 10 gennaio 1838, figurano un negoziante di Lione, Jacques Joseph Rast, tre architetti civili sempre di Lione (i fratelli Jules e Prospère Renaux e Jean Bonnin), i fratelli Giuseppe, Pietro e Giovanni Battista Brambilla.  Il ruolo di Cattaneo può sembrare marginale in questa vicenda. In realtà, pochi giorni dopo, egli stesso si aggiunse come socio alla società fondata dal Brambilla, mostrando di credere nel progetto.

Il banchiere si mise all’opera per assicurare ai milanesi un’adeguata illuminazione pubblica. Il privilegio del governo non era però sufficiente. Occorreva l’autorizzazione del Comune, rappresentato in questa vicenda dalla Congregazione municipale. In una lettera scritta da Cattaneo il 20 gennaio 1838 per convincere le autorità locali, si assicurava: “la luce che tramanderà continuamente la fiamma del Gas illuminante sarà almeno una mezza volta più vivace e potente del miglior fanale possibile ad olio; di maniera che si potrà facilmente leggere alla distanza di venti metri” (I Carteggi di Carlo Cattaneo…cit., pag.109).

Rassicurazioni che non bastarono a convincere la Congregazione municipale, alla quale pervenne in quel medesimo periodo una proposta alternativa da parte dell’ingegnere francese Jules Achille Guillard. Questi promise di garantire l’illuminazione pubblica a gas mediante un metodo di gran lunga più efficiente, già sperimentato con successo a Grenoble e in un quartiere di Lione.  Si trattava del metodo Selligue. Consisteva nell’utilizzo dei cosiddetti “schisti bituminosi”, un tipo di roccia facilmente sfaldabile che a contatto con l’acqua provocava una reazione chimica da cui era possibile ottenere gas idrogeno.

La Congregazione municipale formò una commissione per capire quale dei due metodi fosse da preferire e di conseguenza a quale società fosse opportuno dare l’appalto: se a quella del Brambilla o a quella del Guillard. Furono condotti in città due esperimenti d’illuminazione compiuti l’uno con il metodo Selligue, l’altro con il metodo di estrazione del gas dal carbone fossile. Il primo ebbe luogo nei pressi del Teatro dei Filodrammatici, l’altro al Dazio di Porta Orientale, non molto distante dai giardini pubblici di Porta Venezia. Un curioso articolo apparso sulla Biblioteca Italiana, nel numero di luglio-settembre 1838, così descriveva gli esperimenti:

Due società egualmente rispettabili si sono presentate a contendersi l’onore ed il guadagno di quest’impresa. Assistite e l’una e l’altra da valenti artefici hanno entrambe dato un saggio del loro diverso sistema d’illuminazione, l’una al teatro de’ Filo-drammatici, l’altra alla birreria vicina al dazio di porta Orientale. Distinguendo le società dal sito ove ebbero luogo gli esperimenti, diremo che per quanto comunemente si disse, e per quanto si è potuto arguire dagli effetti dell’esterna illuminazione, sembra che la Società del teatro abbia seguito il nuovo processo di Selligue estraendo il gas dalla decomposizione dell’acqua, combinata coll’idrogeno prodotto da materie oleose, e si sa che la Società della Birreria ha adoperato in parte il carbon fossile delle miniere di Saint-Etienne, ed in parte la lignite indigena del Vicentino, servendosi egualmente per combustibile di lignite nostra….l’una e l’altra società hanno dimostrato come l’arte d’illuminare a gas è in oggi portata ad un grado tale di perfezione da potere senza esitanza applicarla ai bisogni nostri.

La commissione optò alla fine per il metodo Selligue. Il contratto con la società Guillard venne firmato nel giugno 1843. Costruita la fabbrica fuori Porta Lodovica nei corpi Santi di Porta Romana (ove oggi si trova la Centrale del Latte), Guillard curò la graduale posa dei tubi al di sotto delle vie. Il 31 luglio 1845 i milanesi del centro poterono assistere alla nuova illuminazione. Dicevano finalmente addio alla “incomoda e pericolosa oscurità” in cui erano rimasti avviluppati per secoli.

La lezione di Cattaneo sull’insegnamento produttivo

In una lettera del 21 ottobre 1846 all’imperial regia delegazione provinciale di Milano – l’istituto periferico del governo asburgico in Lombardia – Carlo Cattaneo informava le autorità sulla feconda attività didattica della Società per l’Incoraggiamento delle Arti e dei Mestieri, di cui in quegli anni ricopriva la carica di segretario. In realtà, nello scrivere questa lettera, l’economista lombardo si rivolgeva al governo per chiedere l’autorizzazione ad assegnare la cattedra di Geometria e Meccanica al giovane Paolo Jacini (1823-1852). Questi era stato chiamato a sostituire l’ingegnere Giulio Sarti (1792-1866), che aveva lasciato l’insegnamento per assumere un importante incarico all’estero. Jacini, fratello del più celebre Stefano, patriota e moderato lombardo, si era conquistato la stima di Cattaneo che ne lodava le doti in questi termini:

 

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Carlo Cattaneo (1801-1869)

Non appena aveva intrapreso il Sig. Ing. Giulio Sarti di dare presso questa Società una gratuita istruzione di Geometria e Mecanica alli operai, questo utile proposito venne interrotto da improviso invito ch’egli ebbe di progettare e costruire un canal navigabile da Santarèm a Lisbona.

Dolente come ne fu questa Società, venne tosto confortata dall’offerta che fece il giovine Sig. Ing. Paolo Jacini di supplire con gratuita opera all’assente. Continuò egli con molta approvazione delli intelligenti il corso di Geometria e nell’entrante anno si accinge a quello di Mecànica.

Gravoso è questo assunto per la necessità di districare da una congerie di dottrine le cognizioni più semplici e adattarle alla condizione degli uditori.

[Da Margherita Cancarini Petroboni e Mariachiara Fugazza (a cura di), Carteggi di Carlo Cattaneo, Le Monnier – Casagrande, Firenze – Bellinzona 2001, serie I, vol.I., pp.638-639]

Qui possiamo svolgere due osservazioni. Anzitutto Cattaneo rendeva noto che l’ingegnere Sarti aveva lasciato l’insegnamento perché invitato dal governo portoghese a lavorare alla costruzione di un canale navigabile. Sarti, ingegnere civile e ferroviario, aveva progettato e diretto la strada ferrata Milano-Monza. Nel congresso degli scienziati tenuto a Milano nel 1844 si era fatto notare per aver proposto di regolamentare il lavoro dei fanciulli, mostrando di avere a cuore il triste fenomeno dello sfruttamento della manodopera minorile. Nel 1845 accettò l’insegnamento nella Società d’incoraggiamento di arti e mestieri: dapprima tenne “letture di geometria”, poi fu titolare del corso gratuito di “geometria e meccanica” menzionato da Cattaneo nella lettera citata sopra.

inaugurazione del naviglio pavese

Il lavoro che il Sarti ricevette dal governo portoghese – la costruzione di un canale navigabile – è oltremodo significativo. Oggi Santarèm è una cittadina abitata da più di 63.000 abitanti che dista 80-90 chilometri dalla capitale portoghese. Il territorio tra le due città è attraversato dal fiume Tago, che a quell’epoca non era interamente navigabile. Quando il governo portoghese decise di costruire un canale artificiale, non si rivolse a un ingegnere olandese o tedesco. Chiamò un milanese. Questo significa che la Milano dei navigli era a quel tempo una città in grado di formare ingegneri qualificati la cui competenza in materia di regime idrico e gestione dei trasporti su acqua aveva assunto una fama europea. La Milano di oggi, ove i navigli non rivestono alcuna funzione di utilità sociale, si trova purtroppo agli antipodi rispetto alla città di Manzoni.

La seconda osservazione riguarda il metodo d’insegnamento quale era concepito da Cattaneo. Secondo l’economista lombardo l’attività didattica, per essere efficace, deve saper ridurre a concetti semplici e chiari la complessa materia delle dottrine da trasmettere al pubblico: “districare da una congerie di dottrine le cognizioni più semplici e adattarle alla condizione degli uditori”. Un impegno certamente “gravoso” ma imprescindibile per qualsiasi docente, pena l’inutilità dell’insegnamento.

Ma vediamo di capirci qualcosa di più su questo tema. Quale senso aveva l’insegnamento nella Società di cui Cattaneo fu segretario a partire dal gennaio 1845?

In un articolo pubblicato a gennaio mi sono soffermato su due associazioni d’élite nella Milano della Restaurazione: il Casino dei Nobili e la Società del Giardino. Il tratto caratteristico di questi sodalizi risiedeva nella ristretta cerchia degli associati, nella finalità puramente ricreativa delle adunanze dalla cui frequentazione i soci potevano ricavare benefici per i loro affari privati.

Enrico Mylius
Enrico Mylius (1769-1854)

La Società d’incoraggiamento di arti e mestieri si costituì con caratteristiche nettamente diverse. Fondata nel 1838 grazie all’imprenditore, uomo d’affari e infaticabile mecenate Enrico Mylius – nato a Francoforte sul Meno da una famiglia di origini viennesi – la Società fu costituita con il supporto di un nutrito gruppo di banchieri e negozianti milanesi decisi a migliorare l’economia lombarda mediante il sostegno alle attività utili e produttive. Mylius, che assunse la presidenza della Società, seguì l’esempio di analoghe istituzioni attive a Parigi, a Berlino e nell’impero asburgico (ad esempio nell’Austria inferiore o in Boemia).

Diversamente dalle associazioni d’élite, questo sodalizio – la cui sede fu per circa un cinquatennio in piazza Mercanti – nasceva quindi con un programma vasto, teso alla promozione di attività industriali mediante il connubio tra scienza e lavoro. La finalità era quindi generale, travalicava l’interesse particolare dei soci per puntare al miglioramento economico della società in una tensione continua verso il progresso. Lo Statuto prevedeva sovvenzioni a titolo gratuito ad artigiani e commercianti, stabiliva il conferimento di doni onorifici tesi ad incoraggiare l’attività manifatturiera. Con il passare degli anni gli obiettivi divennero più ambiziosi. In un quadro internazionale dominato da un’accesa concorrenza economica tra gli Stati europei, la Società volle trasmettere ai lavoratori le cognizioni e i saperi utili a svolgere l’attività manifatturiera ai livelli più avanzati sotto il profilo tecnologico. Diffondere il sapere tecnico in imprese produttive, finanziare studi economici tesi ad innalzare le conoscenze delle classi industriali: queste le finalità del sodalizio, rese possibili grazie al contributo della Camera di Commercio ma anche al sostegno dei numerosi soci. Diversamente dalle associazioni d’élite, ove le quote d’iscrizione erano piuttosto elevate, nella Società di incoraggiamento d’arti e mestieri l’ingresso era condizionato al pagamento di almeno 30 lire annue.

Per tornare alla lettera di Cattaneo, nel lodare l’attività didattica del giovane Jacini, egli tornava in chiusura sul già citato principio dell’utilità pratica cui doveva rispondere l’insegnamento. I giovani docenti della Società meritavano stima universale perché sottraevano il tempo all’ozio per trasmettere ai lavoratori le conoscenze più efficaci nel lavoro industriale:

La Società vede con sommo compiacimento questa bella gara di giovani facoltosi nel sottrarre i loro più belli anni alla dissipazione per consacrarli a sollievo della classe industriosa, facendole dono di quelle cognizioni che rendono più fruttuosa la fatica e meno pericolosa la concorrenza straniera. La Società vede con ciò raggiunta la sua destinazione…

Negli anni della segreteria di Cattaneo furono attivati ad esempio corsi di setificio a cura dell’industriale torinese Angelo Piazza e di fisica industriale tenuti da Luigi Magrini. Tali corsi si aggiunsero alle lezioni di chimica industriale tenute da Giovanni Antonio de Kramer. In campo agricolo si propose l’acquisizione di un appezzamento di terra che servisse da modello per introdurre nuove pratiche nella lavorazione del grana padano mediante l’impiego di manodopera specializzata, formata e diretta da professori impiegati in loco. Tale progetto rimase però sulla carta a causa dello scoppio della rivoluzione del ‘48.

La Società d’incoraggiamento di arti e mestieri è tuttora esistente. Dal 1889 ha sede in via Santa Marta al civico 18. Se vuoi saperne di più, val al sito SIAM 1838.

I Corpi Santi: porto franco di Milano

I Corpi Santi di Milano sono un antico comune, oggi scomparso, poco conosciuto ai milanesi. Annessi a Milano nel 1873, presentavano una conformazione a dir poco originale. Il territorio confinante con la città circondava i bastioni spagnoli come un grande anello. Verso la campagna i Corpi Santi si estendevano in alcuni punti per svariati chilometri, in altri si riducevano a una ristretta fascia di territorio.

Ma cosa vuol dire il termine “Corpi Santi” e quando furono costituiti in Comune? L’origine è incerta. Alcuni ritengono che il termine rinviasse all’uso di seppellire i primi martiri cristiani fuori dalle mura cittadine, altri si richiamano ad antiche processioni religiose che si svolgevano intorno alla città.

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Milano con il territorio dei Corpi Santi annessi nel 1873

Nei secoli del Medioevo e dell’Età Moderna il territorio era soggetto a Milano. Difatti i Corpi Santi traevano la denominazione dalla Porta su cui gravitavano. I Corpi Santi di Porta Orientale, partendo dalla zona Buenos Aires, si spingevano verso la campagna fino a comprendere la cascina Monlué (oggi a pochi metri dalla tangenziale est) e la cascina delle Rottole (primo tratto di via Palmanova all’incrocio con via Tolmezzo). Nei Corpi Santi di Porta Romana, che comprendevano Porta Vigentina, era incluso quello che oggi è Corso Lodi fin quasi a Corvetto; fuori Porta Vigentina la loro estensione si riduceva a meno di due chilometri dalle mura di Milano, confinando con il Vigentino pressappoco all’incrocio di via Ripamonti con la Vettabbia, tra via Serio e via Rutilia. I Corpi Santi di Porta Ticinese (con Porta Lodovica) si estendevano nel contado per più di sette chilometri: oltre alla Darsena di Porta Ticinese – punto di arrivo delle barche provenienti da Pavia, dal Lago Maggiore, dal naviglio interno di Milano – comprendevano Ronchetto delle Rane (zona via dei Missaglia) e, lungo il naviglio grande, San Cristoforo, arrivando quasi alle porte di Corsico. I Corpi Santi di Porta Vercellina si espandevano a macchia d’olio lungo Corso Vercelli, la zona Fiera, San Siro. I Corpi Santi di Porta Comasina gravitavano sui quartieri di via Bramante e Paolo Sarpi: includevano il territorio dove oggi si trova il Cimitero Monumentale, il Borgo degli Ortolani (oggi via Luigi Canonica) e, verso Nord, i quartieri Ghisolfa, Bovisa e Fontana fino a confinare con il comune di Niguarda. I Corpi Santi di Porta Nuova erano limitati sostanzialmente alla zona tra piazza della Repubblica e la Stazione Centrale.

L’unione dei sei Corpi Santi in un solo comune venne realizzata dall’imperatore Giuseppe II di Asburgo-Lorena con dispaccio del 21 maggio 1781.

Il territorio era costituito in gran parte da campi e ortaglie. Alla fine del Settecento i maggiori proprietari erano gli enti religiosi milanesi e i nobili che abitavano in città: l’abbazia di San Vittore al Corpo nel sestiere di Porta Vercellina, il Venerando Luogo Pio di Santa Corona in piazza San Sepolcro vicino alla Biblioteca Ambrosiana; il marchese Pompeo Litta Visconti Arese, il cui fastoso palazzo in corso Magenta – una parte dell’edificio è oggi sede del Teatro Litta – era il simbolo della sua immensa ricchezza; il marchese Egidio Orsini di Roma, anche lui abitante in una stupenda dimora in via Borgonuovo, oggi sede di rappresentanza della ditta Armani (via Borgonuovo 11).

Carlo Cattaneo
Carlo Cattaneo

Nel corso dell’Ottocento la popolazione del suburbio si accrebbe a un ritmo nettamente superiore rispetto alla città: dai 16.000 abitanti stimati nei primi anni Ottanta del XVIII secolo, si passò nel corso dell’Ottocento ai 28.635 abitanti (dati  del 1834) per oltrepassare ampiamente i 45.000 cittadini negli anni a cavallo dell’Unità italiana (1859-61). All’aumento della popolazione seguì un incremento delle attività industriali. Difatti i Corpi Santi erano divenuti – come scriveva Carlo Cattaneo – il “porto franco” della città: luogo privilegiato per il commercio e per l’industria ove l’attività imprenditoriale era favorita dall’assenza dei dazi su alcune merci importanti. Presso i caselli di ciascuna delle sei porte cittadine si trovavano le pese pubbliche ove i funzionari dello Stato stabilivano il dazio da applicare sui prodotti che entravano in città. Per questo motivo, il costo della vita in quello che è oggi il centro di Milano (zona 1) era più alto rispetto al suburbio. Una difformità che Cattaneo così descriveva in una bella lettera alla rivista “Il Diritto” risalente al 4 settembre 1863:

Valse alla popolazione suburbana il solo e semplice fatto d’essere rimasta fuori dalla cerchia daziaria; cioè d’aver avuto in sorte, oltre al contatto d’una capitale, un grado di agevolezza nei viveri e di libero traffico che Milano non aveva. Il suburbio era il porto franco della città. Era congiunto alla libera campagna come un porto franco è congiunto al libero mare.

Nel territorio dei Corpi Santi si erano stabilite molte industrie, che avevano approfittato di una politica fiscale favorevole fin dal 1817. Quando Cattaneo scriveva al “Diritto”, le imprese erano numerose: ricordiamo ad esempio le Officine Meccaniche di Girolamo Miani (specializzate nella produzione di carrozze, vagoni e locomotive) che occupavano l’area situata ad ovest dell’Esselunga di via Ripamonti, tra via Pompeo Leoni e via Carlo Bezzi; lungo il naviglio grande, vicino a San Cristoforo, c’era la Società per la fabbricazione delle porcellane lombarde fondata nel 1833 dal nobile Luigi Tinelli, acquistata nove anni più tardi dal piemontese (di origine svizzera) Giulio Richard; le cartiere di Ambrogio Binda si trovavano lungo il naviglio pavese, nei pressi della Conca Fallata.

La fabbrica di ceramiche Richard Ginori a San Cristoforo, lungo il naviglio grande
La fabbrica di ceramiche Richard Ginori a San Cristoforo, lungo il naviglio grande

Perché si verificava questa diversità di condizioni tra la città e i Corpi Santi? Vediamo di vederci chiaro. Negli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia la legge prevedeva due generi di dazi: quelli governativi e quelli applicati dagli enti comunali come sovraimposte. V’era però una differenza tra i comuni murati e i comuni aperti. A Milano, città murata, i dazi erano applicati alle merci che entravano e uscivano dalle sei porte cittadine: colpivano gli alimenti (pane, olio…), combustibili (cera, gas per l’illuminazione…), foraggi, materiali da costruzione (legnami, gesso, pietre, mattoni, marmi) e altri articoli (vernici, sughero, cristalli). Al dazio governativo, il cui gettito andava allo Stato, il Comune di Milano applicava sovraimposte che variavano dal 43% su vino al 30% sui buoi e sulla carne macellata. Perché la fiscalità vigente nei Corpi Santi era migliore? Per due motivi. Diversamente dalle città murate, i Corpi Santi erano anzitutto un comune aperto: qui le tasse erano riscosse solo alla vendita al minuto, colpivano gli articoli venduti. Questo spiega per quale motivo il Comune fosse divenuto in breve tempo un grande deposito di merci. A Milano si tassava invece ogni tipo di prodotti in entrata, anche quelli che non sarebbero stati venduti. In secondo luogo, le sovraimposte dei Corpi Santi erano largamente inferiori rispetto a quelle di Milano e in alcuni settori, come ad esempio i combustibili o i materiali da costruzione, la tassazione non esisteva. Si trattava di condizioni, come si può facilmente intuire, nettamente favorevoli alla cultura d’impresa.

Pianta di Milano del 1884.
Pianta di Milano del 1884.

Dopo l’Unità il Comune di Milano volle inglobare i Corpi Santi. I milanesi sostenevano che i corposantini godevano di un vantaggio ingiusto perché usufruivano di beni e servizi cittadini pagati con la loro fiscalità. D’altra parte molti edifici che servivano alla città, ma anche la sede di molte aziende cittadine, si trovava nei Corpi Santi, pochi metri fuori dalle mura: la vecchia Stazione Centrale in piazza della Repubblica, la Stazione della Società Anonima degli Omnibus fuori Porta Orientale, in uno stabilimento tra le vie Spallanzani, Sirtori e Melzo; il Cimitero Monumentale fuori Porta Garibaldi; il gasometro, che regolava la fornitura di gas ai milanesi, fuori porta Ludovica. L’assorbimento del Comune anulare era sentito come un atto doveroso per una città in rapida espansione.

Gli industriali erano però preoccupati di perdere i vantaggi del “porto franco”. L’annessione a Milano fu però inevitabile: venne realizzata con regio decreto l’8 giugno 1873.

Intelligenza creativa e libera volontà: così l’Italia torna a volare

In questi anni, in seguito alle difficoltà legate alla crisi economica, il tema del lavoro è divenuto centrale nelle politiche europee. Il rilancio dell’occupazione è fondamentale ma siamo sicuri che la ricchezza di un paese dipenda unicamente dal lavoro? L’economista meridionale Antonio Genovesi, nelle Lezioni di economia civile, riteneva che la ricchezza di un paese fosse sempre da porre in relazione alla somma delle “fatiche”. Secondo Genovesi il lavoro che un governo avrebbe fatto bene ad incoraggiare doveva essere quello che dava una rendita in base alle richieste del mercato. Scriveva l’economista napoletano:

Antonio Genovesi (1713-1769)
Antonio Genovesi (1713-1769)

La ragione di tal principio è di per se chiara: imperciocché è manifesto, che le ricchezze di una Nazione sieno sempre in ragion della somma delle fatiche. Di qui segue, che quanto è minore il numero degli uomini che non rendono, tanto essendo maggiore quello di coloro che rendono, maggiore ancora debba essere la somma delle fatiche e conseguentemente maggiori le rendite della Nazione. E per contrario, quanto è maggiore il numero di quei che non rendono, tanto è minore la somma delle fatiche; e perciò delle rendite così private come pubbliche” (A. Genovesi, Lezioni di commercio, Venezia 1769, pp.165-166).

Per Genovesi occorreva ridurre tutte le classi che non rendevano a partire dai dotti i quali, a suo giudizio, non producevano con il loro lavoro una rendita immediata. Si trattava di una posizione per nulla isolata se pensiamo che Adam Smith, pochi anni dopo, avrebbe affermato addirittura che le classi dotte “non producono valore veruno”.

Genovesi aveva visto giusto quando affermava che il lavoro fosse importante nel favorire la ricchezza delle nazioni. Eppure, a ben vedere, non è una condizione sufficiente. Altrimenti non si spiega la differenza tra i paesi economicamente avanzati che continuano a produrre ricchezza nonostante alti tassi di disoccupazione e, viceversa, paesi in via di sviluppo ove il lavoro non aiuta i cittadini ad uscire dalla povertà. Teniamo presente che in questi paesi gli stipendi sono inferiori ai due dollari giornalieri. Il lavoro in sé quindi non basta a rendere ricca una Nazione.

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Carlo Cattaneo (1801-1869)

Il grande intellettuale e storico milanese Carlo Cattaneo fu uno dei primi a capire il nesso che lega la qualità del lavoro alla ricchezza di un paese. A rendere ricca una nazione non basta la somma delle fatiche. Occorrono per Cattaneo due altre condizioni: la prima riguarda la presenza nel tessuto sociale del maggior numero di persone capaci di avere “un’intelligenza creativa”, quell’intelligenza che rende possibili le scoperte scientifiche e le invenzioni tecnologiche. La seconda condizione è la libertà d’impresa: questa consente di passare dalla teoria alla pratica, di realizzare i prodotti più avanzati. In altre parole, di dare libero sfogo alla volontà individuale.

Veniamo alla prima condizione: l’intelligenza creativa. Le scuole e l’università contribuiscono certamente a stimolarla. Oggi però non bastano. Esse devono cambiare e devono farlo in profondità. Non possono basarsi su un sapere prettamente nozionistico. In fondo, i maggiori inventori non furono uomini colti e neppure eruditi. Cattaneo ci dice che da quando l’uomo comparve sulla terra – ben prima quindi che esistessero le scuole e le università – il progresso è dipeso dalle menti acute, rapide nel conoscere, nello sfruttare i risultati di una scoperta per inventare una tecnica o un oggetto che fosse in grado di rispondere meglio e prima di altri ai bisogni della comunità.

In un saggio memorabile pubblicato sulla rivista “Il Politecnico” nel 1861 intitolato Del pensiero come principio di economia pubblica, Cattaneo scriveva:

non fu il più dotto pensatore del suo secolo che raccolse nei selvaggi prati dell’Asia il primo grano di frumento e lo ripose entro terra col proposito di vederlo ripullulare; né quello che saltò per primo sul dorso di un cavallo; o si trovò d’aver indurato col foco la sottoposta argilla…tutte le invenzioni furono atti d’intelligenza scaturiti in menti sagacissime dall’immediata osservazione dei singoli fatti e non da deduzione scientifica”.

Va bene Gabriele. Bello questo discorso sulle invenzioni. Ma alla fine come può l’Italia tornare a crescere?

Riprendendo il pensiero di Cattaneo, la soluzione risiede a mio parere nel connubio tra libertà e istituzioni. Alle istituzioni – pubbliche e private – spetta il compito di istituire scuole che sappiano formare i ragazzi stimolando le menti alla conoscenza produttiva, a una conoscenza che non sia mera erudizione. Cattaneo ci dice che la trasmissione dei saperi in campo umanistico e scientifico deve essere costantemente piegata ai bisogni di una società in perenne trasformazione. Tradotto nel mondo di oggi. Le nostre scuole, per essere produttive, dovrebbero essere finanziate da imprese che riscuotono un successo mondiale nella produzione e nella vendita dei prodotti Made in Italy. In questo modo i giovani imparano a lavorare, ad innovare nei campi in cui le imprese italiane hanno raggiunto livelli di eccellenza senza perdere tempo.

In fondo, si tratterebbe di recuperare il modello d’insegnamento tipico della Società d’incoraggiamento di arti e mestieri – l’istituto lombardo di cui Cattaneo fu segretario generale per alcuni anni – ove i giovani non solo assistevano alle lezioni dei professori, ma imparavano un mestiere secondo le tecniche più avanzate per la società di allora. Solo in questo modo i giovani, formati in una scuola che sappia fondere in modo armonico il sapere umanistico con quello scientifico, possono liberare la loro creatività contribuendo a rafforzare il successo del Made in Italy nel mondo.

Le maggiori scoperte scientifiche – ci ricorda Cattaneo – sono avvenute non già perché una persona fosse più colta di un’altra. La persona di successo è quella che ha saputo mettere a frutto il suo patrimonio di conoscenze selezionando i dati culturali che gli servivano per realizzare il progetto vincente.

Steve Jobs non era una cima nel campo degli studi. Difatti non terminò l’università. Perché ha fatto fortuna? Perché è diventato ricco? Il merito di Jobs fu di aver realizzato un personal computer dotato di una grafica che per la prima volta era assai più bella e sviluppata rispetto agli altri pc. I caratteri del Mac erano avanti anni luce rispetto agli altri calcolatori. Questo – ci direbbe Cattaneo – fu l’atto dell’intelligenza di Jobs. Come fu reso possibile questo atto d’intelligenza? La ragione sta tutta nella cultura cognitiva di Jobs. Fu la frequentazione di un corso di calligrafia a suscitargli l’amore per i caratteri ben disegnati. Nel celebre discorso tenuto ai neolaureati dell’Università di Stanford nel 2005, l’inventore del Mac disse:

Steve Jobs (1955-2011)
Steve Jobs (1955-2011)

Il Reed College a quel tempo offriva probabilmente i migliori corsi di calligrafia del paese…ho imparato dei caratteri serif e sans serif, a come variare la spaziatura tra differenti combinazioni di lettere, e che cosa rende la migliore tipografia così grande. Era bellissimo, antico e così artisticamente delicato che la scienza non avrebbe potuto ‘catturarlo’, e trovavo ciò affascinante. Nulla di tutto questo sembrava avere speranza di applicazione pratica nella mia vita, ma dieci anni dopo, quando stavamo progettando il primo computer Machintosh, mi tornò utile. Progettammo così il Mac: era il primo computer dalla bella tipografia. Se non avessi abbandonato gli studi, il Mac non avrebbe avuto multipli caratteri e font spazialmente proporzionate”.

Jobs non ci dice nulla sugli insegnanti che ebbe a quel corso di calligrafia ma è evidente che se un pessimo docente avesse tenuto le lezioni, la passione di Jobs per la bellezza dei caratteri non sarebbe germinata così facilmente.

Ma veniamo al secondo termine del connubio: libertà. Cattaneo ci ricorda che le società più ricche sono quelle in cui i poteri pubblici riconoscono ed incoraggiano la libera iniziativa dei cittadini abbassando la tassazione sul lavoro. Le imposte troppo alte infatti, “accrescendo li attriti che stancano l’industria, rallentano la pubblica prosperità in quanto essa scaturisce dalla volontà”.

Se pensiamo alle imprese italiane che resistono alla crisi e continuano ad eccellere nel design, nella moda, nell’alimentazione, la lezione da trarre potrebbe essere questa: solo libertà d’impresa e una scuola piegata all’innovazione ci consentiranno di riprendere a volare e a volare alto. Questi i due compiti che spettano al governo: liberare le imprese dai lacci della burocrazia e dal peso della tassazione; investire nella ricerca e nella formazione scientifica riformando in profondità le istituzioni scolastiche e universitarie.