Il titolo IV della legge regionale 7 ottobre 2016 n.25 si intitola “Salvaguardia della Lingua Lombarda”. Gli articoli 24 e 25 riguardano le misure con cui i Comuni, anche in forma associata, possono promuovere la “lingua lombarda nelle sue varietà locali”. La consigliera Daniela Mainini ed altri membri dell’opposizione in Regione Lombardia hanno contestato il termine “lingua lombarda” sostenendo che non si tratta di lingua, bensì di dialetti lombardi. A suffragare la loro posizione, oltre agli istituti linguistici dell’Università degli Studi di Milano e di Pavia, è l’interessante relazione del professor Paolo D’Achille, membro dell’Accademia della Crusca, che si può leggere qui.
Qual è la differenza tra lingua e dialetto? In Italia con lingua intendiamo un insieme di convenzioni (fonetiche, morfologiche, sintattiche e lessicali) valide sia nella comunicazione orale che in quella scritta esistenti in una comunità etnica, politica, sociale, consacrate dalla storia, dal prestigio degli autori, dal consenso dei cittadini. La lingua acquisisce una sua dignità quando viene utilizzata da un regime politico (Stato o altre forme di potere pubblico) nella redazione di atti aventi valore giuridico. Dialetto è invece un sistema linguistico geograficamente delimitato, avente una sua letteratura, privo tuttavia di un uso politico da parte dei poteri pubblici storici.
Ma torniamo al caso in questione. E’ esistita storicamente una “lingua lombarda” utilizzata in via ufficiale da un potere pubblico nella formazione di atti giuridici e amministrativi? La risposta è no. I governanti di quelle parti del territorio che oggi chiamiamo Lombardia si servirono, nella stesura di editti, gride, patenti ed altre normative, del latino o del volgare fiorentino trecentesco (divenuto poi l’italiano). Il dialetto locale non fu mai utilizzato nella redazione di atti pubblici. Allo stato attuale delle ricerche – che io sappia – non si è trovato nei documenti archivistici, un solo atto pubblico scritto in “lingua lombarda”. La differenza con la Catalogna è qui radicale. Questo è un dato importante di cui tenere conto. A partire dal Tre-Quattrocento, negli Stati italiani il volgare fiorentino acquisì un prestigio enorme in tutta Italia (dal Nord al Sud) grazie alla diffusione delle opere delle Tre Corone (Dante, Petrarca e Boccaccio).
Occorre inoltre ricordare che, nei secoli del Medioevo e nell’Età Moderna non esisteva la Lombardia come la intendiamo oggi. Fino alla metà del Settecento, con questo termine si indicava un’area geografica corrispondente all’incirca alla pianura padana. Montesquieu, ai primi del Settecento, la descrisse molto bene:
“La Lombardia è tutta quella pianura che si stende fra le Alpi e l’Appennino: queste due catene di montagne, unite all’inizio del Piemonte, divergono, formando un triangolo con il mare Adriatico che ne è come la base, e racchiudendo la più deliziosa pianura del mondo che comprende il Piemonte, il Milanese, lo Stato veneto, Parma, Modena, il Bolognese e il Ferrarese”.
La Lombardia attuale ebbe origine in un periodo storico compreso tra il trattato di Campoformio (1797) e i tredici mesi di amministrazione austriaca lombardo-veneta nel 1799/1800, quando i confini tra Lombardia e Veneto furono fissati in sostanza tra il Lago di Garda e il fiume Mincio. Essi furono ripristinati dopo il crollo del Regno d’Italia napoleonico, all’interno dell’amministrazione del Regno Lombardo Veneto asburgico.
Come si è visto nel passo di Montesquieu, la Lombardia antica era divisa al contrario in molti Stati, il che finì con l’influenzare l’evoluzione dei dialetti padano veneti. Si capisce allora che, a voler restringere l’indagine ai dialetti parlati entro i confini della Regione attuale, questi non si possono definire unitariamente “lingua lombarda”. I dialetti lombardi occidentali, esistenti nel territorio compreso tra il Ticino e l’Adda, gravitano sul milanese ma sono parlati anche in aree che non si trovano nella Regione Lombardia: pensiamo all’alto e al basso novarese o al Canton Ticino. Tali dialetti sono diversi dai dialetti lombardi orientali parlati nel bergamasco, nel bresciano, nel cremasco, i quali risentono tuttora dell’antica divisione politico amministrativa tra il Ducato di Milano e la Repubblica di San Marco. Un’ulteriore distinzione va fatta per il dialetto mantovano, più vicino ai dialetti emiliani.
In realtà, i dialetti gallo-italici sono tuttora parlati – se si tolgono le aree urbane più densamente popolate ove domina un ottimo italiano – in gran parte della pianura padana. Per un periodo di tempo limitato vi fu una lingua letteraria lombarda o padana: alcuni scrittori scrissero testi in prosa ispirati ai modelli cortesi dei prosatori in lingua d’oil (francese). Gli specialisti definiscono questa lingua come “franco italiana” presente in alcune opere tra il XIII e il XIV secolo. Questa lingua fu però adottata da un’esigua minoranza di scrittori nel Medioevo, mai usata dai poteri pubblici dell’Italia del Nord. Negli atti giuridici e amministrativi si preferì ricorrere al latino, destinato ad essere soppiantato dall’italiano nel corso dell’Età Moderna. E’ oltremodo significativo che Dante, quando scrisse il De vulgari eloquentia– un trattato in latino composto tra il 1302 e il 1306 sull’arte di scrivere in volgare – non avesse fatto alcuna menzione di questa “lingua lombarda”. Il che è significativo se poniamo mente al fatto che l’autore della Divina Commedia soggiornò da esule in centri padani importanti quali Bologna, Verona o Ravenna. Com’è fin troppo noto, fu il veneziano Pietro Bembo nelle Prose della volgar lingua (1525) a proporre con successo il fiorentino trecentesco di Dante, Petrarca e Boccaccio quale lingua letteraria valida per l’Italia intera, da Nord a Sud.
Un’altra istituzione che adottò l’italiano, affiancandolo al latino come lingua ufficiale nei testi scritti, fu la Chiesa cattolica dopo il Concilio di Trento. Le prediche dei sacerdoti, i catechismi, le opere rivolte ai laici e alle monache furono scritti in italiano. Nella Milano di San Carlo Borromeo (1564-1584), 1478 insegnanti attivi nelle scuole delle confraternite laicali assicurarono un’istruzione gratuita a 12.455 scolari su una popolazione complessiva di 113.875 abitanti: un esempio di alfabetizzazione e di catechismo in italiano secoli prima dell’unificazione in una popolazione che parlava abitualmente in dialetto milanese. A partire del Cinquecento il volgare fiorentino (italiano) si affermò sempre più, a fianco del latino, quale lingua ufficiale usata dagli Stati italiani e dalla Chiesa cattolica.
Per queste ragioni, ritengo fondate le critiche dell’opposizione alla legge regionale sulla “lingua lombarda”. Condivido la proposta della consigliera Mainini di definire “dialetti lombardi” i sistemi linguistici esistenti entro i confini della Regione: un’espressione valida per il complesso dei dialetti parlati nell’Italia settentrionale.
Credo che la Regione Lombardia – assieme alle Regioni Piemonte, Liguria, Emilia-Romagna, Veneto – debba valorizzare i dialetti gallo-italici o padani che sono certo diversi dal toscano e dall’italiano centro-meridionale.
Inoltre si potrebbero intraprendere iniziative tese a valorizzare la toponomastica locale, magari integrando i nomi italiani con l’indicazione degli antichi toponimi ove questi fossero stati deformati o completamente soppressi dopo l’Unità. Pensiamo ad esempio al Comune di “Capovalle” in provincia di Brescia, così denominato dal regio decreto 27 ottobre 1907 n.464 perché l’antico nome del paese, “Hano”, venne giudicato dal legislatore “trasparente e volgare”. Un provvedimento centralistico, deciso dall’alto, che non mostrò alcun rispetto per la storia del territorio.
I Comuni italiani (al Nord come al Sud) potrebbero condurre d’altra parte un’altra operazione importante. Dopo l’Unità in molti municipi si scelse di sopprimere le antiche denominazioni delle vie e delle piazze sostituendole con i nomi di eroi o di battaglie risorgimentali. Per promuovere la conoscenza storica dei luoghi, si potrebbe aggiungere una targa che riporti l’antica denominazione della via a fianco di quella esistente. A Milano per esempio via Torino, istituita dopo l’Unità d’Italia con delibera comunale del 12 settembre 1865, unificò ben quattro antiche strade: la contrada di San Giorgio al Palazzo, la contrada della Palla, la contrada della Lupa e la contrada dei Pennacchiari. Forse, in questo come in altri casi, si potrebbero aggiungere alcune targhe aggiuntive come avviene a Firenze o in altre città italiane.
Uno dei turisti russi che nel secolo scorso visitò Milano ricavandone un’impressione indelebile è lo storico dell’arte Pavel Muratov (1881-1950). Dopo aver soggiornato a Roma nel novembre 1911, Muratov si spostò nell’Italia settentrionale ove visitò Venezia e Milano. Nella città del Duomo trascorse alcuni mesi del 1912. Le sue riflessioni su quel viaggio furono pubblicate molti anni dopo, in un volume, Obrazy Italii, pubblicato nel 1924. In effetti, non è la prima volta che mi occupo di un turista russo in visita a Milano. In un post di un anno fa ho descritto ad esempio il soggiorno del pittore Vladimir Jacovlev avvenuto nel 1847.
Torniamo allo storico Muratov. Quando giunse a Milano, questi fu colpito da un certa aria di modernità. Rispetto alle città d’arte che aveva visitato nei mesi precedenti – Roma e Venezia – la città ambrosiana gli appariva animata da uno spirito d’intraprendenza, da un dinamismo tipico delle grandi metropoli europee. Al turista che amasse l’Italia per le sue antichità, per le sue maestose rovine segno di un grande passato, il primo contatto con Milano avrebbe destato una certa delusione.
Al viaggiatore, di ritorno da Roma o da Venezia, Milano appare come una città europea qualsiasi, situata oltre i confini dell’Italia vera e propria, cui la unisce soltanto un tenue legame. Non senza sforzo egli si impone di soffermarsi sul passato artistico milanese, mentre inevitabilmente i suoi pensieri e i suoi sentimenti lo riportano a ciò che ha appena lasciato.
[Per questi e altri passi dell’opera di Muratov si veda la traduzione in italiano a cura di Patrizia Deotto pubblicata in “Storia in Lombardia”, anno XXXIII, n.1., 2013, pp.59-94]
Queste tuttavia – si affrettava a chiarire Muratov – erano impressioni superficiali che potevano cogliere il turista che ad esempio avesse prenotato un albergo vicino alla Stazione Centrale, che si trovava a quei tempi in piazza della Repubblica. Per chi invece avesse voluto visitare attentamente la città ambrosiana, entrando in contatto con il vero spirito milanese, il suggerimento era di pernottare nel centro cittadino, magari a Piazza Fontana dove – sono parole di Muratov – “gorgoglia l’acqua delle Sirene e fino al mattino risuonano i canti e le arie dei concittadini della Scala, che rientrano a casa dai teatri e dai caffè senza pretese”. Le sirene sono le statue in marmo di Carrara della fontana disegnata dal Piermarini e realizzata da Giuseppe Franchi nel 1782.
Nel descrivere la città, Muratov oscillava tra due posizioni. Da un lato traspariva la sua ammirazione per la capitale morale del Paese, la città simbolo dell’Italia che guarda al futuro, dell’Italia industriosa che vive nella modernità differenziandosi nettamente da un’Italia “museo” immersa nel culto delle sue rovine e dei suoi monumenti.
Milano rimane una grande città, dove la modernità prevale su tutto il resto. […] Il soggiorno a Milano, probabilmente, ci insegnerà a riconciliarci con l’Italia di oggi. Tutti noi, ospiti di questo paese, avremmo dovuto da tempo considerare come un nostro dovere tale atteggiamento. Guardare alle città italiane soltanto come a musei, a cimiteri o a rovine romantiche, dove gli abitanti di oggi non sempre sono le degne comparse, significa mostrarsi irriconoscenti verso l’ospitalità che il paese e la nazione ci riservano. Questa nazione vive, respira, esiste; ha non soltanto un passato, ma anche un presente.
D’altra parte Muratov era affascinato dal tessuto medievale della vecchia Milano, che nei primi anni del Novecento era possibile cogliere ancora in modo significativo. Egli pareva bocciare gli interventi radicali della seconda metà dell’Ottocento che avevano compromesso l’unità del nucleo urbanistico originario.
Muratov ricordava il viaggio che Stendhal aveva compiuto quasi un secolo prima. In una delle sue celebri passeggiate per il centro, lo scrittore francese era partito dal Teatro alla Scala e, dopo aver attraversato la contrada di Santa Margherita, era giunto alla piazza dei mercanti per terminare il suo giro in piazza del Duomo. Muratov decise di ripercorrere l’itinerario di Stendhal, ma non mancò di rilevare le grandi differenze tra la città che aveva visto lo scrittore francese (che nel primo Ottocento contava 120.000-150.000 abitanti) e la città da lui visitata. Una Milano popolata ai primi del Novecento da più di 700.000 abitanti.
La demolizione dell’antica piazza dei Tribunali con le sue cinque porte storiche ove convergevano i principali corsi cittadini era ricordata dallo storico russo come esempio imperdonabile di cancellazione dell’antico isolato medievale: sulle loro macerie furono costruite via Mercanti e via Dante per collegare il Duomo al Castello Sforzesco. A proposito di via Dante, Muratov non esitò a bocciarla con un giudizio netto. Ricordava poi la demolizione degli isolati antistanti al Duomo, che furono abbattuti per far luogo alla piazza immensa esistente oggi:
La Piazza dei Mercanti, un tempo pittoresca, che si affacciava con le sue cinque porte sulle vie attigue, è attraversata da una nuova strada che poco più avanti assume un aspetto respingente, nonostante porti il nome di via Dante. Nel 1859 la piazza del Duomo ha perso i suoi antichi portici, che risalivano all’epoca di Gian Galeazzo Visconti. Innumerevoli tram compiono il loro eterno giro della piazza, accompagnati dal fastidioso stridere delle ruote e dal suono del campanello. La folla accorre a frotte all’imbocco della Galleria – prototipo di tutti i passages a vetrate.
Sugli “antichi portici” Muratov commetteva un errore. Il Coperto dei Figini era un edificio quattrocentesco che non risaliva al governo di Gian Galeazzo Visconti, bensì al periodo sforzesco essendo stato edificato tra il 1467 e il 1480 su disegno di Guiniforte Solari:
In fondo la Milano più cara a Muratov era quella secolare risalente alla tarda romanità, al medioevo, all’antico regime fino a Napoleone, la cui cifra urbanistica egli era in grado di cogliere nelle antiche contrade che portavano verso l’Ospedale Maggiore, verso Sant’Eustorgio o il palazzo Borromeo nell’omonima piazza:
Lasciamo ora il Duomo e la Scala e inoltriamoci nell’intrico di vie che conducono verso l’Ospedale Maggiore, il Palazzo Borromeo, la Chiesa di Sant’Eustorgio. Qui non c’è quasi nulla della Milano moderna, mentre molto si conserva della Milano antica, costruita con impeccabile buongusto e discrezione nel Cinquecento, nel Seicento e persino nel Settecento fino all’epoca napoleonica. Questa Milano è rimasta, almeno per tre quarti, intatta….
A me pare che oggi sia molto difficile cogliere nella sua interezza il vecchio tessuto urbanistico della città. Qualcosa è possibile ancora vedere nel quartiere vicino al palazzo Borromeo, dove si trovano le Cinque Vie e i resti della Milano romana ma anche lì ci sono stati interventi radicali come ad esempio nella zona attorno alla Borsa e alla piazza degli Affari. Molto meno si è conservato in Porta Ticinese o verso l’Università degli Studi: qui gli interventi di epoca fascista hanno sconvolto ancor più in profondità l’antica impronta medievale. Gli isolati del Bottonuto furono demoliti – com’è noto – negli anni Trenta per costruire piazza Diaz. Considerazioni non molto dissimili possono essere fatte per la zona intorno a piazza della Vetra in Porta Ticinese. Il vecchio tessuto urbanistico riemerge qua e là, quasi a macchia di leopardo. Il turista attento, che possa contare su una buona guida, è ancora in grado di vedere gli edifici del tempo antico, spesso nascosti dietro i palazzi moderni.
In fondo, le memorie di Muratov sono importanti perché ci consentono di individuare i segni materiali, gli elementi tipici di questa Milano vecchia: dalle case nobili, che presentavano cortili interni articolati in colonne di granito secondo il disegno delle case patrizie dell’antica Roma, alle strade in pietra, agli stessi campanili delle chiese.
Queste antiche vie milanesi sono eleganti con le loro facciate dei palazzi in ombra, con le due caratteristiche strisce di listoni di pietra che corrono parallele al centro dell’acciottolato. Spesso alla fine di queste strade svettano tipici campanili lombardi quadrangolari, in laterizio, segnalando la presenza di alcune chiese storiche di Milano: Sant’Ambrogio, Sant’Eustorgio, San Sepolcro, San Gottardo. Molte di esse erano situate ad anello intorno alla vecchia Milano, lungo il “Naviglio”, lo stretto canale che circondava la città.
Questo, il Naviglio Interno, era un altro prezioso elemento della Milano di Stendhal che la Milano del 1912 ancora conservava. Una infrastruttura secolare che consentiva la navigazione dai laghi alla città. Elemento distintivo dell’identità milanese, il Naviglio interno fu costruito alla fine del Quattrocento. Com’è fin troppo noto, esso venne chiuso dai fascisti pochi anni dopo la visita di Muratov, nel 1929/30.
Lo storico russo osservava come il Naviglio cingesse ancora gran parte del centro storico, attraversando da un lato i quartieri di Porta Ticinese e di Porta Romana, popolati da un’operosa borghesia di artigiani, commercianti e impiegati, dall’altro i quartieri aristocratici di Porta Orientale e Porta Nuova, ove si trovavano gli eleganti giardini dei palazzi nobiliari, luoghi d’incantevole bellezza.
Sul Naviglio, che spesso lambiva non le rive, ma le facciate stesse delle case oppure i recinti dei giardini e dei cortili, si possono scorgere i lati più pittoreschi della vita milanese: quella popolare nei dintorni di San Nazaro e di San Lorenzo e quella signorile dalle parti della Chiesa di Santa Maria della Passione, famosa per l’iscrizione incisa sul suo portale: “Amori et dolori sacrum”.
Sulla riva del Naviglio si affaccia il Palazzo Visconti di Modrone, [tuttora esistente nella via omonima], che ispirò ad André Suarez queste righe per il suo Voyage du condottière:
“Sembra fatto apposta per offrire un rifugio agli amori segreti e forse peccaminosi. Un giardino di alberi secolari, pieno di gelsomini e di rose, cade a picco sullo specchio delle acque morte; è delimitato da una balaustrata di pietra, pomposa e un po’ pesante, e pur tuttavia elegante. Il verde e i fiori animano il silenzio, e la loro presenza appassionata è l’unica festa in questo quartiere miserabile della città. Degli amorini sorreggono uno stemma…la giovane vite e i rami degli alberi carezzano lievi ogni voluta, ogni riccio della balaustrata. Tra le foglie si delinea un loggiato a sei archi che separa le due ali del palazzo. Dolce giardino segreto, incantevole riparo! Lo zampillo di una fontana lancia il suo getto cangiante nel sole. Il canale riflette i rami degli alberi, lasciando galleggiare le foglie sulle sue acque meste. A Milano non c’è altro rifugio per il sogno, l’amore e la malinconia”.
In un post pubblicato nel gennaio del 2015, ho preso in esame il mondo dell’associazionismo nella Milano dei primi anni della Restaurazione. Oggi desidero ricordare una interessante iniziativa, poco conosciuta, che il conte Federico Confalonieri intraprese negli anni precedenti ai moti del 1820-21.
Nel campo dell’istruzione elementare, Confalonieri fondò una società il cui fine risiedeva nell’istituire in Lombardia le scuole di “mutuo insegnamento”, istituti già operanti a quei tempi in Stati europei quali l’Inghilterra, la Francia, l’Austria, la Toscana, il Regno di Napoli. In Lombardia l’insegnamento elementare obbligatorio – “normale” come si diceva a quei tempi – era stato introdotto fin dagli anni Ottanta del Settecento sotto il regno di Giuseppe II. Qual era pertanto la novità delle scuole che il patrizio milanese intendeva costituire in Lombardia?
Gli istituti di Confalonieri avrebbero seguito il metodo sperimentato in Inghilterra da Andrea Bell e Joseph Lancaster che consisteva nell’educare i bambini all’impegno nello studio assegnando come premio ai più meritevoli la responsabilità di insegnare agli alunni delle classi inferiori. Un metodo quindi ove la disciplina e l’obbedienza ai maestri era premiata con l’assegnazione di ruoli di responsabilità in campo didattico agli scolari più diligenti. Questo metodo presentava il vantaggio d’impiegare pochi maestri e di risparmiare le spese per la gestione dei corsi. La scuola cui pensava Confalonieri era una scuola cattolica che sembrava ispirata più ai metodi del cappellano Bell che a quelli aconfessionali del quacchero Lancaster. Alle scuole di mutuo insegnamento potevano essere iscritti gratuitamente bambini di un’età non inferiore ai sei anni, ai quali sarebbe stato insegnato a leggere, a scrivere e a svolgere le operazioni aritmetiche mediante l’ausilio di apposite tavole.
Per reperire i fondi con cui aprire queste scuole, Confalonieri ricorse principalmente all’aiuto delle famiglie nobili con cui aveva rapporti. I primi azionisti furono in tutto 31, che accettarono di versare 80 lire all’anno per quattro anni affinché la società potesse aprire i suoi istituti educativi. Molti di loro appartenevano alle famiglie dell’antica nobiltà ed erano amici di lunga data: ad esempio Luigi Porro Lambertenghi, Giulio Beccaria (figlio del famoso Cesare), Alessandro Visconti d’Aragona, Gian Battista Litta Modigliani. La prima scuola di mutuo insegnamento, riconosciuta dalle autorità, fu aperta a Milano l’11 marzo 1820 nell’oratorio di Santa Caterina, una cappella – oggi visitabile – interna alla chiesa di San Nazzaro, nel sestiere di Porta Romana. Vi furono iscritti 300 alunni. In realtà, un’altra scuola era stata aperta fin dal primo ottobre 1818, quasi due anni prima, nell’antico monastero di Sant’Agostino in via Monte di Pietà nel sestiere di Porta Nuova, vicino alla casa di Confalonieri: gli iscritti erano 200. Il costo delle singole azioni, già alquanto ridotto se rapportato ad altre associazioni costituite dal patrizio milanese in quegli anni, venne abbassato nel regolamento del 1819 a 20 lire ciascuna. L’acquisto di un’azione conferiva il diritto d’iscrivere gratuitamente tre bambini.
I fondi così ottenuti consentirono di pagare i maestri, l’affitto dei locali, i materiali per l’insegnamento e , come scritto nel regolamento della Società “piccoli premi d’incoraggiamento mensili ed annuali da darsi a quegli allievi che colla loro condotta avranno meglio meritato”.
In quale modo sarebbe avvenuto concretamente l’esercizio dell’attività didattica? Scriveva Confalonieri:
Gi allievi non potranno essere ammessi prima degli anni 6 compiti e dovranno presentarsi muniti dell’attestato di vaccinazione. Essi saranno ogni mese visitati nella scuola da un medico delegato a sopravvegliare alla salubrità del locale, allo stato di loro salute, ed a prevenire e a riparare a quegli inconvenienti cui possono essere specialmente esposte le numerose riunioni di fanciulli.
Le pene corporali d’ogni genere saranno escluse, ed i castighi s’aggireranno sul perno dell’emulazione che saggiamente e moderatamente impiegata forma la base principale del sistema.
Si daranno nella giornata circa cinque ore di insegnamento, diversamente distribuite secondo le varie stagioni. La preghiera precederà e chiuderà gli esercizi giornalieri, e la domenica sarà divisa tra gli atti della religione ed un’utile ricreazione propria a sollevare l’animo della gioventù ed a meglio prepararla al successivo studio.
Quantunque non abbiano queste scuole per iscopo l’addottrinamento religioso, pure essendo interessantissima cosa l’istillare nel cuore dei fanciulli coi primi elementi dell’istruzione i principi della religione e della morale, le tabelle che dovranno servire d’esempio per la scrittura, e di esercizio per la letteratura conterranno per lo più massime e precetti religiosi e morali, e per le classi più avanzate il catechismo e gli elementi della storia sacra e profana. Tutte queste tabelle stampate ed uniformi saranno sottoposte alla approvazione dell’autorità superiore.
[Società fondatrice delle scuole gratuite di mutuo insegnamento formatasi in Milano il 1° gennaio 1819 in F. Confalonieri, Memorie e lettere, a cura di Gabrio Casati, Milano Hoepli, 1889, vol.I., pp.277-279].
Il governo austriaco riconobbe inizialmente la bontà di queste scuole. L’autorizzazione arrivò con decreto del Viceré Ranieri del 13 marzo 1819. Altre scuole furono aperte in Lombardia. Quantunque le autorità avessero i mezzi per esercitare un ferreo controllo sui contenuti dell’insegnamento – come previsto dallo stesso Confalonieri nel regolamento che si è appena citato – le scuole di mutuo insegnamento furono chiuse pochi mesi dopo, fra l’autunno del 1820 e l’inverno del 1821. Le paure legate allo scoppio delle rivoluzioni liberali a Napoli e a Torino spinsero gradualmente i governi europei a cessare questo esperimento e a tornare al metodo tradizionale delle scuole “normali”: metodo fondato sul ruolo del maestro, unico titolare dell’attività didattica senza alcun coinvolgimento dei discenti. Scriveva sconsolato Confalonieri in una lettera all’amico Gino Capponi del 25 settembre 1820:
Le scuole di mutuo insegnamento furono tutte fulminate in Lombardia, meno le due nostre in Milano perché venturatamente sacramentate con superiore decreto nel loro nascere. Non è peraltro consentita la loro conservazione che fino alla completa attivazione del precellente (sic!) metodo austriaco.
[Dalla lettera di Federico Confalonieri all’amico fiorentino Gino Capponi, 25 settembre 1820, in F. Confalonieri, Memorie e lettere, a cura di Gabrio Casati, Milano Hoepli, 1889, vol.II., pag.92]
In questi giorni ricorre l’anniversario di uno strano caso di condanna a morte che ebbe per protagonista un ex religioso, Carlo Sala. Originario dell’antico comune di Casletto – oggi frazione di Rogeno – non molto lontano da Erba in Brianza, Sala proveniva da un’agiata famiglia di proprietari terrieri della zona. Dopo la morte del padre Fermo, fu costretto a farsi frate dallo zio Giuseppe, che riuscì a concentrare nelle sue mani il patrimonio del fratello defunto escludendone i nipoti.
Il suo noviziato avvenne a Milano nell’ordine francescano. Acquisito il suddiaconato con il nome di frate Bonaventura, nel 1756 fu trasferito a Domodossola, il cui territorio da pochi anni, in seguito alla guerra di successione austriaca, era stato staccato dal Ducato di Milano e aggregato al Regno di Sardegna. Lì rimase fino al 1764, quando fuggì dal convento facendo perdere le sue tracce.
In realtà, noi sappiamo che Sala rientrò poco tempo dopo nel Ducato di Milano e, tornato al suo paese, rubò 2665 lire dalla cassa di famiglia per avere la parte di patrimonio che reclamava. In una lettera allo zio riportata da Giovanni Biancardi nell’Introduzione a un bel libro ove sono pubblicate le lettere dei fratelli Verri sul caso Sala, il religioso così giustificava il furto dei soldi:
Ricordatevi…che io non ho preso della vostra robba, ma della mia, e che tant’altra me l’avete fatta gettar a male voi per soddisfare a’ vostri Capricci di volerci tutti Fratti [sic!], quando né tutti son fatti per fare il Frate, né tutti per fare il Prete, e di tanti, che ne sono nelle Religioni nemeno la metà si è fatto volontariamente, ma tutti chi per un motivo, chi per un altro.
[Pietro e Alessandro Verri, Un illustre impiccato, Il Muro di Tessa, Milano 2007, dall’Introduzione a cura di Giovanni Biancardi, pp.12-13].
Sala si trasferì quindi a Cremona dove, gettata la tonaca alle ortiche, si sposò, ebbe dei figli e lavorò come commerciante di libri aprendo una bottega sotto il falso nome di Alessandro Barni. Arriviamo così ai primi anni Settanta, quando possiamo dire che l’ex religioso conducesse due vite parallele, entrambe fuorilegge: la prima perché contestava apertamente la religione cattolica, che a quei tempi era protetta dalle autorità del Ducato di Milano come avveniva nell’Europa cristiana d’ancien régime; la seconda vita era parimenti fuorilegge perché caratterizzata da furti ai danni del prossimo.
Oltre a vendere libri proibiti, Sala teneva discorsi in pubblico per convincere amici e colleghi ad allontanarsi dalla religione cattolica. L’ostilità verso i preti e i frati si era formata in lui con ogni probabilità all’epoca in cui era stato costretto ad entrare nell’ordine francescano. Rubò suppellettili e arredi sacri in molte parrocchie del Ducato: ad esempio a Lambrate, a Castellanza, a Usmate, a Tradate, a Villa Pizzone. Il suo odio per la religione si spinse fino alla profanazione delle ostia consacrate.
L’arresto avvenne a Brescia, che si trovava a quei tempi nella Repubblica di Venezia, nella primavera del 1774. Incapace di fornire alle autorità una spiegazione credibile sulla provenienza della merce che portava con sé, Sala fu detenuto in quella città per alcuni mesi. Consegnato alle autorità milanesi il primo maggio 1774, confessò di aver compiuto trentotto furti.
Il libraio brianzolo venne condannato a morte con sentenza del Senato di Milano il 23 settembre 1775: la pena capitale consisteva – com’era consuetudine per i ladri – nell’impiccagione, preceduta da tre colpi di tenaglia rovente e dall’amputazione della mano.
L’esecuzione avvenne due giorni dopo. Lungo il percorso dalle regie carceri alla piazza della Vetra – uno dei luoghi abituali ove erano eseguite le condanne a morte – Sala fu trasportato su un carro e qui torturato dal boia con le tenaglie infuocate.
Lo spettacolo era certamente truce ma è probabile che i milanesi non fossero granché scossi, essendo abituati da secoli alla vista delle torture e dei cadaveri dei condannati esposti in pubblico. La pena di morte era ancora assai diffusa nella Milano settecentesca, segno che i fiochi lumi della ragione accesi dai fratelli Verri, da Beccaria e dagli altri membri dell’Accademia dei Pugni, avrebbero allontanato le tenebre della barbarie solo dopo molti anni.
In un vecchio ma ancora fondamentale studio di alcuni anni fa, Italo Mereu ha dimostrato come dal 1700 al 1767 il numero delle condanne a morte fu di 643, con una media di quasi 10 esecuzioni all’anno (I. Mereu, La pena di morte a Milano nel secolo di Beccaria, Vicenza, Neri Pozza 1988). Nel 1765 – anno della pubblicazione del celebre trattatello Dei delitti e delle pene scritto da Cesare Beccaria – le sentenze capitali furono ben 23, uno dei numeri più alti, al quarto posto dopo le esecuzioni del 1745 (25), del 1750 (34), del 1755 (32).
Eppure, nell’assistere a quella condanna a morte, destò meraviglia nei milanesi la fermezza, il coraggio, quasi l’estraneità al dolore che l’ex religioso Carlo Sala seppe mostrare in quelle ore durissime.
In una lettera del 27 settembre 1775 al fratello Alessandro, Pietro Verri così descriveva la stupefacente esecuzione della condanna a morte.
Venne l’ora del supplizio, discese e montò sul carro senza il minimo segno di timore; aveva quattro sacerdoti, il carnefice, il fuoco…non aveva il Crocifisso alla faccia, né in mano; con faccia severa e ferma osservava le finestre e l’immenso popolo attonito a segno che non s’udiva una voce per dove passava. La pietà ragionata degli ecclesiastici credo che disponesse perché i colpi di tenaglia rovente fossero dati fortemente. Così fu eseguito: si vedeva un globo di fumo alzarsi, si vedeva il carnefice stringersi nelle spalle e alzar le mani per lo stupore; e non s’udiva un grido, un sospiro del Sala, che poté essere padrone de’ suoi muscoli a segno di non fare il minimo movimento, come se nemmeno lo toccassero. Gridavano i buoni ministri che quello era un minimo ricordo del fuoco eterno a cui si andava a immergere a momenti, che si confessasse e quell’indurato, sempre con un funesto sorriso, diceva di lasciarlo in pace dopo tutte le dispute e non era persuaso. I sacerdoti sul carro erano attoniti e non osavano quasi parlargli, anche per non scomparire in faccia alla moltitudine. Il carnefice credeva o che il Sala fosse un negromante, ovvero che il demonio dovesse comparire alla esecuzione e tremava più assai che il paziente.
Giunto dopo un lungo cammino alla Vetra, scese francamente e con serenità dal carro, contemplò placidamente la forca, si sbarazzò degli ecclesiastici; andò spontaneamente a riporre la mano sul tronco di legno, indicò al carnefice il sito preciso dove si doveva collocare il ferro: non volle che alcuno gli tenesse la mano, osservò come si faceva a tagliarla, si abbassò coll’altra mano per raccogliere la caduta, non diè moto o grido di dolore, osservò attentamente il braccio mozzato, sorrise perché la gallina che se gli doveva applicare era sfuggita alle mani del carnefice; finalmente impaziente ascese da sé la scala e al carnefice stesso, che più volte nel porgli il capestro gli diceva che ancora era a tempo, terminò col dire che si sbrigasse a fare il suo mestiere, diè un’occhiata abbasso e da sé si scagliò. Il carnefice tremava e non poté resistere alla paura di essere portato via dal demonio insieme all’infelice Sala e lo abbandonò che ancora si dibatteva.[…]
Io compiango il destino di un uomo il quale aveva l’anima certamente non volgare e capace del più sublime eroismo: lo compiango, dico, di averla così malamente impiegata. E’ comune agl’inglesi affrontare la morte con coraggio; ma affrontare con eguale coraggio e soffrire con immobilità il dolore, non so se si trovi frequentemente.
Va ricordato che nel Ducato di Milano la tortura fu abolita nel 1784. Negli anni Ottanta cessarono le condanne a morte, sostituite dai lavori alle fortezze (Pizzighettone) o da altri tipi di condanne durissime come ad esempio l’alaggio, che consisteva nel traino delle imbarcazioni lungo le rive dei fiumi in marce forzate che provocavano il decesso per sfinimento.
La pena di morte tornò alla carica in Francia alla fine del secolo, quando la ghigliottina, nei pochi anni del Terrore, uccise tra le 30.000 e le 40.000 persone. Tornò in Italia nella prima metà dell’Ottocento, ben presente negli ordinamenti degli Stati napoleonici e in quelli preunitari. Faceva eccezione il Granducato di Toscana, ove la condanna a morte fu abolita da Pietro Leopoldo di Asburgo Lorena nel 1786.
Il rapporto dei milanesi con la spazzatura è sempre stato controverso. In età moderna la condizione delle strade era a dir poco misera se considerata con gli standard di pulizia cui siamo abituati oggi. Chi camminava nel XVI o nel XVII secolo per le vie del centro, perfino lungo i corsi principali, doveva fare i conti con una situazione ambientale assai misera: strade lordate da escrementi di ogni tipo, il suolo bagnato dell’urina dei vasi da notte che venivano svuotati dalle finestre.
Ancora in pieno Settecento, nel periodo in cui il riformismo illuminato accendeva i suoi “lumi” e si adoperavano le prime misure tese a conferire pubblico decoro alla città, poteva capitare che la sporcizia restasse per giorni ai bordi delle vie. I rifiuti restavano per giorni in strada, tanto che in milanese la radice del lemma che indicava la spazzatura (ruera) era lo stesso di strada (ruga….da cui via Rugabella: bella strada): la competenza del “rüè”, dello spazzino, consisteva nel raccogliere questi rifiuti nella grande gerla che reggeva sulle spalle e nel portarli fuori dalle mura, in aperta campagna. Questo però non avveniva regolarmente, il che finiva con il rendere l’aria irrespirabile. L’abate Giuseppe Parini fu uno dei primi a denunciare, in una famosa ode del 1754, il misero stato in cui versavano le strade milanesi. Nello scritto Sulla salubrità dell’aria il poeta non esitava a preferire l’aria della sua Brianza ai fetori immondi di Milano:
Ma al pié de’ gran palagi/ Là il fimo alto fermenta;/ E di sali malvagi/ Ammorba l’aria lenta,/ che a stagnar si rimase/ tra le sublimi case./ Quivi i lari plebei/ Da le spregiate crete/ D’umor fracidi e rei/ Versan fonti indiscrete;/ Onde il vapor s’aggira,/ e col fiato s’inspira./ Spenti animai, ridotti/ Per le frequenti vie,/ De gli aliti corrotti/ Empion l’estivo die:/ Spettacol deforme/ Del cittadin sull’orme./ Né a pena cadde il Sole,/ che vaganti latrine/ con spalancate gole/ lustran ogni confine/ De la città, che desta/ Beve l’aura molesta.
“Ma ai piedi dei grandi palazzi fermenta il tanto letame. E di odori nocivi ammorba l’aria fetida, che rimase a stagnare tra queste case sublimi. Qui gli abitanti delle case popolari gettano in strada le acque sporche dei vasi da notte (le spregiate crete) per cui i miasmi si aggirano per l’aria e si respirano dai passanti. Animali morti, che giacciono sulle vie frequentate, riempiono l’aria estiva del puzzo della carcasse in decomposizione: informe spettacolo ai piedi del cittadino. E poco prima del tramonto i carri dei rifiuti spinti dagli spazzini (latrine vaganti) con i loro coperchi spalancati puliscono ogni lato della città, che al risveglio si deve ancora sorbire quell’aria fetida”.
Nel 1781 il magistrato di sanità, l’istituzione del ducato incaricata di vigilare sulla salute pubblica, emanò disposizioni precise sulla pulizia delle strade. La cura dell’igiene pubblica restò però inefficace per molti anni perché i milanesi violavano i regolamenti. I primi provvedimenti incisivi arrivarono quando Milano fu capitale del Regno d’Italia napoleonico. Un decreto del viceré Eugenio Beauharnais, firmato dal Palazzo Reale l’8 gennaio 1811, nel denunciare la pessima abitudine di depositare nelle cantine o nei cortili domestici il letame delle stalle e ogni specie di rifiuti, vietava tali pratiche sotto pena di una multa di 200 lire italiane, che saliva a 300 lire in caso di recidiva. Pochi mesi dopo, un’ordinanza del prefetto di polizia dell’Olona, Villa, obbligava i cittadini a trasportare l’immondizia fuori città assicurandosi che il luogo prescelto si trovasse a una distanza dalla strada e dall’abitato non inferiore ai 100 metri.
Da allora è passata molta acqua sotto i ponti. Oggi Milano si trova all’avanguardia nella pulizia delle strade e nella gestione dell’immondizia. La raccolta differenziata, pari al 54% del totale, seconda in Europa solo a quella di Vienna, consente di produrre fonti di calore per 24.000 famiglie ed energia elettrica per 130.000 nuclei familiari. In un interessante incontro tenuto tre giorni fa all’Urban Center in Galleria Vittorio Emanuele, una delegazione di operatori ecologici di New York si è incontrata con gli amministratori del Comune, di A2A e di Amsa per scambiarsi il proprio know-how e condividere obiettivi ambiziosi. Nella Grande Mela il sindaco De Blasio ha dichiarato di voler raggiungere entro il 2030 l’azzeramento della produzione di immondizia indifferenziata. La giunta Sala, che intende portare nei prossimi anni la raccolta differenziata al 65%, si pone lo stesso traguardo potendo contare su un servizio di gestione dei rifiuti – quello di Amsa, dal 2008 controllata da A2A – tra i più avanzati in Europa.
Dennis Diggins, First Deputy Commissioner del New York City Department of Sanitation, ha mostrato come raggiungere l’obiettivo del “zero waste” sia un obiettivo difficile ma non impossibile se l’amministrazione riesce a gestire bene i processi di smaltimento per ogni tipologia di rifiuto come avviene in larga parte già a Milano.
D’altra parte, “prendendo ad esempio l’esperienza di New York” ha spiegato l’assessore all’ambiente del Comune di Milano, Marco Granelli – crediamo che Milano possa puntare ancor più in alto recuperando una componente importante come i tessuti che oggi vanno nell’indifferenziato. Siamo poi consapevoli che l’attività educativa nelle scuole è fondamentale: applicare la differenziata nei cestini pubblici in strada – come è stato fatto ad Expo 2015 – richiede un’educazione civica diffusa sul territorio. A Milano è poi cruciale coinvolgere maggiormente i condomini mettendo in atto misure – come ad esempio sconti sulla Tari – atte a premiare chi dimostrerà di prendersi cura dello spazio comune”.
Valerio Camerano, amministratore delegato di A2A, ha confermato come anche per Milano l’obiettivo sia di arrivare al 100% della raccolta differenziata entro il 2030. Investimenti significativi sono previsti per nuovi impianti tesi allo smaltimento del vetro, carta, plastica e organico. Il servizio si estenderà nei prossimi anni all’area metropolitana garantendo ai Comuni dell’hinterland un servizio che sia allo stesso livello di quello presente a Milano. Il responsabile operativo di Amsa, Mauro De Cillis, ha annunciato che dal 2017 verranno introdotti in città gli smart bins, i cestini intelligenti: dotati di un chip elettronico, invieranno alla centrale informazioni sui rifiuti accumulati consentendo agli operatori di tracciare la produzione storica per ogni isolato. Entro il 2018 quindicimila cestoni saranno smart sui ventiquattromila complessivi.
Tra le novità dei prossimi anni vi sarà il rinnovamento ecologico del parco mezzi con una flotta che sarà pienamente ecocompatibile entro il 2018; l’unione del cartone alla carta a seguito dell’elevata diffusione degli acquisti via internet; la riduzione della raccolta indifferenziata ad una volta alla settimana per indurre i cittadini ad impegnarsi maggiormente nella separazione dei vari tipi di rifiuti.
In una vecchia guida di Milano pubblicata nel 1838 si consigliava una passeggiata con partenza dal lato nord della piazza dei Mercanti, nel punto in cui si dipartiva l’antica contrada dei Fustagnari, uno dei vicoli del centro che consentiva a quei tempi di raggiungere il Cordusio. Contrada dei Fustagnari: “nome applicabilissimo anche ai giorni nostri” scriveva l’anonimo estensore del libretto “per la preponderante quantità di fustagni che vi si vende” [Guida di Milano in otto passeggiate, Milano 1838, ristampa a cura de Il Polifilo, 2005, pag.131].
Quando ho saputo che la ditta Guenzati è soggetta a una procedura di sfratto perché le Assicurazioni Generali non intendono rinnovare l’affitto, il pensiero è corso subito alla storia di questo piccolo isolato compreso tra le vie Orefici, piazza Cordusio e via Mercanti; una zona ove operò fin dal Medioevo una borghesia mercantile specializzata nella vendita dei tessuti. Guenzati costituisce l’ultima preziosa testimonianza di quella storia milanese. Il Fai ha organizzato una raccolta firme affinché l’azienda non sia costretta a lasciare la sua storica sede. L’assessore alle politiche del lavoro, attività produttive, commercio e risorse umane, Cristina Tajani, ha visitato il negozio mostrando l’attenzione della giunta Sala al tema della salvaguardia dei negozi storici.
Oggi Guenzati è una ditta di alta qualità, particolarmente apprezzata da una raffinata clientela composta non solo da milanesi, ma anche da tanti cittadini italiani e stranieri che da anni apprezzano la vasta scelta degli articoli e l’attenzione premurosa di un personale esperto, pronto a soddisfare con discrezione i bisogni del cliente.
In realtà, se guardiamo a questo negozio con la lente della storia, ci accorgiamo che tali qualità non sono per nulla casuali o improvvisate. Sono il risultato di un fenomeno di “lunga durata”, frutto di un patrimonio di competenze che in quella bottega si è trasmesso per due secoli e mezzo. La storia della ditta Guenzati costituisce un esempio di successo ottenuto in forza di un autentico spirito di corpo tra i dipendenti. Spirito di corpo che ha consentito alla ditta di durare nei secoli nonostante l’estinguersi delle famiglie. Il marchio Guenzati si è fuso da tempo con la storia di Milano, in particolar modo con quella del quartiere di piazza dei Mercanti. Traslocare Guenzati significherebbe privare il centro di un pezzo importante della sua storia; una storia risalente alla borghesia milanese del basso Medioevo.
Risaliamo alle origini, al 1768, anno di nascita della ditta Guenzati nel commercio dei tessuti. Siamo nel periodo delle riforme asburgiche condotte da Maria Teresa d’Austria e dai suoi funzionari: grazie all’impulso del governo austriaco, è iniziata per Milano una stagione di rinnovamento nella società, nei costumi, nelle istituzioni politico amministrative del Ducato. In quell’anno Giuseppe Guenzati assunse la direzione della ditta sita in contrada dei Fustagnari al civico 1677, conferendole il nome “Ditta Giuseppe Guenzati”. Possiamo dire che la nascita del negozio avvenne nel segno della continuità con un modo di lavorare che avrebbe dato frutti duraturi. Giuseppe infatti non era nuovo del mestiere. Con la sorella Giuseppa aveva lavorato per anni alle dipendenze di Giovanni Bertani, la cui famiglia era proprietaria di quel fondaco fin dai primi del Settecento. Il matrimonio tra Giovanni e Giuseppa legò strettamente la famiglia Guenzati ai proprietari, la cui attività verteva principalmente sul commercio dei tessuti di seta. Alla morte di Bertani, Giuseppe subentrò nella gestione.
A quell’epoca, nel periodo compreso tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento, il patrimonio della ditta non doveva essere cospicuo. Sappiamo però che negli anni Quaranta del XIX secolo il nipote Giuseppe Guenzati “junior” non era soltanto un commerciante di tessuti, ma si era specializzato come intermediario nelle operazioni di vendita e acquisto della seta. Era divenuto, come si diceva allora, un “sensale” e questa fu un’attività che Giuseppe junior seppe svolgere da solo, senza l’aiuto di alcun membro della famiglia. Difatti, se controlliamo gli almanacchi napoleonici del 1808 e del 1812, non troviamo il nome dei Guenzati tra i principali “sensali di seta” attivi a Milano, segno che Agostino, padre di Giuseppe junior, era rimasto in quel periodo un semplice commerciante di tessuti.
Il “sensale” era un mediatore la cui attività consisteva nel fare in modo che le parti avessero i mezzi per fare affari rappresentandole se necessario nella firma dei contratti. I sensali di mercanzia operavano nel commercio di prodotti agricoli, agendo come intermediari tra i venditori e i compratori della merce. I primi guadagni considerevoli furono quindi opera di Giuseppe “junior”, figlio di Agostino, il cui nome compariva nella Guida di Milano per l’anno 1844 all’interno dei 24 sensali di seta operanti in città. Giuseppe – che abitava nel sestiere di Porta Comasina dapprima nella contrada del Rovello al civico 2304, poi in contrada Cusani al civico 2287 – raggiungeva a piedi, in pochi minuti, il suo fondaco che si trovava all’interno del sestiere ove abitava, alla fine del vicolo Fustagnari, a pochi metri dall’ingresso sul lato settentrionale della piazza dei Mercanti.
Oltre ad essere un ottimo commerciante, Guenzati fu un intellettuale operoso che riscosse una certa fama nella Milano asburgica. Nel “Giornale dell’Imperial Regio Istituto Lombardo di Scienze, Lettere ed arti e Biblioteca Italiana dell’anno 1847”, tra i testi di cui si raccomandava la lettura, due erano scritti da Giuseppe. Il primo, pubblicato nel 1846, si intitolava Manuale del cultore della seta; il secondo verteva sulla coltivazione delle patate (Il cultore dei pomi da terra, Milano, Valentini 1847).
Il primo libro era dedicato alla coltivazione dei gelsi e all’allevamento dei bachi da seta: l’autore, sulla base delle conoscenze acquisite nei suoi viaggi presso le varie cascine lombarde, forniva consigli sui metodi per disporre dei bachi migliori e ottenere una buona filatura dei bozzoli. Seguiva uno studio comparativo sui vari tessuti di seta presenti sulla piazza milanese, di cui si analizzava nel dettaglio la qualità. Per la verità, la parte relativa ai bachi riprendeva concetti che Giuseppe aveva già esposto alcuni anni prima, nel 1841, in un volumetto intitolato Vero metodo per far nascere la semente dei bachi da seta, loro processo, educazione. L’analisi dei vari tessuti costituiva invece il tratto innovativo del libro, il cui successo fu notevole. Nell’introduzione al volume sulla coltivazione delle patate, Giuseppe, nel ricordare la fortuna del suo “manuale”, rammentava con legittimo orgoglio il favore che esso riscosse non solo presso le autorità asburgiche in Lombardia, ma anche presso i governi di alcuni Stati italiani: il regno di Napoli e il regno di Sardegna.
“Lo scorso anno il Sottoscritto diede alla luce un suo opuscolo intitolato il Cultore della Seta, nel quale trovansi raccolte molte utili cognizioni per la riuscita di sì importante ramo della nazionale ricchezza. Detto opuscolo fu accolto con favore da Sua Altezza Imperiale il Serenissimo Arciduca Ranieri, Viceré del Regno Lombardo Veneto, come risulta dal rispettato rescritto 25 aprile 1846 n.2789, di sua Eccellenza il Signor Conte Governatore, con dichiarazione che l’Altezza Sua si è degnata di accettare di buon grado l’esemplare rimessole, commendando [lodando] lo zelo dell’Autore, e le pervennero parimente lodi da parte del Re di Napoli, col mezzo di suo Ministro dell’Interno…e che finalmente Sua Maestà il Re Carlo Alberto di Sardegna ha desiderato cinquanta copie di detto opuscolo, all’oggetto fossero diramate in tutte le provincie del suo Regno”.
Il declino della seta lombarda nella seconda metà dell’Ottocento spinse i commercianti ad estendere la loro attività ad altre tipologie di merce. Nella Guida generale di Milano pubblicata dall’editore Ticozzi nel 1873-74, la ditta Guenzati compariva ancora tra i principali operatori del settore nella città ambrosiana. La sede era descritta tuttavia come operante in “telerie e cotoni”: scompariva il riferimento alla seta.
Nel 1876 avvenne il secondo passaggio di proprietà della ditta in via Fustagnari. Rosa Casati, vedova di Giuseppe Guenzati, cedette l’attività ai dipendenti più brillanti: Luigi Meda e Giovanni Battista Tomegno. Quest’ultimo si distinse nella rigorosa conduzione degli affari, assicurando alla ditta un discreto margine di guadagno. Con i soldi che riuscì a procurarsi grazie alle brillanti operazioni di vendita Giovanni Battista poté far studiare due dei suoi figli, Domenico e Luigi: il primo divenne dottore commercialista, il secondo avvocato. Il terzo figlio, Giuseppe, avviato invece alla professione del commercio, affiancò il padre nei viaggi d’affari. Ben presto tuttavia, la passione per le stoffe spinse i fratelli ad unire le forze. La conoscenza dei traffici, la ricerca meticolosa dei tessuti, l’abilità nelle operazioni di vendita, furono caratteristiche che segnarono il successo del negozio di via Fustagnari, che tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento assurse a grande notorietà. Tra i clienti più illustri occorre ricordare San Giovanni Bosco, assai legato a Giuseppe Guenzati che lo presentò a Giovanni Battista Tomegno. Dopo la morte del Guenzati, i rapporti con il sacerdote si consolidarono grazie alla forte amicizia con i Tomegno. Quando giungeva a Milano, don Bosco non mancava di far visita ai dipendenti del negozio.
Il terzo passaggio di proprietà avvenne nel 1968. La tradizione di affidare l’attività ai dipendenti migliori venne rispettata anche in questo caso. Domenico e Luigi Tomegno, anziani e senza eredi, cedettero l’attività ad Angelo Moretti e a Vittorio Ragno. Quando venne assunto dai Tomegno, nel 1956, Vittorio era un giovane di 19 anni tutt’altro che inesperto. Cinque anni prima aveva imparato il mestiere lavorando come commesso presso la Tessuti Carlo Alberto.
Il tirocinio alla Guenzati non fu per nulla facile. I titolari erano inflessibili nel servizio alla clientela. In un’intervista rilasciata a Giuseppe Paletta e pubblicata alcuni anni fa dal Centro per la Cultura d’Impresa, Vittorio Ragno ricordava il duro lavoro cui dovette far fronte in un’ambiente in cui i colleghi ‘più anziani’, gelosi della competenze acquisite, erano tutt’altro che disposti ad aiutare i nuovi arrivati. L’impegno, l’umiltà, la dedizione costante al lavoro furono tuttavia qualità che premiarono l’impegno di Vittorio e di Angelo Moretti, consentendo loro di emergere in una ditta composta alle metà del Novecento di appena nove persone tra titolari, commessi e fattorini.
Tra i clienti più importanti della Guenzati meritano di essere ricordati nomi quali Galtrucco, Loro Piana; famiglie dell’alta borghesia meneghina quali i Borletti o i Bassetti; esponenti illustri della nobiltà milanese come i Dal Verme o i Visconti di Modrone.
Per queste ragioni, credo sia importante dare una mano a Luigi Ragno, figlio di Vittorio, perché la Guenzati continui a svolgere la sua attività nella sua storica sede tra Piazza Mercanti e il Cordusio.
Dopo il biennio 1796-1797 varrà la pena ricordare un altro periodo storico in cui Milano giocò un ruolo importante quale cantiere di progetti costituzionali. Avvenne pochi anni dopo. Il 14 giugno 1800 Napoleone sconfisse gli austriaci a Marengo in una memorabile battaglia. Da sette mesi era divenuto Primo Console della Repubblica Francese: il colpo di Stato del 18 Brumaio anno VIII (9 novembre 1799) lo aveva portato alla conquista del potere. L’Italia del Nord Ovest tornò sotto il dominio francese. La Repubblica Cisalpina fu ricostituita. In questo periodo, nel biennio 1800-1801, tra le autorità della Francia consolare e quelle cisalpine intercorse una serrata collaborazione per una riforma delle istituzioni che fosse in grado di restituire all’Italia quella stabilità geo-politica che era uscita gravemente compromessa durante il triennio repubblicano e la breve invasione degli austro-russi.
Quale utilità può rivestire quel periodo storico nel mondo di oggi? La Repubblica Italiana istituita da Napoleone nel gennaio 1802 apparteneva certamente a un costituzionalismo autoritario in cui, scomparso il principio della separazione dei poteri, tutto il peso della funzione politica era concentrato nel governo e nelle sue istituzioni tecnico rappresentative. A prima vista quella esperienza ha quindi ben poco da insegnarci. A un più attento esame, non si può negare tuttavia che quel periodo storico segnò il formarsi di una efficiente burocrazia di funzionari pubblici la cui dedizione alla causa dello Stato sarebbe stata rimpianta da almeno una generazione di uomini politici lombardi. Inoltre quegli ordinamenti, nonostante l’impianto autoritario che li informava, costituivano una variante del sistema rappresentativo che poté garantire la nomina agli uffici e alle cariche pubbliche di personale in larga parte preparato, reclutato in base al merito e alla competenza. Nella Costituzione francese dell’anno VIII il ricorso al popolo era limitato alla compilazione di liste di fiducia sulle quali un Senato conservatore avrebbe esercitato il diritto di elezione alle maggiori cariche della Repubblica.
Nelle parole dell’abate Joseph Emmanuel Sieyes – il padre del costituzionalismo autoritario di quegli anni, anche se il suo progetto non prevedeva la concentrazione del potere nella mani di una sola persona (Napoleone) come previsto dalla Carta del 1799 – quel sistema avrebbe risolto il problema della qualità della classe politica e dell’efficienza delle istituzioni spezzando la dipendenza che nelle democrazie parlamentari, fondate sull’elezione diretta delle assemblee, lega l’eletto al suo collegio elettorale nonostante il divieto del mandato imperativo. Nella Costituzione dell’anno VIII – e ancor più nel progetto di Sieyes – erano assai difficili fenomeni oggi diffusi come le clientele o la corruzione nella scelta dei funzionari e dei rappresentanti perché – avrebbe detto Sieyes – “nessuno deve essere nominato funzionario da coloro sui quali deve pesare la sua autorità”. L’abate aveva vissuto in prima persona la stagione della Rivoluzione francese e aveva toccato con mano quel clima drammatico di instabilità, corruzione e violenze che una concezione radicale della sovranità popolare aveva finito per provocare nel seno di uno Stato in profonda crisi politica. Il filtro costituito dalle liste di fiducia; la scelta dei funzionari e rappresentanti pubblici riservata a un Senato composto da tecnici e da alte personalità della cultura e della scienza; la divisione della funzione legislativa in più organi collegiali formati da personale competente, sottoposti alla direzione politica del governo rappresentante esclusivo dell’interesse pubblico: queste misure costituivano per Sieyes l’unica via per fondare un governo e una pubblica amministrazione rigorosamente impersonali, pienamente operativi, oggi diremmo sottratti agli interessi delle lobbies e degli interessi particolari che ostacolano il cambiamento e il progresso della società.
La situazione italiana nel 1800/1801
Nell’Italia tornata sotto il dominio francese non era più possibile imporre un ordinamento che replicasse quello rivoluzionario d’Oltralpe com’era avvenuto nelle repubbliche “giacobine” costituite durante il triennio 1796-99. Questo per due ragioni. Anzitutto occorre ricordare che metà della penisola si trovava sotto il dominio degli antichi sovrani: il papa era tornato in possesso dei suoi territori nel Centro Italia. I Borbone si erano ristabiliti al Sud dopo il crollo della repubblica partenopea. In secondo luogo la stagione del costituzionalismo “democratico giacobino” era finita. Napoleone l’aveva seppellita in Francia con la Costituzione dell’anno VIII e non aveva alcuna intenzione di riesumarla in Italia, checché ne pensassero i patrioti italiani.
Cessata la guerra, restava da gestire il resto dell’Italia centrale (la Toscana) e dell’Italia del Nord Ovest fino a Verona. Occorreva farlo senza farsi trascinare dalle ideologie o da modelli costituzionali estranei alla penisola. Napoleone in questo periodo seppe muoversi con spregiudicato realismo, guidato nell’azione politica dal fine esclusivo di stabilizzare la Francia mediante una cintura di Stati che fossero il più possibile accetti alle popolazioni.
Con il trattato di Lunéville, firmato il 9 febbraio 1801, Napoleone obbligò l’Austria a riconoscere la Repubblica Cisalpina, accresciuta ad Ovest dell’alto e basso novarese uniti nel dipartimento dell’Agogna. La Toscana, persa dagli Asburgo Lorena, divenne per volontà di Napoleone il regno di Etruria ceduto al figlio del duca di Parma, Ludovico di Borbone. Il ducato di Parma e Piacenza, tolto ai Borbone, passò sotto amministrazione francese. L’unica repubblica destinata a rimanere in vita per alcuni anni fu quindi la Cisalpina, che sarebbe stata “ribattezzata” Repubblica Italiana ai Comizi di Lione verso la fine del 1801.
Come organizzare il nuovo regime? Il patrizio milanese Francesco Melzi d’Eril (1753-1816), uomo assai stimato da Napoleone, riteneva che non dovesse esservi alcun ordinamento sia pur larvatamente democratico come quello francese basato sulla Carta dell’anno VIII. Riteneva opportuno introdurre una sorta di monarchia illuminata retta sull’autorità di Napoleone, il cui governo avrebbe operato con l’aiuto di collegi rappresentativi composti di proprietari scelti in base alla loro ricchezza immobiliare. Era il principio di ascendenza fisiocratica in base al quale aveva diritto di partecipare alla gestione dello Stato solo chi possedeva come privato cittadino una parte del suo territorio sulla quale pagava l’imposta fondiaria. In assenza di un’opinione pubblica e di uno spirito nazionale, l’Italia cisalpina secondo Melzi poteva essere modernizzata solo da un governo la cui azione riformatrice fosse in continuità con la stagione dell’illuminismo asburgico che aveva dato i suoi frutti migliori nella Toscana e nella Lombardia del secondo Settecento. Teniamo presenti queste idee anti-democratiche di Melzi perché ad esse Napoleone avrebbe finito per ispirarsi in misura significativa tra il 1801 e il 1804.
Il progetto della Consulta legislativa cisalpina
Nei mesi che precedettero i Comizi di Lione furono presentati a Bonaparte diversi progetti di costituzione. Il primo fu elaborato dalla Consulta legislativa cisalpina, un collegio composto da 41 membri istituito nell’agosto del 1800. Questo piano riprese con alcune modifiche i lineamenti della Costituzione francese dell’anno VIII: furono previste liste di fiducia ove al popolo, mediante suffragio universale, era riconosciuto il solo diritto d’inserire le persone a lui gradite per i vari uffici della Repubblica. I cittadini di un circondario comunale avrebbero inserito un decimo di essi in una lista da cui sarebbero stati scelti i funzionari e ufficiali pubblici locali. I cittadini compresi in queste liste comunali avrebbero iscritto a loro volta un quinto di essi nella lista dipartimentale (provinciale) dalla quale sarebbero stati scelti i funzionari per le istituzioni di quel livello. I cittadini compresi nelle liste dipartimentali avrebbero indicato a loro volta un terzo di essi in una lista nazionale per le più alte cariche della Repubblica. Il diritto di eleggere i candidati da queste liste “di derivazione popolare” sarebbe spettata al governo e, per gli organi costituzionali previsti nel progetto, da una Camera elettorale composta da membri inamovibili e a vita, la cui età doveva essere di almeno 40 anni. Si trattava insomma di una democrazia “filtrata” in base alla quale gli elettori, lungi dall’essere chiamati ad eleggere direttamente i loro rappresentanti nelle assemblee, avrebbero indicato in tre gradi di scrutinio una rosa di candidati entro la quale chi era già in carica avrebbe operato la sua scelta in via definitiva.
In realtà, l’obiettivo della Consulta consisteva nel fondare un regime in cui la classe politica cisalpina allora al potere – animata in molti casi da ideali democratici e nazionali – avrebbe governato con Napoleone al fine di controllarne l’azione e dirigerla ai suoi fini. Difatti, era facile intuire che i membri della Camera elettorale sarebbero stati gli stessi uomini che governavano a Milano in quel torno di tempo. Inoltre, diversamente da quanto era previsto in Francia dalla Costituzione autoritaria dell’anno VIII, nel progetto della Consulta il Presidente della Repubblica (verosimilmente Napoleone) sarebbe stato ingabbiato in un governo composto da otto senatori scelti dalla Camera elettorale e non revocabili dal Presidente stesso. Il Presidente non avrebbe potuto licenziare i funzionari di sua nomina senza l’assenso della Camera elettorale. La forma di Stato restava unitaria mentre la forma di governo costituiva una lieve modifica dell’ordinamento autoritario francese che concentrava il potere nel Primo Console.
I progetti federali elaborati dai giuristi francesi
Altri due progetti – uno per l’Italia del Nord Ovest, l’altro per la Repubblica Cisalpina – furono presentati a Napoleone. Redatti entrambi in lingua francese, il secondo – quello relativo alla Cisalpina – venne scritto con ogni probabilità dal ministro degli esteri Charles Maurice Talleyrand Périgord (1754-1838). Entrambi erano informati secondo un principio federale teso a recuperare, adattandolo al mutato contesto politico, lo storico pluralismo territoriale esistente nella penisola fin dal Medioevo.
Nel primo progetto la ricostituzione di alcuni antichi Stati – ricalcando addirittura nella conformazione dei confini i territori di vecchie Signorie feudali – rispondeva all’obiettivo di rendere il progetto ben accetto agli italiani facendo del loro particolarismo il perno dell’ordinamento costituzionale. Chi scrisse quel progetto pensava probabilmente che una confederazione di Stati nell’Italia del Nord Ovest avrebbe reso più accettabile il dominio francese, evidente nell’attribuzione di poteri autoritari a generali d’oltralpe inviati a governare questi piccoli Stati: Lucca, la repubblica di Genova, i principati di Correggio e di Piombino, i ducati di Parma, di Piacenza e l’antico Stato Landi nelle valli del Taro e del Cene. Questi Stati avrebbero formato una confederazione dell’Alta Italia sotto protettorato francese denominata: “Paesi liberi e uniti dell’Italia Superiore” di cui avrebbe fatto parte la Repubblica Cisalpina.
Il secondo progetto, centrato sulla Cisalpina, contemplava un ingrandimento della Repubblica che, oltre al Novarese, avrebbe inglobato l’antico ducato di Parma e Piacenza. Riformata in senso autenticamente federale, la Cisalpina avrebbe assunto il nome di “Repubblica degli Stati Uniti d’Italia” sul modello nordamericano o svizzero. Estesa a larga parte della pianura padana centro occidentale (il Veneto era sotto l’Austria e gran parte del Piemonte sarebbe stata annessa alla Francia nel 1802), la Repubblica doveva dividersi in quattro Stati, articolati in vasti circondari municipali dotati di autonomia amministrativa. Milano, elevata al rango di Città federale, avrebbe fruito di uno Statuto autonomo in quanto capitale della Repubblica. Quali erano questi quattro Stati federati? Lo “Stato del Nord Est” diviso nei sei circondari municipali: 1. Valtellina; 2. Bergamasco; 3. Bresciano; 4. Mantovano e parte del Veronese (quella ad occidente del fiume Adige perché la parte orientale della città e della provincia erano sotto dominio austriaco); 5. Cremonese; 6. Cremasco. Lo “Stato del Nord Ovest” con i suoi quattro circondari: 1. Nord Milanese; 2. Sud Milanese; 3. Novarese; 4. Parte del pavese. Lo “Stato del Sud Est” con i quattro circondari: 1. Polesine di Rovigo; 2. Ferrarese; 3. Bolognese; 4. Romagna. Lo “Stato del Sud Ovest” con i quattro circondari: 1. Piacentino; 2. Parmense; 3. Ducato di Reggio; 4. Ducato di Modena.
Replicando in piccolo il modello autoritario tipico del costituzionalismo dell’anno VIII, in ogni Stato vi sarebbe stata una Consulta legislativa, composta da rappresentanti delle città e campagne (verosimilmente scelti dall’alto secondo il citato meccanismo delle liste di fiducia), che avrebbe assistito il governo locale nella elaborazione delle leggi valide per ciascun territorio; era prevista poi una Consulta amministrativa di nomina governativa incaricata di preparare i progetti di legge locale che il Provveditore, capo dell’esecutivo dello Stato, avrebbe sottoposto all’approvazione della Consulta legislativa. Il Provveditore, avrebbe esaminato ed approvato i regolamenti amministrativi proposti dalla Consulta amministrativa.
Il potere centrale cisalpino – le cui istituzioni avrebbero avuto sede a Milano – era costituito invece dal Podestà, dal Consiglio di Stato e dal Senato legislativo, i cui membri dovevano scegliersi secondo un criterio rigorosamente federale. Il Podestà, eletto dai Provveditori dei quattro Stati, avrebbe esercitato la funzione esecutiva; con il Consiglio di Stato avrebbe preparato i progetti di legge da sottoporre all’approvazione del Senato; avrebbe nominato i 12 membri del Consiglio di Stato scegliendone tre dalle amministrazioni di ciascuno dei quattro Stati della Repubblica. Il Senato era formato da 24 membri che le Consulte legislative dei quattro Stati avrebbero eletto in ragione di sei a testa.
A ben vedere, i tecnici francesi che avevano elaborato questo progetto di costituzione, lo avevano fatto per eliminare alla radice le rivalità e inimicizie insorte più volte tra cispadani e transpadani, tra modenesi, bolognesi e milanesi nell’assunzione delle cariche pubbliche. Tali inimicizie sarebbero sparite in una repubblica federale in cui l’esercizio delle funzioni pubbliche di ogni Stato sarebbe stato affidato a persone del luogo. In effetti, la scelta compiuta da Napoleone nel 1802 di confermare la forma unitaria della Repubblica, avrebbe finito per aggravare quel clima di tensione. Al crollo del regime napoleonico, tali dissidi sarebbero degenerati in violenze ed epurazioni nel corso della rivolta popolare del 20 aprile 1814 sulla quale mi sono soffermato in una monografia.
Napoleone non era probabilmente contrario ai progetti federali che gli erano stati presentati. Il suo interesse in quegli anni consisteva nella pacificazione e nella stabilità dei territori conquistati. In Svizzera ad esempio, nel 1803, non avrebbe esitato a “seppellire” la Repubblica Elvetica fondata su una forma di Stato unitaria e a fondare un regime federale con l’Atto di Mediazione che sancì la nascita di nuovi Cantoni quali il Ticino e San Gallo.
Nel caso dell’Italia cisalpina Bonaparte sottopose i progetti federali a Francesco Melzi d’Eril. Melzi era probabilmente la persona più ostile alla soluzione federale: a suo avviso la corruzione e le malversazioni esistenti nella Cisalpina per l’irresponsabilità di un governo a trazione democratica e giacobina sarebbero peggiorate in un regime federale perché ogni fazione avrebbe spadroneggiato sul territorio senza controlli. Melzi sostenne inoltre la sua opposizione per un’altra ragione, assai più convincente: nei paesi federali come l’antica Svizzera, l’antica Olanda o gli Stati Uniti d’America di fine Settecento i poteri pubblici erano diffusi sul territorio, deboli nella funzione politica perché ad essa sopperiva lo spirito d’indipendenza e il forte senso civico dei cittadini. Come poteva l’Italia essere ben governata in un regime federale quando erano i suoi stessi cittadini a mostrare una completa assenza di senso civico, di amor di patria?
Je m’étonné un peu, qu’en citant …les Suisses, les Hollandais, les Américains pour prouver la bonté du système fédératif, il soit échappé à l’auteur de ce projet, que ce n’est pas proprement de ce système, que les Peuples cités ont reçu une consistance et une force durable, mais que c’est bien plutôt la volonté prononcée de ces Peuples de sauver leur indépendance, qui a prêté une force à ce système par lui-même très fable, et bien plus faible encor s’il etoit imposé par force à un Peuple, qui n’en a ni l’envie, ni l’idée, et ne peur avoir un véritable sentiment d’une indépendance qu’il n’a jamais connue.
[Mi meraviglio come, nel richiamarsi agli Svizzeri, agli Olandesi, agli Americani per dimostrare la bontà del sistema federale, sia sfuggito all’autore del progetto che non è in foza di questo sistema di governo che i popoli citati hanno raggiunto un’esistenza durevole, ma al contrario è stata la ferma determinazione di questi popoli nel salvaguardare la loro indipendenza a rendere forte un tale sistema di per sé debole, e ancor più fragile se fosse imposto con la forza a un popolo sprovvisto del desiderio o della passione per un sentimento d’indipendenza che non conobbe mai].
[Francesco Melzi a Talleyrand, 16 maggio 1801 in U. Da Como (a cura di), I Comizi nazionali in Lione per la Costituzione della Repubblica Italiana, vol.I., Bologna, Zanichelli, 1934, pag.151. Nei volumi curati da Ugo da Como, ai quali si rinvia per approfondimenti, sono pubblicati i documenti di quel periodo contenenti i progetti citati in questo articolo].
Il progetto Roederer
L’ultimo progetto, quello elaborato dal giurista francese Pierre Louis Roederer (1754-1835), avrebbe costituito per converso il nucleo originario da cui sarebbe derivata la Costituzione della Repubblica Italiana napoleonica. Se la forma di Stato restava unitaria, la forma di governo presentava tratti di assoluta originalità rispetto alle proposte precedenti. Anche qui erano previste le liste di fiducia, che il popolo avrebbe compilato mediante quel sistema di filtri pensato per limitare fortemente gli effetti della legittimazione democratica. Il diritto di elezione tuttavia non sarebbe stato esercitato da una Camera elettorale come nella proposta della Consulta cisalpina. La scelta sarebbe spettata a tre Collegi vitalizi composti di 300 Possidenti, 200 Dotti e 200 Commercianti. Una nazione articolata in categorie professionali in base a un criterio legato al mondo dell’economia produttiva avrebbe scelto in via definitiva i membri delle istituzioni cisalpine traendoli dalle liste di fiducia popolari. A comporre il governo sarebbe stato un Presidente della Repubblica (Napoleone) e otto senatori per l’esercizio dell’amministrazione interna e internazionale. Il governo si sarebbe esteso ai Consiglieri di Stato per l’elaborazione dei progetti di legge da presentare al Corpo legislativo, i cui membri dovevano eleggersi dai Collegi elettorali.
I deputati cisalpini – Melzi in primis – si mostrarono moderatamente favorevoli a questo progetto, anche se non mancarono di esprimere la loro contrarietà su alcuni punti. Anzitutto criticarono la natura vagamente democratica del progetto di Roederer. A loro giudizio solo i proprietari terrieri avevano il diritto di eleggere i loro rappresentanti. Ad essere bocciate non erano solo le liste di fiducia popolari, il che era prevedibile visto il pessimismo e il rigido conservatorismo di Melzi. Veniva contestata l’introduzione dei collegi dei dotti e dei commercianti, due categorie professionali che non meritavano di essere considerate sullo stesso piano dei possidenti.
Napoleone respinse tali obiezioni, mostrando una maggiore sensibilità per le dinamiche sociali ed economiche della società italiana. Alla fine furono seguiti tuttavia i consigli “antidemocratici” di Melzi: vennero abolite le liste di fiducia di derivazione popolare, che in Francia erano operanti grazie alla Costituzione dell’anno VIII. Napoleone fece dei Collegi dei Possidenti, dei Dotti e dei Commercianti gli organi “primitivi” della sovranità nazionale (questo il tenore dell’articolo 10 della Costituzione del 1802). Su invito del governo, i Collegi avrebbero eletto, oltre ad alcuni collegi tecnici, anche le istituzioni rappresentative a livello comunale, dipartimentale (provinciale) e nazionale. Al Presidente della Repubblica (Napoleone) sarebbe spettata la nomina e la revoca dei ministri, nonché la formazione del consiglio legislativo, un collegio specializzato nei conflitti interni alla pubblica amministrazione. Questo consiglio avrebbe avuto altresì il diritto di voto sui progetti di legge elaborati dal Presidente stesso.
Ai Comizi di Lione la nascita della Repubblica Cisalpina, ora denominata Italiana, fu acclamata dai deputati accorsi dai vari dipartimenti, invitati da Napoleone in larga parte secondo il criterio dell’appartenenza alla corporazione economico professionale dei Possidenti, Dotti e Commercianti. Si trattava di un regime le cui contraddizioni non sarebbero tardate a manifestarsi in tutta la loro portata. Eppure, nonostante i limiti di uno Stato posto sotto il controllo della Francia consolare, la Repubblica Italiana dispose di un governo in grado di intraprendere le riforme economiche e sociali necessarie alla modernizzazione del Paese: questo grazie a una burocrazia efficiente, preparata, mossa all’azione unicamente dalla tutela dell’interesse pubblico.
In questo periodo a dominare il dibattito politico è la riforma costituzionale su cui saremo chiamati ad esprimerci nel referendum del prossimo autunno.
In questa sede vorrei soffermarmi su un periodo cruciale per la storia di Milano in merito al tema delle riforme costituzionali. A ben vedere, i periodi importanti per la città di Ambrogio furono due: il primo risale all’arrivo in Lombardia, nella primavera del 1796, degli eserciti rivoluzionari francesi comandati dal generale Bonaparte e può esser fatto concludere nel luglio 1797, quando venne promulgata la Costituzione moderata cisalpina esemplata sulla carta francese dell’anno III (1795). Il secondo periodo può essere individuato negli anni compresi tra il 1801 e il 1814 quando, nella Milano napoleonica capitale di uno Stato unitario nell’Italia del Centro-Nord, alcuni tra i più eminenti intellettuali – da Vincenzo Cuoco a Gian Domenico Romagnosi – lavorarono a un modello di costituzione che fosse in grado di garantire l’efficienza amministrativa del governo in uno Stato di diritto fondato sul riconoscimento dei diritti civili. Tornerò in un altro articolo su questo secondo periodo.
Oggi vorrei soffermarmi brevemente sul primo periodo, quello che potremmo ricondurre al pensiero più avanzato del “giacobinismo italiano”. Tra il settembre del 1796 e il 1797, nella Milano liberata dalla dominazione austriaca, l’Amministrazione generale della Lombardia bandì un concorso intitolato “Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d’Italia”. Il concorso fu voluto probabilmente dal generale Bonaparte per capire quale fosse il pensiero dei patrioti italiani su temi quali la democrazia, la libertà repubblicana, la costituzione.
Furono presentati cinquantasette progetti costituzionali ove, in vista del crollo degli Stati d’antico regime, si proponevano molteplici assetti istituzionali per l’Italia. Quel concorso fu vinto com’è noto da Melchiorre Gioia, il quale auspicava la liberazione della penisola dal dominio straniero e la formazione di uno Stato nazionale unitario.
Altri progetti riflettevano un’impostazione federale. Riconosciuta l’esigenza di costituire un potere pubblico nazionale, era ritenuto opportuno tutelare le diversità storiche esistenti nella penisola oppure riconoscere gli Stati rivoluzionari che si erano costituiti nel frattempo sulle ceneri degli ex regimi. I lavori di quell’autentico laboratorio di storia costituzionale furono raccolti e studiati negli anni Sessanta del secolo scorso dallo storico Armando Saitta in due preziosi volumi intitolati: Alle origini del Risorgimento: i testi di un celebre concorso (Roma, Istituto Storico italiano per l’età moderna e contemporanea, 1964).
In questa sede desidero focalizzare l’attenzione sul progetto del patriota bellunese Giuseppe Fantuzzi. Un progetto poco conosciuto in cui l’autore , quantunque avesse proposto uno Stato nazionale mostrando la sua adesione per la soluzione unitaria, lasciava trasparire a chiare lettere la sua cultura federale e democratica radicale.
Vita di Giuseppe Fantuzzi
Chi era Giuseppe Fantuzzi? Nato a Belluno il 10 ottobre 1762, Fantuzzi aveva trascorso il periodo dell’adolescenza lavorando come trasportatore di pini e abeti lungo il corso del Piave. All’età di vent’anni lavorò a Venezia presso il dazio dei vitelli, un’attività di cui il padre era riuscito a procurarsi la gestione in monopolio grazie a una speciale concessione del governo veneziano.
Richiamato a Belluno, Fantuzzi si dedicò agli studi di storia e di fisica, formandosi sulle opere degli enciclopedisti francesi. La lettura di Rousseau fu decisiva – come si vedrà più avanti – per la sua formazione politica. Fece un lungo viaggio nell’Impero germanico e in Russia, lasciando trapelare nei suoi scritti un giudizio negativo sui governi assoluti. Tornato a Venezia, strinse amicizia con un principe polacco che accompagnò a Varsavia nel 1793. Difensore dell’indipendenza della Polonia, combatté nella battaglia di Praga a fianco dei patrioti polacchi contro i russi. Sconfitta la repubblica polacca, Fantuzzi riuscì a sfuggire all’arresto ricorrendo a un fortunato travestimento in panni femminili. Dopo aver soggiornato a Vienna, fece ritorno a Belluno. Sulla guerra combattuta in difesa del popolo polacco, conservò un ricordo assai vivo, sembrandogli quella esperienza un esempio concreto di lotta per la difesa della libertà. Scriveva al fratello Luigi:
“Avreste veduto da per voi quai sforzi è obligato a fare un popolo per acquistare la sua libertà una volta che l’ha perduta: sforzi degni dell’uomo, ma purtroppo sovente inutili”.
Fu uomo d’azione, ardente soldato, amante della guerra. Non esitò a sostenere che “la musica del cannone” era la vera “musica dell’uomo”, non le “opere buffe e serie”.
Con la discesa in Italia del generale Bonaparte, si schierò in favore dei francesi contro il regime della Serenissima. Occorre tuttavia ricordare che, prima di partecipare attivamente agli eventi rivoluzionari, Fantuzzi aveva proposto al governo veneto un Piano di organizzazione militare informato ai principi democratici, piano che puntava a una riforma di Venezia che potesse renderla capace di fronteggiare l’invasione dei francesi. Fu la bocciatura di quel piano a farlo passare dalla parte del “nemico”. Sperava e si illudeva che i principi rivoluzionari potessero servire all’edificazione di uno Stato italiano indipendente dalla Francia, retto su basi rigorosamente democratiche. Assieme al fratello Luigi, Giuseppe si arruolò quindi nell’esercito francese.
Tra l’estate del 1796 e i primi mesi del 1797 partecipò alle battaglie di Lonato, Castiglione, Caldiero, Arcole, rivestendo l’ufficio di capo battaglione della legione cisalpina. Fautore dell’indipendenza italiana, in una lettera scritta al generale Bonaparte tra il 6 e il 19 gennaio 1797 propose la formazione di un’armata italiana di cui facessero parte i patrioti più illuminati; armata che avrebbe dovuto scontrarsi contro le truppe veneziane ed austriache sottraendo la penisola alla “schiavitù dei tiranni”. Si illudeva che i francesi, una volta mutato l’assetto geo-politico dell’Italia, si sarebbero ritirati entro i confini del loro Stato. Nella citata lettera a Bonaparte, Fantuzzi non risparmiava giudizi severi verso la nazione italiana, giudicata “corrotta, ignorante e superstiziosa”.
A pochi mesi dal trattato di Campoformio, il patriota bellunese si impegnò per la salvaguardia dell’italianità del Veneto, proponendo la costituzione di un comitato centrale “con funzioni di governo provvisorio che rappresentasse legalmente e tutelasse gli interessi politici di tutta la regione veneta”. La sorte del Veneto era tuttavia segnata. Inutili i tentativi con cui Fantuzzi, inviato a Campoformio in missione segreta, cercò di promuovere l’annessione della regione alla repubblica cisalpina.
Divenuto cittadino della repubblica il 24 gennaio 1798, rivestì nuovi incarichi nell’amministrazione civile. Dopo aver svolto a Parigi le funzioni di delegato per conto del Direttorio, fu nominato capo della seconda divisione del dipartimento della guerra. In tale veste compì due missioni – a Rimini e a Mantova – per reprimere l’ammutinamento di alcuni soldati, porre sotto controllo la contabilità militare, svolgere indagini nei confronti dei cittadini corrotti ed incapaci.
Il nuovo conflitto che oppose i francesi agli eserciti austro-russi nel 1799-1800 vide il Fantuzzi militare nell’esercito cisalpino in qualità di aiutante generale e poi di generale di brigata. Morì il 2 maggio 1800 durante l’assalto al forte “La Coronata” nello scontro di Novi Ligure.
Per un’Italia unita, democratica e federale: Il progetto “demostocratico” di Fantuzzi
Fantuzzi partecipò al concorso milanese con il suo Discorso filosofico politico sopra il quesito proposto dall’Amministrazione generale della Lombardia “Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d’Italia”. Si tratta di un opuscolo di 122 pagine presentato, come precisato nell’avvertenza, “il 15 dicembre 1796”. In omaggio al suo maestro di pensiero, Jean Jacques Rousseau, il frontespizio riprendeva le parole con cui si apriva il primo capitolo del primo libro del Contratto Sociale: “L’homme est né libre, et partout il est dans les fers”: l’uomo è nato libero e ovunque è in catene. Un’ammirazione sconfinata, quella di Fantuzzi nei confronti del filosofo ginevrino; un’ammirazione che condivideva con quella di tanti patrioti italiani ardenti fautori dei valori democratico-rivoluzionari affermatisi in Francia negli anni del giacobinismo (1792-94). Scriveva Fantuzzi:
Nell’alto argomento, in cui inseparabile si trova la felicità d’una grande nazione, e forse quella dell’intiera umanità; rivolgo i miei prieghi, ed invoco in soccorso Te, mio maestro, mio duce, mio divino Rousseau! Tu che dall’alto impassibile miri le umane passioni, Tu degna presiedere le mie idee, dirigere la mia penna, ed ispirar al mio cuore quel filantropico orgoglio, che ti rese quaggiù celebre, ed immortale!
Dopo aver effettuato una breve analisi sulle forme di Stato, Fantuzzi proponeva la fondazione in Italia di uno Stato unitario “demostocratico” (sic!). La sua vicinanza al pensiero costituzionale francese era limitata alla concezione radicale della sovranità popolare, che risiedeva a suo giudizio nel potere legislativo esercitato direttamente dal popolo mediante i “consigli primitivi della nazione”: si tratta di istituzioni appena accennate nel suo progetto che sembrano tuttavia simili alle “assemblee primarie” titolari del potere legislativo contenute nel memorabile Plan de constitution girondino del febbraio 1793. Per il resto, il suo progetto rifletteva un’impostazione originale che mostrava il tentativo di adeguare la riforma costituzionale al particolarismo dell’Italia.
Egli faceva risiedere il potere legislativo interamente nel popolo ma gli altri due poteri non erano che la divisione del potere esecutivo in “potere esecutivo esterno” e “potere esecutivo interno”. Nessuna parola sul “potere” giudiziario, evidentemente concepito – in un tipo di “Stato di diritto legislativo popolare” – come un ordine dello Stato, non già come un potere. Scriveva Fantuzzi:
Per Demostocrazia intendo la distinta divisione di tre poteri nel corpo politico e sono: potere legislativo e sovrano, potere esecutivo interno, potere esecutivo esterno. Il concorso di questi tre poteri ad un solo scopo formerà la garanzia dell’istituzione politica, e conserverà la nazione libera, ed indipendente.
Lo Stato italiano di Fantuzzi doveva essere unitario e indivisibile. Tuttavia, il suo modello di costituzione rifletteva una struttura federale nel criterio con cui si sarebbero formate le istituzioni repubblicane. L’Italia, “unica, sola, ed indivisibile” era articolata in dieci repubbliche che avrebbero coinciso in parte con gli Stati regionali esistenti alla fine del 1796 (era il caso della Repubblica Lombarda, di quella Alpina Piemontese), in parte con gli Stati che si sarebbero dovuti costituire sulle rovine degli Stati d’antico regime (sarebbe stato il caso della Repubblica Cispadana proclamata nel marzo 1797 o di quella Ligure la cui costituzione sarebbe stata approvata il 2 dicembre 1797).
L’Italia di Fantuzzi era quindi articolata in dieci Repubbliche. La Repubblica Alpina (capitale Torino), la Repubblica Liguriana (capitale Genova), la Repubblica Etrusca (capitale Firenze), la Repubblica Lombarda (Milano), la Repubblica Adriatica (Venezia), la Repubblica Bellica o cispadana (Bologna), la Repubblica Ausonica (Roma), la Repubblica Vesuviana (Napoli), la Repubblica Sillacarida (Palermo), la Repubblica Isorica (Cagliari). In ciascuna di queste dieci repubbliche avrebbe avuto sede un Senato titolare del potere esecutivo interno.
Fantuzzi sosteneva di ispirarsi, nella divisione del potere esecutivo tra governo centrale e governi territoriali, a Stati quali l’Inghilterra o l’antica Polonia. Nel caso polacco egli aveva avuto modo di osservare il funzionamento di quelle peculiari istituzioni nel viaggio che si è ricordato all’inizio. In realtà, nel proporre l’istituzione del Senato, egli lasciava trasparire un certo qual attaccamento – sia pure indiretto – al governo della Repubblica di San Marco, tutta informata al principio della collegialità degli organi costituzionali (a partire dal Maggior Consiglio).
I Senati di ciascuna Repubblica si sarebbero composti di 300 membri, 100 dei quali rinnovati mediante elezione popolare a cadenza annuale. Quali funzioni sarebbero spettate ai senatori? In cosa concerneva per Fantuzzi il potere esecutivo interno?
Il primo dovere dei Senatori consisteva nel vegliare sulla severa esecuzione delle leggi approvate dal Popolo sovrano. Avrebbero poi esercitato la sorveglianza su tutte le cariche dello stato, sia di quelle elette dai cittadini nei vari comuni e dipartimenti, sia di quelle burocratico-professionali appartenenti all’amministrazione attiva. Pari controlli sui tribunali civili, criminali, e di polizia eletti dal popolo.
Il Senato di ciascuna Repubblica avrebbe poi esercitato poteri di governo nelle materie attinenti al culto, all’educazione, alle forze terrestri e marittime dello stato, agli spettacoli pubblici, ai pubblici edifizi, agli archivi, alle biblioteche, all’agricoltura, alle arti, al commercio; avrebbe curato la riscossione dei tributi, l’amministrazione del tesoro, delle derrate, la “distribuzione dei terreni”. A questi uffici sarebbero stati nominati dai vari Senati gli “opportuni uffiziali e ministri”.
Con “distribuzione dei terreni” Fantuzzi si riferiva a un punto cruciale del suo progetto costituzionale: egli riteneva che ciascun cittadino della Repubblica Italiana, in quanto tale, avrebbe avuto in usufrutto un pezzo di terra la cui rendita gli potesse garantire una vita dignitosa. Tuttavia, in caso di violazione delle leggi, il cittadino avrebbe perso i diritti politici e con essi il diritto alla proprietà del terreno. In questo modo, secondo Fantuzzi, gli italiani non avrebbero avuto alcun interesse a violare la Costituzione mancando ai loro doveri di cittadini. Doveri considerevoli perché, come si è ricordato sopra, ad essi spettava il potere legislativo diretto secondo una concezione radicale della sovranità popolare di ascendenza giacobina.
I Senati avrebbero nominato inoltre funzionari periferici che potremmo avvicinare in parte ai prefetti o ai viceprefetti: questi avrebbero esercitato un controllo sulle amministrazioni comunali e sui tribunali civili, criminali per verificare l’esatta esecuzione delle leggi informando i Senati dell’ordine e dell’applicazione delle medesime.
I Senati avrebbero scelto gli ufficiali e comandanti delle forze armate di terra e di mare de’ loro rispettivi governi, fatta eccezione per il comandante generale, da scegliere solo in caso di guerra. La gestione politica delle forze armate sarebbe spettata tuttavia al governo centrale della Repubblica Italiana – chiamato da Fantuzzi “Consiglio dei Saggi”. I Senati non avrebbero potuto trasmettere ordini alle forze armate senza una preventiva deliberazione del Consiglio dei Saggi, o per espresso loro comando.
L’operato dei Senati di ciascuna delle 10 Repubbliche sarebbe stato sottoposto al controllo del governo centrale. Qui invece traspariva la forma unitaria dello Stato da lui immaginato per l’Italia.
Si è detto che Fantuzzi, fedele a una concezione radicale della sovranità di matrice giacobina, riconosceva al popolo il potere legislativo diretto. In casi che richiedevano l’adozione di provvedimenti urgenti, egli faceva intervenire tuttavia gli organi di democrazia rappresentativa autorizzandoli ad emanare un tipo di leggi provvisorie che potremmo avvicinare ai nostri decreti legge. Difatti Fantuzzi conferiva ai Senati la possibilità di proporre al Consiglio dei Saggi progetti di legge per il benessere della nazione o per il bene particolare di una sua parte. Egli pensava a leggi che, approvate dalla maggioranza del governo centrale, sarebbero entrate in vigore nelle repubbliche i cui Senati ne avevano promosso l’attuazione. Definite leggi parziali, sarebbero rimaste in vigore per sei mesi, un tempo nel quale i “consigli primitivi del popolo” avrebbero dovuto procedere alla loro ratifica. In caso di bocciatura popolare, sarebbero state abrogate. Scriveva il patriotra bellunese:
I Senati hanno la facoltà d’indicare al Consiglio dei Saggi quelle leggi che la loro maturità stimasse le migliori per il bene della nazione in generale; e così pure proporre quelle che credessero utili e necessarie al bene parziale della loro repubblica. Se le leggi parziali porteranno con esse l’urgenza, e che siano approvate dalla maggiorità del Consiglio dei Saggi, porteranno il nome di leggi istantanee, e la loro esecuzione verrà demandata ai Senati che le avranno proposte. Il vigore di queste leggi che detta il bisogno del momento, non potrà essere che di sei mesi, nell’intervallo dei quali, dovranno essere presentate ai consigli primitivi del popolo. Essendo approvate verranno registrate nel codice con la distintiva di Legge parziale. Allora soltanto prenderanno il nome di leggi attive e permanenti. Verranno esse leggi demandate a tutt’i Senati della nazione perché conoscano, s’elle convenghino ancora al ben essere dei popoli che governano. Se queste leggi non venissero accettate dal popolo sovrano, passati li sei mesi non avranno più alcun vigore, come neppure effetti retroattivi.
Veniamo ora al governo centrale della Repubblica delineato da Fantuzzi. Ai Senati sarebbe spettata l’elezione dei membri del Consiglio dei Saggi. Il primo anno ogni Senato avrebbe eletto nel suo seno sei Saggi: dato che i Senati di ciascuna Repubblica sarebbero stati 10, il Consiglio dei Saggi sarebbe stato di 60 membri. Il principio del rinnovo parziale del collegio, assai diffuso nelle istituzioni europee tra fine Settecento e primo Ottocento, sarebbe stato alla base anche di questo collegio. Ogni semestre il Senato di ciascuna Repubblica avrebbe eletto un Saggio in sostituzione del membro cessato dalla carica. Il governo centrale era così formato, in base a un principio autenticamente federale, da membri dei governi territoriali. Scriveva Fantuzzi:
Tutti i senatori attivi dei rispettivi Senati hanno vocazione all’alto consiglio nazionale, e saranno dalle assemblee senatorie tutti egualmente nominati. Quei trenta che uniranno maggiori voci in loro favore, saranno i candidati per l’alto consiglio. Si rimanderanno nuovamente i candidati all’elezione, e quelli sei che riuniranno in loro favore la maggiorità al di là de’ due terzi delle voci, saranno dichiarati membri del Consiglio dei Saggi. Queste due elezioni non si potranno fare in un sol giorno, ma in due successivi.
Il Consiglio dei Saggi sarebbe stato permanente. Ogni Saggio sarebbe durato in carica al massimo tre anni. Nelle sedute del Consiglio, segrete, le decisioni sarebbero state prese a maggioranza. Il Presidente del Consiglio dei saggi, eletto ogni anno, avrebbe acquisito il titolo di Saggissimo. Quali funzioni avrebbe esercitato quello che Fantuzzi definiva come “potere esecutivo esterno”? Il Consiglio dei Saggi avrebbe mantenuto relazioni politiche con le potenze straniere; ad esso sarebbe spettato inviare e ricevere ambasciatori; fare trattati, concludere alleanze. Avrebbe avuto la direzione delle forze di terra e di mare con il potere di fare la guerra e la pace. La guerra sarebbe stata dichiarata nel solo caso in cui la nazione fosse stata attaccata o minacciata d’esserlo.
La natura federale dell’ordinamento delineato da Fantuzzi traspariva anche nella procedura ch’egli aveva previsto quando si fosse trattato di dichiarare guerra a un altro Stato. In tal caso il Consiglio dei Saggi avrebbe informato i dieci Senati con un messaggio segreto per chiedere l’autorizzazione delle 10 Repubbliche. Il Consiglio dei Saggi sarebbe stato autorizzato a dichiarare guerra solo con il consenso dei due terzi dei Senati (7 su 10).
Il Consiglio dei Saggi avrebbe controllato inoltre il corretto svolgimento delle sedute nei Senati di ciascuna Repubblica, esercitando un controllo di legittimità e di merito agendo come custode della “Costituzione demostocratica”. I Senati, come si è accennato, avrebbero vigilato sul buon ordine e sull’esatta esecuzione delle leggi.
Ho insistito in una rapida descrizione del progetto costituzionale di Fantuzzi perché esso si caratterizzava per l’originalità della sua impostazione. Tre i tratti peculiari.
In primo luogo una concezione radicale della sovranità popolare tipica del giacobinismo francese di ascendenza girondina fondato sul ruolo centrale delle Assemblee primarie (ognuna delle quali composta da alcune centinaia di cittadini) nell’esercizio del potere legislativo.
In secondo luogo, una struttura federale fondata sulla divisione del potere amministrativo e di governo tra i Senati territoriali e il Consiglio dei Saggi.
In terzo luogo, un’influenza legata alle istituzioni repubblicane europee d’antico regime che risaltava nel principio della maggioranza dei due terzi o addirittura superiore ai due terzi per l’elezione dei membri del governo centrale o per decisioni importanti come la dichiarazione di guerra soggetta al voto dei 10 Senati.
Durante la settimana della fiera del mobile, Milano si anima di eventi culturali allestiti nella cornice del Fuorisalone. Tra i quartieri presi d’assalto dai turisti vi è soprattutto il Tortona Design District, mèta tradizionale di tanti appassionati. Oggi bisogna riconoscere che la zona Tortona è divenuta stabilmente uno dei quartieri più vivaci della città; si respira una perenne atmosfera di novità, un po’ come se le luci del Fuorisalone non si fossero mai spente: la zona è una vera e propria fucina d’iniziative afferenti al mondo della cultura, del design, dell’editoria, della grafica.
Base Milano, in via Bergognone 34, è il centro di questo laboratorio creativo. Si tratta di una iniziativa che coinvolge enti pubblici e privati uniti nell’obiettivo di realizzare un progetto culturale e imprenditoriale che possa aiutare i giovani a formarsi le competenze in campo lavorativo.
La sede è in un grande edificio industriale dismesso, che reca ancora le tracce della Milano operaia del secolo scorso. Molti lo conoscono come l’antico centro delle Officine Ansaldo. In realtà la storia risale più indietro nel tempo. Nei primi anni del Novecento qui ebbero sede alcune imprese elettromeccaniche. Nel 1915 vi si stabilì la Società Elettrotecnica Galileo Ferraris, che costruì l’edificio d’ingresso in via Bergognone e la fronte imponente su via Tortona. Nel 1921 lo stabile passò alla CGE, un’azienda dedita alla costruzione di trasformatori elettrici: in questi anni fu accresciuto lo spazio della fabbrica, facendole assumere le dimensioni imponenti che si vedono oggi. Oltre al nuovo refettorio per gli operai, furono costruiti magazzini, officine, locali per il carico e lo scarico delle merci. Il collegamento con la vicina stazione di Porta Genova fu assicurato da una rete di binari che sono tuttora visibili all’ingresso.
L’Ansaldo arrivò solo nel 1966: gli edifici di via Bergognone/via Tortona furono il centro della sua attività fino agli anni Ottanta, quando si procedette alla progressiva dismissione. L’edificio, acquistato nel 1989 dal Comune di Milano per destinarne gli spazi a un riuso con finalità culturali, venne ristrutturato negli anni Duemila dall’architetto David Chipperfield. Il restauro conservativo si è accompagnato alla costruzione di un nuovo edificio oggi sede del Mudec, il Museo delle Culture.Gli antichi capannoni ed edifici industriali, ristrutturati da Chipperfield, sono divenuti il centro di attività formative e culturali che spiegano la rinascita del quartiere che si è accennata all’inizio. In uno degli ex magazzini hanno sede dal 2001 i famosi laboratori del Teatro alla Scala.
La parte più innovativa è concentrata tuttavia nell’ala dell’edificio che si affaccia verso via Tortona, ove ha sede il Base Milano: un’iniziativa, finanziata da Fondazione Cariplo, sostenuta dal Comune di Milano, alla cui base è la valorizzazione di un ampio spazio industriale che è divenuto un laboratorio di formazione creativa rivolto ai giovani. In questo enorme stabile – 6.000 metri quadrati – hanno sede laboratori, un bar, una lounge, aree per mostre ed eventi temporanei. Ai piani superiori, oltre a spazi di co-working (tra le aziende che ci lavorano: Wikimedia, Reply Spark), verrà aperto entro la fine di settembre un ostello ove turisti, studenti o lavoratori potranno alloggiare fruendo di ambienti arredati con gusti raffinati che rinviano alla storia dell’interior design.
Le attività formative e lavorative messe in campo da Base Milano sono il vero tratto caratterizzante di questo progetto (per informazioni: vai su Campobase Base Milano). Meritano di essere segnalate le iniziative messe in campo per l’estate: associazioni culturali e aziende del settore radicate nel milanese organizzano lezioni e laboratori che si articolano lungo cinque assi tematici: Making&Produzione, Sport&Green, Grafica&Fotografia, Creatività&Formazione, Outdoor&Food. Chi desidera acquisire una formazione nel campo della tipografia, della fotografia, della falegnameria, può iscriversi ai corsi di Base Milano, i cui costi variano a seconda del tipo di attività messe in calendario. Sono inoltre allestiti corsi di yoga e gite in bicicletta dedicate alla scoperta del quartiere. Per gli studenti che restano in città nei mesi estivi, è disponibile un’aula studio aperta dalle 9.30 alle 23, dal martedì alla domenica.
Insomma, nell’entrare in questo antico edificio industriale dalla mole imponente si ha l’impressione di trovarsi in uno spazio originale in cui lavoratori, studenti e tanti operatori della cultura si incontrano condividendo le loro esperienze. Nello spiazzo interno, circondato dagli antichi capannoni industriali, tanti giovani si confrontano ansiosi di mettersi alla prova, di partecipare ai corsi di formazione, ai workshop organizzati da enti e associazioni quali – per citarne solo alcune – Leftover/Studio427, Playwood, Wemake, Opendot, Wonder Way, Bici&Radici, Tipografia Reali, ABiCiDi Tipografia, Livello7, Associazione Polifemo.
Non è tutto. In vista del Milano Film Festival che si svolgerà a Base Milano e nel quartiere Tortona dall’8 al 18 settembre, gli organizzatori stanno già lavorando nelle aree di co-working per preparare il cartellone degli eventi che si annuncia ricco di sorprese.
Un’antica profezia risalente al XIII secolo assegnava agli inglesi una metamorfosi nella loro identità politica che li avrebbe portati a perdere i caratteri terrestri tipici del feudalesimo continentale per assumere i tratti della civiltà marinara. In poche parole era riassunto un singolare destino:
I figli del Leone saranno trasformati in pesci del mare
La profezia si avverò. Gli inglesi (fatta eccezione per l’aristocrazia guerriera), nel Medioevo erano stati soprattutto pastori di pecore la cui lana era venduta nelle Fiandre ove operavano manifatture specializzate nella lavorazione delle stoffe. Nel corso del XVI secolo si trasformarono in “schiumatori del mare”. I Tudor, soprattutto sotto il regno di Elisabetta I (1558-1603), curarono l’allestimento di una flotta d’avanguardia: i velieri a vela quadra, d’invenzione olandese, erano in grado di sfruttare non solo il vento di poppa, ma anche quello di prua. Il destino dei vecchi galeoni, mossi in gran parte dalla forza delle braccia umane, era segnata. Fu l’avvento dei poderosi velieri che, sfruttando il vento di bolina, poterono allontanarsi con più efficacia dalle coste europee e lanciarsi con velocità nella navigazione oceanica alla scoperta di nuove rotte. L’impero britannico, di cui i sudditi di Sua Maestà vanno tuttora orgogliosi nel ricordarne i fasti sette-ottocenteschi, sarebbe stato impossibile senza quella moderna flotta di velieri dotata delle più avanzate tecniche di marineria.
Le conseguenze di questa metamorfosi investirono l’essenza stessa dell’identità inglese, che imparò a convivere con l’insicurezza e l’instabilità tipiche della navigazione. Qual era la differenza tra l’elemento “mare” e l’elemento “terra”? Nel mare, nelle distese sterminate degli oceani, non era possibile tracciare confini, non esistevano spazi da dividere. Una civiltà marinara si fondava sul commercio – per sua natura instabile, aleatorio – ma anche sulla rapina contro le imbarcazioni inermi. Non esistevano diritti acquisiti, diritti da rivendicare in base a una storia radicata nei segni di una civiltà terrestre. Non si poteva vivere con le rendite di una terra i cui cicli produttivi erano regolati dal costante alternarsi delle stagioni. Il mare era il regno dell’ignoto, del pericolo costante, dell’instabilità perenne. Era il regno di nessuno, il regno del bellum omnium contra omnes, in cui l’uomo tornava alla sua natura primigenia di predatore. Gli inglesi, da modesti pastori e valorosi cavalieri, si trasformarono in marinai spregiudicati. Fu l’avveramento della profezia: i figli del leone si trasformeranno in pesci del mare.
Quando i corsari e i pirati – soprattutto inglesi – costituirono una formidabile minaccia per gli Stati europei tra la fine del XVI e la prima metà del XVIII secolo, la metamorfosi dell’Inghilterra era compiuta. I corsari potevano contare su un atto giuridico quale la lettera di “corsa”, in cui era affidata la missione da intraprendere. Per quelli inglesi si trattava di affrontare in piena libertà i pericoli dell’oceano esplorando nuove vie commerciali, liberi di arricchirsi saccheggiando le navi europee a patto che una parte cospicua del tesoro fosse andata ad impinguare le casse della corona. A un ambasciatore spagnolo che aveva protestato contro gli atti della pirateria, la regina Elisabetta rispose nel 1580 chiedendo con grande sense of humour se non era vero che il mare, come l’aria, fosse libero all’uso di tutti.
Scrisse con una punta di amara ironia il giurista tedesco Carl Schmitt in un saggio memorabile del 1954:
da tutti i mari affluivano all’isola britannica i favolosi bottini dei corsari e dei pirati inglesi. La regina si rallegrava di tali tesori e se ne arricchiva. Da questo punto di vista, con tutta la sua verginità non fece niente di diverso da ciò che facevano un gran numero di uomini e di donne inglesi del suo tempo, sia nobili che borghesi. Tutti partecipavano al grande affare del bottino. Centinaia e migliaia di uomini e di donne inglesi divennero in quel tempo corsairs-capitalists “corsari capitalisti”. Anche questo rientra nella svolta elementare dalla terra al mare…
[C. Schmitt, Terra e mare, Adelphi, Milano 2006, pag.48]
In fondo, la natura anfibia degli inglesi (per metà europei, per metà “atlantici”), il loro orgoglioso isolamento, nascono da qui: da un istinto selvaggio, quasi primordiale, alla libertà assoluta che li ha portati a fondare un impero marittimo i cui territori, visti con gli occhi del navigatore, erano relitti dispersi nel mondo oceanico. Questo fu lo spirito dello Stato britannico, del Leviathan inglese per usare un termine tratto dal titolo di una celeberrima opera di Thomas Hobbes. Questo spiega la politica estera condotta per secoli dagli inglesi, che si sforzarono (con successo) di ostacolare la formazione sul continente di un potere pubblico di dimensioni imperiali: dall’Impero napoleonico al Reich germanico. L’avversione della parte più profonda dell’Inghilterra verso le istituzioni europee ha radici profonde. La civiltà marinara, che ha forgiato in misura indelebile l’identità nazionale inglese caratterizzandola per almeno cinque secoli, ci aiuta a capire il senso della Brexit.
Queste le riflessioni che mi son venute in mente nell’ascoltare il discorso di Cameron pronunciato quattro giorni fa in occasione delle sue dimissioni. Nel commentare il senso della sua decisione, egli si è servito di una metafora afferente al mondo della marineria:
I will do everything I can as Prime Minister to steady the ship over the coming weeks and months but I do not think it would be right for me to try to be the captain that steers our country to its next destination.
“Farò tutto quel che posso come Primo Ministro per rendere stabile la nave nelle prossime settimane e nei prossimi mesi. Non penso tuttavia che sarebbe giusto per me tentare di essere il capitano che fissa la rotta del paese per la sua prossima destinazione”.
Resta da vedere se il Regno Unito riuscirà a tutelare la sua unità politica evitando il distacco di territori i cui cittadini hanno votato per restare nell’Unione Europea: dalla Scozia all’Irlanda del Nord, alla Grande Londra metropolitana. Qualora ciò avvenisse, l’Inghilterra tornerebbe al suo passato di orgoglioso isolamento, nave “corsara” nell’oceano della globalizzazione. Pur nelle contraddizioni e nei limiti tipici del popolo inglese, resta l’amore per una patria che è stata culla delle prime istituzioni liberali e che, per riprendere uno stupendo verso di Shakespeare, resta una “pietra preziosa incastonata nell’argento del mare”.