Quando i Milanesi festeggiavano Sant’Ambrogio armato di staffile…

Il 21 febbraio 1339, nei pressi di Parabiago, le truppe del signore di Milano, Azzone Visconti, si scontrarono contro l’armata guidata dal cugino Lodrisio, deciso a spodestare il parente e ad impadronirsi del potere.

Come si svolse la battaglia?
Azzone poteva contare sullo zio Luchino, ottimo comandante militare. Lodrisio invece era appoggiato dal signore di Verona, Martino della Scala, che gli aveva fornito una nutrita schiera di soldati tedeschi, molti dei quali appartenevano probabilmente all’esercito dell’imperatore Ludovico il Bavaro. Lodrisio era anche conte del Seprio e in tale veste, entrato nel milanese dopo aver varcato l’Adda, si era diretto nei suoi domini per procurarsi risorse e reclutare nuovi armati.

La battaglia di Parabiago, svoltasi sulla neve, fu particolarmente atroce. La vittoria parve arridere inizialmente alla compagnia di San Giorgio: a questo santo, particolarmente diffuso nei paesi nordici, Lodrisio aveva infatti dedicato il suo esercito. I milanesi scelsero invece di inalberare le insegne di Sant’Ambrogio. Insomma, quello che fu in realtà lo scontro di due bande di armati assunse ben presto i segni di una guerra tra santi.
Luchino cadde prigioniero di Lodrisio e, legato a un albero, fu costretto ad assistere impotente allo svolgersi degli eventi. Tuttavia, nel corso della giornata, nuove truppe accorsero in aiuto dei milanesi. Essi poterono rovesciare le sorti del conflitto e annientare il nemico. Secondo l’eminente storico di Milano, Giorgio Giulini,
“In quella terribile battaglia più di tremila uomini, fra una parte e l’altra, e settecento cavalli restarono morti. Due mila e cento cavalli furono presi da’ vincitori, oltre quelli che fuggirono, e quelli che furono rubati. Quasi tutti i militi, che restarono vivi, riportarono qualche ferita”
(G. GIULINI, Memorie spettanti alla storia, al governo ed alla descrizione della città e compagna di Milano ne’ secoli bassi, Milano, Francesco Colombo 1856, vol. V, pag.263).
La storia, come si sa, viene scritta dai vincitori, quasi mai dai vinti. I milanesi, come da manuale, tramandarono gli eventi di Parabiago raccontando che il 21 febbraio 1339 i soldati del perfido Lodrisio erano stati scacciati non solo grazie al valore dei loro avi, ma anche per l’apparizione miracolosa di Sant’Ambrogio, vestito in abito bianco, armato di una sferza o staffile con cui non esitò a percuotere le schiere del traditore di Milano.
Cesare Cantù, nella Grande Illustrazione del Lombardo Veneto, ricordò la curiosa tradizione del 21 febbraio riconoscendo l’incredibile popolarità di quel giorno: “Tanto terrore aveva incusso quella masnada che la battaglia di Parabiago restò nelle tradizioni popolari più viva che non quelle di Legnano o d’Alessandria, e consacrandola col meraviglioso, si disse che Sant’Ambrogio era stato veduto in aria a cavallo collo staffile percotendo gli stranieri”. (C. CANTU’, Grande illustrazione del Lombardo Veneto, Milano, Corona e Caimi, 1858, vol.I., pag. 117).
Nel luogo ove Luchino era stato fatto prigioniero e dove si diceva fosse apparso Sant’Ambrogio, i Visconti fondarono una chiesa dedicata al protettore della città. I signori di Milano stabilirono inoltre che il 21 febbraio le autorità e il popolo cittadino si recassero in pellegrinaggio a Parabiago perché fosse serbata perenne memoria di quell’evento.
Pietro Verri, nella sua Storia di Milano, non esitò a commentare con ironia la festa milanese di Sant’Ambrogio alla Vittoria:
Come mai questo fatto d’armi si rendesse tanto celebre, e come ne’ giorni fausti siasi tanto distinto il 21 di febbraio, e nessuna menzione trovisi fatta del giorno, ben più memorando, 29 di maggio, in cui l’anno 1176 venne totalmente battuto Federico Primo dai Milanesi, potrebbe essere il soggetto d’un discorso. Nel primo caso un ribelle, che non aveva Sovranità o Stati, fu sconfitto da un Principe che dominava dieci Città (Milano, Pavia, Cremona, Lodi, Como, Bergamo, Brescia, Vigevano, Vercelli e Piacenza NdR); nel secondo, una povera Città, che aveva sofferto mali estremi, sconfisse un potentissimo Imperatore che aveva fatto tremare la Germania, l’Italia e la Polonia. Nel primo caso si combatté per ubbidire più ad Azone che a Lodrisio; nel secondo si combatté per essere liberi, o per essere schiavi. Pare certamente che meritasse celebrità assai maggiore la giornata 29 maggio. Ma la fortuna ha molta parte nel distribuire la celebrità. E vero che una nascente Repubblica nel secolo duodecimo non aveva né l’ambizione né i mezzi che poteva avere un gran Principe nel secolo decimoquarto per tramandare ai posteri un’epoca gloriosa. (P. VERRI, Storia di Milano, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, pp.312-313).
Bisogna riconoscere tuttavia che i milanesi non avevano tutti i torti a festeggiare il 21 febbraio con tanta solennità. Essi ritenevano che Lodrisio avesse combattuto per ambizioni personali con un esercito composto in larghissima parte di stranieri (tedeschi e veronesi). Anche Azzone e i suoi parenti combatterono per interessi personali: essi difesero la signoria viscontea in una città che aveva perso ormai le libertà comunali. Tuttavia, diversamente da Lodrisio, Azzone governò Milano come legittimo signore della città, riconosciuto come tale dai milanesi. Per questo motivo la festa di Parabiago venne percepita come una festa autenticamente meneghina.
La difficoltà di recarsi a Parabiago in una stagione che a quei tempi rendeva particolarmente difficili gli spostamenti, indusse San Carlo Borromeo, nella seconda metà del XVI secolo, a riformare il calendario abolendo quella festa. I milanesi continuarono tuttavia a celebrare la ricorrenza, che venne sentita come una vera e propria festa civica. Fu così stabilito che il 21 febbraio, giorno della festa di Sant’Ambrogio alla Vittoria, la processione si svolgesse entro la città di Milano e terminasse nella basilica di Sant’Ambrogio.

La natura non federale del ‘federalismo municipale’

Un buon progetto di autonomia finanziaria dei Comuni che nulla ha però da spartire con il federalismo. Questo il giudizio di fondo che si ricava da una rapida lettura del decreto legislativo sul ‘federalismo municipale’; il decreto, che non è passato all’esame consultivo della ‘bicameralina’ per parità di voti (15 a 15 per il no decisivo del finiano Mario Baldassarri), verrà approvato tra pochi giorni in Parlamento per espressa volontà del governo, deciso a farlo passare con il voto di fiducia.

Quali sono in sostanza le linee di fondo di questa riforma? La normativa inciderà in misura notevole sull’autonomia dei Comuni. Oggi gli enti locali si finanziano potendo contare su proprie fonti di gettito e sui trasferimenti che lo Stato centrale attua in base al criterio della spesa storica. Tale criterio produce spesso inefficienza perché ogni anno i sindaci dei comuni male amministrati incassano la stessa ingente quantità di fondi; i cittadini di quei municipi, non avendo la percezione dei costi effettivi della macchina burocratica locale – costi oggi pagati in larga parte dallo Stato mediante i trasferimenti – non possono esercitare alcun controllo effettivo sulla destinazione di quei fondi. Con ogni probabilità le cose cambieranno sensibilmente con la nuova normativa.

I Comuni, soppressi i trasferimenti dello Stato centrale sulla base della spesa storica, potranno finanziarsi con una serie di strumenti che serviranno a pagare il fabbisogno standard, vale a dire il costo medio dei servizi essenziali che i Comuni dovranno sostenere tanto al Nord quanto al Sud. Il sindaco che vorrà incassare più risorse per garantire ulteriori servizi ai suoi cittadini, dovrà introdurre apposite “tasse di scopo”, il che lascia presupporre che sarà costretto ad operare in modo trasparente di fronte ai suoi amministrati.

La normativa predisposta dal governo ha il merito di decretare l’eliminazione o l’accorpamento di 10 delle 18 forme impositive attualmente esistenti. L’imposta municipale unica (IMU) raggrupperà gran parte delle attuali tasse comunali, a partire dall’Ici sulle seconde case e sugli esercizi commerciali. Val la pena ricordare, a tal proposito, che l’Ici sulle prime abitazioni non verrà reintrodotta come invece chiedevano i finiani.

Il secondo strumento cui potranno ricorrere i sindaci in seguito all’approvazione del decreto sul ‘federalismo municipale’ sarà l’imposta municipale secondaria (IMU2) nella quale verranno raggruppate altre tasse locali. I Comuni potranno poi beneficiare della cedolare secca sugli affitti, il cui gettito è stimato a un livello superore ai 15 miliardi di euro. E’ previsto inoltre lo sblocco dell’addizionale comunale Irpef, la cui soglia, come concordato dal governo con l’Anci (Associazione nazionale dei comuni italiani), non sarà superiore allo 0,4%. Dal 2014 i Comuni italiani, per finanziare la spesa standard, potranno infine ricorrere alla compartecipazione a una serie di tributi statali calcolata su base provinciale: l’imposta sul registro, l’imposta di bollo, l’imposta ipotecaria e catastale, l’Iva per 2,8 miliardi di euro.

Merita infine di essere ricordato che, a partire dal 2011, verrà costituito un fondo sperimentale di riequilibrio della durata di cinque anni: ad esso potranno attingere i Comuni che non saranno riusciti a coprire la spesa standard. Il fondo sarà alimentato dal gettito degli stessi tributi cui attingeranno i Comuni a partire dal 2014 mediante le già ricordate forme di compartecipazione.

Alcuni opinionisti hanno sostenuto che questa normativa finirà con l’aumentare il divario tra i Comuni del Nord e i Comuni del Sud. A ben vedere, se si tiene conto del fondo perequativo e delle varie forme di compartecipazione ai tributi erariali, è difficile pensare che i Comuni dei territori più poveri verranno considerevolmente penalizzati. Occorre invece riconoscere che il decreto del governo ha il merito di rendere più difficili sprechi di risorse pubbliche grazie all’introduzione della spesa standard che annullerà definitivamente l’opposto principio della spesa storica, causa di inefficienza e di spreco di risorse pubbliche.

Non c’è che dire: nel complesso è una buona normativa. Se una critica può esser mossa al governo, bisogna rilevare che il nome con cui è stata definita tale riforma (federalismo municipale) non ha niente da spartire con il suo contenuto, riguardante – come si è cercato di spiegare in questa sede – l’autonomia finanziaria dei municipi e nulla di più. Il decreto legislativo poggia sull’amministrazione finanziaria dello Stato unitario e presuppone l’esistenza di quest’ultima per la sua concreta realizzazione; il che, come è facile intuire, costituisce la palese negazione del federalismo. Nei decreti delegati approvati dal governo o in via di approvazione la fissazione delle imposte (dirette e indirette) e la loro riscossione non è competenza delle maggiori Comunità territoriali, come avverrebbe in un regime federale. Il presidente della Corte Costituzionale Ugo De Siervo in un’intervista del 4 febbraio scorso, nel commentare la legge sul “federalismo municipale” ha rilevato opportunamente il marchiano errore terminologico compiuto dal governo: “il federalismo è un processo di unificazione progressiva di Stati che erano sovrani verso un unico Stato gestore. Che cosa c’entra questo con l’autonomia finanziaria dei Comuni decisa dal Parlamento nazionale? Con il termine federalismo si spaccia ciò che è autonomismo degli enti locali” (intervista a cura di Donatella Stasio per “Il Sole 24 Ore”). Per capire come l’autonomia finanziaria dei comuni possa essere realizzata in un regime autenticamente federale, varrà la pena ricordare il caso della Svizzera, dove la legislazione tributaria dei Comuni, lungi dall’essere competenza della Confederazione, viene regolata in via esclusiva dai Cantoni; la compartecipazione dei Comuni avviene in quel paese con addizionali poste sui tributi cantonali, non sulle imposte federali. Ora, nel sedicente “federalismo municipale” le quote di compartecipazione riguardano i tributi dello Stato, tributi che vengono decisi e riscossi dall’amministrazione centrale. Insomma, a me pare che siamo lontani anni luce dai principi del federalismo.

Il caso Ruby mette a nudo le vergogne degli italiani

In rete sta circolando un breve scritto di Elsa Morante (1912-1985). 
Benito Mussolini è la persona su cui si concentrano le riflessioni della scrittrice. 
Lo riporto integralmente perché mi sembra attuale. 


A seguire, alcune mie considerazioni. 




“Il capo del Governo si macchiò ripetutamente durante la sua carriera di
delitti che, al cospetto di un popolo onesto, gli avrebbero meritato la
condanna, la vergogna e la privazione di ogni autorità di governo. Perché
il popolo tollerò e addirittura applaudì questi crimini? Una parte per
insensibilità morale, una parte per astuzia, una parte per interesse e
tornaconto personale. La maggioranza si rendeva naturalmente conto delle
sue attività criminali, ma preferiva dare il suo voto al forte piuttosto
che al giusto. Purtroppo il popolo italiano, se deve scegliere tra il
dovere e il tornaconto, pur conoscendo quale sarebbe il suo dovere, sceglie
sempre il tornaconto. 



Così un uomo mediocre, grossolano, di eloquenza volgare ma di facile
effetto, è un perfetto esemplare dei suoi contemporanei. Presso un popolo
onesto, sarebbe stato tutt’al più il leader di un partito di modesto
seguito, un personaggio un po’ ridicolo per le sue maniere, i suoi
atteggiamenti, le sue manie di grandezza, offensivo per il buon senso della
gente e causa del suo stile enfatico e impudico. In Italia è diventato il
capo del governo. Ed è difficile trovare un più completo esempio italiano.
Ammiratore della forza, venale, corruttibile e corrotto, cattolico senza
credere in Dio, presuntuoso, vanitoso, fintamente bonario, buon padre di
famiglia ma con numerose amanti, si serve di coloro che disprezza, si
circonda di disonesti, di bugiardi, di inetti, di profittatori; mimo abile,
e tale da fare effetto su un pubblico volgare, ma, come ogni mimo, senza un
proprio carattere, si immagina sempre di essere il personaggio che vuole
rappresentare.” 

Le indagini portate avanti dai pm di Milano nei confronti della vita privata del presidente del Consiglio hanno gettato il Paese in uno stato di turbamento e di profondo disagio. Mai come in questi giorni l’Italia ha dimostrato di essere alla deriva non solo in base ai valori etico morali, ma ancor più sul piano dei principi che stanno alla base dello Stato di diritto europeo liberal-democratico. Perché qui – bisogna esser chiari fino in fondo – a scandalizzare non è tanto la vita privata del presidente del consiglio. A suscitare indignazione è l’indifferenza, il disinteresse, la sostanziale apatia di noi italiani. 





Il popolo italiano non esiste. E’ sempre stata l’invenzione di una minoranza di poeti, intellettuali e politici spregiudicati. Gli italiani non sentono di appartenere a una comunità nazionale perché c’è sempre stata una classe politica  s e p a r a t a  dalla società che ha pensato per loro, che si è occupata di politica facendo – spesso male – quel che loro stessi avrebbero dovuto controllare che fosse fatto bene. Non c’è in Italia una cultura civica. Questo spiega l’apatia, l’indifferenza, il totale disinteresse di larga parte dei cittadini nei confronti della politica, buona o cattiva che sia.


Si può sostenere con relativa attendibilità che in 150 anni alcune minoranze hanno confezionato tre camice di forza per gli italiani: prima lo Stato monarchico (‘parlamentare’ e accentrato), poi lo Stato fascista (governativo e accentrato), infine la Repubblica italiana (parlamentare, decentrata e a tratti ‘autonomista’ ma in realtà partitocratica). Tre regimi imposti dall’alto, tre poteri pubblici nei quali gli italiani hanno recitato quasi sempre il ruolo di comparse: comparse buone in circostanze eccezionali per le manifestazioni in piazza o per le rivoluzioni  (pensiamo alle lotte partigiane combattute contro i nazi-fascisti al centro-nord), ma tenute  rigorosamente lontane dalle stanze del potere, chiamate a intervenire solo nel giorno delle elezioni.


E’ una storia che in fondo risale all’Unità. Prendiamo le leggi di unificazione amministrativa approvate dal governo il 20 marzo 1865 ed estese a tutta la penisola: la camicia, di taglia piemontese, venne fatta indossare ai popoli italiani senza coinvolgere le classi dirigenti, senza chieder loro se le misure fossero adatte alla costituzione naturale dei territori. Il risultato fu scontato: la classe politica ‘italiana’, nel timore di attentare all’Unità nazionale (eterno spauracchio agitato dalla classe politica contro qualunque riforma minacci di intaccare il suo potere), bocciò i timidi progetti regionalisti avanzati da Luigi Carlo Farini e da Marco Minghetti, ingabbiando il paese nel vestito di un nano (il piccolo Piemonte).


Ottantatrè anni dopo: stesso copione. Caduto il fascismo dopo vent’anni di dittatura, i nostri “padri costituenti” emanarono nel 1948 la Costituzione repubblicana guardandosi bene dal sottoporla a referendum. I francesi e gli spagnoli, riottenuta la libertà, agirono in modo diverso e chiesero al popolo di esprimersi con plebiscito sulle Costituzioni repubblicane. Da noi, nisba. Il popolo, chiamato due anni prima ad eleggere l’assemblea costituente, decise soltanto tra monarchia e repubblica. Scrisse a fine ottobre 1944 la Segreteria del Partito d’Azione dell’Alta Italia: “Che importa avere un presidente anziché un re se tutto l’apparato statale è fondato sul principio monarchico dell’autorità che scende dall’alto?” (Lettera aperta della Segreteria del Partito d’Azione dell’Alta Italia al comitato esecutivo del partito dell’Italia centro-meridionale, pubblicata in E. ROTELLI, L’avvento della Regione in Italia, Milano, Giuffré, 1967, pp.45-46). Sagge parole. Quel che avvenne è noto a tutti. Anziché rifondare l’ordinamento repubblicano su basi autonomiste e rendere democratici i Cln regionali, i partiti antifascisti scelsero di conservare l’apparato amministrativo dello Stato unitario. Un apparato amministrativo unitario e centralizzato che i fascisti avevano ricevuto in eredità dallo Stato liberale e avevano perfezionato in base alla logica autoritaria di Mussolini.


Anche negli anni della Repubblica lo Stato italiano continuò ad essere fondato sulla struttura unitaria e centralizzata della sua burocrazia, né valse l’introduzione delle Regioni (avvenuta negli anni Settanta del secolo scorso) a migliorare una situazione che divenne sempre più ingessata, pietrificata, irriformabile. Anzi. Le Regioni, lungi dall’esercitare le funzioni prima detenute da alcuni ministeri dello Stato centrale, finirono con il produrre nuova burocrazia e una congerie di uffici che appesantirono ulteriormente l’andamento dell’amministrazione pubblica.       


I difetti fondamentali che avevano segnato la fine dello Stato italiano nato dal Risorgimento finirono ben presto con il riformarsi inesorabilmente nella Repubblica Italiana. Ancora oggi, tutto viene imposto dall’alto. I cittadini sono concepiti alla stregua di minorenni eternamente immaturi. Basta guardare all’impianto della nostra Costituzione: una Carta fondata sulla centralità del Parlamento (quindi dei politici di professione) e sul ruolo marginale riservato ai cittadini e agli enti territoriali, nonostante la falsa riforma federale. Finché rimarrà questa tara, continueremo ad essere governati da una minoranza legale inevitabilmente staccata dal paese reale. Diciamolo chiaramente e una volta per tutte. Finché sarà in vigore questa Costituzione, l’Italia continuerà ad essere un Paese ove i professionisti della politica detengono il sostanziale monopolio del potere; dove i cittadini, concepiti come pupilli inadatti ad assumersi la responsabilità di decidere sui problemi più importanti, son tenuti lontano dalla politica attiva, condannati ad esprimersi nel giorno delle elezioni, nei casi alquanto rari in cui un referendum abrogativo raggiunga il quorum o nei casi in cui  i parlamentari votino una riforma della costituzione con una maggioranza inferiore ai due terzi.


La Costituzione vigente  concentra gran parte delle funzioni pubbliche negli istituti della democrazia rappresentativa, prerogativa di una classe politica normalmente mediocre. L’intellettuale meridionale Gaetano Salvemini, uno dei grandi interpreti del federalismo,  quando lesse la Costituzione del ’48, intuì con grande lucidità quel che sarebbe avvenuto e non esitò a sostenere che “il presente regime politico può essere definito il fascismo meno  Mussolini più le Regioni” (passo citato in E. ROTELLI, Regionalismo, in «Amministrare», a.XXXIV, n.3, dicembre 2004, pag.349). Non poteva dir meglio e il giudizio resta in larga parte valido nonostante il federalismo all’acqua di rose approvato dal centrosinistra nel 2000 e confermato dagli italiani con referendum.     


Ma, a ben vedere, questa situazione risale alla nostra ‘nascita’ come “Stato-Nazione”: lungi dal costruire una Confederazione di Stati nel rispetto delle piccole patrie facendo dialogare fra loro i popoli italiani (come chiedevano i federalisti cattolici e democratici), si volle cancellare d’un tratto e con violenza inaudita il patrimonio storico giuridico degli Stati preunitari, fondando sullo Stato piemontese il nuovo regime italiano. Si dirà che tale esito era inevitabile vista l’opposizione delle classi dirigenti preunitarie alla politica del Piemonte (Austria in primis). E’ vero. Questo tuttavia non basta a giustificare quanto avvenne in seguito all’unificazione, soprattutto nell’ex Regno delle Due Sicilie. Lo scollamento dei cittadini dalle istituzioni, la cesura tra paese reale e paese legale già presente in parte negli Stati preunitari, si acuì maggiormente con la fondazione dello Stato italiano.


In Svizzera avvenne il fenomeno inverso: la costruzione di un nuovo soggetto politico unitario (la Confederazione elvetica), quantunque fosse avvenuta  in modi e tempi diversi, non portò all’annientamento radicale delle radici statuali preunitarie. In Svizzera i Cantoni tendono ancora oggi ad essere i Cantoni preunitari. Possiamo dire lo stesso per le nostre Regioni? La risposta è evidentemente negativa.


Sempre in terra elvetica, nel 1874, venne introdotto il referendum legislativo per garantire piena voce al popolo allontanando il rischio che la concentrazione di alcune funzioni nella Confederazione rischiasse di produrre il dispotismo partitocratico. Oggi l’autentico federalismo a base cantonale e i referendum (propositivo deliberativi in campo legislativo e costituzionale) garantiscono alla Svizzera una vera democrazia. Beati loro. Noi dobbiamo fare i conti con lo strapotere dei partiti e con uno Stato nazionale inevitabilmente fittizio perché imposto dall’alto.


A voler essere paradossali, Berlusconi ha avuto il merito di mettere finalmente a nudo le vergogne degli italiani. Altro che 150 anni di Unità d’Italia! Il caso Berlusconi dimostra che l’Italia non esiste.


Se l’Italia esistesse e, come vanno dicendo, fosse uno Stato europeo di diritto liberal-democratico, sarebbe stato  impossibile al Cavaliere salire al potere e rimanerci così a lungo. Ma gli italiani, come scriveva bene la Morante, pensano al loro tornaconto, al loro particulare.


Il bene della comunità nazionale non esiste. E’ una sovrastruttura imposta da una minoranza che pensa “amorevolmente” per gli italiani. Il risultato? Una televisione di Stato gestita dai partiti, una stampa in larga parte asservita e due milioni di miliardi di debito pubblico.

Festa in maschera nel palazzo Batthyany

30 gennaio 1829. Grande festa nel palazzo del conte Antonio Giuseppe Batthyany, sul corso di Porta Orientale (oggi porta Venezia). Al calar della notte viene allestito un ballo in maschera cui accedono i più alti papaveri del patriziato milanese.

I costumi dei convenuti, disegnati dai pittori Francesco Hayez e Migliara, sono opera delle migliori sartorie di Milano, Parigi e Vienna. Il padrone di casa veste i panni azzurri del ricco principe montenegrino avvolto in un largo mantello rosso. Il marchese Giorgio Trivulzio è Lusignano, re di Gerusalemme. Il principe Emilio e la principessa Cristina Belgioioso compongono la quadriglia spettacolare di Francesco I re di Francia: lei, dama d’onore, spicca con il suo abito velluto color viola. La contessa Giulia Samoyloff, nota a Milano per le sue posizioni filoaustriache e per i suoi costumi a dir poco eccentrici, lascia trasparire le forme prosperose nei panni della contadina russa.

Napoleone III: un piccolo grande imperatore dei francesi

Un mese fa, chi avesse consultato le biografie di Napoleone III pubblicate in Europa a partire dal giorno della sua morte avrebbe constatato con stupore l’assenza di uno studio condotto da un autore italiano. Il libro dello storico Eugenio Di Rienzo (Napoleone III, Roma, Salerno editrice, 2010, 715 pag.) colma finalmente questa lacuna e ci presenta la figura di un personaggio che, com’è fin troppo noto, giocò un ruolo determinante nel favorire e poi nell’ostacolare il compimento dell’Unità nazionale.

Sulla base di una imponente documentazione (memorialistica e testi dell’epoca, fonti tratte dagli archivi diplomatici francesi, russi, austriaci, prussiani, italiani) Di Rienzo racconta, in un testo di piacevole lettura, la vita di un uomo che, nel tentativo di restituire alla Francia il peso internazionale raggiunto da Napoleone I agli inizi  dell’Ottocento, seppe fondare un regime assai originale. Esso poggiava su un costituzionalismo di marca schiettamente anti-parlamentare basato sulla figura carismatica di Luigi Napoleone, chiamato a guidare la modernizzazione di un grande Stato europeo.

Forte di un consenso plebiscitario seguito al colpo di Stato del 2 dicembre 1851, il Secondo Impero di Napoleone III si resse per quasi vent’anni su un’amministrazione pubblica tesa alla promozione dello sviluppo industriale della nazione, ma anche sensibile ai bisogni delle classi più deboli. Come dimostra Di Rienzo, il Secondo Impero perseguì in politica interna una serie di provvedimenti che possono ben essere ricondotti alla formula, oggi così attuale, dell'”economia sociale di mercato”.

Furono per converso assai controversi e in larga parte deludenti per i francesi i risultati conseguiti da Napoleone III in politica estera. Se l’imperatore riuscì a rompere per sempre l’equilibrio europeo fondato sulla Santa Alleanza e sull’egemonia dell’Austria nello scacchiere diplomatico, egli non fu in grado di sostituire all’egemonia degli Asburgo un’egemonia francese altrettanto duratura. Il rafforzamento della Prussia e la formazione di uno Stato nazionale italiano esteso all’intera penisola furono eventi inattesi e certamente non voluti dell’ultimo inquilino delle Tuileries.

Nella penisola italiana Napoleone III non fu in grado di promuovere e realizzare un regime confederale che, nel tutelare il potere temporale e il magistero spirituale del Papa, desse all’Italia un assetto stabile, in grado di favorire le libertà dei popoli italiani nel rispetto delle loro secolari identità. Napoleone I non avrebbe mai permesso la formazione di uno Stato italiano esteso dalle Alpi alla Sicilia.

Nel Nord Europa l’imponente sviluppo economico e militare raggiunto dalla Prussia tra gli anni Cinquanta e Sessanta dell’Ottocento, condusse inevitabilmente al declino e poi al crollo del regime bonapartista. La battaglia di Sedan dimostrò la clamorosa impreparazione militare dell’esercito di Napoleone III e, dall’altra parte, l’imponente forza della Prussia del cancelliere von Bismark, che poteva contare su una tecnologia bellica per quei tempi devastante.

Milano tra megalopoli padana e “megistopoli” europea

Trent’anni fa l’eminente geografo Jean Gottmann sosteneva che nel Nord Italia si era formata una magalopoli simile a quella da lui scoperta nel Nord America, tra l’Atlantico e la catena dei monti Appalachi. Si veda a tal proposito il saggio di Gottmann Verso una megalopoli padana? nel volume curato da Calogero Muscarà e intitolato Megalopoli mediterranea (Milano, Franco Angeli 1978, pp.19-31). Ma quali sarebbero le caratteristiche di una megalopoli? Secondo il geografo francese essa è tale se presenta:
  • 1   un’area densamente urbanizzata ove la maggioranza degli abitanti adotta stili di vita urbani;
  • 2.   una popolazione compresa tra i 20 e i 25 milioni di abitanti;
  • 3.   l’esistenza di larghi spazi non urbanizzati costituiti da campi agricoli, boschi o zone montuose;  
  • 4.    una struttura “polinucleare” o “a nebulosa” tale da renderla un grande mosaico con un certo numero di zone differenti;
  • 5.    un livello di comunicazioni-informazioni altamente sviluppato basato sui mass media
  • 6.     un’alta mobilità degli abitanti

Nel caso del Nord Italia Gottmann sosteneva che la megalopoli padana sembrava rispondere a tali requisiti, non foss’altro perché già allora le aree metropolitane di Milano, Genova, Torino, Venezia e Bologna, i centri urbani di Bergamo, Brescia, Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Bologna, Parma, Modena e via dicendo confinavano e “dialogavano” con i vasti spazi circostanti occupati da boschi, campi e rilievi montuosi. D’altra parte, se ci pensiamo bene, il Nord Italia è contraddistinto ancora oggi da un’area fittamente urbanizzata ove gli spazi agricoli o, per dir così, selvaggi (rilievi montuosi) convivono con quelli cittadini. I paesi di montagna sono addirittura frequentati nei mesi estivi da un turismo urbano che li concepisce come “seconda patria”, oasi felice ove i cittadini amano trascorrere serenamente le vacanze estive dimenticando per alcune settimane i frenetici ritmi urbani. Oggi il Nord Italia conta 27 milioni di abitanti, gran parte dei quali lavora spostandosi dai comuni della collina, dell’alta e della “bassa” pianura verso le città metropolitane ove sono concentrate aziende attive nel terziario o quaternario (terziario dei massmedia). Siamo quindi dinanzi a un alto tasso di mobilità, in linea con quanto notava il geografo francese.

Gottmann sosteneva addirittura che l’asse Genova-Venezia renderebbe la pianura padana una megalopoli “trans-istmica” perché tale fascia di territorio ha consentito in passato – e consente tuttora – di gestire importanti rapporti commerciali tra due grandi aree: il sud est mediterranaeo e il nord ovest dell’Europa. Basti ricordare a tal proposito il ruolo fondamentale rivestito dai mercanti genovesi, veneziani e pisani in campo finanziario e nei traffici delle spezie orientali. D’altra parte le città di Milano, Genova, Venezia e Firenze potevano contare già nel basso Medioevo su un mercato internazionale che oltrepassava largamente le fiere che si tenevano ordinariamente nelle vicine regioni. 

Ma il geografo francese andava oltre. A suo parere, l’Italia settentrionale potrebbe essere considerata il bastione meridionale di una “megistopoli” europea, intendendo con questo termine l’area comprendente la parte meridionale della Gran Bretagna con Londra, Parigi e l’Ile de France, la Francia centro e sud orientale, la Germania occidentale, l’Italia del Centro Nord. Una vastissima regione europea caratterizzata da una ricchezza piuttosto elevata. E’ significativo che tale “megistopoli” sia tuttora costituita in larghissima parte da regioni i cui abitanti hanno il più alto reddito pro capite dell’Unione Europea.

Ho riportato per sommi capi le analisi originali di Gottmann perché ad esse è corso il pensiero mentre leggevo, alcuni giorni fa, un vecchio scritto di Carlo Cattaneo. Nel 1860, un anno prima che venisse proclamato il regno d’Italia sabaudo, il grande intellettuale e patriota lombardo scriveva che Milano non solo costituiva il centro dell’Alta Italia, ma si trovava all’interno di un asse che era stato per secoli il cuore dell’economia europea. Egli descriveva “l’antico e moderno incivilimento” partendo da una riflessione sulla posizione geo-economica di Milano:
 
“Il fatto geografico fondamentale consiste in ciò: che Milano è sul grande asse trasversale dell’Alta Italia; e nel tempo stesso è sul grande asse commune della penisola italiana, dei due mari e delle isole; il quale si continua e si ripete nella gran valle del Reno, lungo la linea di contatto d’altre due grandi nazioni; e di là si connette pei Paesi Bassi alle Isole Britanniche, come dall’opposta estremità si prolunga verso la Grecia, l’Asia Minore, la Siria, l’Egitto. Può dirsi questa la via maestra dell’antico e moderno commercio, dell’antico e moderno incivilimento.

Roma è il centro di posizione e di gravità di tutto il sistema italiano; ma se si considera solo l’Alta Italia e quella popolazione di quattordici o quindici milioni che stanzia tra Roma e le Alpi, si vede che circa un terzo di essa vive a levante di Milano, un terzo a ponente, un terzo a mezzodì. La Svizzera, nella direzione del suo centro e di Basilea, compie la crociera”. CARLO CATTANEO, La ferrovia di Como in “Il Politecnico”, VIII, fasc.XLIII, 1860, pp.34-43.

In effetti, consultando le fonti dell’epoca, i dati sembrano in gran parte coincidere con quanto scriveva Cattaneo. Consultando la Statistica del Regno d’Italia, (Censimento generale 31 dicembre 1861, Firenze 1865) si ricava che nei territori a sud di Milano (gli ex ducati di Parma e Piacenza, Modena e Reggio, la Romagna pontificia, l’ex granducato di Toscana e le Marche papali) vivevano  4 milioni e 900 mila abitanti, la Lombardia contava 3 milioni e centomila abitanti che, sommati al Veneto e a Mantova (ancora austriaci nel 1861), toccavano anch’essi i cinque milioni di persone; il Piemonte e la Liguria contavano 3 milioni e 600 mila abitanti, ma occorre aggiungere nel calcolo i territori di Nizza e Savoia, ceduti alla Francia nello stesso anno in cui Cattaneo scriveva il suo articolo: anche qui, la popolazione si attestava presumibilmente sui 4 milioni e mezzo di abitanti, assai vicino ai 5 milioni. 

Oggi l’Alta Italia conta una popolazione decisamente superiore rispetto ai quindici milioni di abitanti cui faceva riferimento Cattaneo. Ci si potrebbe domandare se, confermata l’esistenza di questa ricca megalopoli europea, in un prossimo futuro non possano determinarsi le condizioni per una sua indipendenza politica all’interno dell’Unione Europea. 

Football della libertà

L’onorevole Capezzone si è beccato un pugno in faccia mentre camminava in una via del centro romano. Un consiglio disinteressato al politico berlusconiano: signor Capezzone, la prossima volta che sceglie di passeggiare all’aria aperta sarebbe bene che indossasse l’armatura dei giocatori di football, compreso l’ottimo casco Adams A2000 Pro Elite fornito di imbottiture interne morbide e resistenti agli impatti.

L’indole dei Milanesi secondo Carlo Cattaneo

Carlo Cattaneo fu autore di un’interessante guida di Milano rimasta purtroppo incompiuta. Mentre leggevo la sua opera, scritta nella prima metà dell’Ottocento, mi son imbattuto in una descrizione dei milanesi che sembra esser fatta da un contemporaneo. Un ritratto straordinariamente moderno se consideriamo che venne scritto nella prima metà dell’Ottocento, nella piccola Milano austriaca popolata da soli 125.000 abitanti: 

“In confronto alle altre città d’Italia, Milano ha minor numero di cruscanti, di puristi, di periodisti, di parolaj d’ogni razza e d’ogni partito. Qui le persone studiose si ingegnano di essere contemporanei del loro secolo e non s’affannano di ritardare, per quanto è lor possibile, i progressi dell’intellettuale perfezionamento ne’ loro concittadini distraendoli dallo studio delle cose a quello di una insetata verbosità”. Appunti per una guida di Milano: un manoscritto inedito di Carlo Cattaneo in «Il Risorgimento», anno XLI (ottobre 1989), fasc. n.3, pp.226-227. 

Date milanesi

25 settembre 1622. Dopo quattordici anni di reclusione nelle tetre case delle Convertite di Santa Valeria (anticamente situate nella via omonima, non molto distanti dal luogo ove oggi si trova l’Università Cattolica), la suora Virginia de Leyva veniva liberata dalla prigionia grazie all’intervento dell’arcivescovo di Milano Federico Borromeo. Si trattava della monaca di Monza, che il Manzoni rese celebre nei capitoli IX e X dei Promessi Sposi


La casa delle Convertite di Santa Valeria venne istituita nel 1532 da alcuni cittadini milanesi, nobili e mercanti. La finalità dell’istituto era di aiutare le prostitute che avessero desiderato cambiar vita per intraprendere un percorso di spiritualità e di purificazione. 
L’anno 1532, facendo riflesso alcuni Cittadini Milanesi parte Nobili e parte Mercanti con zelo del servizio di Dio che nella città scandalosamente vivevano in pubblico peccato molte Donne, risolsero di procurarne a tutto loro potere l’emendazione, e rudurre a stato di penitenza quelle, alle quali si fosse potuto fare conoscere il loro peccato. Per l’effetto suddetto comprarono que’ buoni Cittadini una Casa situata in porta Vercellina sotto la Cura di Santa Valeria, ed in essa cominciarono ad introdurvi tali Donne peccatrici, quali si mantenevano a spese degli Autori di tale conversione.  (S. LATUADA, Descrizione di Milano, Milano 1734, ristampa a cura delle Edizioni La Vita Felice, Milano 1997, tomo IV, pag.213).  
Nel 1561 il Senato, il prestigioso organo giuridico amministrativo che assieme al governatore reggeva la politica dello Stato di Milano, stabilì che le convertite fuggite o sorprese nel tentativo di lasciare le celle non solo fossero bandite da Milano, ma dovessero subire la tortura del marchio infuocato sulla fronte “in segno della disonestà loro”.
Insomma, una specie di San Patrignano per le prostitute, retta però da un regolamento lievemente più severo….

Con il federalismo Roma non sarà l’unica capitale d’Italia

Ieri il presidente della repubblica Giorgio Napolitano ha commemorato il centoquarantesimo anniversario della breccia di Porta Pia. Roma, conquistata dalle truppe italiane il 20 settembre 1870, cessava di essere la sede del potere temporale del Papa e diveniva la nuova capitale del regno d’Italia sabaudo.

Le conseguenze di tale avvenimento furono notevoli e bene ha fatto il Capo dello Stato a ricordarne l’importanza storica. La capitale del regno italiano, che fino a quel momento era stata Firenze, veniva fissata in una città i cui abitanti avevano accolto con scarso entusiasmo i nuovi arrivati, ritenuti quasi responsabili di aver  interrotto la pace secolare del paterno governo pontificio. Ora il nuovo status della città pareva aver esaltato i romani, inducendoli a rivolgere al governo una serie di richieste che potessero degnamente salvaguardare i loro interessi. Ne scriveva amareggiato un uomo politico che aveva voluto ardentemente l’annessione di Roma, Bettino Ricasoli: “i Romani, invece di ringraziare Iddio che senza virtù loro, sono esciti (sic!) da una situazione intollerabile per un popolo che senta un poco di sé, son in piazza di continuo disposti ad agitarsi e ad agitare, e ad imporsi, ultimi aggiunti, alla grande famiglia, con le loro impazienze, con le loro bambocciate. V’è dunque in questa Roma una fatalità che deve rendersi maledetta per l’Italia?” (Ricasoli a Luigi Torelli, 20 novembre 1870). Poche ore prima il generale piemontese Alfonso La Marmora aveva scritto stizzito al primo ministro Giovanni Lanza: “Se i romani anziché esser liberati dagli Italiani, avesser loro fatta l’Italia, non avevano ancor il diritto di elevare tante pretese, e imporsi orgogliosamente alle rimanenti Provincie. A furia di gridare che senza Roma capitale l’Italia non poteva sussistere, questi Signori l’hanno preso sul serio. Ma non mi stupirebbe che tali smodate pretese provocassero una reazione contro Roma” (La Marmora a Lanza, 19 novembre 1870).

Centoquarant’anni dopo la breccia di Porta Pia, le lettere di La Marmora e Ricasoli rivelano una straordinaria attualità. Il governo Berlusconi ha approvato da pochi giorni un decreto legislativo ove sono accresciuti i poteri del Sindaco di Roma in un quadro di speciali autonomie riconosciute alla capitale. Insomma, i discendenti dei romani ex papalini paiono aver degnamente corrisposto ai desideri dei loro avi. Ma il leader della Lega Nord, Umberto Bossi, dopo aver votato in consiglio dei ministri a favore di quel decreto, ha sostenuto la necessità di istituire un’altra capitale nel Nord Italia. Il Capo dello Stato, nel discorso tenuto ieri, ha respinto in via categorica la legittimità di tale ipotesi, sostenendo che Roma continuerà ad essere la sola capitale dello Stato unitario nazionale. Le parole di Napolitano, com’è facile immaginare, hanno finito per deludere quanti si augurano una riforma quasi integrale della Costituzione in chiave confederale.

Ma il presidente della repubblica ha fatto molto di più. Egli ha svelato la sua natura di convinto unitarista e antifederalista, non foss’altro perché, in un ordinamento informato al principio del pluralismo politico territoriale, esiste certamente una capitale sede del potere centrale, ma in essa hanno sede solo una parte dei dicasteri pubblici, essendo gli altri ministeri dislocati nelle città che continuano ad essere capitali di Stati regionali.

Finché non modificheremo l’articolo quinto della Costituzione, la nostra repubblica resterà uno Stato unitario, non federale. L’articolo quinto riconosce infatti l’esistenza di una sola Italia indivisibile, fondata sul decentramento amministrativo e su una vigilata autonomia degli enti locali. Ma un vero ordinamento federale è  informato a princìpi diversi:  le comunità territoriali membri della confederazione, lungi dal rinunciare alla loro sovranità, ne delegano una parte soltanto al potere federale, il quale, per questo motivo, non può  presentare in alcun modo i caratteri di unitarietà e indivisibilità tipici dello Stato moderno.

La proposta di Bossi mi sembra quindi sensata in un quadro di riforma costituzionale in senso autenticamente federale. Plausibile d’altra parte sarà anche ogni proposta che i politici centro meridionali volessero avanzare in Parlamento o in Consiglio dei Ministri per restituire a Napoli, a Firenze, o a Palermo il loro antico status di capitali.

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