Berlusconi e i cattolici spaccati in due…

L’editorialista di Famiglia Cristiana, Beppe Del Colle, sostiene in un articolo dal titolo “Il cavaliere dimezzato” che l’ingresso in politica del Cavaliere avrebbe provocato una grave spaccatura tra gli elettori cattolici (ex democristiani): “La discesa in campo di Berlusconi ha avuto come risultato quello che nessun politico nel mezzo secolo precedente aveva mai sperato: di spaccare in due il voto cattolico (o, per meglio dire, il voto democristiano)”.

Non sono d’accordo. Negli anni immediatamente precedenti alla discesa in campo di Berlusconi, il mutamento di segno politico nell’elettorato cattolico si era già verificato in tutta la sua estensione. Basti ricordare che la Lega Nord, nelle elezioni politiche del 1992, raggiunse per la prima volta la soglia dell’8,6 per cento, guadagnando percentuali bulgare in province che per decenni erano state rigorosamente ‘bianche’.

La crisi del cattolicesimo politico, che negli anni della cosiddetta Prima Repubblica si sostanziò (a mio giudizio assai mediocremente) nella Democrazia Cristiana, fu dovuta quindi ad altre ragioni. Senza dubbio la modesta levatura della classe politica che fu a capo del partito negli anni Ottanta. Già nel 1981 Giuseppe Lazzati, uno dei maggiori uomini di cultura, rettore dell’Università Cattolica dal 1969 al 1983, avvertì i politici democristiani che occorreva recuperare il filo diretto con la gente. Non fu ascoltato. Il partito continuò a dilaniarsi in lotte di potere interne, in una politica di palazzo lontana dai bisogni della società. Quando arrivò la tempesta di Tangentopoli la Democrazia Cristiana, che già perdeva acqua da tutte le parti, naufragò miseramente tra l’indifferenza generale.

Non è quindi colpa di Berlusconi se i cattolici sono oggi divisi, privi di una guida politica che sia in grado di rappresentarli degnamente. E’ colpa invece dei democristiani, i quali mostrarono di non avere una cultura politica adeguata, che fosse realmente al servizio dei valori cattolici.

Diktat di Roma all’Alto Adige: no ai cartelli tedeschi

Il ministro Fitto vuol proibire ai Sud-Tirolesi di scrivere i nomi dei sentieri in lingua tedesca. “In Alto Adige i 36 mila cartelli in montagna scritti solo in lingua tedesca devono sparire”, ha detto il titolare del dicastero degli Affari regionali. Non basta. Se la Provincia autonoma di Bolzano non provvederà all’eliminazione dei cartelli, interverrà lo Stato.

Questa curiosa dichiarazione del ministro Fitto mostra che il governo Berlusconi ha un’idea alquanto fumosa del federalismo e lascia trasparire un certo spirito centralista che pensavamo di aver sepolto definitivamente sotto le macerie del Fascismo. Difatti, non v’è chi non veda come appartenga allo Stato centralista e nazionalista il metodo di imporre una lingua, una cultura, un sistema d’istruzione uniforme a tutte le popolazioni soggette al suo dominio.

Un vero ordinamento federale, come non si stancava di ripetere il professor Miglio, non impone l’omogeneità e l’unità. Esso è costituito al contrario per tutelare e gestire i diritti storici delle comunità e delle minoranze.

Le verità nascoste della strage di via D’Amelio

Decine di giovani si sono riuniti a Palermo il 19 luglio per ricordare la strage di via D’Amelio, l’attentato in cui trovarono la morte il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta. Nonostante siano passati diciotto anni da quel tragico evento, sussistono ancora molti punti interrogativi.

Lavorando a fianco del giudice Giovanni Falcone, profondo conoscitore del fenomeno mafioso, Borsellino aveva fatto della lotta al crimine organizzato la sua missione di vita. Dopo la scomparsa di Falcone, avvenuta il 23 maggio 1992, egli cercò di continuare l’opera del grande amico ma gli fu impedito di proseguire. Borsellino trovò la morte in un attentato che venne pensato e realizzato sulla falsariga di quello di Capaci.

Gli ultimi sviluppi dell’inchiesta portata avanti dai magistrati di Caltanissetta sembrano far risalire la responsabilità del suo assassinio non solo alla mafia, ma a una parte della classe politica e burocratica esistenti a quell’epoca. Paolo Borsellino sarebbe stato ucciso perché, opponendosi fermamente ad ogni compromesso tra Stato e Mafia, avrebbe intralciato l’opera di chi intendeva scendere a patti con il potere mafioso per fermare il corso delle stragi. Se le inchieste dei magistrati di Caltanissetta dovessero trovare conferma nei documenti depositati in questi ultimi giorni, verrebbe avvalorata la tesi secondo la quale gli attentati del 1992 e del 1993 sarebbero stati compiuti per spingere la classe politica a fissare una nuova alleanza con il potere mafioso, un’alleanza tesa alla conservazione dello status quo nell’isola. Un quadro inquietante, ma dopotutto non così sorprendente se si considera che l’Italia di quegli anni versava in una grave crisi politico istituzionale e il naufragio dei partiti tradizionali nel mare di Tangentopoli sembrava delineare scenari dai contorni imprevedibili.

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