Alle origini del trasporto pubblico milanese

Oggi ricorre un anniversario importante. L’8 luglio 1876 veniva costituita la prima linea extraurbana di tram a cavalli che collegava Milano con Monza: la società che gestiva il servizio, la SAO (Società Anonima degli Ombibus), operava da alcuni anni nel trasporto cittadino. In quell’estate di 139 anni fa, la società puntava verso traguardi più ambiziosi, attivando linee di collegamento tra Milano e i Comuni circostanti.

Da chi era diretta la SAO e quale fu l’origine del trasporto pubblico milanese? Oggi i trasporti cittadini sono gestiti da Atm, l’azienda municipalizzata del Comune di Milano di cui si servono ogni giorno milioni di cittadini dell’area metropolitana. A quei tempi le cose stavano diversamente.

Omnibus1In una città il cui territorio era limitato alla cerchia dei bastioni, il Comune decise inizialmente di autorizzare servizi di Omnibus, anziché di Tramways. Difatti gli Omnibus, formati da cavalli che trainavano vagoni su ruota, consentivano una maggiore facilità di spostamento all’interno della città ambrosiana, il cui impianto urbanistico medievale era caratterizzato, entro la cerchia del naviglio interno, da una fitta rete di vie strette e tortuose. La SAO, fondata dal cavaliere Emilio Osculati, gestiva dal 1861 il trasporto pubblico cittadino.

Tra i capolinea più frequentati occorre ricordare la piazza antistante alla stazione di Porta Nuova, aperta nel 1864 ove oggi si trova piazza della Repubblica. In piazza Duomo, al civico 23, venne costituita una sala d’aspetto per passeggeri. Le prime vetture erano assai contenute nelle dimensioni: basti pensare che i posti a sedere erano appena otto. Il costo di un biglietto era di 10 centesimi. Le linee urbane non superavano le undici unitò, mentre le vetture in funzione erano appena 35.

Con il passare degli anni furono fabbricati vagoni più spaziosi, il cui numero aumentò considerevolmente. L’annessione a Milano del Comune dei Corpi Santi, avvenuta nel 1873, rendeva necessaria l’attivazione di nuove linee verso i quartieri periferici. Furono così messe a disposizione della società vagoni da 14-16 posti, mentre quelli più piccoli erano riservati ai percorsi in centro.

Omnibus2Ma torniamo a quell’8 luglio 1876, quando il cavaliere Osculati inaugurò la prima linea extraurbana. Il traguardo, come si è detto, era ambizioso: assicurare il collegamento dell’ippovia tra Milano e Monza. La novità risiedeva nel trasporto su rotaia che la SAO intendeva sperimentare nei tragitti fuori Milano, ove le distese dei campi consentivano la posa delle rotaie senza grossi ostacoli. Non era certo la prima volta che si costruiva una linea per quella tratta; com’è noto, il tratto di ferrovia tra Milano e Monza era stato inaugurato nel 1840 sotto il dominio austriaco. Occorre però tener presente che questa ferrovia non era alla portata di tutti. Si capisce quindi come la nuova linea di Omnibus Milano/Monza avesse finito per attirare un notevole interesse nell’opinione pubblica milanese, rendendo possibile lo spostamento dei cittadini tra le due città a costi più contenuti rispetto al treno.

Alla festa d’inaugurazione era presente, oltre al prefetto e al sindaco, il principe Umberto di Savoia. In quell’occasione la SAO tirò fuori i suoi assi migliori: otto vetture di nuova fabbricazione a due piani che, trainate da cavalli, avrebbero percorso il tragitto in poco più di due ore. Le cose però andarono diversamente. Il giornale “La Lombardia”, quantunque avesse cura di descrivere l’evento in toni trionfalistici, informava i lettori di alcuni incidenti dovuti al deragliamento dei vagoni:

Sabato mattina, alle ore 9 partivano per Monza dalla sede della Società Anonima degli Omnibus, a Porta Venezia, otto eleganti carrozze ornate di bandiere, capaci ciascuna di quaranta o quarantacinque persone e pesanti in tutto, veicolo e viaggiatori, cinque tonnellate. Il primo, dove avevano preso posto il Principe Umberto, il Prefetto, il Sindaco e parecchi Assessori e che con gentile pensiero era guidato dall’egregio Direttore della Società, il cavaliere Emilio Osculati, corse in modo assai soddisfacente i tredici chilometri che passano dal punto di partenza alla stazione dei tramway a Monza, non essendovi stato che un leggero sviamento, tosto riparato, in vicinanza di quella città. A pochi minuti di distanza l’uno dall’altro, vi tenevano dietro gli altri sette veicoli, che qual più qual meno, ebbero a subire lo stesso momentaneo inconveniente”.

Il principe Umberto si complimentò con Osculati per l’impegno con cui aveva reso possibile l’attivazione del nuovo servizio extraurbano. In realtà, spente le luci della retorica tesa ad esaltare l’industria nazionale – quattro delle otto carrozze erano prodotte dalla ditta Felice Grondona – quella giornata fu una delusione. L’ippovia aveva impiegato più di tre ore a fare un tragitto su rotaia la cui lunghezza non superava i tredici chilometri. Se ne accorsero subito i milanesi, attenti come sempre a valutare concretamente costi e benefici di una innovazione. Basterà ricordare il sapido ritornello che il direttore dell’Osservatore Cattolico, Don Davide Albertario, scrisse a commento della nuova linea di Omnibus:

Morettina dove vai? Vado a Monza sul tramway…so e giò per i rutai che a Monza el riva mai.

Omnibus3Quando nel 1880 il Comune di Milano decise di costruire le rotaie all’interno della città aprendo finalmente il centro ai tramways, la SAO si aggiudicò il servizio con un contratto triennale che garantiva al Comune una percentuale del 6% sugli utili della società. In occasione della Esposizione Nazionale del 1881, furono attivate le prime linee su rotaia che collegavano piazza Duomo con la stazione di Porta Nuova e con le arterie cittadine più vicine al sito dell’evento: i giardini pubblici di Porta Venezia e via Marina.

Negli anni seguenti la ditta sostituì gran parte dei cavalli con piccole locomotive a vapore per limitare i costi di trasporto. Alla fine degli anni Settanta e nei primi anni Ottanta del secolo XIX la società toccò l’apice del successo.

La parabola discendente arrivò tuttavia inesorabile. Il cavaliere Osculati scomparve in breve tempo dall’industria dei trasporti pubblici. Nel 1883 l’ingegnere Giuseppe Colombo, fondatore della Edison, costruì in via Santa Radegonda, a pochi metri dal Duomo, la prima centrale elettrica europea destinata a cambiare in profondità la vita quotidiana dei milanesi. L’arrivo dell’elettricità fu un evento cruciale perché non portò soltanto all’illuminazione delle vie e delle piazze, ma finì per avere i suoi effetti nei sistemi di mobilità urbana. La Sao non comprese la forza rivoluzionaria dell’elettricità nel campo dei trasporti. La Edison fu invece rapida nello sfruttarne le potenzialità: nel 1892 si aggiudicò il primo servizio di tram a trazione elettrica nella linea piazza Duomo-Corso Sempione. L’anno seguente arrivò l’ondata del successo con 18 linee elettriche, molte delle quali con capolinea in piazza Duomo.

La SAO scompariva. Nel 1900 chiuse l’ippovia Milano-Monza che era stata inaugurata 24 anni prima. Il 5 dicembre 1901 veniva dismesso l’ultimo tram a cavalli.

Perché l’Europa non sa rinnovarsi

A Milano sono sorti i maggiori movimenti politici e culturali, alcuni destinati a rivoluzionare i costumi e gli stili di vita degli italiani, altri ad incidere in profondità nelle strutture politiche e amministrative dello Stato. Gli uni e gli altri tesi a cambiare la società per fondarne una diversa, nel bene e nel male. Milano vide la nascita del socialismo moderato di Filippo Turati, riunito nella Lega Socialista Milanese fondata nel 1889; Milano fu la culla del fascismo di Benito Mussolini, i cui fasci di combattimento vennero fondati in piazza San Sepolcro nel 1919. Ho citato due esempi tra i tanti per mostrare la vocazione riformista e rivoluzionaria di Milano.

Se allarghiamo la visuale alla società del Vecchio Continente, ci accorgiamo che la rivoluzione è stata una costante della storia europea. Molti però si pongono questa domanda: nonostante il progresso tecnologico ci abbia messo a disposizione strumenti che vent’anni fa erano impensabili, perché la rivoluzione è divenuta oggi il grande assente della storia occidentale? Perché al giorno d’oggi sembra non esistere più in Europa la capacità di pensare e operare per un cambiamento delle istituzioni teso a migliorare la condizione di vita dei cittadini per un futuro migliore? Una domanda, se ci pensiamo bene, nient’affatto peregrina in tempi difficili come quelli attuali, caratterizzata da diseguaglianze e ingiustizie ancor più marcate rispetto al passato.

IMG_6249L’interessante libro dello storico Paolo Prodi, Il tramonto della rivoluzione (Il Mulino, Bologna 2015, 119p) cerca di capire le ragioni di questo dilemma. L’autore, riprendendo il pensiero dell’intellettuale tedesco Eugen Rosenstock Huessy, collega il concetto di rivoluzione alla storia dell’Occidente medievale e moderno. Fino ad alcuni anni fa l’Europa si è caratterizzata rispetto alle altre civiltà del pianeta per la presenza nella sua storia di rotture, di movimenti rivoluzionari che, mettendo in discussione le istituzioni esistenti, cercarono di combattere le ingiustizie. Il progresso occidentale – ci dice il professor Prodi – è stato in buona parte il risultato di queste rivoluzioni che ne hanno alterato di volta in volta la struttura sociale e istituzionale.

Questa Europa, segnata dal graduale mutamento delle sue istituzioni, ha un’origine ben precisa. La riforma gregoriana dell’XI secolo aprì agli europei il tortuoso sentiero della libertà politica; spezzò il monopolio del potere in capo all’imperatore o al papa segnando la graduale formazione di un equilibrio pluricentrico: da un lato i poteri secolari (imperatore, principi, città), che governarono i sudditi nella sfera dei rapporti civili in via sempre più autonoma dalla chiesa, dall’altro il potere ecclesiastico, ristretto progressivamente all’esercizio dei sacramenti e alla giurisdizione del foro interiore, della vita religiosa degli europei.

Da questa frattura originaria ebbe origine il pluralismo istituzionale che fece dell’Europa un territorio in continua evoluzione politica e religiosa. Il diritto di resistenza diffuso nell’Occcidente medievale e moderno, in base al quale i sudditi/cittadini avevano il diritto/dovere di ribellarsi ai governanti ove questi avessero violato le leggi e le tradizioni della comunità, sarebbe stato inconcepibile senza la “desacralizzazione” del potere politico, vale a dire la sua separazione dal potere religioso/sacrale.

Nel XVI secolo ci fu la seconda ondata di rivoluzioni, quella delle riforme protestanti che segnò l’avvento di una molteplicità di chiese territoriali, in relazione diversa con i poteri secolari: principi e repubbliche.

Nel corso del Settecento gli Stati europei, ormai distinti dalla persona del monarca, furono interessati dalla terza ondata di rivoluzioni che portò alla separazione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) compiutamente teorizzata, sia pure in forme diverse, nelle carte rivoluzionarie americane e francesi.

Muovendo da un’ottica di lungo periodo, Prodi fa notare tuttavia che la libertà politica in Occidente può esser fatta risalire alla rivoluzione gregoriana: da lì si arrivò poi alla graduale separazione tra sfera del sacro e sfera del profano, tra giustizia di Dio e giustizia degli uomini, tra coscienza personale e diritto positivo, tra peccato e reato.

Questa capacità dell’Occidente di riformarsi continuamente per migliorare l’assetto politico non sarebbe spiegabile senza il contributo fondamentale delle tradizione ebraico-cristiana. Dai tempi di Agostino, dal IV secolo dopo Cristo, “rivoluzione” non indicò soltanto il moto di rotazione degli astri ma venne usato in riferimento al cammino dell’umanità verso la salvezza. Questo segnò il passaggio da una concezione statica, ciclica, immutabile della storia a una dinamica, progressiva, soggetta a mutamento.

Il termine “rivoluzione” in Europa divenne in un certo senso la secolarizzazione della “profezia” ebraico-cristiana, che concepisce la storia come un cammino di salvezza dell’umanità contro i mali del presente in vista di una redenzione che avverrà alla fine dei tempi. Riprendendo una felice espressione del giurista Carl Schmitt, potremmo dire che le rivoluzioni avvenute in Europa nel Sette, Otto e Novecento furono “principi teologici secolarizzati” che portarono al mutamento dei poteri pubblici contro quelle che erano ritenute ingiustizie cui porre fine.

Oggi il problema dell’Europa risiede nella scomparsa di questa sua anima rivoluzionaria, di questa capacità di cambiare la società, di progettare il futuro.

Scrive Prodi:

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Il professor Paolo Prodi

Il mito della rivoluzione è finito. Ma l’Europa, l’Occidente, sono nati e cresciuti come ‘rivoluzione permanente’, cioè come capacità nel corso dei secoli di progettare una società alternativa rispetto a quella presente: ora questa capacità di progettare un futuro diverso sembra esser venuta meno”.

Secondo l’autore questo è dovuto a una serie di cause. In Occidente il progressivo venir meno dei valori delle religioni della salvezza personale (ebraismo e cristianesimo) basate sul principio che l’individuo è un uomo che può salvarsi o dannarsi per le sue azioni terrene ed è quindi sottoposto a un giudizio personale; l’affermarsi di un ordine mondiale fondato unicamente sulla civiltà dei consumi imperniata su un’etica confuciana tesa a cristallizzare gli assetti di potere esistenti mediante una concezione ciclica, immutabile della storia, ove l’ordine politico coincide con l’ordine cosmico. Qui l’influsso della cultura cinese sull’Occidente è stato negli ultimi anni assai più profondo di quanto si possa immaginare.

Il risultato, secondo Prodi, è l’unione del potere politico e del potere economico in una nuova forma di dominio globalizzato, “senza fissa dimora, in Oriente come in Occidente, con sue capitali ma al di sopra dei confini: un nuovo monopolio del potere economico-politico che tende ad affermarsi ovunque, nella nuova configurazione dei mercati finanziari e del consumo”. Il palazzo (del potere) si fonde con il mercato (finanziario) e con il tempio (pagano) in un nuovo ordine in cui l’uomo, privato della possibilità di incidere nella politica degli Stati ormai soggetti alle logiche finanziarie del mercato globale, non ha più alcuna possibilità di agire sulla politica per difendere i suoi diritti civili e sociali.

La terza causa per Prodi si lega alla tecnologia che, sottratta al controllo delle Chiese e degli Stati, tende sempre meno ad elevare la persona e sempre più a costituire un fine in sé stessa, asservita agli interessi dei grandi gruppi finanziari che se ne servono per le applicazioni richieste dal mercato. I social network, costringendo i cittadini alla brevità e all’immediatezza delle forme di comunicazione, rendono più difficile l’elaborazione di quel pensiero argomentato e meditato che era stata propria della civiltà del libro. Difficile avere il tempo di elaborare progetti di riforma delle istituzioni pubbliche in una community dominata dagli spazi di Twitter e Snapchat.

Insomma il quadro dipinto da Prodi è a tinte fosche. Esso vede l’Europa in un declino da cui molto difficilmente potrà uscire. Se la classe politica e le classi dirigenti del Vecchio Continente sapranno recuperare lo spirito di “rivoluzione permanente” per difendere con nuove istituzioni le grandi conquiste della civiltà occidentale (dallo Stato di diritto allo Stato sociale, dai diritti fondamentali dei cittadini al federalismo, dalla separazione dei poteri alla laicità dei poteri pubblici), l’Europa potrà avere un futuro.

Alla corte dei duchi di Milano: il libro di lusso

L’arte di rilegare, decorare, miniare e scrivere i libri acquisì una sua dignità nel Medioevo quando i monaci, seduti negli scriptoria, ricopiarono con opera indefessa i testi dell’antichità compatibili in larga parte con i valori etici e morali del cattolicesimo. Recentemente ho letto Il Nome della Rosa di Umberto Eco, il celebre romanzo ambientato in un’abbazia dell’Italia del Nord. Quando penso ai codici miniati, il pensiero corre alle decorazioni incompiute di frate Adelmo nei volumi del suo scrittoio. Il romanzo è ambientato nella prima metà del XIV secolo eppure, già a quell’epoca, la Chiesa non era più la sola istituzione a curare la rilegatura, la scrittura e la decorazione dei libri.

Nell’Italia del XIV e XV secolo i poteri secolari – signorie, principati e repubbliche – si fecero portatori di una politica culturale tesa a legittimare i fondamenti del potere. I libri sfarzosamente cesellati – come avveniva per gli affreschi, le pitture e le sculture nelle chiese – rientravano in un disegno teso ad esaltare il regime politico esistente. Anche per le famiglie della nobiltà il libro di lusso costituì un segno di status, il mezzo con cui mostrare il potere cui erano pervenute.

Milano fu una delle città più attive nell’elaborazione dei codici miniati. Nella seconda metà del Trecento la città ambrosiana acquisì un ruolo centrale nell’arte del libro. Gli inizi si collocano sostanzialmente negli anni successivi alla fondazione dell’Università di Pavia per intervento di Galeazzo II Visconti (1361) e al soggiorno di Petrarca a Milano tra il 1353 e il 1361. In questo periodo la famiglia Visconti formò una prima biblioteca, la cui struttura si poneva nel quadro tipico di un casato appartenente alla nobiltà feudale. Uno dei primi capolavori della miniatura gotica lombarda può essere considerato il Libro d’Ore di Bianca di Savoia, moglie di Galeazzo, risalente al 1378 ca. In questo codice, conservato a Monaco presso la Bayerische Staatsbibliothek (ms. lat.23215), oltre alle iniziali miniate, sono presenti 35 pitture a tutta pagina opera di Giovanni di Benedetto da Como, che nei suoi interventi riprese motivi e decorazioni presenti nella pittura a fresco.

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Codice del Guiron Le Courtois, Galvano salva Arturo, 1370-1380ca

Anche il fratello di Galeazzo, il signore di Milano Barnabò Visconti, commissionò alcuni codici di altissimo valore. Ricordo il volume Guiron le Courtois (conservato a Parigi, Bibliotèque Nationale, ms. nouv,acqu. 5243), ove sono narrati episodi cavallereschi di Artù e di Lancillotto, il ciclo bretone assai diffuso nelle corti di Francia, Inghilterra e Bretagna. Questa letteratura, diffusa nei territori ove si parlava la lingua d’oil, si affermò notevolmente in area padana tra Due e Trecento. Il codice Guiron si caratterizza per l’altissimo pregio delle miniature e dei disegni. Un altro codice è il Lancelot du Lac (Parigi, Bibliotèque Nationale, ms.fr.343), rimasto però incompiuto per la morte di Bernabò avvenuta nel 1385.

Gian Galeazzo, conquistato il potere mediante un colpo di Stato che portò all’arresto dello zio Barnabò, riconosciuto duca di Milano dall’imperatore Venceslao nel 1395, condusse una politica ambiziosa e fortunata che lo rese signore di un vasto territorio esteso all’Italia centro settentrionale. Siamo al periodo d’oro della signoria viscontea.

Allo stesso Gian Galeazzo risale la formazione della biblioteca ducale mediante azioni ben definite. Anzitutto occorre ricordare la requisizione dei libri presenti nelle ricche biblioteche delle città conquistate: arrivò così a Milano una lunga fila di carri contenenti i preziosi volumi che provenivano da Vicenza, Verona e Padova. Anche nella stessa città ambrosiana, presso famiglie che erano vicine ai Visconti per ragioni di sangue o di lavoro, si ebbe un risultato analogo: ad esempio, l’arresto e l’uccisione di Bernabò coincise naturalmente con la requisizione della sua biblioteca e lo stesso accadde al cancelliere ducale Pasquino Capelli, morto nelle prigioni viscontee.

Nel 1426, più di vent’anni dopo la scomparsa di Gian Galeazzo, la biblioteca ducale contava 988 codici ponendosi ai livelli delle maggiori corti europee. Risale a questo periodo l’Offiziolo Visconti (conservato a Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, B.R.397): la prima parte fu opera di Giovannino de Grassi, uno dei massimi esponenti della cultura gotico cortese lombarda, che rivestì l’ufficio di direttore della Fabbrica del Duomo; a decorare la seconda parte fu chiamato nel 1412 Belbello da Pavia su commissione del nuovo duca Filippo Maria Visconti, che proprio in quell’anno era asceso al potere in seguito alla morte improvvisa del fratello Giovanni Maria, pugnalato nella chiesa di San Gottardo (dietro al palazzo Reale).

Non è qui possibile fare una storia del libro di lusso nella Milano rinascimentale. Basterà ricordare che la ricca biblioteca viscontea, parzialmente danneggiata in seguito all’instabilità politica nel breve periodo della repubblica ambrosiana (1447-1450) – tornò in auge sotto gli Sforza per merito soprattutto dei duchi Galeazzo Maria (1466-1476) e Ludovico il Moro (1480-99).

I nuovi stilemi del rinascimento italiano furono introdotti a Milano dal miniatore Cristoforo de Predis, che lavorò non solo per la corte ducale, ma anche per una famiglia importante dell’aristocrazia quale i Borromeo. Merita di essere ricordato in proposito il celebre Libro d’Ore Borromeo, risalente agli anni 1471-1474: questo codice, conservato nella Biblioteca Ambrosiana di Milano (segnatura SP 42), presenta il testo arricchito per la prima volta mediante l’artificio di una pergamena, dipinta come se fosse appesa al di sopra degli spazi riservati alle miniature.

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Giovan Pietro Birago, Frontespizio della Sforziade di Giovanni Simonetta destinata al duca Gian Galeazzo Sforza, 1490.

Altro artista di notevole valore fu Giovan Pietro Birago, attivo negli anni di Ludovico il Moro: meritano di essere citati i quattro stupendi frontespizi della Sforziade, l’edizione a stampa in lingua volgare di Giovanni Simonetta.

La caduta di Ludovico Sforza, la conquista francese del ducato di Milano portarono alla dispersione della ricca biblioteca visconteo-sforzesca: una parte cospicua di quei preziosi volumi venne portata in Francia come bottino di guerra. Basti ricordare che quasi 400 libri oggi conservati alla Biblioteca Nazionale di Parigi possono essere ricondotti alla corte visconteo-sforzesca.

Tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento la stagione del libro di lusso era sostanzialmente finita. La stampa a caratteri mobili, che rivoluzionò il mercato rendendo accessibile l’acquisto dei volumi a un vasto pubblico, segnò il netto declino del libro di corte.

L’ambiguità del decreto Renzi sulle popolari

La riforma delle banche popolari compiuta dal governo Renzi continua a far discutere. Il tema è stato al centro di un interessante incontro  tenuto mercoledì alla Camera di Commercio di Milano nel corso della presentazione del libro di Franco De Benedetti e Gianfranco Fabi Popolari addio? Il futuro dopo l’abolizione del voto capitario (Guerini e Associati, Milano 2015).

Al dibattito, organizzato dal Centro Studi Grande Milano (CSGM) –  fucina di cultura a stretto contatto con il mondo delle imprese – hanno partecipato, assieme agli autori, Daniela Mainini, presidente del CSGM, Ugo Finetti, vicepresidente del CSGM, il professor Giulio Sapelli, ordinario di storia economica all’Università Statale di Milano, l’europarlamentare ed ex sindacalista Antonio Panzeri, Carlo Fratta Pasini, presidente del Banco Popolare ed altri esponenti del mondo politico.

Il dibattito, che in alcuni tratti ha assunto una certa animosità, si può riassumere sostanzialmente in questa domanda: il decreto Renzi (decreto legge n.3 del 20 gennaio 2015, convertito nella legge n.33 del 24 marzo) ha migliorato l’assetto delle banche popolari?

Luigi Luzzatti
Luigi Luzzatti

Di cosa stiamo parlando? Vediamo di capirci qualcosa. Nell’Italia dell’Otto-Novecento le banche popolari assunsero un ruolo fondamentale nel sostenere i bisogni delle famiglie e delle comunità locali. Luigi Luzzatti (1841-1927), uomo politico appartenente alla Destra storica, presidente del consiglio per breve tempo tra il 1910-11, si impegnò con forza a sostegno delle cooperative di credito e delle banche popolari. Animato da un vivo desiderio di migliorare le condizioni delle classi disagiate, riteneva che le famiglie, gli operai, tanti lavoratori che non avevano ingenti patrimoni, dovessero disporre di istituti di credito adeguati ai loro bisogni. Inoltre, la vita di queste persone era resa ancor più difficile dal proliferare degli usurai.

Luzzatti, che ammirava il sistema delle banche popolari tedesche, propose di introdurre istituti di credito analoghi nel nostro Paese. Nel volume La diffusione del credito e le banche popolari, pubblicato nel 1863, egli tesseva le lodi della banca popolare tedesca. Caldeggiava la fondazione di istituti analoghi in Italia, anche se riteneva che potessero servire soprattutto a una ristretta fascia di operai agiati oppure ai lavoratori in possesso di piccoli risparmi:

Una banca che abbraccia il principio dell’associazione e cambia l’operaio in capitalista quante verità non può insegnargli? Una buona lezione teorica di economia gli è certamente molto utile, ma quale maggior vantaggio di questa lezione di economia applicata? Gli operai agiati, i lavoranti indipendenti, come la molteplice famiglia dei muratori, legniaiuoli, minutanti, sono invitati dalla loro stessa condizione a riprodurre in Italia il tipo delle unioni tedesche. Si aboliscano le leggi dell’usura perché l’interesse del denaro segua il corso naturale del mercato, ma sorgano nello stesso tempo le fratellanze di credito popolano onde i poveri si affranchino finalmente dal gravoso intervento di quei sordidi prestatori…

Luzzatti fondò, com’è noto, la Banca Popolare di Milano due anni dopo, il 23 dicembre 1865. La forza di questi istituti di credito risiedeva nella loro capacità di essere a stretto contatto con i bisogni del territorio.

Fratta Pasini
Carlo Fratta Pasini, presidente del Banco Popolare.

Sorte come istituti di credito di area cattolica e socialista, le banche popolari si sono rette fino ad oggi su una forma di governo autenticamente democratica: ciascun azionista, indipendentemente dal numero di azioni che detiene, ha pari diritto di voto nell’assemblea dei soci. Questo è il senso del “voto capitario”. Si tratta, com’è facilmente intuibile, di una governance assai diversa dalle Società per azioni, ove decidono al contrario i maggiori proprietari.

Le banche popolari italiane hanno rivestito un ruolo importante nel favorire lo sviluppo economico del Paese. Ciò è avvenuto anche in forza del loro peculiare modello di governance.

Nell’incontro organizzato dal Centro Studi Grande Milano, gran parte dei relatori ha bocciato la riforma delle banche popolari approvata dal governo Renzi. La scelta di intervenire con decreto in un settore che non richiedeva l’urgenza di un intervento pubblico, è stata a dir poco azzardata perché, secondo Fabi, non sussistevano i requisiti di necessità e di urgenza richiesti dalla Costituzione per l’emanazione di una normativa tanto radicale. La legge, imponendo alle banche popolari con attivi superiori agli 8 miliardi di euro di trasformarsi in Società per Azioni, finisce con l’affidare le risorse dei risparmiatori più al grande capitale che all’economia di mercato. Il risultato è la negazione della finalità originaria per la quale erano sorti questi istituti di credito.

De BenedettiIn difesa della legge si è schierato, unico tra i presenti, il senatore Franco De Benedetti, presidente della Fondazione Istituto Bruno Leoni. Secondo De Benedetti la legge non interessa il vasto mondo delle popolari perché gli istituti di credito colpiti dal decreto sono appena dieci. Ha poi criticato l’assetto di queste banche facendo osservare che in molti istituti la cooperazione si è trasformata spesso in un “banale controllo sull’ufficio del personale”.

In effetti, come ha fatto notare il senatore De Benedetti, l’intervento del governo Renzi è seguito alla riforma sulla vigilanza bancaria avvenuta a partire dal 2 novembre 2014, quando la Banca Centrale Europea si è sostituita alla Banca d’Italia nella funzione di controllo sui quindici maggiori istituti di credito italiani. Otto di questi sono banche popolari: UBI, Banco Popolare, Banca Popolare di Milano, Banca Popolare dell’Emilia Romagna, Banca Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Banca Popolare di Sondrio, Credito Valtellinese.

Secondo i dati della European Banking Authority, tali banche rivelano un assetto patrimoniale eccessivamente ridotto perchè possano reggere in futuro una situazione avversa dei mercati finanziari: se si esclude UBI, gli stress test hanno mostrato che il patrimonio delle popolari potrebbe ridursi sotto la soglia critica del 5,5% del capitale. Il governo Renzi è quindi intervenuto per irrobustire il patrimonio di questi istituti favorendo l’ingresso di grandi capitali.

Magenta e la (breve) luna di miele dei lombardi

In questi giorni di inizio giugno ricordiamo un avvenimento importante per la storia di Milano: la battaglia di Magenta.

Avvenuta il 4 giugno 1859 all’inizio della seconda guerra d’indipendenza, essa vide opporsi l’esercito imperiale asburgico all’esercito franco-piemontese. Più di un mese dopo, le battaglie cruente di Solferino e San Martino avrebbero segnato la definitiva sconfitta degli austriaci, obbligati a cedere la Lombardia (tranne Mantova) all’imperatore dei francesi Napoleone III. L’imperatore Francesco Giuseppe di Asburgo, ostile alla causa italiana, non riconobbe alcuna legittimità internazionale al regno di Sardegna di Vittorio Emanuele II: questo spiega per quale motivo all’armistizio di Villafranca, firmato l’11 luglio, l’imperatore cedette la Lombardia alla Francia, non al Piemonte sabaudo. Fu Napoleone a cedere graziosamente la Lombardia al suo alleato.

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Ingresso di Vittorio Emanuele II e Napoleone III all’Arco della Pace, 8 giugno 1859. Litografia inglese da disegno di C. Bossoli.

Quattro giorni dopo la vittoria di Magenta, Vittorio Emanuele II e Napoleone III fecero il loro ingresso a Milano accolti con entusiasmo dai milanesi. Il re sabaudo, che aveva dormito a Lainate, raggiunse l’alleato alla cascina Pobbietta, un casolare (oggi scomparso) all’altezza di via Novara nei pressi di Quarto Cagnino. Da lì i sovrani entrarono a Milano dall’Arco della Pace: decisione non casuale se pensiamo che il celebre monumento era stato voluto mezzo secolo prima da Napoleone I per celebrare le sue vittorie. Dopo aver percorso il lato sinistro del Castello Sforzesco, Vittorio Emanuele II e Napoleone III attraversarono le vie Cusani, dell’Orso, Monte di Pietà, Monte Napoleone fino al corso di Porta Orientale (oggi corso Venezia). Da qui raggiunsero il palazzo Serbelloni, che costeggiava il naviglio interno, seguiti da una folla in delirio.

L’entusiasmo dei lombardi per la vittoria di Magenta e la liberazione di gran parte della regione non era casuale. C’erano attese, speranze in un futuro di buongoverno.

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Te Deum cantato in Duomo il 9 giugno 1859 per la vittoria sugli austriaci. Litografia inglese da disegno di C. Bossoli.

Difatti, nei mesi immediatamente precedenti alla guerra, Cavour, che era a capo del governo piemontese, convocò a Torino una commissione di notabili lombardi presieduta dal nobile milanese Cesare Giulini della Porta. Questa commissione predispose per le terre liberate un ordinamento che avrebbe dovuto consentire l’ordinato svolgersi della vita civile. Il tutto nel rispetto di quel che poteva essere conservato degli istituti amministrativi esistenti, istituti cui i lombardi erano affezionati perché li consideravano patrimonio storico della loro regione. D’altra parte lo stesso Cavour, in un interessante colloquio con il nobile milanese Cesare Giulini della Porta, riconobbe che dalla Lombardia “il Piemonte per gli ordini amministrativi ha più da imparare che da insegnare”.

La commissione propose la conservazione dell’autonomia comunale che costituiva il vanto della tradizione amministrativa lombarda. Basti pensare che nella Lombardia austriaca i proprietari di un immobile nei Comuni di terza classe (quelli con popolazione inferiore ai 300 estimati che erano la stragrande maggioranza dei municipi), avevano diritto di intervenire nel convocato, un’assemblea – organo di democrazia diretta – in cui si gestiva l’amministrazione del Comune.

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Il nobile milanese Cesare Giulini Della Porta (1815-1862)

La commissione Giulini propose inoltre la formazione di un governo lombardo separato da quello piemontese per assicurare piena autonomia alla regione. In seguito all’unione politica con il Piemonte, la Lombardia sarebbe stata amministrata da un governatore – con sede a Milano – dotato di poteri considerevoli. Questi avrebbe assommato infatti le funzioni del luogotenente austriaco (nomina dei delegati provinciali, corrispondenti all’incirca ai nostri prefetti; controllo sulle direzioni di polizia, sugli istituti di istruzione pubblica, sulle autorità municipali), i poteri del governatore austriaco e quelli che facevano capo all’amministrazione di Vienna, ad esempio nella gestione della prefettura lombarda delle finanze, della direzione di contabilità di Stato o della giunta del censimento.

La politica di Cavour, informata a uno stile moderato, conservatore, rispettoso entro certi limiti delle tradizioni storiche preunitarie, aveva le sue ragioni. Molte istituzioni del Lombardo Veneto austriaco riscuotevano l’ammirazione dei lombardi, suscitando in essi un vivo attaccamento per questi ordinamenti. In alcuni casi essi ne riconducevano l’origine all’epoca gloriosa del Regno Italico napoleonico, quando Milano fu capitale di uno Stato nazionale esteso a una parte significativa dell’Italia del Centro-Nord. Così un membro della commisione Giulini descriveva la complessa amministrazione austriaca in Lombardia:

Se noi lasciamo i roveti, i muschi e le edere, troviamo che l’ossatura murale di sotto, annerita dal tempo, corrosa dall’umidità, è ancora l’antica. Così noi troviamo che il censo, la legislazione comunale, le esattorie comunali, l’ammirando servizio delle condotte mediche, i regolamenti di acque e strade, le leggi sulla servitù di acquedotto e tutta la giurisprudenza in materia di acque, il contributo arti e commercio, le Camere di Commercio, l’istituto notarile, i conservatori delle ipoteche, le scuole comunali…sono tutte creazioni indigene che la dominazione straniera ha dovuto rispettare. E diciamo indigene anche quando ci riferiamo al Regno Italico, quantunque negli ordini militari e nella politica esterna dovesse dipendere dalla fortuna napoleonica.

Vigliani
Paolo Onorato Vigliani (1814-1900)

Dopo la vittoria di Magenta, il governo piemontese emanò alcuni decreti che, seguendo le indicazioni della commissione, diedero inizio a quella che possiamo chiamare la luna di miele tra il governo sabaudo e i lombardi. Con decreto 8 giugno 1859, il governo Cavour nominava governatore della Lombardia Paolo Onorato Vigliani, un giovane funzionario piemontese, originario di Pomario Monferrato, in provincia di Alessandria.

Il decreto 8 giugno assegnò i pieni poteri a Vigliani, escluso quanto concerneva la guerra. Egli fu posto a capo di una nuova istituzione che ereditava, sia pure ridotti da 9 a 5, gli ex dicasteri della luogotenenza austriaca così riorganizzati: 1. Amministrazione politica, intendenze generali e pubblica sicurezza; 2. Comuni, beneficenza e corpi morali; 3. Commercio, agricoltura e lavori pubblici; 4. Istruzione pubblica e culto; 5. Amministrazione della giustizia.

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Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861)

L’entusiasmo dei lombardi per la nuova amministrazione si manifestò negli atti di omaggio resi a Vittorio Emanuele II da parte di numerosi funzionari. Tuttavia, le dimissioni di Cavour in seguito all’armistizio di Villafranca (11 luglio) portarono alla fine di questa “luna di miele”. Rattazzi, succeduto a Cavour nel governo sabaudo, con decreto 31 luglio stabilì che “i pieni poteri conferiti al Governatore della Lombardia” erano cessati. Un trend inesorabile che portò in breve tempo alla soppressione di ogni autonomia amministrativa. Di lì a poco,  con l’emanazione dei decreti regi 23 ottobre 1859, alla Lombardia fu esteso l’ordinamento sabaudo informato a un accentramento amministravo disegnato sul modello franco-belga. Se si eccettua la Toscana – ove continuò ad essere vigente il codice penale leopoldino fino al 1889 – i territori della penisola che entrarono a far parte del regno d’Italia sabaudo furono sottoposti rigidamente, nel giro di pochi anni, alla legislazione e all’amministrazione piemontese. L’Italia si faceva “piemontesizzando” i suoi ordinamenti. Come scrisse un grande storico dell’amministrazione negli anni Sessanta del secolo scorso, fu come vestire un gigante con l’abito di un nano.

Un pittore russo in visita a Milano nel 1847

Il pittore Vladimir Jakovlev visitò l’Italia in un viaggio di sei mesi. Il suo itinerario si rifaceva alla grande tradizione del Gran Tour: un percorso lungo le maggiori città della penisola che i nobili, gli intellettuali, i letterati e i pittori stranieri effettuavano passando per Venezia, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Palermo.

Milano, come altre città della pianura padana quali Parma, Modena o Ferrara, non sempre erano ritenute meritevoli di visita. Ad esempio, il grande Goethe non visitò la città ambrosiana nel suo tour avvenuto nella seconda metà del Settecento, mentre il padre Johann Kaspar, grande giurista e fine intellettuale, ci era passato molti anni prima descrivendo minuziosamente la vita cittadina in alcune note del suo diario.

Desidero ricordare in questa sede il viaggio di Jakovlev perché il pittore visitò Milano alla fine del suo tour per l’Italia a pochi mesi dallo scoppio delle rivoluzioni liberali e nazionali del 1848. Giunto a Pavia, Jakovlev costeggiò in carrozza il naviglio pavese entrando a Milano da Porta Ticinese. Scrisse alcuni ricordi preziosi di quella visita nel volume pubblicato a San Pietroburgo nel 1855: Italija. Pis’ma iz Venecii, Rima i Neapolja. In questo articolo riporterò alcuni passi riguardanti Milano nella traduzione di Patrizia Deotto pubblicata nel numero della rivista Storia in Lombardia (Franco Angeli editore, Anno XXXIII, n.1, 2013).

Per un uomo la cui professione è dipingere sulla tela la bellezza di un paesaggio, la pianura milanese fu inizialmente una cocente delusione. Dopo la vista di città ricche di arte e di storia come Firenze o Roma – i cui monumenti, situati su alture o vicino ai colli, impreziosivano il paesaggio rurale circostante in una sintesi mirabile tra arte e natura – Milano non era fatta per affascinare subito. Il paesaggio, caratterizzato da una distesa sterminata di campi, gli apparve triste e monotono. Mancava la vista grandiosa della città.

Affaticato dall’uniformità della strada, mi aspettavo che Milano dispiegasse davanti ai miei occhi il suo panorama, ma Milano, da lontano, si presenta come una linea dentellata e nebulosa. Soltanto la guglia centrale della sua cattedrale biancheggia sulla cornice azzurrina delle montagne lontane. 

Riflessioni tinte di nero, che possono indurci a ritenere che Jakovlev non si trovò poi così bene a Milano. Dopo pochi passi, ecco però la sorpresa. L’atmosfera e il fascino della piccola Milano – popolata all’epoca da 140.000 abitanti – iniziarono ad incuriosirlo e ad attrarre gradualmente il suo interesse all’avvicinarsi verso la Darsena, lungo i Corpi Santi di Porta Ticinese. La prossimità alla città era annunciata dalla moltitudine di persone, dalle “carrozze all’ultima moda” che sfrecciavano lungo il canale.

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La Porta Ticinese medievale e il naviglio interno in un quadro di Pompeo Calvi (1850 ca)

Dopo aver varcato il naviglio interno all’incrocio tra le attuali vie De Amicis e Molino delle Armi, Jakovlev entrò nel cuore della città medievale. La vista delle antiche colonne di San Lorenzo gli si parò dinanzi improvvisa, affascinandolo grandemente:

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Le colonne di San Lorenzo in una incisione risalente alla fine del Settecento

Milano mi accolse, del tutto inaspettatamente, con l’antica gigantesca colonnata di un edificio sconosciuto, completamente distrutto. Questa è la più lunga fila di colonne che si sia conservata dell’epoca romana: i miei compagni di viaggio ne hanno contate sedici. Il marmo di questi fusti scanalati è coperto di muschio e ruggine; le foglie di acanto dei capitelli sono erose dal tempo, ma la bellezza del loro stile è evidente…

In queste riflessioni abbiamo l’impressione che Milano abbia sedotto Jakovlev come solo lei sa fare: anziché ostentare la sua bellezza affascinando il visitatore fin dall’inizio, la città si scopre a poco a poco, pian piano.

Oltrepassate le colonne, il pittore si recò verso l’Albergo Reale che si trovava nell’antica contrada dei Tre Re. La via, oggi scomparsa, era il proseguimento di via Speronari in direzione sud-est, verso l’attuale via Mazzini.

Diversamente dai turisti che si affidavano alle guide del luogo, Jakovlev preferì avventurarsi da solo per le vie cittadine alla ricerca di scorci paesaggistici. Questa è un’altra ragione per la quale le sue memorie rivestono uno straordinario interesse per gli storici di Milano. Ci sembra già di vederlo, mentre esce dall’albergo maledettamente curioso di conoscere i segreti della città.

Le vie del centro, quelle vicine al suo albergo, gli apparvero fin dall’inizio popolate da una vivace borghesia di artigiani e commercianti. Ancora nel primo Ottocento il quartiere vicino al Duomo rifletteva la sua antica anima medievale, un’anima mercantile ben testimoniata dalle vie: via Speronari, via Pennacchiari, via Mercanti d’Oro, via Borsinari, via Pescheria Vecchia, via Spadari, via Armorari, via Cappellari. La vita quotidiana di queste contrade era disordinata, ma vivace e affascinante ai suoi occhi:

Nelle vie strette e tortuose dei vecchi quartieri il chiasso e il movimento sono ancora più intensi. Il calderaio, il sarto, il rilegatore, il calzolaio lavorano in strada, chiacchierando tra di loro e con i passanti; le vicine iniziano la conversazione mattutina da una casa all’altra; i ragazzini proseguono i loro giochi ingenui, correndo tra le gambe dei passanti e spesso afferrando le falde degli abiti per nascondersi da qualche monello o dalla palla, che finisce per colpire la guancia di un venditore, intento a contrattare ad alta voce con un signore, affacciato alla finestra del quinto piano. Intanto le urla dei venditori e i richiami dei bottegai continuano ininterrotti.

Diversa l’aria che si respirava nelle vie ove si trovavano i palazzi della nobiltà milanese: erano alcune strade del centro, spesso vicine al naviglio interno. Quali potevano essere queste vie percorse da Jakovlev? Ad esempio in Porta Romana, via Rugabella ove si trovava il palazzo appartenuto nel Settecento a Clelia Borromeo o quello dei Trivulzio; via Sant’Antonio con il palazzo Greppi; via dei Nobili (oggi via Unione), su cui si affacciavano il palazzo Cicogna (oggi distrutto) e il palazzo Erba Odescalchi; in Porta Ticinese via Olmetto con la casa Archinto; via Borgonuovo con i palazzi Orsini e Perego in Porta Nuova; via della Cerva con il palazzo Visconti di Modrone in Porta Orientale il cui giardino – esistente tuttora – si affacciava sul naviglio interno…

Jakovlev notò il silenzio di queste nobili contrade. Le imposte chiuse alle finestre gli davano un senso di tristezza, ricordandogli le città abbandonate:

Nei quartieri aristocratici, quando batte il sole tutto il giorno, le persiane verdi delle finestre rimangono chiuse ermeticamente, il che conferisce alla strada un aspetto triste. In questi luoghi Milano sembra una capitale abbandonata: la magnificenza qui ha fatto amicizia con il silenzio.

Interessanti le annotazioni sulle case di Milano:

Le case qui non superano i tre o quattro piani e quasi tutte le finestre sono dotate di un balconcino di ferro, dove, quando non c’è il sole, compaiono fiori o giovani signore.

Il turista russo non mancava poi di soffermarsi sullo stile di vita dei milanesi, la cui distanza da altre città italiane lo colpì notevolmente. L’ordine pubblico, la pace, la tranquillità, il decoro urbano era molto simile a quello diffuso nelle altre città dell’impero asburgico di cui Milano faceva parte: da Praga a Vienna, da Budapest a Bratislava, da Trento a Trieste.  Le sue riflessioni riguardavano il vestiario, la sosta delle persone nelle vie ma anche la postura delle guardie davanti agli edifici pubblici, come mostrato dal caso dei granatieri ungheresi. Milano gli appariva ordinata, ben regolata nei suoi freddi costumi sociali.

In mezzo a questo turbinio della vita italiana, in mezzo a queste fisionomie mobili e a questo incessante chiacchiericcio, i granatieri ungheresi muti e immobili, che stanno di guardia agli edifici pubblici, con i loro colbacchi di pelo d’orso, sembrano delle cariatidi. Nelle vie di Milano c’è di gran lunga meno disordine poetico che nelle altre città italiane. Qui molto di rado vedrete qualcuno dormire sul selciato o sui gradini di una chiesa. In genere, non è permesso dormire per strada o fare la siesta in mezzo alla piazza, secondo l’abitudine napoletana. A maggior ragione, nessun povero osa sistemarsi a riposare negli atri, nei corridoi, sulle scale dei palazzi, come si usa a Napoli. Qui non si vede quell’abbigliamento meridionale eccessivamente leggero, costituito da una camicia e da pantaloni di tela olona che arrivano al ginocchio. Non si vede gente svestita in giro nemmeno nella stagione più calda e il pittore non troverà in Lombardia modelli gratuiti come sul molo di Napoli.

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Il Duomo adornato con paramenti per l’incoronazione di Ferdinando I di Asburgo a re del Lombardo Veneto il 6 settembre 1838.

Le notazioni più importanti riguardano il Duomo, che conquistò il pittore russo per il biancore dei marmi, l’infinito numero di guglie, le statue le cui forme plastiche riflettevano il fecondo connubio tra le linee severe dell’arte germanica – tipica del gotico – e la fine creatività dell’arte italiana. L’edificio era descritto come una creatura della natura fisica. I marmi, che risplendevano di un bianco acceso, quasi sfolgorante, gli sembravano partoriti dalle Alpi innevate.

Da lontano il Duomo è un fantastico palazzo, formatosi ai piedi delle Alpi con le nevi perenni del Montebianco. Quando vi avvicinate alle pareti di questo edificio abbagliante, intessuto di arabeschi, festoni, archi, ghirlande, popolato da migliaia di statue e vi persuaderete che è tutto marmo puro, dalla base massiccia ricoperta dal muschio dei secoli, fino alle graziose guglie gotiche, che biancheggiano nell’aria azzurra: in quel momento il meraviglioso edificio vi sembrerà favoloso.

Intere generazioni di scultori distribuirono su questi muri le loro fantasticherie. L’elemento plastico è talmente connaturato qui all’architettura che bisognerebbe dire che la cattedrale di Milano non è costruita ma scolpita nel marmo.

A colpirlo maggiormente fu la vista dalla terrazza della cattedrale, ove l’occhio poté spaziare a 360 gradi ammirando un panorama eccezionale. Le riflessioni negative svolte all’inizio vengono ora smentite da questa bella descrizione, inno commosso alla bellezza lombarda.

Finalmente salii sulla sottile, trasparente torre della cattedrale, intessuta di una trina di marmo, e sotto di me si dispiegò il brillante panorama della Lombardia. E’ un vero e proprio mare di verde costellato di città e di paesi con le loro torri bianche e rosse. In lontananza lungo tutto l’orizzonte si estende la catena delle Alpi: la linea ondulata delle nevi perenni luccica al sole, sfolgorante come oro fuso. Ecco i massicci del Rosa e del Sempione, dove la mia strada si snoda fra le cime che arrivano fin sopra alle nuvole; ed ecco al limitare della verde piazza d’armi biancheggiare anche l’arco di trionfo, da cui parte la strada del Sempione. Proprio davanti a me alza il suo capo canuto il San Gottardo; a sinistra, dietro alle cime, si intravedono i ghiacciai del Monte Bianco; a destra gli Appennini si fondono con le Alpi. Da qui si vede tutta l’enorme parete che separa la Lombardia dalla Germania. In lontananza, ai piedi di queste montagne, risaltano, azzurri come strisce d’acciaio, i poetici laghi: il Lago Maggiore, il Lago di Como, il Lago di Garda. L’aria è così tersa che distinguo perfino le cupole di Pavia e le alte torri di Torino. I dintorni di Milano sono ombreggiati da boschetti, solcati da viali, sembrano un grande parco inglese. Sotto di me si dispiega tutta la pianta della città con i palazzi e le cupole e le torri originali; vi scorgo il movimento, ma il rumore di quella vita giunge appena alle mie orecchie come il mormorio lontano del mare; in quel brusio si distingue chiaramente soltanto il suono delle campane…E poi il mio sguardo si perde di nuovo nel dedalo delle terrazze candide come la neve, delle scale, degli archi, dei pinnacoli, e io gironzolo di nuovo tra quella folla di gente di marmo che abita la cima della cattedrale. E’ una di quelle visioni che rimangono per sempre impresse nella memoria.

Mainini: Milano sia sede di una corte Ue sui brevetti

Ieri pomeriggio, all’Urban Center di Milano, il Centro Studi Anticontraffazione ha presentato al pubblico le ultime novità sull’adesione dell’Italia all’istituto del brevetto unico europeo.

L'assessore Franco D'Alfonso, la presidente del Centro Studi Anticontraffazione Daniela Mainini, il professor Cesare Galli
L’assessore Franco D’Alfonso, la presidente del Centro Studi Anticontraffazione Daniela Mainini, il professor Cesare Galli

L’incontro, presieduto e moderato dalla presidente del Centro Studi Grande Milano Daniela Mainini, ha visto la partecipazione di molte personalità appartenenti al mondo imprenditoriale, accademico, politico. Tra gli intervenuti il professor Cesare Galli ordinario di diritto industrale all’Università di Parma, Pier Giovanni Giannesi direttore proprietà industriale in Pirelli, Francesco Macchetta direttore proprietà intellettuale Bracco, Aldo Buratti presidente di Confapi (Unione nazionale della piccola e media industria nel settore tessile, abbigliamento, calzaturiero, pelli, cuoio), Franco D’Alfonso assessore al commercio e alle attività produttive del Comune di Milano.

Il tema della lotta alla contraffazione è molto importante per l’economia italiana. Me ne sono già occupato in un articolo pubblicato a febbraio (clicca qui). Oggi le imprese devono spendere molte risorse per registrare i brevetti, la cui validità è ristretta ai confini nazionali e non consente una tutela efficace nella lotta alla contraffazione. Nel 2014 le aziende italiane hanno depositato 9.382 brevetti: di questi 2.708 – pari al 28,8% – provenivano da ditte lombarde.

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L’assessore al Comune di Milano Franco D’Alfonso

Elevato è anche il costo delle cause nella lotta contro il falso. Se restiamo a Milano, il fenomeno ha raggiunto soglie allarmanti nei campi più svariati: dai cosmetici all’alimentare, dai giocattoli al farmaceutico. Secondo i dati riportati dall’assessore D’Alfonso, tra il 2011 e il 2014 sono stati individuati più di 34 milioni di pezzi contraffatti, cui sono seguiti 54.175 sequestri (penali e amministrativi).

Di fronte a un problema di tali dimensioni i tribunali italiani non possono più condurre da soli la battaglia per la difesa delle aziende dai danni della contraffazione. La scelta di non aderire alla cooperazione rafforzata in tema di brevetti fu un errore clamoroso del governo italiano, che alcuni anni fa si oppose a una gestione europea della giurisdizione. Il risultato è che oggi un’azienda intenzionata a difendere il marchio a livello europeo deve recarsi all’Epo di Monaco per registrare i brevetti con costi non indifferenti. Se consideriamo che le piccole e medie imprese – che sono la spina dorsale dell’Italia – vivono soprattutto sulle esportazioni dei loro prodotti, non è difficile capire quanto sia importante tutelare i brevetti potendo contare su un’autorità sovranazionale che abbia sede in Italia.

Oggi l’ingresso del nostro paese nel sistema del brevetto unitario, annunciata dal sottosegretario agli affari europei Sandro Gozi, costituisce una tappa importante per consentire alle aziende di operare in questo campo alle stesse condizioni dei maggiori Paesi europei: Francia e Germania.

La prossima tappa sarà la scelta di una città ove aprire la sede locale europea per la giurisdizione sul brevetto unico. L’Italia ha due anni di tempo per decidere. Come ha sostenuto la presidente Mainini, l’apertura di una corte a Milano sarebbe un’ottima soluzione per il dopo Expo. Milano è la candidata naturale, se si considera che in questa città viene depositato ogni anno un quarto dei brevetti italiani.

E’ stato stimato che l’adesione del nostro Paese al brevetto unitario europeo e l’apertura della sede locale consentirà alle imprese di risparmiare 400 milioni di euro all’anno. Un riduzione dei costi che permetterà alle aziende di investire maggiormente nella ricerca e accrescere la competitività sul mercato mondiale.

Perché Milano sta risorgendo a nuovo splendore

In un articolo scritto a gennaio, intitolato Milano vetrina del Made in Italy, chiudevo con l’augurio che la città ambrosiana potesse divenire nel periodo di Expo 2015 il fiore all’occhiello della cultura e della creatività italiana. Oggi devo dire che siamo sulla buona strada. La metropoli sta diventando una città fervida d’iniziative in svariati ambiti, una metropoli in grado di affascinare tanti giovani. Milano è caratterizzata da un policentrismo che ne arricchisce sensibilmente l’offerta culturale. Ogni zona presenta tratti distintivi che si integrano nella trama cittadina come tessere di uno splendido mosaico.

Fondazione Prada
Fondazione Prada

La Fondazione Prada ha aperto al pubblico in zona Ripamonti, in quelli che erano un tempo i Corpi Santi di Porta Romana a due passi dal Vigentino: con le mostre di arte classica e arte contemporanea ha reso accessibili enormi spazi espositivi nella sede di una fabbrica di liquori risalente agli anni Dieci del secolo scorso. L’edificio è quello dell’antica distilleria SIS che produceva il famoso brandy Cavallino Rosso. Oggi il vasto stabile, con la sua torre industriale verniciata d’oro svettante in un panorama di aree dismesse, costituisce un punto di riferimento per tanti intellettuali e creativi: tutti desiderosi di aggiornarsi sulle sperimentazioni artistiche da cui trarre ispirazione nei campi del design, della fotografia, del marketing. Alla Fondazione Prada va il merito di aver consentito la riqualificazione di una vecchia area industriale, fino a pochi anni fa in stato di palese degrado.

garibaldi repubblicaPrendiamo un altro quartiere, nella parte opposta della città, zona Garibaldi-Repubblica: qui l’architettura dei grattacieli che svettano con soluzioni originali e avveniristiche, il ponte su via Melchiorre Gioia, il raffinato design delle piazza Gae Aulenti ed Alvar Aalto, i prati vicino alle vie Colombo e Galilei hanno completamente ridisegnato la zona corrispondente ai due quartieri situati fuori dai bastioni, negli antichi Corpi Santi di Porta Comasina e di Porta Nuova. Oggi il quartiere Garibaldi-Repubblica si pone tra le aree residenziali più esclusive della città, continuando – sia pure in modi profondamente diversi – quello stile aristocratico che il visitatore poteva toccare con mano nei secoli passati, in alcune contrade dei sestieri di Porta Nuova e di Porta Orientale. La torre del palazzo di Unicredit, la cui cuspide si eleva verso il cielo superando in altezza la Madonnina del Duomo, costituisce il simbolo della moderna city finanziaria, visibile a svariati chilometri di distanza.

Darsena1Spostiamoci ancora a sud, questa volta in direzione sud-ovest. Troviamo la nuova Darsena, resa finalmente accessibile grazie a un’opera di recupero che, seppur oggetto di contestazioni, è stata certamente positiva: la sapiente valorizzazione dei navigli ha consentito l’apertura di uno spazio urbano ove l’acqua ha assunto un peso decisivo nel favorire l’attrazione turistica del quartiere, divenuto in poco tempo una delle zone più frequentate della città, meta di tanti giovani attratti dalla storica bellezza del luogo.

Ho citato tre quartieri che riflettono anime diverse della città, uniti da un senso di appartenenza alla comunità ambrosiana. La riqualificazione di tanti isolati cittadini è spia del cambiamento profondo di Milano cui mi riferivo all’inizio. A quale filosofia è ispirato questo “rinascimento milanese”? E’ un nuovo sentire, un senso di comunità che rende milanesi nella moda, nell’etica del lavoro, nella vita quotidiana alternativa, negli stili di vita più originali e creativi. Una città che sa essere un grande laboratorio del Made in Italy, aperta alle nuove frontiere dell’arte, della tecnologia, del design.

Il segreto di questo successo, che si spiega a monte con un profondo cambiamento di mentalità e di stili di vita, risiede a mio parere nella capacità di inventare il futuro recuperando in chiave nuova elementi storici dell’identità urbana. Penso alla Darsena, ma anche allo stesso progetto di riapertura dei navigli in centro città: i navigli, elementi secolari del paesaggio urbano milanese, caduti nell’oblio per gran parte del Novecento, vengono ora recuperati, reinventati per abbellire il paesaggio urbano a fini turistico culturali. Milano torna ad essere finalmente una città vivibile, a misura d’uomo.

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I milanesi scesi in strada nella manifestazione “Milano non si tocca” promossa dal Sindaco di Milano Giuliano Pisapia il 3 maggio

Un tempo si diceva che a Milano non si passeggia ma si lavora. Questo è ancora vero ma non basta a descrivere la vita cittadina. Nella metropoli che si va costruendo passeggiare per le vie e le piazze della città non è più un privilegio di turisti e sfaccendati. I milanesi si stanno riappropriando di Milano perché sentono di amarla. Certo, la amano a modo loro, con stile dimesso, non ostentato, in linea con l’autentica anima ambrosiana. Basti pensare al successo dell’iniziativa (hashtag #Milanononsitocca), nella quale migliaia di milanesi – contro ogni aspettativa – sono scesi in strada a metà maggio, uniti dalla volontà di ripulire gli edifici e di manifestare contro i vandali che pochi giorni prima, durante una manifestazione, avevano devastato vetrine e macchine in una zona del centro.

Riapriamo i navigli
Progetto di riapertura del naviglio tra via San Marco e via Fatebenefratelli

Se questo è il clima che si respira oggi, non è difficile pensare che un giorno i milanesi, anziché fuggire dalla metropoli nel weekend per recarsi al lago o al mare, scelgano di passeggiare lungo i canali riaperti del centro cittadino, magari salendo su battelli turistici in tragitti panoramici che mettano in collegamento Milano e l’Adda, Milano e Pavia, Milano e il Ticino; oppure, come molti giovani stanno già facendo in Darsena, sedendo sulle rive dei canali o nei prati vicino ai moli per le imbarcazioni per trascorrere in compagnia alcune ore del fine settimana.

20 maggio 1930: apre il planetario di Porta Venezia

Chi arriva in corso Venezia da corso Buenos Aires, trova sulla destra i giardini pubblici. Costruiti negli anni Ottanta del Settecento dall’architetto Giuseppe Piermarini sui terreni dell’ex monastero di Santa Maria Addolorata  – chiamato monastero “delle Carcanine” dal nome del fondatore, Giovanni Pietro Carcano –  e della chiesa di San Dionigi, i giardini vennero ingranditi nel 1856 ad opera dell’ingegnere Giuseppe Balzaretto: questi procedette all’unione della proprietà Dugnani, facendo della vasta area un parco in stile inglese caratterizzato da cascate, dirupi, laghetti, grotte. A proposito della chiesa di San Dionigi, ove si trovava la pietra misteriosa di San Barnaba , clicca qui se vuoi saperne di più! 😉

Oggi i giardini pubblici sono uno dei principali parchi di Milano con una superficie di 177.000 metri quadrati: uno spazio considerevole in cui i milanesi possono trascorrere il tempo libero camminando tra gli alberi, i prati e gli ameni viottoli. E’ un luogo di relax e divertimento per molte famiglie. Nel weekend (e non solo…) il parco si popola di tanti amanti della corsa. Inoltre, durante la settimana, è frequentato nelle ore di punta dagli impiegati che lavorano nel quartiere (zona via Senato, via Marina, via Fatebenefratelli, via Manin, via Turati..): li trovi ai giardini mentre mangiano un panino in pausa pranzo.

Nel luogo ove era il chiostro delle Carcanine si trova il Museo civico di storia naturale. Oggi mi soffermerò però su un altro edificio situato all’interno del parco: il planetario. La scelta non è casuale perché il 20 maggio di ottantacinque anni fa, nel 1930, la palazzina veniva inaugurata alla presenza del Duce in persona.

Benito Mussolini inaugura il Planetario
Benito Mussolini inaugura il Planetario, 20 maggio 1930

Come fu resa possibile la costruzione del planetario? La presenza delle autorità fasciste non deve indurci a considerazioni semplicistiche. Gli uomini che resero possibile questo progetto furono eminenti personalità della classe dirigente milanese. Convissero con il fascismo come larga parte della popolazione italiana, costretta a rinunciare alle libertà politiche e civili pur di continuare a lavorare in patria.

Il finanziatore del planetario fu l’editore e libraio di origine svizzera Ulrico Hoepli (1847-1935). Superati gli ottant’anni, giunto a un’età in cui si è soliti tirare i remi in barca, l’editore si dedicò ad iniziative filantropiche che fossero utili al progresso della società. Con quest’opera volle rendere omaggio a quella che era divenuta la sua “patria di adozione”, la “generosa Milano” come definì la città ambrosiana in un intervento letto il giorno dell’inaugurazione.

Hoepli si dimostrò un infaticabile promotore della vita culturale cittadina. Amava Milano perché le doveva molto: qui tentò la sorte come emigrato, qui fece fortuna lavorando sodo come libraio ed editore, qui allargò i suoi orizzonti entrando in contatto con i maggiori uomini di cultura. Del tutto indicativo, a tal proposito, il rapporto di Hoepli con il noto astronomo Giovanni Virginio Schiaparelli (1835-1910), le cui opere furono pubblicate dalla sua casa editrice a partire dal 1929. Per inciso gli Schiaparelli, un’importante famiglia della borghesia italiana tra Otto e Novecento, diedero al Paese noti scienziati e uomini di cultura: dal professor Ernesto Schiaparelli (1856-1928), cugino di Giovanni Virginio, egittologo, studioso di formazione cattolico liberale, a Luigi Schiaparelli (1871-1934), insigne paleografo e medioevalista.

La costruzione del planetario si poneva quindi in un progetto teso non solo ad abbellire la città, ma anche a favorire presso la cittadinanza la diffusione delle scoperte scientifiche in campo astronomico. Milano non era certo nuova all’astronomia. L’Osservatorio astronomico di Brera, costruito dal matematico Ruggero Boscovich nel 1764, negli anni in cui la Lombardia si trovò sotto il governo dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria, continuava ad essere un’istituzione prestigiosa. Nell’Italia del primo Novecento si faceva sentire tuttavia la mancanza di uno strumento d’avanguardia che fosse in grado di proiettare su un muro circolare le figure dei pianeti e delle stelle. Varrà la pena ricordare che nella Germania di Weimar, il paese più progredito nel campo delle scienze sperimentali, tra il 1926 e il 1928 furono costruiti planetari a Lipsia, Dusseldorf, Jena, Dresda, Hannover, Mannheim.

L’Italia non poteva essere da meno. I lavori per la costruzione del planetario milanese furono affidati a Piero Portaluppi (1888-1967). Questi scelse i giardini di Porta Venezia perché i cittadini, entrando nel parco, lasciando per un attimo gli affanni del lavoro, potessero riposare la mente nell’assistere alla proiezione dei pianeti.

Così Portaluppi spiegava le ragioni che lo avevano spinto a costruire il planetario all’interno dei giardini pubblici:

Planetario in costruzione
Il Planetario in costruzione

Non era troppo facile cosa trovare in Milano la località adatta per costruirvi un planetario, una località che fosse inclusa nell’organismo della metropoli e in pari tempo appartata; scoprire quasi una zona di raccoglimento ai margini stessi della vita cittadina che mettesse in grado chiunque, non importa di quale classe sociale, di dimenticare per poco la febbre che spinge ciascuno di noi alla rincorsa folle di un suo particolare tormento e di lanciare il proprio pensiero…in scorribande incommensurabili dietro il pellegrinare delle stelle.

E il problema sembra risolto con la scelta di quel tratto di pubblico giardino folto di alberi posto verso Corso Venezia tra papà Stoppani [si riferisce al vicino Museo di Storia Naturale] e l’erma [statua] di Mosé Bianchi [pittore]; nel centro stesso di Milano, a due passi da un’arteria ampia e rumorosa in mezzo alla folla, e pur solitaria sotto la volta verdeggiante degli ippocastani antichi, si eleva la volta ridotta dei cieli.

I lavori, iniziati nel luglio 1929, durarono quasi un anno. All’interno del planetario fu posizionato uno strumento ottico di marca rigorosamente germanica: Zeiss modello II.

Planetario 1929L’edificio disegnato da Portaluppi è tuttora visitabile. Si caratterizza per la classicità delle forme architettoniche. La facciata, costituita da un colonnato con timpano triangolare sul modello dei templi antichi, è preceduta da un’ampia scalinata. La cupola è inglobata in uno stabile a pianta ottagonale le cui brevi facciate, come spiegò lo stesso Portaluppi in un suo intervento pubblicato nel 1930, “sembrano sgattaiolare tra i vecchi tronchi [dei giardini]  sfiorandoli senza urtare uno solo”.

La città metropolitana: così la grande Milano guarda all’Europa

Il ruolo di Milano come centro di una vasta area metropolitana è stato oggetto di innumerevoli studi da almeno trent’anni. L’interesse per questo tema si è accresciuto negli ultimi tempi in seguito all’approvazione della legge 56/2014, la cosiddetta “Legge Del Rio” che, nel riformare l’ente provincia, ha istituito le città metropolitane di Milano, Torino, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria, dando seguito al disposto del titolo V della Costituzione.

Probabilmente ti starai già facendo questa domanda.

Va bene Gabriele. A me cosa importa della città metropolitana? Cosa cambierà nella mia vita?

Una domanda elementare e sensata. Anzi. Spesso mi vien fatto di pensare che se il legislatore e la pubblica amministrazione dessero risposte elementari ai bisogni dei cittadini – come ad esempio leggi e regolamenti di poche pagine, servizi veloci e puntuali – avremmo guadagnato in efficienza amministrativa quel ritardo che il nostro Paese sconta nelle classifiche internazionali di fronte a Stati europei simili al nostro per dimensioni e popolamento: penso a Germania, Francia, Inghilterra.

Ma torniamo alla Città metropolitana. In effetti, chi leggesse per la prima volta il lungo testo della legge Del Rio scoprirebbe che la normativa obbedisce al fine primario di snellire l’ente provincia, trasformandola in sostanza in una federazione di comuni. Eppure, a un’attenta disamina, le novità sono molte. Compaiono appunto le città metropolitane. Nel caso di Milano tale ente intermedio coincide nella sua estensione con la vecchia provincia. Qui ci sarebbe già motivo di criticare questa legge per due ragioni. Anzitutto perché Monza e i Comuni limitrofi continuano a formare una provincia a sé stante. Negli anni passati – com’è noto – furono staccati da Milano per una decisione politica che nulla aveva da spartire con le ragioni della storia e della buona amministrazione. Nei prossimi anni sarà importante insistere perché Monza e la parte di Brianza attualmente compresa nel suo circondario tornino ad essere comprese nell’area metropolitana milanese.

In secondo luogo, la scelta di limitare il nuovo ente metropolitano al territorio della provincia è a dir poco discutibile perché gli studi di scienza amministrativa hanno dimostrato da anni che l’area metropolitana milanese si estende ben oltre quei confini, fino a comprendere innumerevoli comuni situati nelle province di Novara, Varese, Como, Lecco, Lodi, Pavia, Bergamo, Brescia, Cremona, Mantova. Insomma, una maggiore creatività istituzionale sulla base dei risultati delle scienze economiche avrebbe consentito di configurare meglio il nuovo ente.

metropolitana_area.jpg_1413728627Nonostante tali mancanze, la legge ha però il merito di aver introdotto finalmente la città metropolitana che, limitatamente ai Comuni della vecchia provincia di Milano, è un’area a economia avanzata i cui abitanti hanno in comune alcune caratteristiche che si fanno via via più evidenti all’avvicinarsi al comune capoluogo. La città metropolitana di Milano comprende oggi 134 Comuni con una popolazione superiore ai 3 milioni di abitanti e una densità pari a 1924,39 abitanti per kmq. Quali sono queste caratteristiche che differenziano i comuni metropolitani dagli altri municipi italiani? Anzitutto il fenomeno del pendolarismo, il Daily Urban System, in base al quale un numero considerevole di cittadini metropolitani si reca a Milano per ragioni di lavoro. In secondo luogo, l’alto valore del dato sull’occupazione di tipo medio-alto e i livelli contenuti degli indici relativi all’attività agricola e all’istruzione bassa.

Se poi vogliamo scendere ancor più in profondità nell’analisi socio-economica, occorre ricordare che in alcuni comuni della Città metropolitana gli studiosi hanno individuato caratteristiche ulteriori. Sono municipi che costituiscono assieme a Milano il nocciolo duro dell’area metropolitana. Immediatamente confinanti con il comune di Milano, che domina nettamente con una popolazione superiore al milione di abitanti e una densità pari a 6.822,23 abitanti per chilometro quadrato – a proposito, se vuoi saperne di più su questa Grande Milano costituita tra Otto e Novecento, clicca qui 😉 – ci sono nove comuni: Bresso, Cinisello Balsamo, Cologno Monzese, Cormano, Corsico, Cusano Milanino, Novate Milanese, Pero, Sesto San Giovanni. Gli specialisti hanno definito questa corona immediatamente esterna a Milano con il termine di urban core. La struttura urbanistica di tali municipi quasi si confonde con la città capoluogo. Alcuni vi riconoscono addirittura una “Milano funzionale” che è quasi tutt’uno con la Milano amministrativa. Questi comuni condividono con la metropoli una soglia elevata di valori che sono tipici di aree ad economia avanzata: mi riferisco al tasso di occupazione medio alta, all’indice di istruzione alta e al reddito pro-capite.  Quest’area ha un territorio complessivo pari a un terzo del Comune di Milano, una popolazione di 334.990 abitanti, e una densità per abitante seconda solo a Milano, pari in media a 5279 kmq. Monza, esclusa per ora dalla Città metropolitana, rientra nell’urban core.

Torniamo alla Città metropolitana nel suo complesso. Le opportunità per una migliore gestione del territorio giocano tutte a favore di questa nuova istituzione, il cui obiettivo primario sarà quello di garantire una qualità di servizi analoga a quello garantita ai milanesi nei trasporti, nelle comunicazioni, nella viabilità, nelle infrastrutture, nella mobilità, nella connessione a banda larga e nella tutela dell’ambiente.

milano metropolitana infrastruttureIl divario tra Milano città e la sua antica provincia è sotto gli occhi di tutti. Oggi un abitante di Pantigliate, Carpiano, Rosate, Sedriano, Garbagnate, Grezzago – per citare alcuni comuni situati nelle zone metropolitane verso le quali guardano le sei porte cardine di Milano (Orientale, Romana, Ticinese, Vercellina, Comasina, Nuova) – può raggiungere il centro con una rete di trasporto inefficiente: una rete concepita per servire gli abitanti di un piccolo comune o di piccoli municipi, non può rispondere ai bisogni di una popolazione i cui spostamenti sono quelli di un’area a economia avanzata equiparabile a Londra, Parigi e Chicago. Lo stesso vale per gli spostamenti dei cittadini da un comune all’altro dell’area metropolitana, spostamenti dettati in primo luogo da ragioni di lavoro. Occorre poi aggiungere un terzo flusso: quello dei milanesi che vanno a lavorare fuori città, in comuni situati nella vecchia provincia. Non occorre essere degli specialisti in geografia economica per capire che oggi, rebus sic stantibus, manca una gestione metropolitana dei mezzi pubblici; mi riferisco a un servizio che possa consentire di spostarsi su linee di trasporto pensate non solo per servire il flusso periferia-centro e centro-periferia, ma anche gli spostamenti tra i comuni metropolitani. Pesa soprattutto l’assenza di un servizio di trasporto pubblico regolato da una tariffa valida per il territorio metropolitano.

Oggi la distanza tra Milano e i cittadini dell’area metropolitana è lampante per quanto concerne un altro tema cruciale: l’utilizzo dell’auto privata. In questi anni il Comune di Milano è riuscito a disincentivare l’utilizzo dell’automobile, un mezzo di trasporto utilizzato dal 54% dei milanesi. Nei prossimi anni l’obiettivo sarà di ridurre ulteriormente tale fenomeno portandolo alla soglia del 44%, al livello delle maggiori città europee. Ebbene, se ci volgiamo ai comuni dell’area metropolitana, ci accorgiamo che la percentuale dei cittadini che si servono dell’automobile supera invece l’80%. Un divario enorme, che si spiega con la già citata assenza di un servizio efficiente di trasporti pubblici su scala metropolitana: uno dei campi cruciali su cui si giocherà l’avvenire della nuova istituzione.

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