Le amare ricette di Monti per ridare un futuro agli italiani

Mario Monti sembra l’uomo giusto per salvare l’Italia dalla crisi. L’economista lombardo gode di un notevole prestigio in Italia e all’estero. Le sue prese di posizione sono sempre state equilibrate e responsabili. L’uomo ha le competenze e la credibilità per fare le riforme che consentano al paese di tornare a crescere.

Non sappiamo se Monti riuscirà a formare un governo che abbia la maggioranza parlamentare. Nel gorgo della crisi finanziaria che sta risucchiando l’Italia verso il baratro l’economista bocconiano sembra essere l’unica persona in grado di far fronte alla tempesta dei mercati traghettando l’Italia fuori dalla crisi.

Ieri, intervenendo a margine di un convegno a Berlino, Monti ha affermato che servono all’Italia riforme strutturali dirette a rimuovere gli ostacoli che frenano e inceppano la crescita dell’economia. Un lavoro immane per qualunque governo sia chiamato a guidare il Paese nelle prossime settimane.

Condivido tali riflessioni, anche se le riforme richiederanno senza dubbio sacrifici e risulteranno in larga parte impopolari. Credo tuttavia che i paesi migliori siano quelli che non temono di mettersi in discussione, di reinventarsi per vivere da protagonisti in un mondo, come quello attuale, dominato dalla velocità impressionante del progresso tecnologico e dalla fittissima rete di relazioni economiche e culturali tra i diversi paesi. Non possiamo più permetterci di perdere tempo.

Il direttore del “Giornale Italiano” Vincenzo Cuoco, recensendo nel gennaio del 1804 la Discussione economica sul Dipartimento d’Olona dell’economista Melchiorre Gioia, scrisse una riflessione che mi sembra di straordinaria attualità nella difficile congiuntura che stiamo vivendo:

“Il male che si soffre è l’effetto delle inevitabili vicende che affliggono tutti gli uomini e tutte le nazioni. Ma il peggiore dei mali, dopo tali vicende, è quello di non volerne soffrire il rimedio. Il maggior numero dei popoli è perito miseramente non per i mali che avea sofferti, ma per l’aborrimento a quelli rimedj che l’avrebbero incomodati per un momento, ma li avrebbero sicuramente guarito“.

[Il passo è tratto da VINCENZO CUOCO, Pagine giornalistiche, Roma-Bari, Laterza 2011, pp.38-39].

Quando Milano era un cantiere di beneficenza

Nei secoli passati la benificenza a Milano era assai più diffusa di quanto non lo sia oggi. Le iniziative a sostegno dei malati, degli infermi, degli anziani, delle ragazze povere, furono intraprese da  istituzioni assistenziali che agivano con il sostegno del potere pubblico, della chiesa ambrosiana e delle famiglie nobili milanesi.

Sotto il Regno d’Italia napoleonico tali iniziative ricevettero largo impulso ad opera del governo. Si trattava di una forma di “carità sociale”  assai vicina a quella in vigore nei territori europei governati dalla casa d’Austria nella seconda metà del Settecento. Una carità autenticamente produttiva perché, se assegnava allo Stato il dovere di assistere i sudditi  bisognosi, imponeva  a questi ultimi il dovere di rendersi utili alla società migliorando se possibile la loro condizione.

Nello Stato italico, di cui Milano fu capitale dal 1802 al 1814, il divieto della mendicità, l’introduzione di case d’industria per i poveri vagabondi e di case di ricovero per i poveri invalidi erano atti che derivavano da questa peculiare concezione di “carità sociale”, figlia del più genuinoWohlfahrtsstaat germanico. In fondo, sotto il profilo amministrativo, il regime napoleonico costituì il perfezionamento dello Stato asburgico introdotto in Lombardia da Giuseppe II d’Austria.
  
I decreti napoleonici del 5 settembre e del 21 dicembre 1807 istituirono congregazioni di carità i cui membri, nominati dal viceré Eugenio Beauharnais, esercitavano un’attività tesa alla promozione dell’assistenza nei confronti delle classi disagiate. Si trattava in fondo di una forma di welfare a metà strada tra il privato e il pubblico: se le risorse erano garantite grazie alle donazioni delle famiglie abbienti, il controllo sull’utilizzo di quei fondi era competenza del ministero dell’interno che operava mediante appositi ispettori. In realtà, le opere a sostegno dei più bisognosi furono realizzate grazie all’impegno dei milanesi, in particolar modo della classe dirigente appartenente per lo più alla nobiltà cittadina.

A Milano la congregazione, presieduta dal prefetto, era composta di 15 membri nominati dal viceré tra i possidenti, i commercianti o gli uomini di legge. La congregazione di carità, la cui sede si trovava nei locali dell’Ospedale Maggiore (oggi Università degli Studi di Milano) era articolata in tre sezioni: la prima rivolta agli ospedali, la seconda ad altre strutture di ricovero, la terza agli enti elemosinieri e ai monti di pietà.

Il canonico Mantovani, sotto il giorno 1 ottobre 1807, annotava nel suo Diario politico ecclesiastico alcune notizie significative che riguardavano i provvedimenti intrapresi dal governo e dalla società civile a sostegno della pubblica assistenza.

1 ottobre 1807.

“Con decreto del Viceré [Eugenio di Beauharnais, viceré del Regno italico dal 1805 al 1814, NdR] si è pubblicata jeri la istituzione di un Conservatorio di 24 allievi gratuiti, diciotto maschi e sei femmine, nel locale della Passione, per imparare la Musica, aperto a tutti i giovanetti della città per questa scienza.

Alcuni ricchi e virtuosi cavalieri della nostra città, di cui capo è il signor Marchese Arconati, hanno fatto disegno, e coll’opera e direzione dell’ottimo Barnabita P. De Vecchi, stanno riducendolo in pratica, di fissare, per quanto sarà possibile, in ogni parrocchia di Milano, una casa di scuola ed educazione per le povere figlie della città, in cui saranno ricevute giornalmente ed assistite con carità e larghezza tutte quelle le di cui famiglie sono incapaci di farle ben educare dagli anni primi sino alli 19 ecc., coll’intenzione anche di coadjuvarle o nel loro collocamento, o d’impiegarle in servizio decente e sicuro per ogni pericolo.

Sonsi già stabilite 9 case, per 9 parrocchie, e destinate due saggie (sic!) maestre per ogni casa, colla soprintendenza di alcune virtuose dame e matrone, che di tempo in tempo visiteranno queste case per invigilare, e provvedere ai bisogni. Se questo stabilimento prenderà consistenza, con ragione di spera di vedere alcun poco minorati gli scandali tanto frequenti nelle famiglie, e i bordelli meno numerosi nelle contrade della città colla rovina della povera gioventù”.  
  

I padri Felice e Gaetano De Vecchi, barnabiti, assunsero un ruolo importante nell’istituzione di case per la carità in collaborazione con la nobiltà. Felice De Vecchi era parroco in quegli anni a Sant’Alessandro (Porta Ticinese).

Il marchese Carlo Arconati (1750-1816), membro del consiglio comunale di Milano, faceva parte della Congregazione di Carità di Milano. Deteneva in quegli anni un ingente patrimonio immobiliare, il che lo portava a figurare tra i maggiori contribuenti dell’imposta diretta sui terreni. Il cancelliere guardasigilli Francesco Melzi d’Eril, in una lettera al viceré, ne proponeva la nomina al Senato descrivendolo in questi termini: “Quant à l’Olona…j’observerai seulement que parmi les premiers imposès se trouve Arconati Charles”.   La moglie del marchese, Teresa Trotti (1765-1805), aveva fondato con alcune donne della nobiltà la “Società del Biscottino” per dare assistenza alimentare e spirituale ai malati dell’Ospedale Maggiore. I milanesi la definivano ‘congrega del Suss’ o ‘damm del bescottin’.   

Bozzetti satirici da frammenti di storia/3

“La differenza tra l’alzarsi ogni mattino alle 6 o alle 8, nel corso di 40 anni, ascende a 20.200 ore, ossia a 3 anni, 121 giorno (sic!) e 16 ore; il che fa 8 ore al giorno per dieci anni. Onde chi per 40 anni s’alza alle 6 invece delle 8, può dire d’aver nel corso della vita una decina d’anni, nei quali gli sono aggiunte 8 ore di vita al giorno; tempo ragguardevole per coltivare il proprio ingegno, moltiplicare il numero degli affari, arricchirsi, e beneficare insomma maggiormente sé stesso e altrui.

Ma per lo stesso motivo che raccomandiamo l’alzarsi di buon’ora a quegli uomini che possono giovare colla mente o col cuore alla società, desideriamo che poltriscano lungamente nelle piume tutti coloro che la natura o l’educazione o l’ignoranza hanno reso malefici. Quanto maggior numero di tirannie avrebbe esercitato Nerone se si fosse alzato ogni giorno due ore più presto che non fu solito! Perciò Seneca sarebbe stato benemerito dell’impero se, vedendo in quel principe un’irresistibile inclinazione al mal fare, nulla avesse bramosamente cercato quanto d’ispirargli l’amore dell’inerzia e del sonno”.

Silvio Pellico, Il Conciliatore, 13 settembre 1818.

Consigliamo vivamente a Marcello Pera di tornare a fare il filosofo. Sarebbe benemerito dell’Italia quando, constatando in B. un’irresistibile inclinazione a mal fare, impiegasse tutte le sue energie ad ispirargli l’amore per l’inerzia e per il sonno.

In assenza della perversa operosità di B. ci risparmieremmo i continui capricci di belle donnine generosamente aiutate, avremmo in Parlamento una maggioranza diversa da quella spettrale che ci perseguita, diremmo finalmente addio al “governo del fare” e il Capo dello Stato riuscirebbe a formare un governo i cui membri siano provvisti degli attributi per fare uscire il Paese dal baratro in cui si trova, ad ogni costo.

La manovra dei sotterfugi e il paese nel tunnel della crisi

Mentre in Parlamento si continua a discutere sui “miglioramenti” da apportare alla manovra, il governo arranca sotto la sferza implacabile della speculazione internazionale. I vertici incessanti tra i ministri della maggioranza dimostrano che la classe politica ha le idee confuse. Il 18 agosto, sotto l’infuriare dei mercati, il governo aveva approvato all’unanimità un decreto-legge “lacrime e sangue”, un decreto redatto da Tremonti per conseguire un solo obiettivo:  guadagnarsi la prima scialuppa di salvataggio europea, convincere la Banca centrale ad acquistare  titoli di Stato italiani. Era una manovra certamente ingiusta in alcune parti perché chiedeva sacrifici a chi già ne faceva pagando le tasse e le imposte alla luce del sole. La sua approvazione a tempi di record convinse però l’Europa –  compresi i tedeschi – che il governo intendeva perseguire finalmente la strada del risanamento e delle riforme strutturali. Arrivò la prima scialuppa di salvataggio.

Poi è venuta la penosa manifestazione di fine agosto: sindaci e presidenti di province, animati da istanze schiettamente conservatrici, hanno sfilato per il centro di Milano in polemica con la manovra di Tremonti. Risultato? Il governo si è calato le brache ritirando quei (pochi) provvedimenti che avrebbero consentito di risparmiare sul fronte della spesa improduttiva negli enti locali. Addio soppressione delle province e accorpamento dei piccoli comuni.

Non basta. La marcia indietro del governo è continuata quando si è saputo che dalla manovra, approvata in Senato con voto di fiducia, i tagli alla politica sono stati fortemente ridimensionati.  Ricordate gli stipendi dei parlamentari che la prima bozza della manovra – quella del 23 giugno – voleva rapportati alla media di quelli europei? Qualcuno in Parlamento ha introdotto un emendamento con cui si stabilisce che l’indennità deve essere pari alla media dei sei maggiori paesi del Vecchio Continente. Escludendo gli Stati ove i costi della politica sono più bassi, i politici son riusciti ad evitare un taglio di almeno 1.000 euro sui loro stipendi. E le incompatibilità? Sparita la norma che estendeva a tutti gli amministratori locali il divieto di cumulo delle cariche, il divieto di ricoprire il seggio parlamentare è rimasto solo per i titolari di cariche monocratiche negli enti locali e nei comuni con popolazione superiore ai 5.000 abitanti: presidenti di provincia e sindaci. Quindi? Assessori, consiglieri comunali e provinciali potranno ricoprire il seggio di deputato o di senatore cumulando due stipendi pagati ovviamente dalla collettività. L’elenco dei privilegi, soppressi dalla manovra di Tremonti e ristabiliti di nascosto in Parlamento, potrebbe continuare.      

Insomma, quel che è rimasto in questa manovra dalle mille correzioni è la scure – pesante – sui ceti produttivi.  Il regime attuale poggiante su una serie interminabile di burocrazie improduttive è ancora in piedi. E i partiti dell’opposizione che fanno? Abbaiano nel tentativo di conservare la poca credibilità di cui ancora dispongono presso l’opinione pubblica addebitando a Berlusconi e alla sua maggioranza il disastro in cui ci troviamo. Il guaio è che non è colpa (solo) di Berlusconi. E’ il sistema Italia che sta arrivando al collasso. Secondo gli economisti di Citygroup il nostro paese chiuderà il prossimo anno con un arretramento dello 0,3%. Certo, possono sbagliarsi ma il rischio di entrare in recessione è dietro l’angolo.

Nel febbraio 1994, accennando all’irriducibile ostilità della classe politica e burocratica nei confronti delle riforme strutturali del sistema politico economico, il professor Miglio diceva:

La reazione rabbiosa che abbiamo dovuto fronteggiare è dipesa dal fatto che coloro i quali sanno per quali canali più o meno oscuri finiscono nelle loro tasche i danari che godono, la ricchezza che godono, sono prontissimi a capire quando c’è un taglio di quei canali. La costituzione federale è la classica costituzione fatta contro i parassiti. Non c’è nella storia del mondo un paese a regime federale che presenti il grado di corruttela di cui siamo oberati noi oggi. D’altra parte la reazione dei politici è anche comprensibile. Perché sono centralisti e anti-federalisti e tirano fuori le icone come la Patria che piange perché viene minacciata nella sua integrità. Perché centralismo e parassitismo sono due facce della stessa medaglia. Io devo scusarmi con voi se uso il termine “pidocchi” ma cosa volete farci…. il paese che siamo chiamati a cercar di cambiare è fatto così. E’ un paese ammalato da un esercito di pidocchi“.

Il professore venne deriso, attaccato da più parti con l’accusa di razzismo se non addirittura di demenza senile.Colpisce invece l’attualità di quel discorso. Il guaio è che, ora come nel 1994, l’Italia manca di una classe politica responsabile disposta a riforme radicali e impopolari per il bene del Paese: riforme che portino a una riforma integrale della Costituzione repubblicana in senso confederale e semipresidenziale. Berlusconi e Bossi hanno fallito. Il centro sinistra ha fallito. Non occorre stupirsi: quale politico di professione metterebbe a rischio la carriera politica limitando un sistema da cui trae tanti privilegi?

E’ di poche ore la notizia che il rappresentante tedesco del comitato esecutivo della Banca centrale europea, Jurgen Stark, ha rassegnato le dimissioni perché non condivide la politica di Francoforte a sostegno dei paesi in difficoltà: Grecia, Spagna e Italia. I tedeschi si chiedono perché dovrebbero aiutare paesi le cui burocrazie continuano a dilapidare i loro aiuti nella spesa pubblica improduttiva.

E’ un bel guaio. Senza scialuppe di salvataggio, è probabile che il Titanic Italia affonderà sotto le onde implacabili della speculazione internazionale. Qualora si configurasse tale scenario, sarebbe la fine dell’Euro o, a dir meglio, arriverebbe al capolinea l’Europa monetaria allargata ai Paesi più esposti alla speculazione internazionale (Spagna, Italia, Grecia, Portogallo).

Non è detto che questo sia un male per gli italiani: lasciati soli nel tunnel di questa crisi economica e politica, obbligati a resistere dalla dura lotta per l’esistenza, forse sapremo trovare con determinazione la via d’uscita fondando un nuovo regime vaccinato da ogni parassitismo.

Usciremo dal tunnel della crisi solo se avremo il coraggio di metterci radicalmente in discussione.

Il “Piemontesino”, un giovane annegato in un ‘gorgo’ del naviglio e due fittabili derubati all’osteria

Sotto la data 2 agosto 1821 il canonico Luigi Mantovani riportava nel suo diario alcune notizie della Milano austriaca che potremmo ricondurre ai fatti di cronaca.


Un ‘famoso’ malvivente, conosciuto come “Piemontesino”, venne arrestato dai gendarmi nel “casotto” dell’Ospedale Maggiore. Il Mantovani si riferiva al “cassinotto” della Cà Granda, un edificio assai rustico che occupava una parte dell’attuale largo Richini, davanti all’Università Statale nel sestiere di Porta Romana. Il “cassinotto” venne demolito nel 1848 dagli insorti delle cinque giornate di Milano, che ne utilizzarono il materiale per costruire le barriccate.

Il secondo avvenimento della giornata riguardava l’annegamento di un giovane nelle acque del Naviglio nel sestiere di Porta Ticinese, il che mostra assai bene come le acque dei navigli fossero un tempo assai profonde.

La terza notizia era la più curiosa. Riguardava due fittabili che furono derubati da un ladro il quale poté agire ‘indisturbato’ grazie alla complicità di un oste. I fittabili erano imprenditori agricoli che gestivano proprietà terriere di dimensioni spesso notevoli. Nei territori della bassa pianura padana erano legati ai proprietari da un contratto di affitto di durata novennale. La gestione dei terreni con metodi imprenditoriali consentì ai fittabili di costituire autentiche aziende agricole dalle quali ricavare elevati margini di guadagno. Non stupisce che fossero presi di mira da ladri e malfattori.

“2 agosto 1821

Ieri mattina al così detto casotto vicino all’ospitale fu preso da travestiti giandarmi (sic!)  un ladro detto il Piemontesino, che aveva sotto un abito assai pulito due pistole ed un coltello.

Ieri dopo pranzo alla Madonna fuori Porta Ticinese, di tre giovinotti che nuotavano nel Naviglio uno fu involto in un gorgo, e non si è potuto aiutare. Egli ha 20 anni ed è impiegato del governo.

Al mezzogiorno due fittabili, che in vista d’un birbante avevano venduto del frumento [qui il Mantovani intende dire che il birbante li vide mentre vendevano il frumento, NdR], entrarono in un bettolino per bevere (sic!) un boccale di vino. L’oste disse: “Per dargli del meglio vado a cavarlo”. Lo sparire dell’oste, e entrare un birbante fu un momento. Questi con pistola alla mano investì i due seduti fittabili, e non comparendo mai l’oste, dovettero dare al birbante alcuni scudi. Fu arrestato l’oste, perché creduto connivente, non essendo rinvenuto dalla cantina, se non dopo sparito il birbante”.


L. MANTOVANI, Diario politico ecclesiastico, a cura di Paola Zanoli, Roma, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, vol.V, pag. 265.

Le mani nelle tasche degli italiani e i cattivi della finanza internazionale

I nostri politici promettono riforme epocali con progetti di mutamento costituzionale che si rivelano per quello che sono: penosi ritocchi a un sistema che continuerà a fare acqua da tutte le parti.

Fino a poche settimane fa Berlusconi assicurava che non avrebbe messo le mani nelle tasche degli italiani. La manovra finanziaria approvata dal Parlamento in tempi di record non solo autorizza lo Stato a metterle quelle mani, ma sembra perfino strappare ai cittadini  le tasche in cui ripongono i loro risparmi. E Berlusconi che fa? Tace.

Nel frattempo la classe politica attestata in Parlamento (di centro-destra e di centro-sinistra) non riesce a staccarsi da un sistema che consente i vergognosi privilegi di cui gode.
Il progetto costituzionale presentato da Calderoli è insufficiente perché costituisce in buona parte la riesumazione della riforma approvata dal centro-destra nel 2005 e bocciata dagli italiani con referendum nel 2006.

A quanto sembra, “i cattivi ragazzi della finanza internazionale”- come li ha ben definiti Giuseppe Turani in un suo interessante editoriale – dovranno bastonare ulteriormente l’Italia per far rinsavire i nostri politici.

Mentre è guerra tra Porcellum e Mattarellum si avvicina l’ora X delle grandi riforme per il Paese


La legge elettorale che ci troviamo tra i piedi è volgarmente conosciuta come Porcellum grazie a un fortunato articolo di Giovanni Sartori che ebbe a coniarla con questa curiosa espressione dopo che il suo estensore, il ministro Roberto Calderoli, non aveva esitato a definirla una “porcata”. La legge non è certamente un modello di democrazia. Due i tratti distintivi che l’hanno resa indigeribile allo stomaco forte degli italiani, i quali – com’è noto – digeriscono (quasi) tutto. Anzitutto il premio di maggioranza pari al 55% dei seggi con cui alla Camera dei Deputati viene favorita la coalizione che ha riscosso il maggior numero di consensi. Nessuno avrebbe alcunché da obiettare se tale coalizione avesse una maggioranza del 51% degli elettori. Il guaio è che il premio scatta in favore di alleanze tra partiti che, pur avendo raggiunto il 40%, il 30% o addirittura il 20% dei voti, costituiscono non già la maggioranza, ma una minoranza ancorché fortissima; una legge che consente ai partiti che sono minoranza nel paese la maggioranza assoluta dei seggi nella Camera dei Deputati è scarsamente compatibile con un regime democratico. Diversa la composizione del Senato, regolato da premi di maggioranza su base regionale. In fondo, la filosofia che sorregge il Porcellum non è molto diversa da quella della legge Acerbo del 1923: promossa per volontà del presidente del consiglio Benito Mussolini in regime non ancora fascista, assegnava il 66% dei seggi alla lista che avesse conseguito il 25% dei voti. Come si vede, cambiano le percentuali ma la filosofia resta la stessa. I partiti – di tutti i colori – non hanno mai cessato di fabbricarsi una legge elettorale tesa ad agevolare la loro marcia per la conquista e la conservazione del potere.

Attualmente sono due gli schieramenti che raccolgono le firme per indire un referendum abrogativo contro la legge vigente. Sono alquanto popolari perché navigano con andatura di poppa grazie al forte vento della partecipazione popolare che è spirato negli ultimi mesi, Del primo fanno parte i “paladini dell’alternanza”: si tratta di un gruppo composto in larghissima parte di esponenti del centrosinistra, da Arturo Parisi a Sofia Ventura, da Antonio Di Pietro a Nichi Vendola. Hanno le idee abbastanza chiare. Intendono ristabilire la normativa precedente al Porcellum, il Mattarellum, denominazione anch’essa di conio sartoriano risalente al suo inventore Sergio Mattarella. Questa legge, che nel nostro paese ha regolato le elezioni politiche dal 1994 al 2005, distribuiva i seggi di Camera e Senato in forza di un meccanismo che per il 75% era informato al sistema uninominale a un solo turno in piccoli collegi (passa il candidato che ha ricevuto i maggiori consensi sul modello inglese) e per il restante 25% da un sistema proporzionale a liste bloccate redatte in via esclusiva dalle segreterie di partito. In altri termini il voto di preferenza dei cittadini, previsto nelle schede dell’uninominale, era limitato dal “proporzionale” a liste bloccate. Si diceva che tale legge avrebbe assicurato stabilità con l’elezione diretta del premier e l’alternanza tra due schieramenti. Come ben previde a suo tempo Giovanni Sartori, i fatti smentirono ampiamente tali  teorie.

I promotori del Mattarellum ritengono che tale legge sia positiva per tre ragioni. Anzitutto perché reintroduce l’importante voto di preferenza. In secondo luogo perché la ristretta dimensione dei collegi uninominali lega maggiormente i candidati ai territori vietando la possibilità di presentarsi contemporaneamente in più collegi. In terzo luogo perché il sistema cosiddetto maggioritario determinerebbe una maggiore tenuta del bipolarismo, il sistema politico fondato sull’alternanza al potere di due schieramenti contrapposti ritenuto fondamentale per la stabilità del Paese. 

Sul primo punto è lecito nutrire alcuni dubbi, visto che il voto di preferenza riguarda solo il 75% dei collegi uninominali dai quali dipenderebbe l’elezione di gran parte del Parlamento. Non si capisce per quale motivo i promotori del Mattarellum, decisi ad abrogare il Porcellum perché antidemocratico, vogliano reintrodurre una legge che, sia pure per il 25% dei seggi, prevede la conservazione delle liste bloccate fatte dai partiti. Se questi sono i democratici che si oppongono al berlusconismo, stiamo freschi. Quanto al secondo punto nulla da obiettare, anche se l’uninominale secco a un turno non mi sembra un procedimento rispettoso delle minoranze, non foss’altro perché vincerebbe qualsiasi candidato abbia riscosso una percentuale di consensi inferiore alla maggioranza assoluta degli elettori (51%). E’ vero che tale sistema funziona bene in Inghilterra, ma questo non è un buon motivo per importarlo in Italia. Il bipartitismo anglosassone, che ha dato buona prova in un sistema di antica unità, non si attaglia al nostro Paese irriducibilmente policentrico, innervato di tradizioni storico culturali, interessi economici e politici troppo diversi per essere ridotti a due partiti o schieramenti contrapposti. Sulla presunta alternanza e governabilità garantite dal Mattarellum, basta confrontare il numero di elezioni con il numero dei governi formati tra il 1994 e il 2005 per accorgersi come tali traguardi siano stati clamorosamente mancati: tre elezioni politiche (1994, 1996, 2001) alle quali si son succeduti sei governi (Berlusconi I, Dini, Prodi, D’Alema, Amato, Berlusconi II).

Il secondo gruppo di oppositori al Porcellum, lungi dal desiderare il Mattarellum, punta ad emendare con referendum abrogativo i tratti più antidemocratici della legge vigente lasciandone invariato l’impianto “proporzionale”. In sostanza vorrebbero tornare alla “Prima Repubblica”, anche se – dell’attuale legge in vigore – resterebbe la clausola di sbarramento al 4% estesa a tutti i partiti. A questo secondo gruppo, animato dal senatore Stefano Passigli e sostenuto dal leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, hanno aderito uomini di cultura come Valerio Onida, Giovanni Sartori, Enzo Cheli, Claudio Abbado. Non è scorretto definirli “i conservatori della Prima Repubblica” perché vorrebbero una legge elettorale con i seguenti requisiti: 1. abolizione del premio di maggioranza  2. reintroduzione del voto di preferenza. 3. divieto ai partiti di unirsi in coalizione; 4. abolizione della norma che prescrive l’indicazione sulla scheda elettorale del candidato premier. Relativamente a ques’ultimo punto, si oppongono all’elezione diretta del presidente del consiglio perché darebbe al nostro ordinamento, formalmente parlamentare, le sembianze di un semi-presidenzialismo non previsto dalla Carta del 1948.

Bisogna riconoscere che il secondo gruppo è mosso da istanze autenticamente democratiche, certamente più vicine alla complessa realtà italiana di quanto non siano i “paladini dell’alternanza”. L’abolizione del premio di maggioranza e la  p i e n a  reintroduzione del voto di preferenza sono proposte condivisibili, ispirate a un maggiore rispetto del voto popolare nella composizione degli organi di rappresentanza e di governo. Qualcuno potrebbe affermare che, senza il premio di maggioranza, torneremmo all’instabilità della Prima Repubblica. E’ un’obiezione palesemente infondata: se i governi – allora come oggi – cadevano dopo pochi anni, questo era dovuto non già alla legge proporzionale, ma alla mancanza nella Costituzione di clausole tese ad assicurare la governabilità. In Germania la sfiducia costruttiva consente esecutivi tendenzialmente stabili, obbligando il Bundestag a dimettere il governo con una maggioranza che sia concorde nell’indicare il nuovo cancelliere. In Francia, ove vige una forma di governo semi-parlamentare, l’assemblea elettivo-rappresentativa  può sfiduciare la parte collegiale del governo (premier e ministri), non il presidente della repubblica titolare del potere esecutivo; quest’ultimo, eletto direttamente dai francesi, detiene peraltro il delicato potere di scioglimento delle camere.

I punti deboli della proposta Passigli sono essenzialmente due: il divieto di formare coalizioni di partiti e il rifiuto dell’elezione popolare del premier, ritenuta incostituzionale. Su quest’ultimo punto i “conservatori della Prima Repubblica” hanno ragione a giudicare scarsamente conciliabile con la forma di governo parlamentare una legge elettorale (sia essa il Porcellum o il Mattarellum) che consente l’iscrizione del candidato premier nella scheda elettorale. Credo tuttavia che i benefici di un’elezione diretta del premier siano senz’altro positivi perché spingono i partiti ad unirsi sulla base di programmi sottoposti al controllo dei cittadini. 

Il problema dell’Italia è la diffusa convinzione che il principio dell’alternanza – principio basato sul sistema politico bipolare – sia un bene per il Paese e non debba in alcun modo essere abbandonato. Hanno ragione i “conservatori della Prima Repubblica” quando sostengono che il bipolarismo di questi ultimi vent’anni sia stato un male per il Paese. Il problema non si risolve tuttavia cambiando unicamente il Porcellum. La “Prima Repubblica” ha sofferto mali peggiori: governi di breve durata, frequenti elezioni, perenne instabilità, politiche economiche irresponsabili. L’unico punto di forza del sistema politico anteriore a Tangentopoli risiedeva nel metodo di concertazione tra i maggiori partiti che sedevano in Parlamento e formavano il governo. Occorre recuperare quel metodo, oggi quanto mai necessario per far dialogare le varie parti del Paese. Ma un governo di larghe intese, sottoposto al controllo dei cittadini, che possa durare una legislatura per affrontare serenamente i problemi del Paese con adeguati strumenti legislativi, può essere ottenuto a mio giudizio con un mutamento della forma di governo parlamentare. Alcuni storceranno il naso ma sessantacinque anni di parlamentarismo hanno dimostrato assai bene come la classe politica italiana sia rimasta in gran parte lontana dall’etica del servizio ai cittadini. Com’è possibile allora conciliare la governabilità con l’esigenza di aprire il governo alle principali forze politiche radicate nelle varie aree del Paese?  

Credo che le soluzioni più opportune siano essenzialmente due, alle quali dovrebbero accompagnarsi riforme radicali che oltrepassano il tema della legge elettorale. Anzitutto occorre inserire nella nostra Costituzione un articolo che introduca un meccanismo di sfiducia costruttiva ancor più rigoroso rispetto a quello vigente in Germania. La sfiducia costruttiva, completamente assente nella nostra Costituzione, andrebbe rafforzata per evitare i colpi di mano dei parlamentari ai danni del governo. La maggioranza qualificata del Parlamento (2/3 dei membri) dovrebbe sfiduciare l’esecutivo a due condizioni: essa sarebbe tenuta ad indicare un candidato premier e, in caso di approvazione della mozione di sfiducia,  lo scioglimento dell’assemblea dovrebbe essere immediato. In tal caso si andrebbe ad elezioni anticipate e gli italiani sarebbero chiamati non solo a rinnovare il parlamento, ma ad eleggere direttamente il presidente del consiglio scegliendo tra il premier sfiduciato e il candidato proposto dall’assemblea. 

La seconda riforma di cui avrebbe bisogno il nostro Paese riguarda la separazione netta tra il governo e il parlamento: chi siede nell’assemblea non dovrebbe mai far parte dell’esecutivo e lo stesso dovrebbe valere per chi esercita funzioni di ministro. In tal modo si taglierebbero alla radice quei conflitti di interesse che spesso decidevano la sorte dei governi nella “Prima Repubblica”. Tale  riforma, come ho già accennato poco sopra, presuppone il cambiamento della forma di governo parlamentare. Non credo che il presidenzialismo statunitense o il sistema semi-parlamentare francese siano adatti al nostro Paese. Credo invece che una forma di governo direttoriale possa conciliare nel modo migliore le diverse Italie in cui il Paese è da sempre articolato.  

L’introduzione di una forma di governo non parlamentare, direttoriale per l’appunto, non può andar disgiunta dall’altra grande riforma clamorosamente mancata nel nostro Paese: il mutamento della forma di Stato. La Repubblica Italiana, una e indivisibile, unitaria e parlamentare, dovrebbe essere sostituita da una Confederazione di tre Repubbliche (Nord Italia, Centro Italia, Sud Italia) governata da un Direttorio composto dai Governatori dei tre Stati italiani (eletti dalle rispettive popolazioni) e da un presidente federale eletto direttamente dai cittadini italiani in due tornate. Composto di poche persone (5 o al massimo 7 direttori), il governo federale sarebbe in grado di esercitare le sue funzioni in modo rapido e incisivo nel rispetto del pluralismo politico territoriale in cui il Paese è articolato da sempre e sotto gli occhi di tutti. In questo modo, trasferendo larga parte delle funzioni politiche e amministrative oggi gestite dal governo nazionale a poteri pubblici territorialmente estesi e soggetti al controllo dei cittadini, sarà possibile conciliare la governabilità con il rispetto rigoroso del pluralismo politico territoriale. I governi delle tre Repubbliche italiane sarebbero anch’essi a forma direttoriale composti dal  Governatore e dai presidenti delle attuali Regioni. 

Un cambiamento di tale portata, che comporterebbe la riforma pressoché integrale della Costituzione repubblicana,  può essere fatto solo in circostanze drammatiche. La situazione critica in cui versa l’Italia dovrebbe spingere gli italiani a (ri)scoprire un modello di convivenza poggiante sul ruolo basilare del pluralismo territoriale. Il che è poi la sostanza del federalismo che, come ci insegnava Gianfranco Miglio, lungi dal fondare l’Unità, tende per sua natura a tutelare e a gestire le diversità. 

Silvio lascia ad Angelino il Pdl, nave “sanza nocchiero in gran tempesta”

Il Cavaliere ha annunciato che alle prossime elezioni politiche non sarà il candidato premier per il Popolo della Libertà. E’ significativo che abbia manifestato tale decisione nel corso di un’intervista concessa a “La Repubblica”, il quotidiano che, or son quasi due anni, non esitò ad attaccare invitando gli industriali a boicottarne i finanziamenti. Cambiando radicalmente strategia, come d’altra parte è suo costume, il Cavaliere sceglie il giornale diretto da Ezio Mauro per dare al pubblico una notizia che i suoi “delfini” attendevano con trepidazione. L’obiettivo è facilmente intuibile: risollevare il centro-destra dal tracollo subito nelle ultime prove elettorali.
Vien da chiedersi se l’investitura di Angelino Alfano a segretario del partito sia sufficiente a raddrizzare la barca del centro-destra. Il ministro della giustizia è uomo brillante, capace, profondamente versato nel campo della giurisprudenza; senza dubbio la persona che ha dimostrato in questi anni di servire il padrone senza “se” e senza “ma”. Tali doti, che hanno consentito ad Alfano una scalata fulminea ai vertici del partito, rischiano tuttavia di essere osteggiate dall’elettorato; un elettorato, come dimostrano i risultati dei referendum, che anche nel centrodestra ha mostrato di rigettare le logiche oligarchiche di una politica abissalmente lontana dal paese. Insomma, un uomo come Alfano, che ha servito gli interessi di Berlusconi con tanta fedeltà e pervicacia, ben difficilmente potrà rappresentare la spinta al cambiamento che i cittadini si aspettano.

Ricorrendo a una metafora eminentemente politica, nel Pdl nessuno sembra essersi accorto che, uscito di scena Berlusconi, c’è ancora un cadavere da sotterrare: il berlusconismo.

Il burattino di Pontida

Berlusconi regge con la maggioranza che è riuscito a coagulare intorno a sé, in un modo o nell’altro. Bossi risponde: “nulla è scontato”. Da dieci anni il Senatùr è un burattino che cerca di nascondere la mano di chi lo muove.

Pontida e i “penultimatum” della Lega

Non c’è che dire. Il cielo azzurro, il sole sfolgorante e il soffio di una dolce brezza di montagna hanno portato bene a quanti hanno trascorso il fine settimana al mare o in montagna. Ha portato male ai leghisti di Pontida, i quali si aspettavano di festeggiare il bel tempo con l’imminente caduta del governo Berlusconi ad opera di Umberto “il Giustiziere” e invece son rimasti a bocca asciutta. Hanno masticato amaro quanti speravano in un gesto risolutivo.

Il capo e i colonnelli ce l’hanno messa tutta per convincere la folla che la Lega di lotta non è ancor spenta. Musiche tratte dal film Braveheart, la voce tonitruante di uno speaker esaltato, parole di sostegno nei confronti degli artigiani e degli allevatori, promesse di riscrittura del patto di stabilità per consentire ai sindaci dei Comuni virtuosi di poter spendere le risorse accumulate in anni di buona amministrazione. Peccato che una parte della base, stufa di esser presa in giro dopo anni di bugie sul “federalismo fiscale”, non ne voleva sapere di false promesse.

La novità stava tutta in un foglietto distribuito ai militanti che nelle intenzioni degli organizzatori doveva suonare come un ultimatum all”amico Berlusconi’ e all”amico Giulio’. Intendiamoci. Un partito ridotto ormai a una larva se non alla caricatura della Lega dei primi anni Novanta, più che ultimatum oggi può rivolgere timide suppliche al principe di Arcore. Nulla di strano se un giorno si scoprisse che le richieste da “penultimatum” sono frutto di una stesura a tavolino tra l’amico Silvio, l’amico Giulio e il club ristretto Bossi-Calderoli-Maroni-Castelli in uno degli ultimi vertici di Arcore. Un programmino, quello contenuto nel “penultimatum”, di cui presto non si sentirà parlare che in qualche osteria della fascia pedemontana tra Como e Treviso. Insomma, chi sperava nel botto – la rottura con Berlusconi –  è rimasto deluso. Eppure, bastava leggersi il bel volume di Leonardo Facco, Umberto Magno. La vera storia dell’imperatore della Padania (Reggio, Aliberti 2010), per capire cosa sia diventata la Lega in quest’ultimo decennio.

Tra le varie richieste presentate a Berlusconi, il Senatùr ha rilanciato il tema dello spostamento dei ministeri da Roma. “Tre dicasteri a Monza, uno a Milano” ha detto Bossi rivolgendosi alla folla dei suoi aficionados. Intendiamoci. Di quali uffici si tratti nello specifico, nulla è dato sapere. L’unica certezza è che alcune scrivanie del suo ministero “senza portafoglio” (quello “per le Riforme e per il Federalismo”) verranno trasferite nella Villa Reale di Monza.

Diciamo la verità. Ieri si son viste le comiche. Il Capo e Calderoli, assisi sul palco, mostravano alla folla la targa sfolgorante del nuovo ministero brianzolo portata da un inebetito quanto ossequiente sindaco di Monza; il quale, atteggiandosi con un certo spirito di sudditanza e devozione nei confronti del Capo, ha perfino estratto dal cilindro la chiave che – stando alla sue parole – consente l’accesso alla Villa Reale; una vera e propria chiave magica destinata ad aprire le decine di porte del maestoso edificio.

Già mi par di vedere rigirarsi nella tomba l’arciduca Ferdinando d’Austria figlio dell’imperatrice Maria Teresa, che nella seconda metà del Settecento riuscì a convincere la madre a finanziare la costruzione della magnifica reggia nella campagna brianzola. Mi chiedo: come può la villa costruita dal grande Piermarini ove vissero arciduchi e arciduchesse, viceré e viceregine, re e regine, simbolo del potere politico di un potente Stato regionale nel Nord Italia, come può esser ridotta a misera dépandance di un ministero romano, per giunta “senza portafoglio”? Misteri della politica, enigmi dell’oscurità bossiana.

La morale è che il decentramento dei ministeri sarà l’ennesima boutade destinata ovviamente a non essere realizzata. Peccato. Tale proposta, se inserita in un piano di riforma autenticamente federale, non sarebbe poi così campata per aria. Negli Stati federali gli uffici dei dicasteri sono diffusi sul territorio. La ragione è presto detta. In un ordinamento federale non esiste la concentrazione del potere nella Capitale, perché in una Federazione le Capitali sono molte e diverse, come molti e diversi sono gli Stati membri del patto confederale. Il guaio è che la proposta leghista, nei termini in cui è stata formulata, ha l’aria di una richiesta improvvisata, buttata lì per non deludere i militanti. Una proposta in fin dei conti assai poco credibile. Come si può pensare di concentrare a Monza tre dicasteri? Che senso può avere? Monza merita forse tanta importanza rispetto alle altre città del Nord Italia e della penisola? Perché non pensare invece di spostare alcuni ministeri nelle città che furono un tempo antiche Capitali di Stati regionali? Milano, Torino, Venezia, Parma, Modena, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Palermo? Lo scrissi su questo blog or è quasi un anno. 

Eppure, a sentir le reazioni del sindaco dell’Urbe Gianni Alemanno, della governatrice del Lazio Renata Polverini, del leader dell’Italia dei Valori Antonio Di Pietro e di buona parte della sinistra, sembra che il federalismo sia estraneo alla cultura di questo Paese. A me sembra che molto debba ancora esser fatto. La ragione suggerisce di essere ottimisti. La lezione dei fatti italiani – come direbbe Machiavelli – induce a un moderato pessimismo.

Blog di storia, cultura, scienza politica, filosofia politica

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