La solitudine dell’eroismo civile

Venerdì scorso, presso il Palazzo delle Stelline in Corso Magenta, ho assistito alla presentazione dell’ultimo libro di Umberto Ambrosoli: Ostinazione civile. Idee e storie di una rigenerazione civica (Guerini e Associati, Milano 2016). L’autore è stato intervistato da Daniela Mainini, presidente del Centro Studi Grande Milano, una istituzione che opera da anni mettendo in campo iniziative di grande spessore culturale.

ostinazione civileAl centro del libro di Ambrosoli sono i valori fondanti di una comunità politica. In primo luogo, la legalità, il rispetto delle regole che ha senso nella misura in cui risponde all’utilità sociale, al senso profondo di una comunità. Il titolo del volume, Ostinazione civile, esprime la passione per la buona politica che deve orientare l’agire quotidiano di chi è chiamato a ruoli di responsabilità pubblica. L’uomo pubblico deve agire per il bene comune nell’interesse esclusivo dei cittadini contro la prepotenza dei più forti, che tendono a prevaricare violando le regole per i loro interessi personali. La vera politica è tale nella misura in cui si fa umile servizio, praticata con coerenza per migliorare il benessere della comunità. Ascolto Ambrosoli e mi rendo conto che la sua ostinazione civile è un convincimento profondo, che solleva inevitabilmente il tema del rapporto di ciascuna persona con gli altri.

In un Paese come l’Italia, venato da secolari pulsioni individualiste e corporative contrarie al civismo, Ambrosoli rilancia la missione di educare i cittadini perché lo spirito pubblico prevalga sempre sull’interesse privato. Nell’ascoltare il suo discorso appassionato, il pensiero corre al fondamento dell’obbligo politico e alla cultura anglosassone della rule of law, che non è solo rispetto della legalità formale, ma ancor più il senso di appartenenza a una comunità politica fondata sui valori della libertà e del bene comune. Mi è venuta in mente la lezione di alcuni filosofi politici, in particolar modo di Alessandro Passerin d’Entrèves (1902-1985), il quale non si stancava di sottolineare l’importanza cruciale che in una democrazia liberale ha il nesso legalità-legittimità. Il fondamento di una comunità non può reggersi soltanto sulla legalità, sul rispetto esteriore delle regole; occorre che vi sia la legittimità, vale a dire il consenso dei governati sulla bontà delle leggi e sul diritto dello Stato. Un consenso che si ottiene nella misura in cui i cittadini vengono coinvolti nel funzionamento delle istituzioni politiche mediante gli istituti di democrazia diretta e rappresentativa.

Lo Stato liberaldemocratico non è un sistema di potere basato esclusivamente sul “monopolio della forza”: occorre che quella forza – per riprendere una bella espressione di Max Weber – sia “legittima”. La legittimità riposa sull’autorità dell’ordinamento costituito: i cittadini prestano obbedienza perché si riconoscono nei suoi valori fondanti. Uno Stato liberaldemocratico, uno Stato di diritto e sociale è tale non solo quando garantisce ai cittadini la “libertà positiva” – partecipazione alla vita della comunità mediante l’esercizio della democrazia diretta e della democrazia rappresentativa – ma ancor più quando si erge a salvaguardia della libertà negativa dei cittadini, quando rende operanti i diritti dell’uomo e del cittadino presenti nelle costituzioni moderne.

Oggi siamo in una situazione a dir poco allarmante: il divorzio dei cittadini dalla politica, dall’esercizio dei diritti di libertà positiva è evidente nell’astensionismo dilagante. Un fenomeno dovuto certamente alla mancanza di credibilità di una classe politica corrotta e inefficiente, ma anche all’incapacità dei partiti di intercettare il malcontento per una riforma delle istituzioni che assicuri il miglioramento della governabilità e la piena partecipazione dei cittadini alle istituzioni repubblicane.

Ricordo tuttavia che alle ultime elezioni amministrative le liste civiche hanno coinvolto strati importanti della società civile sulla base di programmi e obiettivi concreti, sia a destra che a sinistra. Un risultato certamente positivo, che tuttavia non è bastato a coinvolgere gli elettori: in un Comune come Milano, l’affluenza alle urne si è fermata al 54,67%. Insomma, per recuperare consenso la politica deve tornare ad essere credibile.

Umberto Ambrosoli ha appreso in famiglia il senso dello Stato e la passione per la buona politica. Il padre Giorgio, commissario liquidatore delle banche di Michele Sindona, sacrificò con la vita la sua dedizione alla causa della legalità. “L’insegnamento di mio padre” – avverte Umberto – “non è l’unico caso di persone che sono morte per il bene comune, che hanno anteposto il bene collettivo agli interessi individuali”. Umberto non torna sulla storia del padre, un tema che scava nel profondo della sua storia familiare. Si limita a commentare con umiltà: “Mio padre non ha sacrificato la sua vita, ha vissuto l’unica vita che avrebbe voluto vivere”.

Nell’incontro organizzato dal Centro Studi Grande Milano, Ambrosoli si sofferma soprattutto sulla sua esperienza politica. Ricorda un episodio della campagna elettorale per la corsa alla presidenza della Regione Lombardia nel 2013; un episodio che gli fece capire il senso della buona politica:

“Ricordo una giornata di lavoro intensissimo. Eravamo nel pieno della campagna elettorale per la corsa al Pirellone. Partiti da Lecco, andammo a Colico, a Sondalo e in altri comuni dell’alta Lombardia. Tornati a Lecco a notte fonda, verso le 2.30 mi chiesero un’intervista sui valori del civismo. Decisi di rilasciare l’intervista nonostante l’ora tarda. In quell’occasione, nel momento in cui occorreva essere svegli nonostante il fisico stesse per cedere alla stanchezza dopo una giornata intensa fatta di comizi e incontri elettorali, ebbi la forza d’insistere consapevole del legame profondo che ci unisce agli altri; nei comportamenti deve guidarci costantemente lo spirito di servizio perché noi politici e amministratori pubblici, rappresentando i cittadini che ci hanno eletto, dobbiamo essere d’esempio”. Il fine di un politico onesto e competente  – ricorda – “non è la vittoria ma vivere in coerenza con le sue motivazioni”.

Il libro è incentrato su questo valore civico: lo spirito di servizio, la dedizione al bene comune. Ambrosoli porta l’esempio di quanti, operando in uffici pubblici di responsabilità, hanno mostrato di non volersi piegare alla prepotenza dei forti, battendosi con coraggio fino a sacrificarsi per la legalità, per il rispetto delle regole.

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Renata Fonte (1951-1984)

Uno dei personaggi citati nel libro è ad esempio Renata Fonte, assessore del partito repubblicano a Nardò in provincia di Lecce, uccisa dalla criminalità organizzata nel 1984 per non essersi piegata alle lobby dei costruttori che intendevano edificare nelle coste salentine in violazione delle leggi sul patrimonio naturalistico. Un delitto reso ancor più vile perché macchiato dal tradimento di un collega venduto alle mafie, ansioso di succedere alla Fonte nell’ufficio ch’ella rivestiva in Comune. Questo caso – come gli altri riportati nel libro – dimostra l’immensa solitudine che comporta l’eroismo. Chi esercita funzioni pubbliche è chiamato non solo a lavorare con probità e onestà, ma ad agire con coraggio dimostrando sul campo di avere la forza di amministrare la cosa pubblica nell’esclusivo interesse dei cittadini. Questo è il senso nobile della politica, questa deve essere l’ostinazione civile di chi è chiamato ad amministrare per il bene della comunità. Per conseguire tale traguardo occorre però una selezione nei partiti che porti ad escludere i profittatori, gli arrivisti, gli incompetenti  e – quel che più conta – i tanti Don Abbondio pronti a chinare il capo davanti alle prepotenze, vasi di terracotta in mezzo a tanti vasi di ferro.

Banca d’Italia: Lombardia in (lenta) ripresa nel 2015

Quando si afferma che la crisi ha segnato profondamente l’economia italiana, che non siamo ancora usciti dal tunnel, che la ripresa è minima, bisogna riconoscere che ci si muove spesso su percezioni della realtà settoriali, su impressioni che spesso ricaviamo dalle nostre relazioni o dalla conoscenza di alcuni eventi specifici di cui siamo venuti a conoscenza: l’azienda che chiude o licenzia, i giovani laureati che vanno all’estero, il flebile aumento del Pil previsto per quest’anno.

Qual è la situazione effettiva? Il Paese è in ripresa oppure è vero quello che si dice da più parti, ossia che arranchiamo ancora nella crisi? Uno sguardo sull’economia della Lombardia, conosciuta come la locomotiva del Paese, può forse aiutarci a capire di più.  Uno studio di Banca d’Italia apparso nel bollettino n.3/giugno 2016 dedicato alle analisi regionali fornisce un quadro definito su quanto avvenuto nell’anno passato.

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A sinistra, il palazzo della Banca d’Italia a Milano in via Cordusio 5 in una vecchia cartolina

I dati disponibili, relativi al 2015, confermano una ripresa per l’economia lombarda, il cui Pil è cresciuto dell’1,1%. Rispetto al dato nazionale, che è dello 0,8%, si tratta però di un aumento tenue.

Le aziende manifatturiere hanno registrato una crescita di fatturato che si è consolidata rispetto all’anno precedente. Su un campione di quasi 360 imprese industriali con almeno 20 addetti, il fatturato a prezzi costanti è aumentato del 3,3% rispetto al 2014, quando si era attestato a +0,7%. La produzione industriale è cresciuta nel 2015 dell’1,5% confermando il dato dell’anno precedente. Si tratta di un risultato positivo ma ancora insufficiente per recuperare il livello pre-crisi: basti ricordare a tal proposito che l’indice della produzione industriale è ancora sotto di 9 punti percentuali rispetto al picco del terzo trimestre 2007. Insomma, c’è ancora molta strada da fare per tornare ad essere competitivi.

I comparti che hanno registrato i migliori incrementi di fatturato nel 2015 hanno interessato le imprese del settore della gomma, dei mezzi di trasporto e della meccanica. In Lombardia – come nel resto del Paese – la crisi ha operato tuttavia una selezione feroce. Le aziende in difficoltà sono quelle che operano nei comparti tradizionali, che non sono riuscite ad innovare a sufficienza: operano nei settori dell’abbigliamento e del tessile, nel comparto dei minerali non metalliferi, ove è impiegata metà della forza lavoro totale nella manifattura.

Le imprese che son riuscite a resistere e ad espandersi guadagnando nuovi mercati sono invece quelle che hanno saputo investire in ricerca e sviluppo, aggiornando soprattutto i sistemi informatici e quelli di automazione. Molte di queste aziende usa sistemi quali internet mobile e Cloud, spesso introdotti da più di due anni. Le imprese che hanno mostrato maggiore vitalità sono quelle specializzate nel settore high-tech, situate in larga parte nella Città metropolitana di Milano e nella provincia di Monza e Brianza: si tratta in molti casi di aziende attive nel campo dei medicinali e della farmaceutica che danno lavoro a 20.000 persone. Si è stimato che per queste aziende il fatturato è cresciuto del 24,2% tra il 2007 e il 2014, registrando le migliori performance nel settore manifatturiero. Le vendite all’estero sono cresciute qui del 19,3% tra il 2013 e il 2014.

Incrementi positivi nel fatturato – ma ancora deboli – si sono registrati invece, secondo Banca d’Italia, nei settori industriali caratterizzati da una produzione a tecnologia medio bassa: ad esempio le aziende attive nella lavorazione dei metalli, dei prodotti chimici e della plastica. Il fatturato del 2014 è in questo caso lievemente superiore rispetto a quello del 2007 .

Dallo studio di Banca d’Italia emergono inoltre due dati importanti. Il primo si lega al mercato immobiliare, che nel 2015 è tornato ad espandersi dopo anni di contrazione. Il numero delle compravendite è aumentato del 9% ma resta ancora lontano dai livelli pre-crisi del 2006.

Expo 2015Il secondo dato verte sul terziario, che nell’anno preso in esame ha registrato una netta ripresa, soprattutto grazie ad Expo 2015. L’affluenza dei visitatori  nei sei mesi di apertura è stata pari a 21,5 milioni di persone. Le strutture alberghiere di Milano hanno registrato un aumento di clientela del 17,8% nel 2015, mentre in Lombardia è stato del 9,2%. Banca d’Italia – che cita in proposito l’indagine Travel condotta da Unioncamere Lombardia, CERST e Regione Lombardia – stima che i visitatori italiani hanno speso mediamente 150-200 euro pro-capite, mentre gli stranieri 250-300 euro. Relativamente a questi ultimi, si è stimato che un terzo è giunto in Italia appositamente per Expo, dedicando ad esso quasi quattro giorni di visita; il resto della permanenza in Italia ha premiato le principali città d’arte italiane: Venezia, Firenze, Roma. Expo ha quindi svolto una funzione di traino per la crescita del turismo in Italia. Gli stranieri hanno concentrato le loro spese nella Città metropolitana di Milano per una percentuale attestata sul 69,6%: a dimostrazione che l’Esposizione Universale ha contribuito in misura notevole alla crescita del turismo a Milano nel 2015.

Dal focus di Banca d’Italia emerge inoltre il grande ruolo che Expo 2015 ha avuto nell’economia lombarda: le imprese della regione si sono aggiudicate gli appalti nel 21% dei casi per la costruzione del sito (588 milioni di euro: fonte OpenExpo) e nel 52% per la fornitura di beni e servizi (216,5 milioni).

Nel sito della Esposizione Universale, ben collegato con Milano sul piano dei mezzi di trasporto, si pensa nei prossimi mesi di costruire Human Technopole, un parco tecnologico dotato di sette centri di ricerca attivi nei campi della genomica, della scienza dei dati, dei modelli computazionali, delle valutazioni di impatto sociale, delle nanotecnologie; un parco che potrebbe dare lavoro a più di 1500 addetti. Si tratta di un tema importante per Milano che dovrà essere affrontato dal prossimo sindaco, chiunque vinca le elezioni.

Cattaneo e il trasporto merci via acqua

In alcune lettere scritte all’amico federalista Enrico Cernuschi tra il 1854 e il 1855, Carlo Cattaneo,  che dopo il fallimento della rivoluzione del ’48 si era stabilito nella svizzera Castagnola per sfuggire agli arresti della polizia austriaca, si faceva promotore di un progetto assai ardito. Val la pena soffermarsi su questo tema perchè può aiutare a comprendere non solo l’originalità del pensiero di Cattaneo, ma anche il diverso modo di affrontare una questione attuale come il trasporto merci nell’area metropolitana milanese.

Così Cattaneo descriveva il delicato tema delle infrastrutture in Lombardia e nell’Italia del Nord in una lettera all’amico dell’ottobre 1854:

Il Lago Maggiore che tocca i tre territorj piemontese, svizzero e lombardo veneto ha la sua superficie a poco meno di 200 metri sopra il livello del mare. Dal lago le barche discendono per un tronco del fiume Ticino (lungo 26 chilometri) fino a Tornavento ov’entrano in un Canale (lungo 50 chilometri) pel quale discendono fino a Milano. Da Milano per altro Canale (lungo 33 chilometri) scendono a Pavia; quivi entrano nel basso Ticino (5 chilometri) e di là pel Po (104 chilometri) arrivano all’Adriatico. La discesa continua dal Lago Maggiore al mare somma a chilometri 251 e si può percorrere senza dispendio di forza motrice. La linea passa in vicinanza di molte buone città e attraversa tutte le linee ferrate dell’Alta Italia.

[I carteggi di Carlo Cattaneo, a cura di Margherita Cancarini Petroboni  e Maria Chiara Fugazza, Serie I, vol.III, 1852-56, pag.182]

Il trasporto merci lungo i fiumi e i canali era quindi opportuno secondo Cattaneo – si tenga presente questo punto – perché avveniva “senza dispendio di forza motrice”.

Le merci che giungevano a Milano dal Nord Europa erano trasportate a quei tempi mediante la “forza motrice” degli animali da tiro (al cui nutrimento bisognava provvedere mediante l’acquisto di mangimi), delle prime locomotive (che occorreva alimentare con il carbone importato) oppure attraverso la via “gratuita” dell’acqua fluviale.

Oggi in Paesi dell’Europa settentrionale e centrale come ad esempio la Germania, la Francia, l’Olanda, l’Austria, l’Ungheria, la Repubblica Ceca, il trasporto di alcune tipologie di merci avviene ancora su chiatte: questi tipi d’imbarcazione attraversano non solo i grandi fiumi come il Reno, la Mosella, il Danubio, la Senna, ma anche i canali artificiali come ad esempio avviene in Olanda: penso ai legnami, alla calce, al cemento. L’Italia fa eccezione: da noi si ricorre in via pressoché esclusiva ai treni merci e al trasporto su gomma. Risultato: autostrade e strade piene di Tir e camion di ogni specie.

Ai tempi di Cattaneo la situazione in Lombardia – fatte ovviamente le distinzioni di tempo – era più vicina ai paesi del Nord Europa. Nella lettera a Cernuschi era fornita una descrizione assai indicativa del commercio tra Milano e i comuni lombardi da una parte e il Lago Maggiore dall’altra mediante le “vie d’acqua” lungo il Naviglio Grande e il Ticino. Cattaneo faceva previsioni ottimistiche su un incremento di questo tipo di trasporti:

Il Lago Maggiore somministra graniti, marmi, torba, carbone, legna da fuoco e costruzione. Il nuovo sviluppo della navigazione del Po potrà estendere il consumo dei graniti, dei marmi saccaroidi, e d’altre pietre cristalline in lastre e in ciottoli provenienti dalle Alpi, alle costruzioni e al selciato d’altre città, come Piacenza, Parma, Modena, Bologna, Ferrara etc. alle quali li Appennini non possono somministrare se non pietre calcari e arenarie assai deboli.

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Carlo Cattaneo (1801-1869)

Veniamo però al progetto che Cattaneo presentò a Cernuschi. Esso era teso a risolvere un grave problema, assai sentito a quell’epoca: la navigazione contro corrente. Era relativamente facile trasportare le merci dai laghi verso Milano con la corrente favorevole. Il problema si poneva quando si faceva il percorso inverso. I milanesi avevano cercato di risolverlo facendo trainare le cobbie – così erano chiamate le barche vuote – da vecchi cavalli ai quali restavano pochi anni di vita. La lentezza del trasporto era però notevole. Quando scriveva Cattaneo – siamo verso la metà del XIX secolo: la ferrovia si stava imponendo come mezzo privilegiato sulle lunghe distanze – i tempi del trasporto su acqua in risalita erano sempre meno convenienti.

L’attenzione dell’economista lombardo era concentrata soprattutto nel tratto del Ticino tra Sesto Calende e Tornavento. Il Naviglio Grande, che dal XIII secolo porta l’acqua del fiume alla Darsena di Porta Ticinese, è il canale più facile da navigare perché la pendenza è tendenzialmente progressiva e non ha conche lungo il suo percorso. A quei tempi le operazioni di risalita delle barche avvenivano senza grandi difficoltà lungo il Naviglio. I problemi si ponevano dopo Tornavento. La corrente del Ticino diveniva fortissima. Cattaneo, nella lettera a Cernuschi più volte citata, spiegava il problema operando un raffronto tra il dislivello (la caduta) del Ticino tra Sesto Calende e Tornavento e quello del Danubio tra Vienna e il Mar Nero:

Il fiume [Ticino] in questo breve intervallo di 26 chilometri ha una caduta di metri 47. Per dare un’idea comparativa dell’intensità di questa caduta basti dire che la caduta del Danubio da Vienna al Mar Nero, sopra una lunghezza quasi cento volte maggiore, è di soli metri 133, ossia nemmeno il triplo. E nulladimeno la navigazione del Danubio è giudicata ancora difficile. Inoltre questa discesa di 47 metri è ripartita molto ineguabilmente formando undici Rapide, alcune delle quali ammontano al 6 per mille.

[I carteggi di Carlo Cattaneo…cit, pag.183]

Si era tentato di risolvere il problema caricando le merci su imbarcazioni più piccole in quel tratto di fiume, più adatte da manovrare per affrontare le rapide senza pericoli. Così commentava Cattaneo i dati del dazio milanese ove era segnato il numero delle barche arrivate in Darsena:

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La Darsena di Milano in una foto del 1954

Consta dai registri della Dogana di questa capitale [Milano] che il numero annuo delle barche pervenute dal Lago Maggiore varia da 4 mila a 7 mila. Consta inoltre che codeste barche nell’intervallo tra Sesto Calende e Tornavento, ossia tra l’uscita del lago e l’ingresso del canale, non possono in molti mesi dell’anno scendere per le rapide del Ticino senza subire la necessità di alleggerirsi; e che a tal fine il carico si divide momentaneamente sopra due o tre barche, per riunirsi poi nuovamente in una sola barca all’ingresso del canale. Perloché il numero di 4 mila a 7 mila barche che figura alla dogana di Milano, rappresenta il movimento di 7 mila a 10 mila tra Sesto Calende e Tornavento. […]

Compiuta la discesa e deposto il carico, tutte le barche rimontano vuote il canale: 1) perché questo ha un corso assai rapido, dovendo esso portare una gran massa d’acqua ad uso della irrigazione; 2) perché non ha chiuse, essendo stato costruito tre secoli prima che nel Paese medesimo si facesse l’invenzione delle chiuse. Giunte le barche all’estremità superiore del Canale presso Tornavento, rimontano, parimenti vuote, il fiume Ticino fino al Lago Maggiore presso Sesto Calende.

Restava il grande problema della lentezza del trasporto merci non solo nelle fasi di risalita del fiume, ma anche in quelle della discesa perché, come ricordava Cattaneo, nel tratto di fiume tra Sesto Calende e Tornavento occorreva trasferire le merci su barche più piccole. Come rendere più veloci i commerci?

L’idea di Cattaneo si basava sull’utilizzo della ferrovia. Egli non pensava affatto a una linea ferroviaria da Milano a Sesto Calende. La sua proposta consisteva nell’utilizzare un tronco di strada ferrata che il governo austriaco aveva messo in vendita. Gli austriaci restavano i suoi nemici, ma quando si trattava di affari non si guardava in faccia nessuno. Il tratto di ferrovia messo in vendita dal governo interessava l’altopiano tra Sesto Calende e Tornavento. Le barche provenienti da Milano e dirette al Lago Maggiore, anziché risalire quel tratto impervio di fiume, sarebbero state sistemate su un “treno all’americana” e trasportate su un tratto di ferrovia a gestione privata fino a Sesto Calende. In tal modo non ci sarebbe stato alcun bisogno di caricare o scaricare le merci su imbarcazioni più piccole nel tratto delle rapide. Il risparmio di tempo era assicurato, soprattutto nella risalita. Scriveva a Cernuschi:

Da ciò nacque il pensiero di costruire sull’altipiano che domina le rapide del fiume un breve tronco di via ferrata all’Americana, ossia a semplice forza animale (Tram Road) con armamento leggero e con più commodo limite nelle pendenze. Su questa rotaia devono le barche vuote ritornare dalla estremità superiore del Canale Naviglio al Lago Maggiore, senza lottare coll’impeto del fiume…

Mentre la linea d’acqua colle sue tortuosità misura 26 chilometri, la linea ferrata sarebbe meno di 17. Il tempo della salita che ora varia da tre giorni a due settimane e anche più si ridurrebbe costantemente a 4 ore di marcia a piccolo passo.

A questo punto sorgono spontanee tre domande:

  1. Perché Cattaneo pensò a una ferrovia leggera trainata da sola forza animale e non a un treno merci mosso da una locomotiva?
  2. Per quale motivo Cattaneo non propose la costruzione di una linea ferroviaria diretta da Milano a Sesto Calende, magari limitata al trasporto merci?
  3. Perché Cattaneo volle rendere partecipe di questa idea l’amico Cernuschi?

Procediamo con ordine. In effetti Cattaneo aveva preso in considerazione la possibilità di fare uso di una locomotiva: non riteneva tuttavia che fosse conveniente per le spese elevate di costruzione e di allestimento di officine specializzate. In questo sbagliava giacché il trasporto merci su rotaia mediante l’uso di locomotive alimentate a carbone si sarebbe affermato in modo sempre più marcato nella seconda metà dell’Ottocento. Occorre però considerare che il suo progetto si rivolgeva al finanziamento dei privati, il che lo portava ad evitare spese eccessive e a ricercare soluzioni economiche, alla portata di singoli finanziatori che non fossero lo Stato. Il che ci consente di rispondere alla terza domanda: vale a dire per quale ragione avesse scritto al suo vecchio amico e patriota federalista.

Enrico Cernuschi
Enrico Cernuschi (1821-1896)

Cernuschi, emigrato in Francia dopo il fallimento dei moti del ’48 – ’49, stava percorrendo una luminosa carriera nel settore della finanza parigina. Nel giro di pochi anni era divenuto membro del consiglio di amministrazione del Credit Mobilier, una banca che era stata fondata nel 1852 dai fratelli Emile e Isaac Pereira. Cattaneo intendeva convincere l’amico a finanziare il suo progetto o a trovare persone disposte a farlo. Le sue attese andarono però deluse. Cernuschi chiarì che il Credit Mobilier era un istituto specializzato nella compravendita di titoli e azioni; non rientrava nei suoi compiti quello di farsi promotore di imprese industriali. E’ probabile tuttavia che Cernuschi, banchiere con un acuto senso degli affari, volesse evitare di esporsi in un’operazione i cui ritorni erano molto incerti. Occorre inoltre aggiungere che il Credit Mobilier non versava in buone acque: di lì a pochi anni, nel febbraio 1859, Cernuschi si sarebbe dimesso abbandonando la barca prima che affondasse. Il fallimento del Credit sarebbe arrivato nel 1867. Tutto questo spiega per quale motivo il piano di Cattaneo fosse destinato a restare sulla carta.

Eppure, in queste lettere, traspare la preferenza di Cattaneo per il trasporto via acqua, più conveniente perché consentiva di operare “senza dispendio di forza motrice”. I costi d’importazione del carbon fossile per l’utilizzo di una locomotiva rendevano nettamente migliori le vie d’acqua. In una lettera a Cernuschi del 17 maggio 1855 l’economista si esprimeva in questi termini:

I rapporti tra il Lago Maggiore e la pianura sono indistruttibili; la discesa di legname, carbone, torba, calce, marmo e granito non può non accrescersi al contatto di tante nuove linee navigabili e ferroviarie…La discesa per forza spontanea e gratuita d’acqua costerà eternamente meno di qualsiasi altro espediente, massime in paese privo di carbon fossile.

[I carteggi di Carlo Cattaneo…cit, pag.222. Le parole sono sottolineate da Cattaneo]

Qui Cattaneo riecheggiava il pensiero di Beccaria il quale, ottant’anni prima, nei suoi corsi di economia pubblica presso le Scuole Palatine di Milano, aveva toccato l’argomento in questi termini:

Rifletteremo…essere voce universale di tutti gli scrittori d’economia che i trasporti per acqua siano di gran lunga preferibili ai trasporti per terra. Calcolano essi il trasporto per acqua essere un quinto del trasporto per terra; vale a dire che una nazione che trasportasse quattro volte più lontano d’un’altra per acqua quelle stesse merci che la seconda deve portare una sol volta per terra, averebbe ciò nonnostante la preferenza.

[C. Beccaria, Elementi di economia pubblica in C. Beccaria, Scritti economici, vol.III della Edizione Nazionale delle Opere di Cesare Beccaria, Milano, Mediobanca 2014, pag.172].

L’amore maledetto di Via Unione

Ieri, mentre mi recavo in piazza Sant’Alessandro, nel passare per via Unione la mente è corsa a un vecchio fatto di cronaca della Milano di fine Ottocento.

La protagonista di questa storia era nota a Milano come “la contessa Lara”. In realtà il suo vero nome era Evelina: una ragazza che si era fatta notare per la bellezza della persona e per le sue straordinarie doti di poetessa. Nata a Firenze nel 1849, era figlia del console scozzese William Cattermole e della pianista russa Elisa Sandusch. Sposò nel 1871 il capitano Eugenio Mancini, figlio del senatore Pasquale Stanislao, il politico napoletano che sarebbe divenuto di lì a pochi anni, con l’avvento al potere della Sinistra storica, ministro di grazia e giustizia nel governo Depretis. Nel 1873 gli sposi si stabilirono a Milano.

Cosa avvenne di tanto scandaloso in via Unione? Il 22 maggio 1874 Evelina fu scoperta dal marito mentre si trovava in intimità con il suo amante, il giovane veneziano Giuseppe Bennati di Baylon. L’incontro dei due amanti era avvenuto in un piccolo appartamento situato per l’appunto in via Unione.

Bennati di Baylon, che all’epoca rivestiva l’ufficio di segretario capo del Banco di Napoli, era in rapporti d’affari con Mancini. Questi, avendo alcuni debiti da pagare, aveva chiesto più volte all’impiegato di aiutarlo mediante l’emissione di alcune cambiali. Il rapporto tra i due si era fatto più stretto con il passare del tempo e, nel corso di un incontro privato, il Bennati di Baylon aveva conosciuto Evelina, la cui bellezza lo colpì fin dall’inizio. Come spesso accade in questi casi, il tradimento si era consumato a causa dell’infelice matrimonio della ragazza, trascurata dal marito che preferiva trascorrere le sue serate sui tavoli da gioco o a teatro.

Una situazione cui Evelina sembrava alludere nella poesia “Di sera”:

Evelina 1875
Evelina Cattermole nel 1875

Ed eccomi qui sola a udir ancora/
Il lieve brontolio de’ tizzi ardenti;/
eccomi ad aspettarlo; è uscito or ora/ canticchiando, col sigaro tra i denti. /

Gravi faccende lo chiaman fuora; / gli amici a ’l giuoco de le carte intenti, / od un soprano che di vezzi infiora / d’una storpiata melodia gli accenti. / 

E per questo riman da me diviso / Fin che la mezzanotte o il tocco suona / A l’orologio d’una chiesa accanto. / Poi torna allegro, m’accarezza il viso, / e mi domanda se son stata buona, / senza nemmeno sospettar che ho pianto.

 

Comprendiamo bene come la ragazza non fosse stata insensibile alle attenzioni del giovane veneziano, il quale era rimasto rapito dal suo fascino. L’amicizia tra i due si mutò ben presto in un’appassionata relazione amorosa consumatasi fino a quel fatidico 22 maggio 1874, quando la donna di servizio, che era al corrente di ogni cosa, rivelò tutto al marito.

Mancini si vendicò nel modo consueto a quell’epoca: ricorse al “delitto d’onore”. Quattro giorni dopo sfidò a un duello con pistole il Bennati di Baylon. Questi, mosso da un profondo senso di colpa, rinunciò a difendersi non esitando ad invocare la morte in una lettera che portava con se. Il duello, avvenuto presso una fornace nel comune di Bollate, ebbe un esito che non è difficile immaginare: il giovane veneziano venne ferito mortalmente e morì dopo alcuni giorni.

Evelina, che amava follemente il Bennati, si recò sulla tomba dell’amato al Cimitero Maggiore e, come estremo saluto, depose sulla lapide una corona che aveva formato con le ciocche dei suoi capelli. Abbandonata dal marito, circondata dal pubblico discredito, si trasferì per alcuni giorni nella sua città natale, Firenze. Il padre si rifiutò di accoglierla a causa del disonore che aveva procurato alla famiglia. Solo la nonna si offrì di darle una sistemazione provvisoria.

Il capitano Mancini fu processato per l’omicidio. La sentenza gli concesse le attenuanti del delitto d’onore, condannandolo a tre mesi di confino.

Evelina, rimasta sola, abbandonata da tutti, dovette cercare un lavoro per guadagnarsi da vivere. Si impegnò nel campo del giornalismo sfruttando quelle poche amicizie che le sue doti di poetessa le avevano consentito di formarsi. Pubblicò le sue liriche sulla rivista “Nabab” presentandosi con lo pseudonimo di contessa Lara. Decisiva fu però la conoscenza a Milano di Maria Antonietta Torriani, moglie di Eugenio Torelli Viollier, direttore del “Corriere della Sera”. Grazie alla sua presentazione, Evelina fu tra i primi collaboratori del giornale, responsabile di una rubrica dedicata al costume femminile che riscosse una certa popolarità nella Milano di fine Ottocento. La giovane firmava i suoi articoli con lo pseudonimo “La Moda”. Seguirono collaborazioni con altre testate giornalistiche: da “Il Pungolo” a “La Tribuna illustrata” fino a “Il Fieramosca”. Si firmava spesso Lina de Baylon, n memoria dell’uomo che fu l’unico vero Amore della sua vita.

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Evelina Cattermole in un’immagine che la ritrae in età matura

Ottenuta una certa popolarità presso il pubblico della borghesia colta, nel 1883 Evelina si trasferì a Roma. Qui incontrò il giornalista Giovanni Alfredo Cesareo, un uomo assai più giovane di lei, al quale si legò in un rapporto sentimentale durato una decina d’anni. La relazione, non sorretta dall’amore, si era costituita soprattutto per l’insicurezza della donna, spaventata all’idea di rimanere sola per il resto della vita. Il rapporto tra i due finì tristemente a causa degli sbandamenti di Evelina. Il compagno, stanco del suo atteggiamento, la lasciò nel 1894 gettandola in una profonda crisi di sconforto.

Poco tempo dopo la donna conobbe Giuseppe Pierantoni, noto a Roma come “Bubi”, un pittore venticinquenne napoletano che sbarcava il lunario illustrando le pagine del periodico “La Vita italiana”. Bubi si finse innamorato di Evelina, la cui bellezza era ormai sfiorita con l’incalzare degli anni. In realtà i suoi progetti erano di tutt’altra pasta: intendeva approfittarsi delle fragilità della donna per farsi mantenere a sue spese. Quando vennero a galla le reali intenzioni del giovane, era ormai troppo tardi. L’ultima pagina di una vita tormentata fu volta in tragedia. Nel corso di un litigio per l’ennesima richiesta di soldi da parte di “Bubi”, Evelina fu uccisa con un colpo di pistola al ventre.

Poche le persone accorse al funerale della “contessa Lara”. Tra i presenti val la pena ricordare la scrittrice Matilde Serao, Luigi Pirandello e il marito Eugenio Mancini. Una vita infelice, quella di Evelina Cattermole, cui mancarono saldi affetti familiari. In una delle sue liriche, nel descrivere la profonda solitudine che l’aveva resa incapace di farsi una famiglia, aveva scritto: “Quando la vita ne la madre manca, voi, carte, ingiallirete, io morrò sola”.

Quando il falso è figlio del vero che si brama…

“Chi deve falsificare documenti deve sempre documentarsi, ed ecco perché frequentavo le biblioteche”: così confessava candidamente l’agente segreto Simone Simonini, il protagonista del romanzo Il Cimitero di Praga, mentre raccontava le circostanze che lo avevano portato a “fabbricare” il falso dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion destinato ad avere una sinistra influenza nella storia europea.

L’altro ieri, mentre assistevo all’interessante convegno del “Centro Studi Grande Milano” su “La storia dell’arte vera: la bellezza dell’autentico”, il mio pensiero è corso al compianto Umberto Eco, il quale ha dedicato al falso pagine indimenticabili nei suoi romanzi: da Il pendolo di Foucault  all’appena citato Cimitero di Praga.

All’incontro di giovedì, tenuto a Palazzo Turati presso la Camera di Commercio di Milano, hanno partecipato gli ex sindaci di Milano Piero Borghini e Carlo Tognoli, l’assessore al lavoro, sviluppo economico, università e ricerca Cristina Tajani, il presidente di Confindustria Anie Claudio Andrea Gemme ed Enrico Valdani, professore ordinario di economia e gestione delle imprese presso l’Università Bocconi.

Un folto pubblico di appassionati ha seguito la lezione dei due relatori: l’avvocato Daniela Mainini e il professor Flavio Caroli.

Daniela Mainini, esperta di diritto penale industriale, presidente del Centro Studi Grande Milano e del Centro Studi Anticontraffazione, oggi consigliere regionale nel Patto civico con Umberto Ambrosoli, ha tenuto un’interessante relazione sul falso nella storia dell’arte, mostrando con efficacia il ruolo per nulla marginale che questa realtà ha avuto nella storia.

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Daniela Mainini, Presidente del Centro Studi Grande Milano

“Nel 1990 – ricorda Mainini – “mi recai a Londra ove al British Museum era stata allestita una provocatoria mostra sul falso curata dal celebre studioso Sir Mark Jones e dai suoi assistenti. L’obiettivo di quella esposizione era stato di rendere consapevole il pubblico di una verità elementare: ogni società falsifica ciò che brama. Fu una mostra di grande valore storico perché gli oggetti e le opere d’arte esposte fecero capire ai visitatori il mutamento dei gusti culturali che avviene nella società nel corso dei secoli”.

In realtà, come ha precisato la relatrice, l’opera d’arte non è falsa in sé. Lo diviene nel momento in cui viene attribuita. La copia di manufatti di pregio era praticata già nella civiltà greco-romana. Plinio il Vecchio, nella Naturalis Historia, raccontava come un oggetto venisse falsificato in molti modi (adulteratur multis modis). I romani distinguevano tra l’imitatio e l’emulatio: la prima consisteva in una pedestre attività tesa alla copia meccanica di un modello, la seconda in un’opera di alto rilievo artistico.

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Due collezionisti “stregati” dalla Cena di Emmaus

La storia della contraffazione non può farsi tuttavia nell’alto Medioevo, quando gli artisti non avevano ancora una loro individualità. L’identità degli autori di opere d’arte si affermò nel basso Medioevo e in età rinascimentale. I primi casi di contraffazione avvennero soprattutto nel corso del Settecento, in seguito alla scoperta di Ercolano e Pompei. Uno dei primi falsificatori fu il napoletano Giuseppe Guerra (morto nel 1761), pittore e restauratore, che riprodusse alcune pitture pompeiane con tale maestria da ingannare famosi collezionisti europei. La Mainini ha saputo catturare l’attenzione del pubblico nell’esposizione ragionata di tanti casi di opere adulterate. La storia fu un continuo susseguirsi di falsari fino al secolo scorso: da Icilio Federico Joni (1866-1944) ad Alceo Dossena (1878-1937) fino al celebre Han Van Meegeren (1889-1947): questi, seguendo una tecnica esposta in un vecchio trattato di pittura, dipinse su una tela del Seicento la Cena di Emmaus: opera destinata ad essere clamorosamente attribuita al celebre pittore olandese Jan Vermeer (1632-1675).

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Il Professor Flavio Caroli

All’intervento della Mainini è seguita la lezione magistrale del critico d’arte Flavio Caroli che, commentando le immagini di celebri dipinti dal Rinascimento al Novecento, ha mostrato la bellezza dell’autentico nel corso dei secoli: da Masaccio a Piero della Francesca, da Ludovico Carracci a Giuseppe Maria Crespi, da Turner a Monet fino a Morandi.

Resta da spiegare la ragione della straordinaria fortuna che il falso ha avuto nella storia dell’arte e più in generale nella storia della cultura. Forse, richiamandoci a Umberto Eco, questo si spiega perché l’immaginazione, satura di iper-realtà, pretende la cosa vera e, per ottenerla, fabbrica il falso assoluto.

La grande sfida della Città metropolitana

In un articolo pubblicato il  3 maggio scorso sul “Corriere della Sera”, Gian Giacomo Schiavi ha messo in evidenza i limiti della Città metropolitana milanese come è stata disegnata dall’attuale Legge 56/2014. Tale normativa, se ha previsto una certa autonomia che si è concretizzata nell’approvazione dello Statuto metropolitano, presenta numerosi punti critici, primo fra tutti la modesta estensione del nuovo ente. Difatti, la Città metropolitana di Milano non fa altro che riprodurre i confini della vecchia Provincia, composta da 134 Comuni. Ad essere esclusi sono inspiegabilmente territori che fanno parte integrante dell’area metropolitana milanese come Monza e la Brianza, il basso varesotto, il basso lecchese, il basso comasco, il cremasco, il lodigiano, il novarese, Vigevano, Bergamo e il basso bergamasco, Brescia e il basso bresciano.

Insomma, il Sindaco che sarà eletto alle prossime elezioni sarà a capo di un ente intermedio tra Regione e Comune la cui popolazione si attesta intorno ai 3 milioni e mezzo di abitanti. La grande Milano metropolitana è un’area su cui vivono in realtà più di 7 milioni di abitanti, caratterizzata da un’elevata mobilità dei cittadini che si spostano ogni giorno verso il capoluogo ambrosiano per ragioni di lavoro. Oggi un abitante di questa enorme conurbazione chiede servizi adeguati sul piano dei trasporti, della viabilità, delle infrastrutture. Sente l’esigenza di un governo metropolitano come avviene nella Grande Londra: un’area popolata da otto milioni e mezzo di abitanti, amministrata da 32 distretti urbani (municipalità con una popolazione media di 300.000 abitanti), gestita da un Sindaco metropolitano che, eletto da tutti i londinesi, viene assistito da un Consiglio composto da 25 membri.

Purtroppo la Città metropolitana di Milano sarà qualcosa di diverso dalla Grande Londra. Il modello non è certamente quello della City-Region. E’ piuttosto quello – come si è detto – di un ente intermedio che dovrà relazionarsi inevitabilmente con i Comuni e con la Regione in merito a funzioni amministrative che tali enti – com’è facilmente prevedibile – non saranno disposti a condividere tanto facilmente. Diversamente da quanto avviene nella Germania federale ove i Länder, esercitando funzioni politiche di tipo statale, lasciano agli enti intermedi la piena gestione dei servizi amministrativi di tipo metropolitano, in Italia le Regioni intervengono con leggi e atti amministrativi che spesso invadono le competenze degli enti minori.

23 sett Zone omogeneeIl prossimo Sindaco di Milano, chiunque verrà eletto, dovrà impegnarsi per rendere efficace il nuovo ente intermedio assicurando ai cittadini servizi adeguati nel campo della mobilità, della pianificazione interurbana, del trasporto pubblico, delle infrastrutture. La delibera n.51/2015 approvata dal Consiglio metropolitano il 30 novembre 2015 ha istituito sette zone omogenee entro le quali sono compresi i 133 Comuni metropolitani, Milano esclusa. Le sette zone sono istituite per assicurare il coordinamento delle funzioni svolte dai municipi e per garantire una efficace gestione sul territorio dei servizi metropolitani:

  • l’Alto Milanese: 258.000 abitanti ca, è composto di 22 Comuni, tra cui Legnano, Parabiago, Castano Primo, Cuggiono, Bernate Ticino;
  • Il Magentino-Abbiatense: 213.000 abitanti ca, 29 Comuni, tra cui Magenta, Robecco sul Naviglio, Abbiategrasso, Gaggiano, Rosate, Noviglio, Albairate;
  • Sud-Ovest: 238.000 abitanti ca, 16 Comuni, tra cui Opera, Trezzano sul Naviglio, Assago, Buccinasco, Cesano Boscone, Cusago, Rozzano;
  • Sud-Est: 173.000 abitanti ca, 15 Comuni, tra cui San Donato Milanese, San Giuliano Milanese, Peschiera Borromeo;
  • Adda-Martesana: 336.000 abitanti ca, 28 Comuni, tra cui Segrate, Vimodrone, Cernusco sul Naviglio, Gorgonzola, Inzago, Trezzo sull’Adda, Melzo, Cassano d’Adda;
  • Nord Milano: 315.000 abitanti ca, 7 Comuni tra cui Cormano, Sesto San Giovanni, Cologno Monzese, Bresso;
  • Nord Ovest: 315.000 abitanti ca, 16 Comuni tra cui Settimo Milanese, Rho, Lainate, Arese.

Il grande Comune di Milano città (che da solo raggiunge all’incirca il milione e mezzo di abitanti) non scompare. Si aggiunge a queste zone. Esso è stato diviso in nove municipalità corrispondenti alle nove zone attuali, ognuna delle quali sarà formata da un Presidente e da un Consiglio di Municipio. Diversamente dalle Zone Omogenee, le Municipalità milanesi non sono tuttavia federazioni di Comuni che si uniscono per gestire assieme i servizi eventualmente delegati dalla Città metropolitana. Sono enti decentrati dipendenti dal Comune di Milano.  La loro istituzione consentirà una migliore partecipazione dei cittadini all’amministrazione locale ma restano organi del Comune di Milano. non già della Città metropolitana. Continueranno pertanto ad essere fondamentali il Consiglio comunale di Milano e il Sindaco, entrambi eletti dai soli cittadini milanesi.

Insomma, come si può agevolmente constatare, la questione è complessa e contraddittoria: alle prossime elezioni i milanesi voteranno per un Sindaco le cui funzioni ricadranno non solo sull’amministrazione di una Milano che resta unita nei suoi 9 Municipi, ma anche in quella della Città metropolitana: i cittadini dei 133 Comuni che la compongono non parteciperanno in alcun modo alla sua elezione. Il candidato sindaco di centro sinistra, Beppe Sala,  ha detto opportunamente che, qualora fosse eletto, si impegnerà a rendere elettiva la carica di Sindaco metropolitano e chiederà al Parlamento e al governo centrale uno Statuto speciale per Milano che consenta alla città di superare l’attuale impasse. Come si dice in questi casi? La Speranza è l’ultima a morire…

Gli uomini prima delle pietre: la lezione di Gnecchi Ruscone

Di recente ho avuto l’onore di incontrare Francesco Gnecchi Ruscone nella sua casa milanese vicino all’Università degli Studi. Abbiamo preso un aperitivo a base di gin e tonic, un rito conviviale che fa parte della sua ospitalità. Dall’alto dei suoi novant’anni Gnecchi mostra ancora la classe ineguagliata dell’architetto e dell’antico partigiano. Una vita, la sua, spesa al servizio dei valori della libertà e della democrazia. Chiamato alle armi dal governo nazifascista della Repubblica di Salò, Gnecchi mi racconta che disertò arruolandosi tra i partigiani, per i quali svolse attività di spionaggio. Il 25 aprile entrò a Milano. “Non feci in tempo a vedere il cadavere di Mussolini appeso a piazzale Loreto. Lo vidi quando era sul marciapiede”, mi dice impassibile. Non è però sullo Gnecchi combattente partigiano che intendo soffermarmi in questa sede. Desidero invece dedicare alcune riflessioni sulla feconda professione di architetto che lo ha impegnato per quasi mezzo secolo.

FullSizeRender (3)Il suo libro Storie di architettura, in cui Gnecchi ripercorre gli anni della sua professione ricordando esperienze e lezioni di vita apprese da grandi personalità del Novecento, è un bel volume che anche un lettore non specialista, estraneo alla storia dell’architettura, può leggere con piacere.

Nel corso del nostro aperitivo, gli chiedo se le case da lui progettate siano riconducibili a uno stile architettonico. Mi risponde di no. Il suo stile è assolutamente originale. Mi dice: “Ho sempre progettato un edificio perché servisse in primo luogo alle esigenze dei miei committenti. Gli uomini sono più importanti delle pietre”.

Allievo di Ernesto Rogers, nel 1949, poco dopo la laurea, Gnecchi fu incaricato da Franco Albini e Lodovico Belgiojoso di collaborare all’allestimento del Congresso Internazionale di Architettura Moderna nella città di Bergamo. Un compito che seppe assolvere degnamente e che gli offrì la straordinaria opportunità di conoscere alcuni tra i più importanti architetti del Novecento: ricordo qui Le Corbusier (1887-1965) e Wells Coats (1895-1958). Con quest’ultimo, strinse un vero e proprio rapporto di amicizia che influenzò notevolmente il suo modo di lavorare. Scrive Gnecchi a proposito delle lezioni di vita apprese alla scuola di Wells:

Da lui ho imparato molto, non tanto sull’architettura o sulla navigazione a vela quanto sullo spirito e sul modo di progettare: sempre guardando in avanti senza pregiudizi, senza schemi precostituiti, sempre pronti a cestinare senza rimpianti un’ipotesi che non ha retto alla prova sul campo; certo più una lezione di vita che di scienza applicata, ma una lezione che consiglio a tutti.

[FRANCESCO GNECCHI RUSCONE, Storie di architettura, Milano, Brioschi 2015, pag.50.]

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Francesco Gnecchi Ruscone e Giogiò Pericoli in “missione lavorativa” a Matera

Negli anni Cinquanta Gnecchi aprì uno studio di architettura con Giovanna Pericoli, detta “Giogiò” dedicandosi ai primi lavori come libero professionista. Risale a quel periodo la sistemazione e l’arredamento di un’agenzia della Banca Commerciale Italiana in via Farini e la sala riunioni del Senato Accademico nell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Immagino che i docenti dell’ateneo di Largo Gemelli abbiano ben presenti le “poltroncine in noce massiccio e panno rosso, pesanti ma solide”, così le definisce Gnecchi Ruscone nel suo libro.

Nel 1956 l’architetto milanese aprì un suo studio in via Passione 4, ove esercitò la professione di architetto fino al 1999. In quell’ambiente, coadiuvato da una squadra di fedeli dipendenti e colleghi, lavorò con passione elaborando progetti la cui realizzazione ha segnato la storia dell’architettura milanese ed europea.

Tra i progetti che mi preme ricordare per la loro attualità è ad esempio quello, risalente al 1960, riguardante il quartiere storico delle Cinque Vie in centro città: al restauro urbanistico avrebbe dovuto accompagnarsi l’introduzione dell’area pedonale nel quartiere per togliere alla zona il traffico automobilistico.

Il progetto, al quale Gnecchi lavorò con alcuni colleghi del Politecnico, fu esposto alla Triennale: l’idea in realtà era di bloccare la “Racchetta”, uno stradone – proposto da architetti tanto spregiudicati quanto ostili alla tutela dell’antico patrimonio urbanistico di Milano – che avrebbe collegato corso Venezia con corso Magenta sventrando il centro storico com’era già avvenuto con la realizzazione di corso Europa e via Albricci fino a piazza Missori. Fortunatamente lo stradone non fu mai realizzato. In fondo, a quel pugno di architetti coraggiosi (di cui Gnecchi fu magna pars) ostili alla Racchetta, dobbiamo la conservazione di quartieri storici quali piazza Sant’Alessandro, via Zebedia, via San Maurilio o via Borromei. Il quartiere delle Cinque Vie attende però un restauro complessivo ed è tuttora attraversato da un eccessivo traffico automobilistico. Forse quel progetto del 1960 può essere ancora utile alla prossima giunta comunale per un restauro del quartiere 5Vie tornato in questi anni ad essere luogo centrale degli eventi culturali nel campo della moda e del design.

Tra gli edifici milanesi costruiti da Francesco Gnecchi Ruscone desidero ricordare infine il bel palazzo in viale Elvezia, all’angolo tra l’Arena Civica e via Canonica. I lavori, condotti tra il 1958-72 assieme all’architetto Eugenio Gentili Tedeschi, hanno portato all’edificazione di un edificio alto otto piani, che mostra tuttora la sua eleganza allo sguardo degli appassionati di architettura.

Alla scoperta del Borgo degli Ortolani

In una celebre lettera a Federico Confalonieri, scritta poche settimane dopo il tumulto del 20 aprile 1814 che portò alla feroce uccisione del ministro delle finanze Giuseppe Prina, lo scrittore piemontese Ludovico di Breme descriveva la cupa atmosfera che si respirava a Milano in quei giorni drammatici seguiti al crollo del Regno d’Italia napoleonico. (Se vuoi saperne di più, clicca qui). La Reggenza, l’istituzione subentrata al cessato governo italico, era composta in prevalenza da nobili lombardi che amministrarono la cosa pubblica seguendo una politica fieramente municipalista. Scriveva Di Breme:

Federico mio, nobilissimo amico, qui si è troppo municipali nel governare, e troppo anzi intemperanti e colossali nei desideri. Vorrebbero tutta l’Italia qui soggetta, e poi quando si viene a’ fatti, codesta Italia non s’estende quasi oltre il Borgo degli Ortolani.

[Ludovico Di Breme a Federico Confalonieri, Milano 16 maggio 1814 in L. Di Breme, Lettere, edizione a cura di Piero Camporesi, Torino, Einaudi 1966, pag.227].

L’espulsione di molti impiegati pubblici dai ministeri milanesi perché non originari dell’“antica austriaca Lombardia” fu uno dei provvedimenti più odiati e criticati di quel governo a forte trazione patrizio nobiliare: un governo che nel breve periodo della sua attività (20 aprile-25 maggio 1814) operò in netta discontinuità rispetto agli ideali nazionali che avevano animato il Regno d’Italia napoleonico.

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Napoleone incoronato re del Regno Italico con la corona ferrea (26 maggio 1805)

La Milano di Napoleone, la Milano capitale di uno Stato quasi nazionale esteso a una parte importante dell’Italia centro-settentrionale, sembrava distante anni luce dalla Milano municipalista “post-20 aprile” che faceva sdegnare Di Breme. Sotto Napoleone, tanti giovani provenienti da ogni parte d’Italia si erano conosciuti nella città ambrosiana e avevano lavorato assieme. Alcuni di loro si erano distinti come zelanti impiegati nei ministeri e negli uffici dello Stato.  La Milano di Napoleone era stata un cantiere di opere pubbliche: dall’Arena civica all’Arco del Sempione,  dal Foro Bonaparte concepito originariamente come quartiere sede dei ministeri dello Stato italico alla Caserma dei Veliti dietro Sant’Ambrogio, per arrivare fino ai lavori tesi all’apertura del Naviglio pavese  (ultimati sotto gli austriaci).

Dopo la rivolta del 20 aprile la situazione pareva mutata radicalmente. Di Breme stigmatizzava il municipalismo dei milanesi, evidente anche in politica estera. I nuovi governanti chiedevano alle potenze che avevano sconfitto Napoleone il riconoscimento internazionale di uno Stato lombardo ristretto nei suoi antichi confini regionali. Manie di grandezza animate da un amor di patria ambiguamente unito ad aneliti regionalisti che gli faceva esclamare, nella citata lettera al Confalonieri: “Codesta Italia non s’estende quasi oltre il Borgo degli Ortolani”.

 Cosa intendeva lo scrittore piemontese quando si riferiva al Borgo degli Ortolani?

Il Borgo degli Ortolani era un villaggio situato a Nord, fuori dalle mura ma quasi attaccato ad esse, nei Corpi Santi di Porta Comasina. Difficile delimitarne esattamente i confini. E’ però possibile individuarne l’estensione con un certo grado di attendibilità: il borgo comprendeva un territorio oggi compreso nel tratto tra via Canonica, piazza Gramsci, e via Piero della Francesca fino all’incrocio con via Cenisio nei pressi di piazza Firenze. Era un piccolo borgo rurale la cui strada principale si collegava a nord con la strada postale per Varese.

In un articolo scritto recentemente a proposito di via Muratori, ho insistito sul ruolo importante che quella zona fuori di Porta Romana ebbe quale via di transito. Possiamo dire che il Borgo degli Ortolani rivestiva una funzione analoga a nord della città: costituiva una via di accesso a Milano per chi proveniva dai territori del comasco e del varesotto.

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Il Borgo degli Ortolani in una carta di metà Ottocento

Questo però non basta a spiegare la curiosa metafora del Di Breme. Cosa lo spinse a pensare al Borgo degli Ortolani per stigmatizzare il municipalismo, il particolarismo, la chiusura dei milanesi nei confronti dei forestieri? In effetti, quantunque fosse una via di transito per tanti lombardi e svizzeri diretti verso Milano, il borgo degli Ortolani presentava una spiccata fisionomia, tale da farne un corpo a sé stante rispetto alla città e ai villaggi circostanti. Sul lungo corso che lo attraversava da Nord-Ovest a Sud-Est si affacciavano alcune case di contadini. I campi, bonificati dall’ordine religioso degli Umiliati fin dalla metà del XIII secolo, erano ricchi di orti e di frutteti. Si segnalava in particolar modo la produzione di cipolle, che rifornivano i mercati cittadini del sestiere di Porta Comasina: nei documenti il quartiere era spesso definito “Borg di Scigolatt” (borgo di produttori e venditori di cipolle). Un altro termine assai diffuso per identificare il borgo degli Ortolani era quello di “Borg di Goss”: borgo di gozzuti. Il Cherubini, nell’edizione del suo celebre “Dizionario Milanese Italiano” risalente al 1843, spiegava l’origine del soprannome facendo riferimento alle parti di animali che venivano lavorate nelle case del villaggio:

El Borg di goss noi chiamiamo…il borgo degli Ortolani che è attiguo alla nostra città da ovest/ovest-nord e ciò per le molte vesciche o gozzaie d’agnelli, castrati…che vi si sogliono conciare.

[L. Cherubini, Vocabolario milanese-italiano, Milano, Imperial Regia Stamperia, 1841, pag.249].

In quale periodo si passò dal Borgo degli Ortolani alle attuali vie Canonica e Piero della Francesca? Tale trasformazione avvenne in due tempi. Nel 1878, pochi anni dopo l’annessione a Milano del Comune di Corpi Santi (entro il quale era compreso il Borgo degli Ortolani), il quartiere venne inglobato nella città: la giunta Belizaghi diede al lungo corso il nome di via Luigi Canonica, richiamandosi alla vicina Arena che l’architetto svizzero aveva costruito nell’antica piazza d’armi (oggi parco Sempione) a pochi passi dalla Porta Tenaglia, vicino al borgo degli Ortolani. Il secondo tempo arrivò con il fascismo quando, in seguito all’urbanizzazione che aveva interessato l’isolato negli anni Venti del secolo scorso, fu deciso di spezzare la via in due tronconi: il primo da Piazza Firenze a Piazza Crespi (oggi piazza Gramsci) fu intitolato a Piero della Francesca, il resto della strada conservò il nome del celebre architetto napoleonico.

La grandezza di Milano, capitale del design

A ben vedere, lo sviluppo di una metropoli si misura dallo spessore delle iniziative culturali che si tengono periodicamente all’interno dello spazio urbano. Una città priva di eventi rilevanti è una città morta e non sarà certo sufficiente la sua qualifica di città d’arte, sede di musei prestigiosi, a salvarla nelle classifiche internazionali. Milano ha un punto di forza che nessuna città italiana presenta in pari grado. E’ città dell’arte e della cultura, ma è soprattutto città dell’innovazione, della sperimentazione negli svariati campi del design, della moda, dell’arredo. La caratteristica di Milano risiede in fondo nel sapersi reinventare, di non vivere sepolta nel culto del passato; la metropoli lombarda ha la straordinaria capacità d’interpretare le sue tradizioni storiche facendole rientrare in un disegno creativo proiettato nel futuro. Milano è un punto di sintesi ove le migliori iniziative imprenditoriali trovano sbocco.

Da alcuni anni la città sta vivendo una stagione magica. E’ viva, pulsante, animata da quel senso civico che la rende una meta per chiunque voglia vivere e lavorare in un ambiente dinamico, bello e stimolante. Certo, eventi come le settimane del mobile, del design o della moda si tengono da decenni in città.

Cosa fa la differenza rispetto al passato?

Credo che il miracolo che stiamo vivendo oggi risieda nella dimensione diffusa, partecipata dell’evento cittadino, nel suo essere in grado di coinvolgere le varie anime della comunità facendole dialogare assieme in vista di un traguardo comune.

salone del mobileLa settimana del Salone del Mobile, che inizierà domani e terminerà il 17 aprile, è a tal proposito emblematica. Non si tratta di un evento ristretto agli operatori del settore nei padiglioni di Rho Fiera Milano. C’è anche il Fuori Salone, che anima zone della città elevate a vivaci quartieri del design. Il Comune di Milano informa che ci saranno da domani più di 1.000 eventi, di cui 543 sostenuti dal Comune, che si aggiungeranno ai 2.400 espositori tra Salone del Mobile e Fuori Salone. La presenza di 100 giovani provenienti dalle scuole di design che incontreranno i turisti alla stazione Centrale e agli aeroporti di Linate e Malpensa per proporre itinerari di visita, indica l’intensità con cui l’evento è sentito dalla cittadinanza.

Nove i quartieri cittadini che saranno interessati dagli eventi del Fuori Salone. Qui mi limito a ricordare i quartieri più famosi, situati per lo più in centro, ove si terranno esposizioni, mostre ed iniziative commerciali: il Brera Design District, il Tortona Design District, il 5Vie Art+Design, il Sant’Ambrogio DOUTDesign e Porta Venezia Design. Quest’anno si è aggiunta la zona vicino all’Università Statale ove sono previsti 23 eventi nel corso della settimana: designer e architetti hanno lavorato assieme per arricchire l’antico edificio sforzesco con l’esposizione di audaci sculture high tech. Il maggior numero di eventi è però nel Tortona Design District: più di 180 appuntamenti nei 60 spazi esistenti nelle aree di via Tortona. Al Brera Design District verranno esposte le opere di designer di fama internazionale afferenti al tema “Progettare è ascoltare”.

Milano non è costituita però solo dal centro. Le periferie sono una realtà altrettanto importante. Nel quartiere Ventura-Lambrate si terranno 37 iniziative legate al Fuori Salone: non troveremo certo le opere firmate da grandi designer ma le creazioni di giovani artisti desiderosi di emergere, italiani e stranieri.

visitatoriNella tradizionale esposizione fieristica del Salone del Mobile, che quest’anno giunge al suo 55° anniversario, vi saranno 1.300 espositori costituiti per il 70% da aziende italiane. Merita di essere visitato il padiglione 3 “xLux”, dedicato all’arredo extralusso con inattesi richiami al mondo della moda. Di notevole interesse la mostra Before Design: Classic allestita nei padiglioni 15 F15/H18 dallo Studio Ciarmoli Queda: ad essere rappresentato è il mondo del Made in Italy nella sua anima classica che lo rende famoso in tutto il mondo. Quest’anno si terranno inoltre il Salone Internazionale del Mobile da Cucina e il Salone Internazionale del Bagno: quanto al primo, l’esposizione mostrerà i passi in avanti compiuti nel campo della tecnologia applicata agli elettrodomestici.

Gaetano Negri: un ateo affascinato dalla fede

In un articolo scritto l’anno scorso ho tracciato una breve biografia di Gaetano Negri, il “sindaco della micca” che amministrò Milano dal 1884 al 1889.

Oggi desidero soffermarmi su un lato poco conosciuto della vita di Negri: la sua cultura in campo scientifico, filosofico e letterario. Il “sindaco della micca” non era credente. La sua formazione rifletteva quella di una parte significativa della borghesia liberale che, formatasi nello scontro tra cattolicesimo romano e Stato nazionale negli anni dell’unificazione, aveva poi recepito le teorie materialiste e positiviste diffuse nell’Europa di fine Ottocento. La critica al dogma religioso era spinta fino alla negazione della fede e all’affermazione della sostanziale inconciliabilità tra scienza e fede.

Il senatore Gaetano Negri
Gaetano Negri  (1838-1902)

Negli anni Settanta Negri pubblicò alcuni saggi ove mostrava quale fosse il suo pensiero su questi temi della cultura europea, opere che gli guadagnarono una certa popolarità nella Milano laica di fine Ottocento. Esse riflettevano un pensiero attratto dalle teorie darwiniane sull’evoluzionismo, ma anche dal fascino che sulle giovani generazioni operavano testi informati al metodo del razionalismo critico quali la Vita di Gesù di Ernesto Renan o quella omonima di David Friedrich Strauss. Nel saggio La crisi religiosa pubblicato nel 1877, Negri notava il ruolo fondamentale che la riforma luterana aveva esercitato per la promozione in Europa di maggiori spazi di libertà nel pensiero, ravvisando in essa – con un giudizio un po’ semplicistico – l’iniziatrice della civiltà moderna. In un passo di quest’opera Negri mostrava quelle che a suo giudizio erano le ragioni dell’inconciliabilità del cristianesimo con il mondo moderno. A suo giudizio, la parola di Gesù era informata a un sostanziale pessimismo nei confronti della vita terrena, il che lo portava a concludere che il mondo moderno, spinto al contrario da una forza operosa tesa a cambiare le cose del mondo per migliorarle in un’ottica di perfettibilità umana, non poteva conciliarsi con una religione che riduceva l’importanza della vita terrena in vista della vita nell’aldilà. In queste sue considerazioni traspariva la fede positivista nel progresso e quella mentalità di fine Ottocento che, informata alle teorie darwiniane, concepiva l’esistenza come una lotta feroce in cui i migliori si affermano con la forza e consentono alla specie umana di evolvere in un mondo in perenne divenire. Scriveva Negri:

Se la società seguisse letteralmente i precetti e l’esempio di Gesù, essa ricadrebbe nella più spaventosa barbarie. Se ha progredito e progredisce tanto, ciò avviene in grazia di un precetto assolutamente opposto…cioè che il mondo è fine a se stesso, che l’uomo è l’artefice della realizzazione del proprio ideale, che i mezzi di cui egli, nella sua vita, può disporre a questo scopo, non sono né riprovevoli né disprezzabili, ma anzi preziosissimi, pur ch’ei sappia adoperarli al raggiungimento della meta che non deve perdere di vista. Sono cose sacre la famiglia, il lavoro, la proprietà, la ricchezza, lo studio, perché tutti strumenti che rendono l’uomo più potente, che cooperano al raggiungimento dello scopo principale della vita, che è quello di rendere l’intelligenza dominatrice assoluta della forze della natura.

[G. Negri, La crisi religiosa, Milano, Dumolard 1878, seconda edizione, pag.116]

La sua interpretazione riduttiva del cristianesimo era influenzata dalla giovanile adesione alle teorie del laicismo, del positivismo e dell’evoluzionismo. Negri non riusciva a comprendere il ruolo fondamentale che il Vangelo assegna all’uomo nella vita terrena; l’uomo che, agendo con libertà e responsabilità, opera per migliorare il mondo servendo Dio per la salvezza eterna.

Eppure, nonostante l’ateismo lo portasse a negare in via assoluta l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima, egli restava attratto dalle celebrazioni religiose lasciando trasparire un irresistibile affetto per le tradizioni cristiane, per l’umile atto della preghiera compiuta dai fedeli. Sembrava che in questi passi Negri avesse abbandonato il freddo ragionare del filosofo materialista per vestire i panni dell’uomo spirituale, attratto dalla semplicità degli umili credenti:

Ogni uomo che abbia l’animo gentile, di qualunque opinione egli sia, non può che nutrire una simpatia profonda per tutti coloro che praticano un culto con la fede accesa di un ingenuo credente, perché si sente di affratellarsi a loro, se non nella forma, nell’essenza almeno delle loro aspirazioni. Oh canti delle litanie nella chiesa del villaggio, ombre tranquille delle nostre cattedrali, profumi dell’incenso! Oh cerimonie sacre! Voi avete perduto ogni valore per la mia mente, eppure, nel ripensarvi, mi si rimescola il cuore e mi accorgo che il sentimento che v’ispira è qui nell’animo mio e gli impenna le ali. E quando vedo un bambino che, con le mani giunte innalza la sua candida preghiera, una madre inginocchiata alla culla, una donna accasciata dal dolore e prostrata a un altare, sento di esser davanti a qualche cosa di sacro e piego riverente il capo, e mi abbandono a visioni, a speranze infinite.

[G. Negri, La crisi religiosa…cit., pag.168]

Il Negri viveva un conflitto interiore tra ragione e sentimento, tra una cultura che l’adesione alle teorie positiviste aveva spinto all’ateismo e una sensibilità dell’animo che lo spingeva a nutrire sentimenti d’affetto verso il culto religioso.

Desidero soffermarmi in questa sede sul forte legame che unì Negri al celebre scrittore Antonio Fogazzaro, uomo credente, animato da una profonda fede in Dio, persuaso come altri cattolici quali Tommaso Gallarati Scotti, monsignor Bonomelli, padre Gazzola che scienza e fede fossero due realtà conciliabili tra loro, la prima aiutando l’uomo a conoscere in profondità quel libro della vita la cui causa ultima risiede nel mistero di Dio.

Fogazzaro
Antonio Fogazzaro (1842-1911)

Gaetano Negri conobbe il Fogazzaro nel 1888 durante una gita in alta montagna, nei pressi di San Bernardino. La loro fu un’amicizia profonda, resa ancor più forte dall’ammirazione di Negri per le opere letterarie dello scrittore vicentino: basti ricordare ad esempio Piccolo mondo antico, un romanzo che ebbe uno straordinario successo nell’Italia di fine Ottocento. Tra i due restava però la distanza nel modo di concepire la religione e la scienza: il Fogazzaro si sforzava di ridurre quella distanza nella speranza che l’amico potesse trovare quella Fede che illumina il sentiero della vita dando un senso alla fragile condizione umana. Il Negri, che negli anni Novanta si era ritirato dalla vita politica (nonostante la sua nomina a senatore del Regno) ed era tornato a coltivare i suoi studi, quantunque avesse abbandonato certe posizioni radicali, constatava la sua incapacità di credere in una religione basata sui dogmi. Nel 1897 l’ex sindaco di Milano pubblicò un libro, Meditazioni vagabonde, in cui raccoglieva alcuni saggi di svariato argomento: dopo aver rilevato il tramonto delle teorie scientiste e il rinascere di correnti idealiste e spiritualiste in quell’ultimo decennio dell’Ottocento, Negri tornava a ribadire la sua posizione recisamente contraria a riconoscere l’esistenza di Dio. Il Fogazzaro, dopo aver letto il libro, gli rispose confessando un giudizio che lasciava trasparire l’affetto e al contempo la sua preoccupazione per un testo “il più potente, il più desolante, il più commovente, il più crudele… che abbiate scritto”. Pubblicando nel 1898 un saggio su Lucrezio, Negri illustrava una concezione informata a un panteismo cosmico che non si spingeva oltre l’ipotesi del permanere di una “coscienza” dopo la morte, non però “come esistenza distinta” ma come “sua partecipazione all’essere infinito che in essa rientra e in cui tutto si comprende e si confonde”. Anche in questo caso il Fogazzaro, dopo aver letto il saggio, scrisse a Negri confessandogli la sua fiducia ostinata in una conversione, anche se gli appariva impossibile date le ferme convinzioni dell’amico:

L’ho letto con particolare interesse perché vi amo ambedue, voi e Lucrezio. L’ho letto con ammirazione perché l’avete scritto voi. Se dicessi ora che l’ho letto anche con piacere, voi lo sapete bene, mentirei. Voi direte che ho torto di aspettare da voi parole diverse dalle idee vostre; ma io sono un stupido che da ragazzo ho riletto cento volte il racconto della battaglia di Waterloo sperando sempre che una volta o l’altra vi avrei trovato alla fine la vittoria del mio eroe. Ohimé, aveo quod abest, per dirla lucreazianamente.

[Antonio Fogazzaro a Gaetano Negri, 5 novembre 1898]

Due amici, come si può agevolmente vedere, stretti da forti legami ma separati da due modi diversi di concepire la vita e il mondo. Negri amava la letteratura. I romanzi di Fogazzaro gli restituivano quella pace interiore di cui sentiva troppo spesso la mancanza nel suo animo. Nel 1898 l’autore di Piccolo mondo antico, pubblicò un volumetto, intitolato Ascensioni umane, in cui erano raccolti i testi di alcuni interventi tesi a mostrare come i concetti dell’immortalità dell’anima, di un Dio creatore, del libero arbitrio non fossero in contrasto con la teoria dell’evoluzione. Nella prefazione al volume, il Fogazzaro rivelava la sua fede in un Dio creatore che, agendo con intelligenza e Amore, ha creato il mondo affidando all’uomo la responsabilità di operare per il bene nel breve tempo della vita terrena. In questa prefazione il poeta illustrava il suo pensiero lasciando trasparire la forza del sentimento religioso che lo animava, spinto dall’umile volontà di mostrare la piena conciliabilità tra scienza e religione. Riflessioni accorate, scritte con animo sincero, che non mancarono di colpire nel profondo l’amico milanese, facendo nuovamente trapelare quel conflitto interiore tra ragione e sentimento che ho accennato poco sopra. Così scriveva Negri a Fogazzaro in una bella lettera dell’8 novembre 1898:

Finisco ora di leggere il Proemio delle Ascensioni umane, un titolo suggestivo per eccellenza e che ben si adatta al vostro libro. Voi mi dite che non avete ali. Perdonatemi se vi rispondo che voi non potete credere a quello che mi dite, poiché voi sapete che, le ali, le avete, e potenti, tanto è vero che il vostro proemio è una prosa tanto alata da non esserci nessun bisogno di metterla in versi perché sia poesia squisita. E la poesia ha questo gran vantaggio che gli uomini ci si possono trovar d’accordo, anche se in prosa hanno qualche idea diversa. Io non direi che la vostra parola ardente e commossa abbia sciolto le difficoltà razionali, per me insuperabili, che mi presenta l’idea del soprannaturale, applicate al problema della creazione o dell’altro dell’esistenza del male. Ma, intanto, l’onda armoniosa del vostro spirito desta una vibrazione simpatica nel mio, e quel soprannaturale a cui la mia ragione si ribella, voi me lo fate sentire.

Un conflitto interiore, quello del Negri, alle cui origini v’era forse stata la mancanza di un’attenta riflessione interiore. Come poteva negare recisamente l’esistenza di Dio un uomo la cui ragione era in grado di pensarlo ammettendone l’esistenza in ipotesi? V’era però un’altra contraddizione che era alla radice del suo pensiero: come poteva rifiutare l’esistenza dell’Assoluto e allo stesso tempo professare un ateismo assoluto, non soggetto ad essere messo in discussione? L’Assoluto, negato alle origini in via aprioristica, tornava ad affacciarsi dalla finestra del libero pensiero nell’atto stesso in cui lo enunciava, riflettendo il mai sopito anelito umano a scoprire la causa ultima dell’esistenza. Negri fu probabilmente incapace di rispondere a queste domande con animo sereno. Il Fogazzaro non riuscì a convincerlo. Eppure, nonostante la distanza che restava tra di loro, in una lettera dell’8 dicembre 1895, lo scrittore vicentino faceva notare all’amico come anche in lui vi fosse il segno dell’assoluto: “La verità è che l’Assoluto è nel vostro cuore, nella vostra onesta coscienza, nella vostra nobile vita e beati coloro che riconoscono l’assoluto così. Esso è pure in qualche modo, malgrado Voi stesso, nella vostra mente perché le vostre affermazioni, le vostre negazioni finali devono pur avere un carattere assoluto”.

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Pagina del Secolo illustrato che riporta la notizia della  morte di Gaetano Negri in un bosco presso Varazze.

Alla morte di Negri, avvenuta il 31 luglio 1902 in seguito a una fatale caduta durante una camminata nei boschi di Varazze, Fogazzaro scrisse il giorno dopo sul “Corriere della Sera” un ricordo commosso dell’amico ricordando l’onestà, la dirittura morale, la fine intelligenza orientata sempre alla ricerca del “vero e del bene”. Nonostante i limiti del suo pensiero gli avessero impedito di accettare razionalmente l’esistenza di Dio, possiamo dire che Negri, grazie all’amicizia del Fogazzaro, avesse sentito nel profondo del suo animo il sentimento della fede religiosa:

…l’onda armoniosa del vostro spirito desta una vibrazione simpatica nel mio, e quel soprannaturale a cui la mia ragione si ribella, voi me lo fate sentire…

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