Qualche giorno fa mi trovavo in piazza Medaglie d’Oro, attratto da quella Porta Romana che segna tuttora un punto di confine tra la città storica e la città “più recente”, sorta attorno a Corso Lodi. Non vi annoierò ripetendo la storia del celebre monumento costruito da Aurelio Trezzi nel 1598 in onore dell’ingresso a Milano di Maria Margherita d’Austria (1584-1611), promessa sposa a Filippo III di Spagna.
Farò invece alcune considerazioni su una piccola scoperta che ho fatto in questi giorni. Nel camminare vicino alla fermata M3 della metropolitana diretto verso viale Montenero, mentre guardavo il celebre monumento, ho notato un particolare che mi era sempre sfuggito. Si tratta di un piccolo dettaglio, ma è un dettaglio importante per lo storico di Milano perché rivela l’antica conformazione di questa zona, segnata dai bastioni spagnoli che costituivano il confine tra la città propriamente detta e il contado compreso nell’antico Comune dei Corpi Santi.
Per capire di cosa si tratta, guardate Porta Romana da due punti diversi: dapprima fermatevi all’incrocio di piazza Medaglie d’Oro con Corso Lodi; andate poi al secondo incrocio all’imbocco di via Muratori sostando davanti a Mariposa. Bene: se avete guardato la Porta da queste due diverse angolazioni, ve ne sarete accorti: la Porta è orientata verso via Muratori e non verso corso Lodi come ci si aspetterebbe visto il ruolo fondamentale che il corso riveste oggi per la viabilità e l’urbanistica cittadina. Come mai?
Per quale motivo l’arco di Porta Romana fu costruito perché “guardasse” verso una via che ci appare tutto sommato secondaria rispetto al corso?
Per venire a capo di questo “piccolo” mistero dobbiamo risalire indietro nel tempo, alla Milano d’ancien régime o alla città vecchia che mantenne la sua fisionomia urbanistica fino alla metà dell’Ottocento. Chiariamo anzitutto l’origine di queste vie. La delibera comunale che assegnò la denominazione di Corso Lodi all’antica Strada Provinciale Piacentina risale al 7 giugno 1878, cinque anni dopo l’annessione del Comune dei Corpi Santi alla città di Milano. La costruzione di molti edifici ai lati del corso risale alla fine dell’Ottocento, quando il Comune decise di urbanizzare il nuovo quartiere. Un tentativo riuscito benissimo, tanto che oggi possiamo dire che corso Lodi costituisce il proseguimento in periferia del corso di Porta Romana. Quando venne costruito l’arco di Porta Romana, la zona aveva però un aspetto completamente diverso: oltre a far parte del Comune dei Corpi Santi, il quartiere era dominato da un paesaggio agreste: c’erano campi e cascine comprese in vaste proprietà possedute dalle potenti famiglie del patriziato. Basti pensare alla cascina Gugliemesa, alla cascina Benzona, alla Gambaloita, possedute un tempo dai Visconti Ajmi e da altri casati. Lo stradone verso Piacenza costituiva una via di collegamento per chi si spostava nella campagna milanese. A quei tempi tuttavia non doveva essere così importante come oggi è corso Lodi.
Volgiamoci ora verso il primo tratto di via Muratori, fino all’incrocio con via Bernardino Corio. La storia di questa contrada è completamente diversa. Anche qui, il nome della via venne dato con delibera comunale risalente 7 giugno 1878. Un tempo la contrada si chiamava “Strada dello Strettone” o “della Boffalora”. Quanto al primo nome non son riuscito ancora a sapere nulla. Per il secondo invece è facile trovare una spiegazione.
Ora mi dirai: cosa c’entra Boffalora che si trova ad ovest, in direzione diversa rispetto a Porta Romana? In realtà, il termine Boffalora si riferiva a un piccolo villaggio – chiamato Boffalora per l’appunto – che si trovava in fondo alla via, costituito sostanzialmente da tre cascine di cui una dovrebbe corrispondere al rudere che si trova in via Tertulliano al civico 65.
Insomma: la Strada della Boffalora ha una storia antichissima, quando la zona era costituita per il 95% di campi e per il restante 5% di cascine. In via Muratori sorgono tuttora alcune case vecchie, resti più o meno integri di quelle cascine che si trovavano ai lati della via: cascina Gerazza sul lato destro, pressappoco ove oggi c’è l’Officina Fiat al civico 2, mentre più avanti, sulla sinistra, al civico 7 si affaccia una casa vecchia di color rosa che dovrebbe corrispondere a una parte della cascina Paradisetta. Non è rimasta traccia della cascina Paradisa. La cascina Torchio in fondo alla via, a due passi da viale Umbria, corrisponde invece alla famosa “Cascina Cuccagna”, un antico casolare acquistato dal Comune di Milano nel 1984 che oggi è divenuto una meta d’obbligo per i giovani e per i turisti. Si trova un ristorante ove è possibile assaggiare piatti di alta qualità. In una delle stanze al pianterreno si trova anche un’enoteca. Per gli appassionati delle biciclette, nel cortile c’è uno spazio ove si riparano biciclette.
Torniamo al punto da cui siamo partiti. Perché l’arco di Porta Romana strizza l’occhio a via Muratori? Nei secoli passati i viandanti che entravano in città provenienti da Sud, preferivano passare per quest’antica contrada, ricca di cascine e osterie. E’ probabile che il Trezzi, nel costruire Porta Romana, decise di orientarla verso la Strada di Boffalora perché sapeva che la regina Margherita sarebbe venuta da quella direzione. Ecco cosa rivela quell’arco rivolto verso via Muratori. Guarda un po’ dove si va a nascondere alle volte il demone della storia! 😉
Oggi al turista che visita Milano non è difficile procurarsi una guida in cui trovare i dati più importanti sulla città, i locali più alla moda, le chiese e i monumenti da visitare. Qual era però la situazione nei secoli passati? Esistevano guide di Milano nell’ancien régime? Se esistevano, com’erano formate?
La risposta è affermativa. Esistevano certamente libri che potremmo ricondurre al genere delle guide. Si tratta sostanzialmente di tre tipologie: le guide descrittive, le guide nominative e le guide numeriche.
Le guide descrittive presentavano un’esposizione, abbastanza dettagliata, del patrimonio storico artistico e storico culturale conservato nelle chiese e nei palazzi della città. Non sappiamo quando comparve la prima guida. Gli studiosi hanno però dimostrato che nel corso del XVII secolo uscì un certo numero di guide descrittive riguardanti la città ambrosiana. Ad esempio, il Santuario della città e diocesi di Milano del gesuato Paolo Morigia venne pubblicato nel 1603: il proposito dell’autore era di mostrare ai milanesi le sacre reliquie esistenti nelle chiese cittadine; in realtà, egli non mancava di fornire ai suoi lettori alcune informazioni relative ai monumenti e ai templi trattati.
Altra guida importante della Milano seicentesca, la cui impronta religiosa fu segnata in modo indelebile dal modello tridentino realizzato dall’arcivescovo San Carlo, è la Relatione della Città e Stato di Milano del 1666 scritta dallo storico Galeazzo Gualdo Priorato. Questa guida è rimarchevole perché l’autore forniva informazioni sui palazzi sede delle supreme magistrature del ducato, compilando un elenco dettagliato delle persone titolari dei vari uffici. La descrizione degli edifici sacri è qui basata sulla tradizionale divisione della città nei sei quartieri storici identificati dal nome delle Porte (Romana, Ticinese, Vercellina, Comasina, Nuova, Orientale).
Una descrizione della Milano napoleonica è contenuta nella guida Il forastiere in Milano di Bartolomeo Borroni scritta nel 1808.
Per i primi anni della Restaurazione si ricordano la guida di Luigi Bossi (1818) e quella di Francesco Pirovano (1822). La guida di Bossi fu oggetto di vivaci critiche su cui non mi soffermo in questa sede per ragioni di spazio. Largo successo ebbe invece la guida del Pirovano, della quale vennero curate diverse riedizioni (1824, 1829, 1831). Si ricordano anche le guide di Pietro Ancina (1825) e dell’abate Giuseppe Caselli (1827).
Negli anni Trenta dell’Ottocento il numero delle guide crebbe considerevolmente per il notevole afflusso di turisti. Vennero stampate guide anonime oppure recanti i nomi di poligrafi del calibro di G.B. Carta, Ignazio Cantù, Massimo Fabi e Felice Venosta. In alcuni esemplari compare addirittura il nome dell’editore: Giuseppe Rejna (1838; 1841), Luigi Zucoli (1841), G.B. Zambelli (1865) e Pietro Giovanni Sacchi, proprietario assieme ad altre persone, della casa Artaria (1871, 1881). Tra le guide anonime, ricordo la Guida di Milano in otto passeggiate, recentemente ripubblicata da Il Polifilo in una bella edizione del 2005.
Passando alle guide nominative, la prima fonte da cui partire è il Calendario secolare milanese, pubblicato dal 1730 al 1742: vi sono contenuti gli elenchi dei funzionari e degli impiegati appartenenti alle magistrature giuridico amministrative del ducato di Milano. Il Calendario contiene anche dati riguardanti la composizione del Vicariato di Provvisione, uno dei più antichi uffici del Comune di Milano, corrispondente all’incirca alla nostra giunta comunale.
A partire dal 1782 furono pubblicate le prime guide nominative ove vennero inseriti non solo i nomi degli ufficiali e funzionari dello Stato, ma anche l’indirizzo della loro abitazione. Negli anni Novanta del Settecento comparvero anche guide che indicavano i recapiti di persone che non lavoravano nell’amministrazione statale, ma esercitavano la professione di commercianti, artigiani, avvocati e così via.
Risale a questi anni una guida nominativa recante informazioni su alberghi e osterie: IlServidore di piazza, (prima edizione 1782) divenuto poi Calendario ad uso del Foro su iniziativa del tipografo Geatano Motta. Il Servidore di piazza venne pubblicato dalla stamperia Motta dal 1782 al 1785. Un litigio sorto tra il compilatore Giuseppe Astolfi e la stamperia, provocò la sospensione delle pubblicazioni nei due anni 1786 e 1787. Nel 1788 il Servidore venne ripubblicato a spese dell’Astolfi dai tipi di Francesco Pulini. Tra il 1789 e il 1790 il Servidore uscì col titolo Calendario ad uso del Foro. Nel 1791, sempre a spese dell’Astolfi, il Servidore di piazza ad uso di commercio per la città di Milano venne ripubblicato dalla tipografia di Luigi Veladini: edizione significativa perché per la prima volta compariva un quadro della città assai ampio e dettagliato con l’indicazione delle attività commerciali, artistiche, artigianali, delle strutture alberghiere, dei caffé, delle osterie. Nel 1794 il tipografo Motta continuò a pubblicare Il Calendario ad uso del foro, uscito anche negli anni 1795 e 1796.
Nel periodo napoleonico le guide nominative furono poche e di scarsa qualità. L’interprete cisalpino venne stampato all’incirca nel 1800. Nel breve intermezzo della Repubblica Italiana, più precisamente nel 1804, uscì il Fiacre e il Supplemente al Fiacre, repertorio molto breve che contiene però gli indirizzi dei funzionari e impiegati dello Stato. Nel 1805, data di fondazione del Regno italico, uscì la Guida di Milano ad uso di servitore di piazza e il Supplemento alla prima parte della Guida di Milano ad uso di servitore di piazza: si tratta di due opuscoli di poche pagine, i cui contenuti non sono molto dissimili dai Fiacre del periodo cisalpino. Venne poi pubblicato nel 1808 L’Interprete milanese: le annate 1811 e 1812 sono particolarmente ricche di informazioni.
Vero e proprio repertorio d’informazioni preziose sulle città e i dipartimenti del regno d’Italia napoleonico e su Milano capitale è la serie degli Almanacchi reali, pubblicati regolarmente dal governo dal 1808 al 1814. L’Almanacco reale contiene l’elenco degli impiegati nell’amministrazione del regno italico con l’indirizzo di abitazione. Mancano tuttavia le attività private, fatta eccezione per alcune professioni. Gli Almanacchi, pubblicati anche nel regno Lombardo Veneto asburgico, sono una fonte imprescindibile per gli studiosi di storia delle istituzioni e della società moderna.
Passando infine alle guide numeriche, esse sono successive al 1787, anno in cui Giuseppe II introdusse a Milano la denominazione delle contrade e assegnò una precisa numerazione agli stabili secondo un curioso metodo che partendo dal centro continuava poi in progressione circolare verso i bastioni. La prima guida venne pubblicata nel 1788 a cura di Giacomo Cavaleri: Guida sicura che conduce col numero progressivo a tutte le contrade.
La Madonnina sulla guglia più alta del Duomo è forse il simbolo della città più caro ai milanesi, che a lei hanno guardato nei momenti più difficili della loro storia. Eppure, quando fu costruita, vi fu chi criticò fortemente quel monumento.
Partiamo dalle origini. L’idea di collocare una statua della Vergine Maria sulla guglia più alta del Duomo fu di Francesco Croce, l’architetto che nel 1762 aveva ricevuto l’incarico di costruire la guglia maggiore. Tre anni dopo, Croce propose di issare sulla sommità una statua della Madonna circondata dagli angeli. Com’è noto, l’artefice della statua fu Giuseppe Perego, che nel 1769 lavorò a tre soluzioni alternative: la prima prevedeva che alla base vi fosse una vasta schiera di cherubini e angeli tra le nubi; nella seconda ipotesi vi sarebbero stati alcuni angeli ai piedi della Vergine; il terzo progetto – quello che ricevette il via libera delle autorità – era incentrato pressoché interamente sulla figura di Maria.
I lavori iniziarono nell’estate di quell’anno: ad assistere il Perego furono l’intagliatore Giuseppe Antignati per la struttura in legno e un certo fabbro Varino che lavorò allo scheletro in ferro. Si decise quindi di coprire il modello di legno con lastre di rame, battute e montate dall’orefice Giuseppe Bini. Per la doratura, su consiglio del celebre pittore Anton Raphael Mengs, furono utilizzati 156 libretti, ognuno dei quali formato da due fogli d’oro zecchino.
Quattro anni dopo, nel 1773, i lavori erano terminati. Eppure, per quelle strane circostanze di cui la storia ci rende spettatori, la statua non fu collocata sulla guglia. Per un anno rimase nel palazzo della Veneranda Fabbrica del Duomo: oltre ai pericoli costituiti dalle folate di vento, si temeva che le lastre di rame attirassero i fulmini.
Quale fu la reazione dei milanesi? E’ probabile che l’entusiasmo avesse coinvolto gran parte dei sudditi lombardi dell’imperatrice Maria Teresa. L’opinione pubblica restava tuttavia divisa. La prosecuzione dei lavori di costruzione del Duomo secondo lo stile gotico aveva suscitato viva opposizione presso molti uomini di cultura. In un periodo – la seconda metà del Settecento – caratterizzato dall’avversione per i vecchi monumenti dell’età medievale ritenuta dagli illuministi un’epoca di barbarie e d’inciviltà, l’architettura con cui si andava edificando la sommità della cattedrale era criticata severamente, fuori tempo in un’epoca in cui si andavano affermando i moduli stilistici del neoclassicismo. Del tutto indicativa in proposito la posizione assunta dai fratelli Pietro e Alessandro Verri.
Quando la guglia maggiore fu ultimata dal Croce, nel 1770, Pietro non esitò a definirla “sconcia cosa in architettura”, mentre Alessandro la paragonò ironicamente a un “berretto da pulcinella”. Nove anni dopo Pietro, in una lettera al fratello, lo informava che un fulmine era caduto “sul gran clistere” sopra la cupola del Duomo: il gran clistere era la guglia del Croce.
Critiche ancor più serrate erano rivolte alla Madonnina. Alessandro si espresse in modo particolarmente duro rilevando “l’empietà di aver posta la Santissima Vergine incomoda e sconcia in quell’atto tra i fulmini”.
Con buona pace dei fratelli Verri, la statua fu collocata alla fine in cima alla cattedrale. Il 30 dicembre 1774 il rettore della Fabbrica del Duomo comunicava di aver finalmente collocato la Vergine dorata sulla guglia maggiore “col plauso universale” dei milanesi.
Da allora la Madonnina entrò lentamente nell’immaginario collettivo come simbolo della città. Visto che ci avviciniamo all’anniversario delle Cinque Giornate di Milano, non sarà fuori luogo concludere questo articolo ricordando le toccanti riflessioni del marchese Giovanni Visconti Venosta. Questi, nel suo libro di memorie, rammentava come i milanesi del ’48 avessero più volte sollevato lo sguardo verso la sommità del Duomo, quasi a voler cercare la protezione della Vergine perché li aiutasse nei momenti difficili. Gli occhi erano puntati sulla statua di Maria e sulla bandiera tricolore che i rivoluzionari, durante la terza giornata di combattimenti, erano riusciti a far sventolare dall’alto di quella guglia:
E tutti, ogni tanto, alzavano gli occhi in alto, nella direzione della più alta guglia del Duomo, sulla quale sta la statua della Vergine, con cui i milanesi sono in grande confidenza, come col genio tutelare della casa, e la chiamano la Madonnina. Essa vede da tanti anni le nostre gioie e i nostri dolori; situata sì in alto, pare più vicina al cielo, al quale i milanesi amavano sperare che dicesse in quei momenti una buona parola per loro. Quando, nella terza giornata della rivoluzione, si vide sventolare in mano alla Madonnina la bandiera tricolore, nessuno dubitò più della vittoria. Da tutta la città si levò un grido di trionfo e di gioia, come se la Madonnina avesse fatto causa comune con noi, e avesse preso Milano sotto la sua protezione.
[Giovanni Visconti Venosta, Ricordi di gioventù, Milano, Cogliati 1906, pag.94]
In un volumetto pubblicato dall’editore Vallardi in occasione della Esposizione Nazionale del 1881, un articolo intitolato “La vita intima” presentava uno spaccato interessante della vita quotidiana dei milanesi.
L’autore, Giuseppe Sacchi (1804-1891), fu un educatore e uno studioso particolarmente conosciuto al suo tempo. Varrà la pena ricordare a tal proposito il ruolo decisivo ch’egli assunse negli anni Trenta dell’Ottocento, quando si fece promotore dei primi asili regolati secondo i principi pedagogici di Ferrante Aporti. Negli anni Cinquanta s’impegnò a garantire l’intervento dello Stato asburgico nel campo delicato dell’educazione infantile e popolare. Funzionario integerrimo, ebbe dal governo austriaco la medaglia d’oro al merito civile per la sua opera indefessa a sostegno dei disagiati. Sacchi era anche conosciuto per aver diretto, sempre negli anni Cinquanta, gli Annali Universali di Statistica, la celebre rivista di economia su cui avevano scritto economisti quali Melchiorre Gioja, Gian Domenico Romagnosi, Carlo Cattaneo. Nel 1860, un anno dopo la liberazione di Milano dal dominio asburgico, fu nominato prefetto della Biblioteca Braidense. Educatore e pubblicista, uomo di profonda cultura, fine conoscitore della società milanese, il Sacchi era stimato per il suo impegno a sostegno delle classi disagiate.
Ma torniamo al 1881, l’anno dell’Esposizione Nazionale, quando il Sacchi scrisse l’articolo da cui abbiamo preso le mosse. L’anziano studioso conduceva un’analisi delle classi sociali milanesi, svolgendo una similitudine tratta dalle scienze fisiche che mostrava l’influenza del positivismo allora dominante. Come nella composizione del sottosuolo, egli notava che la cittadinanza era divisa in tre classi sociali:
E’ questo uno studio quasi geologico. La composizione demografica di Milano, può dirsi che presenti tre grandi strati. Nel primo strato ove i geologi sogliono scoprire la sede del quarzo e del granito sotto cui cova il fuoco di un perenne vulcano, noi riscontriamo quella parte del nostro popolo che una volta chiamavasi plebe. Caratteri granitici che resistono contro chi tenta opprimere, e tempre ad un tempo vulcaniche le quali si muovono e si commuovono ad ogni alito di novità: quest’è l’indole caratteristica del vecchio popolo ambrosiano.
[G. Sacchi, La vita intima in Vita Milanese, Vallardi editore 1881, pp.77-96]
Sacchi, proseguendo nella similitudine, enunciava poi le altre classi sociali milanesi (la classe media e la nobiltà) su cui non mi soffermo in questa sede.
Credo invece di grande interesse le riflessioni di Sacchi sul popolino ambrosiano, i cui insediamenti nel nucleo della città antica (oggi coincidenti con il centro storico, zona 1) erano individuati in tre zone. Nel 1881 le umili classi lavoratrici non avevano mutato la loro esistenza secolare nei quartieri di Porta Tosa (inclusa nel sestiere di Porta Orientale), di Porta Garibaldi (ex Porta Comasina) e Porta Ticinese. A colpire era la specializzazione di queste fasce di popolazione. Sacchi tralasciava di prendere in esame il quartiere di Porta Garibaldi ove sappiamo che vivevano, almeno fin dal XVIII secolo, tante famiglie di muratori e manovali. Nel suo intervento egli descrisse invece il popolino di Porta Tosa (oggi Porta Vittoria) e Porta Ticinese. A Porta Tosa abitavano tanti commercianti attivi nel mercato delle verdure:
La popolazione di Porta Tosa che ha per centro il Verziere (l’antico viridarium vescovile) è tutta dedita alla vita del comprare e del rivendere le cose mangerecce. Essa attende al mercato omnigeno di ogni grazia di Dio, e vive tutto il dì sulle piazze, si ciba alle taverne, e solo di notte si ritira ai suoi abitacoli che li chiama essa stessa i suoi pollai.
Seguivano alcune preziose riflessioni sul popolino di Porta Ticinese. Qui però il Sacchi mostrava di riferirsi a uno spazio esteso, includendo rioni del centro che erano compresi per converso nei sestieri di Porta Vercellina e di Porta Romana. Basandosi sul tracciato secolare del Naviglio Interno, l’anziano studioso prendeva in esame una zona che andava dal ponte di San Vittore (ove oggi si trova la pusterla di Sant’Ambrogio) al ponte di Porta Romana.
La vita intima del popolo è di preferenza concentrata nel vecchio quartiere di Porta Ticinese. Tutta questa parte della città che si distende dal sud al sud ovest, e si allarga a modo di un ventaglio dal Ponte di Sant’Ambrogio per San Vittore sino al Ponte di Porta Romana e fa centro a San Giorgio in Palazzo, raccoglie quasi un terzo della popolazione di Milano.
Ai lavoratori di Porta Ticinese erano riservate le analisi del Sacchi. Stando alle sue considerazioni, nel 1881 ancora esistevano due delle tre anime popolari del quartiere. La prima era costituita dai falegnami, dai lavoratori di marmi e di ferro le cui officine si trovavano nei quartieri di Cittadella e Viarenna: il Naviglio Interno sembrava delimitare e caratterizzare questo insediamento di lavoratori, le cui officine confinanti con il canale si estendevano dal ponte delle Pioppette a quello dei Fabbri.
Al di là del Naviglio Interno, ove oggi si trovano le vie Vettabbia e Santa Croce, c’era l’altra anima del quartiere: si trattava dei lavoratori specializzati nella tessitura e nella tintura della seta. Il Sacchi individuava 500 famiglie chiamate, con un’espressione che lasciava trapelare un certo affetto, “il nostro piccolo Lione: un popolo di operai onesti, educati e gentili, che sentono più che mai la loro morale dignità”.
Il terzo insediamento di operai era scomparso da tempo quando scriveva il Sacchi. Egli tuttavia volle ricordarlo perché la città non dimenticasse la sua storia. Si trattava del quartiere della Vetra, dietro la chiesa di San Lorenzo, ove nel primo Ottocento erano attive sedici concerie che, servendosi delle acque della Vettabbia, “lavoravano più di settecentocinquantamila pelli fornite da 94 macellerie”: un quartiere malfamato ove imperversava la delinquenza. La zona aveva tuttavia un suo fascino singolare. Le numerose abitazioni, formate al loro interno da loggiati di legno, erano abitate da tante famiglie povere. Credo sia opportuno riportare integralmente le parole con le quali il Sacchi ripercorreva la storia della Vetra, luogo di miserie e atrocità. Qui fu operante per secoli, nella Milano d’antico regime, il patibolo ove venivano eseguite le condanne a morte per impiccagione riservate ai criminali delle classi popolari:
Il terzo alveare, ormai disfatto, è posto nel centro di questa civica regione alla piazza della Vetra. Su questa piazza, che sorge a tergo del Tempio di San Lorenzo, si alzava una volta l’infame patibolo, ed era il campo scellerato della città. Fra quallidi strati di macerie spuntavano qua e là poveri steli di erbacce che porgevano di primavera un magro pascolo a branchi di capre che ci davano un latte medicinale. In mezzo a quegli sterpi sorgeva un misero tronco di pietra, ove su una lastra metallica vedevansi dipinte fra le fiamme immagini umane col capestro al collo o colla testa sanguinolenta e recisa, coll’iscrizione espiatoria: pregate per i poveri giustiziati. Il popolo ambrosiano a canto alla Giustizia ha sempre voluto porre la Misericordia.
Quella località rassomigliava di notte alla famosa Corte dei miracoli stupendamente descritta da Victor Hugo nel suo romanzo Notre Dame. In certe luride taverne poste lungo questa piazza si ritraevano ai loro serali bagordi più di mille accattoni che qui noleggiavano all’incanto i veri ed i finti ciechi per condurli di giorno a limosinare.
Nel 1881 tutto era scomparso. Non rimaneva più nulla di questi tristi bassifondi. Come ricordava Giuseppe Sacchi, la copertura della Vettabbia dietro San Lorenzo e la costruzione di alcuni edifici avevano contribuito a migliorare notevolmente la vita del quartiere. Al posto delle sozze concerie sorgevano due case ove si teneva un affollato mercato di latticini, erbe e frutta.
In questi giorni a Milano si respira un’atmosfera magica. La settimana della moda è in pieno svolgimento: un evento imperdibile per gli appassionati, ma anche per il semplice uomo della strada che viene letteralmente ‘rapito’ dai tanti eventi allestiti nella capitale del fashion. Mercoledì il premier Renzi ha sostenuto che la moda è uno dei settori più importanti dell’economia italiana. “Dobbiamo vincere i luoghi comuni per rispetto a chi lavora in questo settore” ha detto Renzi aggiungendo: “la moda è fatta da donne e uomini che lavorano, che ci mettono passione, da imprenditori che hanno il coraggio di crederci anche quando non è facile … io sono qui per riconoscere una realtà che già c’è…”. Il premier, pranzando a Palazzo Reale assieme ai maggiori stilisti (Giorgio Armani, Angela Missoni, Renzo Rosso, Donatella Versace) ha voluto mostrare l’interesse del governo per un settore fondamentale dell’economia italiana. Intenso il programma della fashion week meneghina: dal 24 al 29 febbraio sono previste 73 sfilate, più di 90 presentazioni ed altri eventi che porteranno all’esposizione di numerose collezioni.
Cerchiamo ora di superare la superficie degli annunci per analizzare le ragioni che hanno spinto un presidente del consiglio italiano ad inaugurare, per la prima volta nella storia repubblicana, un evento glamour di dimensione cittadina.
In effetti, se studiamo a fondo le dinamiche dell’industria italiana della moda, ci rendiamo conto che la mossa di Renzi, pienamente azzeccata, è stata studiata nei minimi particolari. In una situazione generale di stallo (se non di lieve miglioramento per l’economia italiana), l’industria del fashion ha conseguito risultati di notevole successo negli ultimi anni grazie al genio e alla creatività delle aziende specializzate nel settore.
In questa sede svolgerò alcune riflessioni sul tema basandomi su una fonte di notevole interesse per gli storici e gli studiosi di scienze economiche: si tratta del rapporto – analisi e presentazione sono liberamente scaricabili da Internet – che l’Area Studi Mediobanca ha dedicato al comparto della moda italiana. I bilanci più recenti sono quelli del 2014 ma gli esperti hanno condotto alcune previsioni per il 2015 che ci consentono di avere un’idea abbastanza precisa delle dinamiche interne a questo settore. Nel 2014 la moda italiana ha costituito un giro d’affari pari a 224 miliardi con un incremento del 2% rispetto all’anno precedente. La crescita nel 2015 sarà probabilmente incrementata con un ritorno addirittura alla doppia cifra a causa della svalutazione dell’euro: si stima un aumento del 13% per un giro di affari stimato a 253 miliardi. Si tratta di un risultato importante. Quali sono però i mercati cui si rivolgono le aziende della moda italiana? Restando ai dati del 2014, l’Europa è stata il primo mercato mondiale con 76 miliardi seguita dalle Americhe con 72 miliardi e dall’Asia-Pacifico con 47 miliardi. La pelletteria ha interessato un giro d’affari pari a 65 miliardi, il comparto abbigliamento 54 miliardi, le gioielleria-oreficeria 52 miliardi, la cosmesi-profumeria 45 miliardi.
In altri termini, i mercati internazionali premiano la moda italiana nei vari settori. Anche in Europa i progressi sono notevoli. Qui però dobbiamo spiegarci perché non si capisce come mai il mercato di un vecchio continente in difficoltà (ricordiamo che i dati si riferiscono al 2014) abbia segnato un’ottima performance nella moda. A soccorrerci è ancora una volta l’analisi di Mediobanca, che ha messo in evidenza come in Europa – e ancor più in Italia – la contrazione dei consumi dovuta ai colpi di coda della crisi sia stata in parte compensata da uno shopping turistico di rilievo. Le stime del 2015 indicano un totale di 48 miliardi di euro. Questo fenomeno ha riguardato per il 74% quattro paesi europei: Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia. Chi sono questi turisti benefattori che ogni anno vengono a trovarci e premiano le nostre aziende con i loro acquisti da nababbi? Nell’Europa del 2014 sono stati per il 36% cinesi e per il 9% russi. In Italia il fenomeno è ancora più lampante: i turisti stranieri che hanno premiato il Made in Italy nel campo del lusso sono stati cinesi per il 32%, russi per il 13%, americani per l’8%.
Ma avviciniamo ancor più la lente alle aziende italiane della moda. L’Area Studi Mediobanca ha individuato 143 società che nel 2014 hanno avuto un fatturato di almeno 100 milioni di euro: 59 sono nel settore abbigliamento, 32 operano nel comparto pelletteria, 20 nel tessile, 11 nella gioielleria-oreficeria, 5 nell’occhialeria, 16 nella distribuzione. Dove si trovano? In larga misura nell’Italia padana: 56 nel Nord Ovest (Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria, Lombardia), 55 nel Nord Est (Veneto, Emilia-Romagna, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia), 32 nel resto d’Italia. Si tratta di una mappa geografica che sembra giustificare ampiamente il ruolo di Milano quale capitale italiana del fashion. La proprietà di queste aziende è in larghissima parte italiana: solo 44 sono a controllo estero (18 di queste sono all’interno di gruppi francesi).
Dal 2010 al 2014 le aziende della moda sono cresciute più della manifattura. Risultano inoltre meglio gestite: sono più redditizie, meglio capitalizzate e “liquide” (hanno molto “fieno in cascina” come si suol dire). Relativamente al fatturato, se l’incremento dei grandi gruppi manifatturieri è stato pari al 16,3% tra il 2010 e il 2014, quello delle aziende che operano nel fashion è stato del 27,7%. La forbice si fa ancora più larga se guardiamo all’incremento della redditività operativa (Ebit): +14,1% contro +25,1% della moda nel periodo 2010-2014. Maggiore l’aumento della forza lavoro: +14% per la manifattura contro un aumento del 22,7% della moda.
Fa riflettere inoltre la differenza abissale nella struttura finanziaria tra i grandi gruppi manifatturieri e le aziende del comparto moda. Nel 2014 la redditività operativa dei primi è cresciuta del 6% contro il +9% delle seconde. Due parametri mostrano soprattutto la profonda diversità: la percentuale di liquidità (disponibilità di risorse) in rapporto ai debiti finanziari è stata pari al 50,4% nella manifattura mentre la moda ha dimostrato di sapersi gestire meglio con un rapporto pari al 73,7%. Un altro dato è il rapporto debiti finanziari/patrimonio netto, sempre relativo al 2014: se la manifattura presentava una percentuale elevatissima, pari al 140,4%, le aziende fashion non superavano una percentuale pari al 36,8%: questo significa che i debiti finanziari di queste ultime erano meno del 40% rispetto ai mezzi che avevano per farvi fronte.
All’interno delle 143 società operanti nella moda, l’Area Studi Mediobanca ha individuato un gruppo ristretto di 15 gruppi che tra il 2010 e il 2014 hanno raggiunto i picchi maggiori per fatturato. Si tratta dei grandi marchi del lusso che elenchiamo in ordine alfabetico: Armani, Benetton, Calzedonia, Dolce&Gabbana, Geox, Luxottica, Max Mara, Moncler, Diesel, Prada, Safilo, Salvatore Ferragamo, Tod’s, Valentino, Zegna. Sono state considerate a parte Gucci e Bottega Veneta perché sono aziende che fanno parte della Società francese Gruppo Kering, rispettivamente dal 1999 e dal 2001.
La classifica per fatturato vede in testa Luxottica con 7.652 milioni di euro, seguita da Prada con 3.552 mln, Armani con 2.535 mln, Calzedonia 1.847 mln, OTB (Diesel) 1.536 mln, Ferragamo 1.321 mln, Max Mara 1.310, Benetton 1.296, Zegna 1.210, Safilo 1.179, Dolce & Gabbana 1.045, Tod’s 966, Lir (Geox) 934, Valentino 721, Moncler 694. Per le italiane “conquistate” dai francesi, Gucci ha avuto ricavi per 3.497 milioni e Bottega Veneta per 1.131 mln. Il fatturato di queste aziende ha riguardato nel 2014 l’abbigliamento per il 46%, l’occhialeria per il 32%, la pelletteria per l’11%, le calzature per il 10%. Per numero di dipendenti si segnala Luxottica con 75.575 unità, seguita da Calzedonia con 30.705, Prada con 11.962, Armani con 8.112, Zegna con 7.663, Safilo con 7.609, Diesel con 6.286, Max Mara con 5.670, Dolce & Gabbana con 4.294, Tod’s con 4.239 e così via. Nel complesso le Top15 vendono più nei mercati extra europei, anche se il Vecchio Continente resta un mercato importante: 12,1 miliardi di fatturato in Europa contro i 15,7 miliardi nel resto del mondo. Si segnala in particolar modo la netta prevalenza delle vendite nei mercati esteri Luxottica (80,3% del fatturato fuori Europa), Ferragamo (73,1%), Zegna (72,6%), Prada (63,6%), Safilo (58,7%), Valentino (57,7%), Armani (55,7%), Dolce e Gabbana (55,3%).
Dalle analisi di Mediobanca possiamo ricavare due brevi riflessioni. La prima riguarda l’effettiva importanza del giro d’affari italiano della moda e del lusso, i cui prodotti sono apprezzati da una ricca clientela in netta prevalenza straniera. E’ vero che le aziende francesi di moda hanno fatturati superiori ai nostri ma non sono molto lontane da quelle italiane, che negli ultimi anni hanno mostrato di crescere con forza addirittura maggiore rispetto alle concorrenti d’oltralpe. La qualità, il design, la creatività del prodotto Made in Italy fanno ancora la differenza.
La seconda riflessione si lega invce alla debolezza della domanda interna italiana, che resta ancora eccessivamente bassa. Senza lo sbocco dei mercati esteri (compresi quelli europei) le nostre aziende avrebbero serie difficoltà. Per questa ragione è importante che il governo italiano si faccia portatore in Europa di una politica economica tesa a far crescere la domanda interna.
L’eccellenza italiana nell’industria della moda e del lusso può far storcere il naso al moralista che ritiene la raffinatezza dei costumi e il formalismo esteriore un segno di corruzione alimentando le diseguaglianze sociali in una repubblica che si vorrebbe informata alle semplici ed austere virtù del cittadino. Al contrario, le aziende che operano nella moda e nel lusso costituiscono una realtà di cui gli italiani dovrebbero andare orgogliosi.
Scriveva Pietro Verri nel celebre saggio Considerazioni sul lusso, pubblicato nel 1764 nel primo tomo, della celebre rivista “Il Caffè”:
Se il lusso ha per oggetto le manifatture nazionali, è cosa evidente che il restringerlo altro effetto non potrà produrre che quello di togliere il pane agli artigiani che campano sulle manifatture, desolare cittadini industriosi e utili, obbligarli ad abbandonare la patria, dare in somma un colpo crudele e funesto a molti membri della nazione, che hanno diritto alla protezione delle leggi, e alla nazione stessa spogliandola d’un numero di nazionali, diminuendosi il quale scema la vera sua robustezza.
Tornando sugli effetti benefici che le spese dei ricchi recavano all’economia di un paese andando a beneficio delle classi più povere ma industriose, il celebre illuminista lombardo scriveva:
Se il lusso nasce dalla ineguale ripartizione de’ beni e se l’ineguale ripartizione dei beni è contraria alla prosperità di una nazione, il lusso medesimo sarà un bene politico in quanto che dissipando i pingui patrimoni torna a dividerli, a ripartirli, e ad accostarsi alla meno sproporzionata divisione de’ beni. Il lusso è dunque un rimedio al male medesimo che lo ha fatto nascere; poiché l’ambizione de’ ricchi, che profondono, serve di esca ai vogliosi d’arricchirsi, e i danari ammassati, come una fecondatrice rugiada, ricadono sui poveri ma industriosi cittadini; e laddove la rapina o l’industria li sottrassero alla circolazione, il lusso e la spensieratezza loro li restituiscono.
P. Verri, Considerazioni sul lusso in “Il Caffè”, Tomo I, foglio XIV, in S. Romagnoli (a cura di), Il Caffè, Feltrinelli Editore, Milano 1960, pp.114-115
Gli faceva eco alcuni anni dopo Cesare Beccaria quando, agli studenti accorsi alle sue lezioni di economia pubblica, ricordava:
La ricchezza degli stati non nasce realmente che dalla fatica degli individui; la fatica degli individui bisogna appagarla; non si determinano gli uomini a fare questi pagamenti se non per convertirli in mezzi di godere ciò che più gli soddisfa. Di più, l’uomo non fatica, se non in proporzione dell’utile immediato che spera da quella provenirne; gli utili di questa fatica sono somministrati dalle spese dei ricchi, ossia di quelli che posseggono al di là del necessario fisico.
C. Beccaria, Elementi di economia pubblica in C. Beccaria, Scritti economici, a cura di Gianmarco Gaspari, Edizione Nazionale delle Opere di Cesare Beccaria, Vol. III, Milano, Mediobanca 2014, pag.362.
In un film di Alfred Hitchcock risalente al 1966, Torn Curtain (“Il sipario strappato”), un fisico americano, Michael Armstrong (interpretato da un brillante Paul Newman), si trova per misteriose ragioni nella Berlino Est, capitale di un paese “a socialismo reale” (la Repubblica Democratica Tedesca) ove la produzione di beni e servizi, posta sotto il controllo e la gestione dello Stato, aveva finito per congelare una economia pianificata in cui gli operatori tendevano ad essere sempre gli stessi. L’impiegato di polizia Hermann Gromek, nel ricordare il periodo in cui era vissuto a New York, chiede ironicamente ad Armstrong: “Abitavo tra l’ottantottesima e l’ottava. C’era una pizzeria proprio all’angolo. Ci sarà ancora? Facevano una pizza meravigliosa”. Risponde lo scienziato: “Non saprei dirle” e Gromek ripete: “Ci sarà ancora?”: in questa domanda insistente è possibile cogliere l’avversione che doveva nutrire verosimilmente il modesto impiegato dell’Est nei confronti delle ricche società occidentali caratterizzate dalla mobilità lavorativa e dal rapido mutamento delle attività in libera competizione: alcuni negozi restano, altri scompaiono, altri ancora si trasformano, cambiano sede.
Quando mi è giunta notizia che il celebre negozio Coin di piazzale Loreto ha chiuso il 20 gennaio scorso, il pensiero – chissà perché – è corso alla pizzeria newyorkese di Gromek.
Intendiamoci. Nessuno si sogna di dire che Coin stia scomparendo. In questi ultimi anni il gruppo veneto ha però avuto alcune difficoltà, non diversamente da quanto avviene purtroppo per tante aziende italiane costrette ad operare in una società in lentissima ripresa ove il livello dell’imposizione fiscale resta elevato.
Nei limiti di spazio imposti dal blog, traccerò un breve profilo storico della Coin. Il fondatore dell’azienda, Vittorio Coin, era un commerciante di tessuti che aprì il suo primo negozio a Mirano (un paese in provincia di Venezia) nel 1926. La crescita dell’attività divenne imponente nel dopoguerra grazie all’impegno dei figli Alfonso, Aristide e Giovanni, i quali avevano imparato il mestiere del commerciante affiancando il padre nella vendita di tessuti, filati e biancherie. Un legame familiare assai forte quello dei Coin, i quali avevano saputo fare del lavoro una religione di vita in linea con la tradizione mercantile dell’antica Repubblica di San Marco.
L’inizio del periodo d’oro può essere fatto risalire agli anni Cinquanta e Sessanta. Costituita nel 1952 in società per azioni, cinque anni dopo l’azienda acquisì la proprietà degli ex magazzini Öhler di Trieste. Gli anni Sessanta segnarono l’espansione di Coin oltre i confini del Veneto e il suo ingresso nelle attività dei grandi magazzini. Ma qui dobbiamo capirci. Cosa si intende per “grande magazzino”? Il grande magazzino si caratterizza per un’attività di vendita al dettaglio nel ramo non alimentare in edifici dotati di una superficie superiore ai 400 mq ove siano attivi almeno 5 reparti dedicati a prodotti che appartengono a diversi settori merceologici. I grandi magazzini Coin degli anni Sessanta presentavano, oltre alla vendita di vestiti e biancheria, articoli afferenti ai seguenti comparti: casalinghi, sportivi, giocattoli, pelletteria e profumeria. Una caratteristica che dura tuttora. Da ricordare che i Coin di Piazza 5 Giornate e Corso Vercelli (tuttora esistenti) operavano in spazi assai vasti per gli standard dell’epoca, presentando una superficie di 5000 metri quadrati disposta su otto piani.
Tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta Coin consolidò la sua attività aprendo grandi magazzini in città quali Brescia, Varese, Mantova, Ferrara, Genova, Napoli, Taranto. Risale al 1968 la fondazione delle “Coinette”, una nuova catena che operava nelle periferie e nei piccoli centri urbani assicurando ai clienti prodotti a prezzi accessibili. Si trattava di una rete di negozi, divenuta ben presto capillare, che diede origine nel 1972 alla celebre catena “OVS” (Organizzazione Vendite Speciali) che assicura tuttora prezzi vantaggiosi mediante lo smercio degli articoli rimasti invenduti nei punti Coin. Nel corso degli anni Settanta e Ottanta l’azienda raggiunse il culmine del successo. E’ il periodo in cui lavorò la terza generazione della famiglia rappresentata dai figli di Aristide.
Nel 1998 i Coin rilevarono dalla Fininvest di Silvio Berlusconi il comparto non alimentare del gruppo Standa, i cui negozi furono progressivamente convertiti negli esercizi Oviesse. Tale azienda, la “Società Anonima Magazzini Standard” (poi Standa) aveva aperto il suo primo punto vendita a Milano nel 1931 con l’insegna “Moderno 33”. Occorre ricordare che la Standa era stata la prima azienda ad introdurre, nel 1956, il servizio vendita self service nel ramo alimentare. La filosofia del self service può essere riassunta in queste due semplici mosse: prendi il prodotto dallo scaffale e paga alla cassa.
Nel 2009 Coin acquisì un’altra storica catena milanese, più antica della Standa: la Upim. Fondata dalla Rinascente nel 1928 come “UPI” (Unico Prezzo Italiano), l’azienda, grazie alla consulenza della tedesca Tietz, era stata la prima ad introdurre in Italia il magazzino “a prezzo unico”, vale a dire uno spazio ove i prodotti avevano lo stesso prezzo di vendita, notevolmente inferiore rispetto a quello dei negozi. La lettera “M” fu aggiunta al nome “UPI” per indicare l’origine milanese di questi magazzini.
Al 2011 risale un’altra importante iniziativa del gruppo Coin, che dal 2005 non è più gestito dalla famiglia. Si tratta dell’apertura di Excelsior Milano nello spazio ove si trovava il cinema omonimo nella Galleria del Corso, a pochi passi da corso Vittorio Emanuele: in una superficie di 4.000 mq disposta su sette piani, l’architetto francese Jean Nouvel ha ricreato un ambiente extra lusso ove sono collocati i comparti della moda, del cibo e del design.
Come si ricordava all’inizio, gli effetti della crisi economica negli ultimi anni non hanno risparmiato il gruppo Coin. La chiusura dello storico punto vendita in piazzale Loreto costituisce una spia di questo periodo difficile. In base all’indagine condotta dall’Ufficio Studi di Mediobanca e pubblicata nel monumentale Annuario R&S, il gruppo Coin Spa risulta in perdita dall’anno 2011-12. I dati relativi al 2014-15 segnano un passivo di 89,1 milioni di euro. L’anno più difficile è stato però il 2012-2013, quando le perdite sono state pari a 93,4 milioni di euro. Conti difficili da digerire per un’azienda che, ancora nel 2010-11, risultava in utile per 48,2 milioni.
Ci auguriamo che Coin torni presto a ripetere i successi degli anni d’oro.
Il tema della famiglia è tornato al centro dell’attenzione. Oggi tenterò di svolgere alcune riflessioni sulla famiglia nella Milano d’ancien régime. Qual era il suo significato nella società milanese e più in generale nella società europea dei secoli passati? Di certo la famiglia era a quei tempi qualcosa di diverso. Oggi siamo alle prese con due dati su cui riflettere. Da un lato la presenza dei single, che costituisce a Milano un dato assai più elevato rispetto alla media nazionale. Dall’altro la precarietà delle famiglie: il legame matrimoniale molte volte si spezza dopo pochi anni per le ragioni più svariate.
In età medievale e in età moderna (almeno fino al Settecento avanzato) la famiglia era un’istituzione stabile che rivestiva un ruolo assai più importante nella comunità cristiana. Per comprenderne le complesse dinamiche, dobbiamo pensare che in quel periodo non esisteva la separazione tra pubblico / privato tipica delle società borghesi dell’Otto-Novecento.
A quei tempi non esisteva neppure la moderna separazione tra Stato e Società, tra area ove si esplicano le istituzioni pubbliche culminanti nello Stato e area ove si confrontano i cittadini e le associazioni private in un regime di libera competizione soggetto alle norme del diritto civile. Potremmo dire in altri termini che nel Medioevo e nella prima età moderna queste due aree erano confuse. Solo a seguito del costituzionalismo rivoluzionario di ascendenza francese, a partire dalla fine del Settecento, iniziò ad affermarsi sul continente – quindi anche a Milano – un nuovo sistema che, con l’abolizione degli ordini e delle corporazioni, segnò la divisione tra cittadini titolari di diritti soggettivi e lo Stato di diritto fondato sui principi dell’eguaglianza e dell’impersonalità della legge. Nella società milanese d’ancien régime, almeno fino alla metà del Settecento, non era così. Non esisteva mobilità sociale che non fosse inquadrata all’interno di un ordine cui gli individui appartenevano fin dalla nascita.
Le famiglie patrizie traevano legittimazione dalla secolare presenza dei loro esponenti nelle istituzioni pubbliche del ducato e della città di Milano. Era assente quindi una sfera privata distinta da una sfera pubblica perché la famiglia non era relegata a una dimensione privata come tende ad avvenire nelle società contemporanee. La famiglia patrizia era una vera e propria istituzione, la cui appartenenza costituiva per i giovani una delle condizioni irrinunciabili per accedere al Collegio dei Nobili Giureconsulti in piazza Mercanti. Si trattava del celebre vivaio di dottori in legge chiamati a rivestire uffici importanti nella pubblica amministrazione dello Stato di Milano tra Cinque e Settecento. Scriveva il giureconsulto Bartolomeo Taegio nell’opera Il Liceo pubblicata nel 1571 che al Collegio non si poteva accedere
senza legittima prova della chiarezza e antiquità del sangue, della eccellenza della dottrina e della bontà dei costumi, così del candidato come del padre suo. Onde per la grande diligenza e sottile investigazione ch’usano i protettori dell’ordine nostro per sostegno e diffesa dell’onore del Collegio, si può concludere ch’el domandar il Collegio di Melano [Milano] non sia altro che sottoporsi voluntariamente ad un sindicato di grandissima importanza, dal quale chi ne riesce con lode, passando per li debiti mezzi, si può dire veramente nobile.
[B. Taegio, Il Liceo. Dove si ragiona dell’ordine delle accademie e della nobiltà, Tini, Milano, 1571, pag.57].
In una comunità per ceti fondata non sulla ricchezza ottenuta nel libero gioco del mercato di beni materiali, bensì sulla funzione sociale svolta da ciascun ordine e corporazione, le famiglie contavano nella misura in cui erano inserite in una fitta trama di relazioni che, salendo per gradi, investiva le supreme funzioni pubbliche.
La regola in base alla quale la vita familiare dei sentimenti deve essere confinata entro le mura domestiche e va rigidamente separata dalla vita lavorativa condotta fuori dalla casa, nel “libero” gioco del mercato, nasce e si afferma nelle società otto-novecentesche quando la famiglia ha ormai perso quella funzione pubblica che aveva rivestito per secoli. Nel Medioevo e nell’ancien régime tale norma di condotta non esisteva. A ben vedere essa è sconosciuta tuttora nel mondo delle aziende di famiglia.
Se questa era la struttura della famiglia nella Milano dell’antico regime, si capisce come i rapporti tra i suoi membri fossero alquanto diversi rispetto ad oggi. La sfera dei sentimenti aveva meno spazio. Le famiglie erano costituite da una prole numerosa per far fronte ai danni della mortalità infantile; erano composte non solo dai figli e dai nipoti, ma anche dai servi le cui famiglie avevano lavorato per generazioni nei possedimenti dei padroni. A dominare era la figura del pater familias, del padre di famiglia, il quale reggeva il governo della casa. Nelle famiglie nobili e in quelle dell’alta borghesia, l’educazione dei figli era affidata a precettori privati. Il più delle volte si ricorreva tuttavia agli ordini religiosi: i rampolli della nobiltà frequentavano i prestigiosi collegi diretti dai Gesuiti; per le altre famiglie si ricorreva all’insegnamento di altri ordini, come ad esempio i Barnabiti. Alla donna era assegnata la cura della casa e il compito primario di generare i figli. Questa era la natura delle famiglie, ove potremmo dire che il ruolo pubblico assorbisse in larga parte la sfera privata dei sentimenti, quasi inesistenti.
A Milano tale situazione cambiò nel corso del Settecento ad opera delle riforme illuminate di Maria Teresa e Giuseppe II: le riforme accentrarono progressivamente nello Stato assoluto burocratico le funzioni pubbliche che le famiglie del patriziato avevano esercitato per secoli nelle tradizionali istituzioni della città e del ducato. Di qui ebbe inizio quella tendenza che vide la famiglia restringersi sempre più in un privato fondato unicamente sul benessere e sulla felicità individuale, mentre l’attività lavorativa in capo ai singoli individui, staccati dai corpi di appartenenza, fu chiamata ad agire sempre più in un libero mercato sottoposto alla vigilanza dello Stato assoluto.
La mentalità era molto diversa rispetto ai nostri tempi. I celibatari, coloro che restavano single – diremmo oggi – per un calcolo di autosufficienza, non a seguito di una vocazione religiosa, venivano spesso fatti oggetto di riprovazione sociale.
Del tutto indicativa la posizione di Cesare Beccaria. Nelle lezioni di economia pubblica tenute tra il 1769 e il 1773 presso le Scuole Palatine di Milano, l’illuminista lombardo tesseva una lode nei confronti delle famiglie numerose. I suoi elogi andavano a quanti lavoravano per rendersi utili alla collettività. Una famiglia numerosa era ben vista da Beccaria perché rientrava in un piano teso a rafforzare la potenza dello Stato mediante l’aumento di una popolazione la cui forza lavoro sarebbe andata a beneficio della monarchia. Il che, beninteso, era in linea con analoghe teorie diffuse dai mercantilisti e dagli economisti europei tra Sei e Settecento. Al contrario, il nobile rimasto celibe era da riprovare perché viveva nell’ozio della sua rendita terriera senza produrre alcunché di concreto per la comunità.
Assai efficace il commosso ritratto che Beccaria tracciava dell’umile famiglia di un artigiano:
Oh umile padre di famiglia; oh, artigiano incallito nell’affumicata tua officina, io rispetto il tuo rozzo abituro: egli è il tempio dell’innocenza e dell’onestà. Quando, tergendo il sudore della fronte, dividi un ruvido pane a’ tuoi figli, ai figli dell’industria e della patria, che levano le tenere loro mani per ricercartelo; quando io contemplo l’amorosa sollecitudine della tua fedele compagna, acciò la semplicità del governo tuo domestico ti sia leggera ed utile, allora io mi risveglio dall’ammirazione che in me destava la contemplazione del sequestrato cenobita, che ha saputo trionfare della natura e della società, che con sì potenti inviti a sé lo richiamavano.
[Cesare Beccaria, Scritti economici, a cura di Gianmarco Gaspari, Edizione Nazionale delle Opere di Cesare Beccaria, vol.III, Milano, Mediobanca 2014, pp.140-141]
Nella breve risposta a una lettrice della sua rubrica sul Corriere della Sera la giornalista Isabella Bossi Fedrigotti, il 30 gennaio scorso, si è espressa contro la riapertura dei navigli, giudicandola un’impresa costosa perché tesa unicamente ad ingentilire il paesaggio urbano. Si tratterebbe quindi di uno spreco di risorse senza alcun beneficio per la collettività.
“Romanticamente sarei d’accordo anch’io a riportare le acque in superficie e sappiamo che sono stati presentati validi studi di fattibilità, tuttavia mi sento di dire che gettare così tanto denaro in un’impresa gigantesca che ha lo scopo quasi esclusivo di ingentilire il paesaggio cittadino, mi pare oggi abbastanza fuori luogo. E lo dico perché quotidianamente, grazie a questa rubrica, ho notizia di presidi che chiudono, di sussidi che vengono abrogati, di personale che scarseggia in qualche servizio: sempre a causa di carenza di fondi”.
Le ha risposto bene il presidente dell’Associazione Riaprire i Navigli, l’urbanista Roberto Biscardini, che ha approfondito il tema da molti anni e, da consigliere comunale di Milano, conosce bene gli ingranaggi della macchina amministrativa comunale.
“Vale la pena di contestare questa affermazione innanzi tutto perché è frutto di un grave errore di metodo che una persona che ricopre un importante ruolo culturale come Bossi Fedrigotti non dovrebbe commettere. Essa infatti confonde la spesa (spesa corrente) che il Comune dedica ai servizi di cui lamenta la riduzione con le risorse (spese in conto capitale, cioè investimenti) destinate a finanziare il progetto di riapertura dei Navigli, un progetto in grado di aggiungere valore alla città e di produrre reddito. Se poi si scende nel merito e andiamo a vedere a quanto ammonta la spesa in conto capitale che il Comune di Milano ha destinato nel 2015 agli investimenti (viabilità, trasporti, ambiente territorio, ecc) vediamo che essa è ammontata a ben 3,6 miliardi di euro.
Il costo del progetto per la riapertura è stato stimato in 200 o in 400 milioni di euro a seconda delle modalità che il Comune intende seguire.
Cosa posso dire? Credo che al Corriere molti abbiano una paura folle che la Martesana torni a scorrere dietro la sede del giornale in via San Marco! Una paura che non riesco francamente a spiegarmi.
In realtà, mi vado convincendo sempre più che la contrarietà alla riapertura sia in malafede o rifletta una presa di posizione dettata da interessi politici. Non mi stupisce che la signora Bossi Fedrigotti esprima la sua contrarietà in piena campagna elettorale, quando una candidata alle primarie (la vicesindaca Balzani) si è espressa nettamente contro la riapertura.
E’ però interessante notare che i contrari sono spesso quanti abitano in centro, a poca distanza dai navigli da riaprire, assaliti dalla paura dei lavori. Non sono disposti a tollerare qualche disagio (provvisorio) per un progetto che renderebbe la città un luogo stupendo in cui vivere e lavorare. Così facendo, si rivelano ostinati difensori di una Milano davvero brutta, una città che dovrebbe appartenere al passato con il suo asfissiante traffico automobilistico. Difensori di una città invivibile contro una Milano di domani fatta di attenzione all’ambiente (anche in centro), alla qualità della vita, alla salute dei cittadini; una Milano che torna ad essere città d’acqua e – come Amburgo, Amsterdam, Bruges, San Pietroburgo, Londra, Parigi – valorizza e conserva il suo grande patrimonio storico: i navigli.
Quanti si oppongono non capiscono o non vogliono capire i benefici straordinari che la riapertura recherà al centro – e non solo al centro – nella valorizzazione a fini turistici dei navigli. Altro che riapertura nostalgica! Basta guardare quel che sarebbe via San Marco e il suo storico laghetto, reso ancor più bello dai dehors e dai percorsi ciclopedonali previsti lungo le sue sponde.
Colpisce che – fatta eccezione per Sala (che sui navigli ha pubblicato due anni fa un bel libro edito da Skira) – gli altri candidati alle primarie del centro sinistra non abbiano capito che le periferie torneranno ad essere belle e vivibili se anche il centro lo sarà. Ogni giorno i cittadini della Milano metropolitana vengono in centro dalle periferie e dai Comuni dell’hinterland: chi con i mezzi pubblici, moltissimi (troppi) con l’automobile e i motorini. Risultato? Le vie della cerchia interna sono intasate da un traffico automobilistico asfissiante che, oltre ad inquinare, rende problematici gli spostamenti dei pedoni e dei ciclisti, entrambi a contatto con uno smog dannoso alla salute.
E’ importante migliorare la vita delle periferie ma queste hanno senso se sono legate al centro da una politica coerente. Altrimenti scusate, irriducibili paladini delle periferie e delle periferie soltanto – mi rivolgo principalmente ai sostenitori della signora Balzani – perché non proponete di renderle Comuni separati, indipendenti da Milano? Nessuno – giustamente – si sogna questo perché le periferie urbane sono legate al centro da rapporti di natura sociale ed economica tanto intensi quanto inscindibili. Risposte adeguate potranno venire solo da un decentramento amministrativo che faccia delle zone tanti municipi dotati di funzioni incisive in materie che sono proprie dell’area metropolitana. Compito svolto finora egregiamente dalla giunta Pisapia.
Colpisce quindi che nessuno dei candidati – fatta eccezione per Sala – abbia capito questa elementare realtà. Il centro città non è solo di chi ci abita, ma di quanti lo visitano e ci lavorano. Ecco perché è importante che anch’esso sia bello e vivibile, facendone un’area pedonale collegata alle periferie in un rapporto equilibrato. Vivibile il centro non sarà certamente fino a quando il traffico automobilistico intaserà le vie della cerchia interna. I navigli riaperti saranno infrastrutture turistiche di straordinaria importanza per migliorare la qualità della vita perché il centro non è solo di chi ci abita ma – lo ripeto – di quanti vi risiedono per svago o per lavoro. Il potenziamento delle linee metropolitane mediante l’attivazione della M4 renderà più facile lo spostamento dei cittadini riducendo l’uso della macchina.
I navigli renderanno possibili nuove attività lavorative nel campo dei servizi legati al turismo. Ma è importante insistere che la riapertura avrà un senso solo se renderà possibile la navigabilità della Martesana fino alla Darsena di Porta Ticinese mediante il Naviglio interno. Un progetto quindi su scala metropolitana e regionale teso a collegare, rendendoli navigabili, i tre navigli lombardi che scorrono nelle periferie urbane: Naviglio Martesana, Naviglio Grande e Naviglio Pavese. Altro che sogno di nostalgici! Il fine è valorizzare a fini turistici un patrimonio culturale e ambientale che renderà Milano una metropoli davvero internazionale, degna di stare al passo con le maggiori città europee.
Il 29 gennaio è il primo giorno della Merla. E’ anche il giorno in cui si ricorda Sant’Aquilino, predicatore di origine tedesca morto a Milano all’incirca nel 1015 a seguito di un attentato da parte di alcuni eretici. Il suo corpo, ritrovato da un gruppo di facchini nel sestiere di Porta Ticinese, non lontano dalla chiesa di Sant’Alessandro, venne sepolto nella basilica di San Lorenzo.
Dal Medioevo fino alla fine del Settecento i milanesi erano soliti ricordare Sant’Aquilino con una processione. Si trattava di un evento allestito dalla corporazione dei facchini della Balla, che sfilava per le strade che oggi fanno parte di via Torino: partendo dalla chiesa di Sant’Ambrogio alla Palla – che si trovava in zona San Maurilio – terminava nella basilica di San Lorenzo. I facchini donavano al parroco una baga, vale a dire un otre contenente 50 kg di olio purissimo che serviva ad alimentare per tutto l’anno la lampada votiva nella cappella del santo.
Ma chi erano questi facchini che sfilavano per le vie del sestiere di Porta Ticinese? Può sembrare strano ma si trattava di persone non milanesi. Erano montanari che, giunti a Milano in cerca di lavoro, lo avevano trovato specializzandosi in questo mestiere. Provenivano in larghissima parte dalla Val di Blenio, antico dominio lombardo in Canton Ticino compreso tra il passo Lucomagno e Biasca. Nel Seicento si aggiunsero alcune famiglie provenienti dalla Valle Intrasca, un territorio anch’esso soggetto anticamente al dominio milanese, situato nell’attuale provincia di Verbano Cusio Ossola.
La corporazione dei facchini fu costituita in epoca medievale. Essa acquisì una certa popolarità nella vecchia Milano specializzandosi nell’arte della lana e del facchinaggio. Nel 1560 venne fondata addirittura un’accademia poetica che si ispirava ai facchini: i membri scrivevano e recitavano poesie nella lingua di questi poveri lavoratori. Varrà la pena ricordare che il celebre pittore milanese Giovanni Paolo Lomazzo fu tra i fondatori di questa accademia. A carnevale si tenevano le “facchinate”, vale a dire le sfilate di questi poeti che amavano spacciarsi per i facchini della Balla.
Ma torniamo alla corporazione vera e propria. Essa aveva sede in via della Palla (oggi la parte di via Torino compresa tra la chiesa di San Sebastiano e la via dei Piatti), in un portico tra le attuali vie San Maurilio e Valpetrosa. In questa zona si svolgeva, tre volte alla settimana, un mercato di polli, oli e latticini. I facchini erano al servizio della nobile famiglia dei Pusterla, il cui palazzo si trovava non molto distante, nel vicolo omonimo, tuttora esistente, vicino a piazza Sant’Alessandro. Secondo la tradizione milanese, furono i facchini a trovare il cadavere di Sant’Aquilino in una fogna e a trasportarlo nella vicina chiesa di San Lorenzo. Di qui ebbe origine la processione e il rito dell’otre d’olio.
La soppressione della corporazione, avvenuta alla fine del Settecento, non portò alla scomparsa di questa maestranza, che nel giorno di Sant’Aquilino continuò a praticare il rito dell’olio sia pure in forme dimesse. Nel 1867 Felice Venosta, in un prezioso volumetto dedicato alle vie di Milano, ricordava come fosse ancora in vigore la tradizionale cerimonia:
Anche oggi, quantunque la badia dei facchini non abbia più la vecchia importanza, eseguisce a sue spese la cerimonia, però non con le solenni cerimonie di una volta.
[F. Venosta, Milano e le sue vie, Milano 1867, pp.36-37].
Oggi il corpo del Santo si trova all’interno di una preziosa arca di cristallo e argento risalente al 1597.
Il 15 gennaio 1861 Terenzio Mamiani, ministro della pubblica istruzione, tenne nei locali del palazzo di Brera un solenne discorso per inaugurare l’inizio delle lezioni dell’Accademia Scientifico Letteraria. Di cosa si trattava?
La fondazione dell’Accademia era prevista dalla legge 13 novembre 1859 conosciuta come Legge Casati dal nome del relatore, il moderato lombardo Gabrio Casati. In fondo possiamo dire che grazie a questa normativa Milano poté disporre di un istituto che per la prima volta somigliava a una università. Com’è noto, dal 1361 l’università di Pavia era la più antica istituzione accademica esistente in Lombardia. Milano si trovava quindi in una posizione d’inferiorità.
Milano aveva una sua tradizione di studi più frammentata ma non meno importante. Nella seconda metà del Settecento, sotto il governo dell’imperatrice Maria Teresa e di Giuseppe II di Asburgo Lorena, l’innalzamento qualitativo degli insegnamenti era stato ottenuto mediante una riforma incisiva degli studi superiori: dal rinnovamento delle Scuole Palatine alla fondazione della Società Patriottica, avvenuta nel 1776, per la promozione dell’agricoltura e delle arti. Le riforme asburgiche avevano quindi innalzato il livello dell’alta formazione a Milano, facendone una città della cultura e del sapere utile. La Società Patriottica, specializzata nello studio delle scienze agronomiche, Basti ricordare, per restare al caso delle Scuole Palatine (situate in piazza dei Mercanti, poi trasferite nel palazzo ex gesuitico di Brera) che dal 1768 al 1773 Cesare Beccaria vi tenne i suoi celebri corsi di economia pubblica; in quegli stessi anni Giuseppe Parini vi insegnò eloquenza e belle lettere, Paolo Frisi meccanica, idrostatica e idraulica.
Si faceva sentire tuttavia la mancanza di una vera e propria Università. La ricordata legge Casati tentò di colmare questo vuoto operando in due direzioni. Anzitutto istituì l’Accademia scientifico letteraria mediante il trasferimento di alcuni insegnanti dall’ateneo pavese. Furono poi concentrate nel nuovo istituto alcune discipline presenti in istituti diversi della città: ad esempio la paleografia e la diplomatica insegnate negli archivi regi o l’astronomia attiva presso il celebre Osservatorio di Brera. I primi locali di quella che può essere considerata l’antesignana dell’Università degli Studi di Milano, furono stabiliti nel palazzo di fronte al naviglio interno di via Senato, ove oggi ha sede l’Archivio di Stato.
I primi anni furono però tormentati. Difatti il trasferimento a Milano degli insegnamenti nelle discipline letterarie finì per provocare le proteste degli studenti: questi si lamentavano delle elevate tasse d’iscrizione, cui si aggiungevano le spese di viaggio perr venire a Milano in un’epoca in cui gli spostamenti non erano certo veloci come quelli odierni. Alcuni studenti preferirono iscriversi nelle università emiliane, ove le tasse d’iscrizione erano abbordabili e gli esami più facili da superare. Per evitare un drastico calo di iscritti, nell’anno accademico 1861-62 i vertici dell’ateneo ticinese decisero di richiamare a Pavia quattro insegnanti. La situazione era critica e tutto faceva pensare che l’accademia fosse destinata a chiudere.
Le autorità locali e l’opinione pubblica milanese protestarono contro i provvedimenti dell’ateneo pavese. Scrissero al ministro dell’istruzione chiedendo la conservazione dell’Accademia scientifico letteraria. Il ministro Amari acconsentì alle richieste dei milanesi. Con regio decreto 8 novembre 1863, egli riformò in profondità l’amministrazione di questo istituto educativo. La normativa stabiliva l’apertura di una “scuola normale” per la formazione degli insegnanti delle scuole secondarie superiori nelle materie classiche di storia e filosofia. Inoltre fu istituita una scuola di alta cultura specializzata nelle scienze storiche e filosofiche. L’accademia divenne quindi un luogo in cui si affrontavano i problemi della didattica e le esigenze della ricerca scientifica in campo umanistico. Tra gli insegnanti più celebri nell’istituto di via Senato varrà la pena ricordare il deputato federalista Giuseppe Ferrari, docente di filosofia della storia e il celebre filologo Graziadio Ascoli.
Nello stesso palazzo di via Senato ebbe sede in quegli stessi anni un’altra importante istituzione di alta formazione, specializzata nelle materie scientifiche applicative. Sulla scia della lezione cattaneana incentrata sul sapere produttivo, sul sapere utile all’economia, sul sapere teso al miglioramento delle vita sociale, la legge Casati, all’articolo 310, stabilì che a Milano fosse aperto un istituto tecnico superiore (il futuro Politecnico) per la formazione di ingegneri e architetti. Il regio decreto 13 novembre 1862 scendeva ancor più nel dettaglio, chiarendo che nell’istituto sarebbe stata attivata una Scuola d’applicazione per ingegneri meccanici e ingegneri agronomici. Il primo direttore fu il professor Francesco Brioschi, celebre patriota milanese che aveva partecipato alle Cinque Giornate di Milano. Negli anni Cinquanta Brioschi aveva tenuto gli insegnamenti di matematica applicata, idraulica e analisi superiore all’ateneo di Pavia. Nel 1851 si era recato all’estero in un viaggio di studio per conoscere la condizione di alcuni atenei, acquisendo una conoscenza approfondita del livello delle istituzioni scientifiche europee. Nominato direttore con decreto 12 febbraio 1863, Brioschi ebbe un ruolo fondamentale nel portare il Politecnico a livelli di eccellenza, il che fece di Milano una città leader nella formazione tecnico-industriale.
Occorre precisare che queste istituzioni di alta formazione, l’Accademia scientifico letteraria e l’Istituto tecnico superiore, ebbero sede nel palazzo di via Senato solo nei primi anni Sessanta dell’Ottocento. Già nell’anno accademico 1865-66 il Politecnico fu trasferito nel palazzo della canonica in piazza Cavour ove sarebbe rimasto fino al 1927. Lo stesso era avvenuto per l’Accademia.
Abbiamo accennato alla storia di queste istituzioni di alta formazione. Delle due, quella destinata a maggior successo era certamente il Politecnico.
In una rassegna degli istituti d’istruzione esistenti a Milano nell’anno della Esposizione Nazionale del 1881, l’erudito Isaiah Ghiron scriveva a proposito dell’Istituto tecnico:
“Apertosi nel 1863 coll’insegnamento della Meccanica razionale e industriale, della Geodesia, della Geologia e Mineralogia applicata, della Topografia, della Geometria descrittiva, della Fisica tecnologica, della Scienza delle costruzioni, della Chimica analitica dell’Idraulica e delle Costruzioni Idrauliche, dell’Agronomia e dell’Economia rurale, vi fu aggiunto nel 1865 quello di architettura e quindi la facoltà di conferire anche il diploma di architetto civile. Più tardi vi s’introdusse l’insegnamento di chimica tecnologica e di metallurgia e gli fu data la facoltà di concedere la laurea d’ingegnere industriale.
Il numero crescente degli alunni d’ogni parte d’Italia e gli uffici che occupano con onore gli allievi che ne sono usciti, rivelano tutta la valentia dei professori e la bontà dell’insegnamento di questo istituto”.
Diverso il commento a proposito dell’Accademia scientifico letteraria, la cui modesta attività era messa in relazione alla deprecata decadenza degli studi classici in una Milano ormai dominata dal clima positivista:
L’età nostra non corre favorevole agli studi classici, e Milano, che più delle altre città italiane rivolse il pensiero alle industrie, deve forse deplorarne maggiormente l’abbandono, desiderare più delle altre che non vadano perdute tutte le antiche tradizioni nazionali, e si conservi tra noi il culto di quelle discipline in cui essa fu maestra al mondo.