Angela Von Merkelnich e il rischio di un nuovo ’48 europeo

Pochi giorni fa il cancelliere Angela Merkel ha sostenuto, in polemica con il candidato all’Eliseo Holland, che il patto fiscale Ue 25 non e’ negoziabile.

La Germania sembra terribilmente l’Impero austriaco uscito dal Congresso di Vienna del 1814-1815. Nella prima meta’ dell’Ottocento gli austriaci ostacolarono qualsiasi cambiamento della situazione geopolitica europea e ci volle la rivoluzione parigina del 1830, l’indipendenza del Belgio, il ’48 scoppiato in tutta Europa per mostrare i limiti di una politica conservatrice.

Oggi i panni dell’Impero austriaco sembrano essere assunti dai tedeschi
che paiono recitare molto bene la parte dei gendarmi di un’Europa burocratica e divisa; essi mostrano con i fatti di ostacolare l’unione politica europea: si veda a tal proposito la ferma, ostinata, inflessibile opposizione della Germania all’emissione degli Euro-Bond per far fronte alla crisi dei debiti sovrani.

Insomma, vorremmo sbagliarci ma sembra che per il cancelliere Angela Von Merkelnich l’Europa debba restare un’espressione geografica, un continente la cui economia sia dipendente e subordinata agli interessi geo-politici della Germania.

Urge una vera riforma federale non solo in Italia, ma ancor più in Europa. Altrimenti, tanto vale che ciascun Paese torni alla sua moneta.

O l’Europa si costruisce su basi autenticamente federali con la partecipazione delle popolazioni alle decisioni politiche oppure l’Europa si sfaldera’ in modo piu’ o meno pacifico.

I due capponi chiamati a fare pulizia nella stalla Lega

Il Senatùr, Calderoli e Maroni si ergono a giustizieri, a vendicatori dei militanti leghisti umiliati e offesi dalle male azioni del Cerchio Magico. E’ lecito nutrire qualche dubbio sulla serietà delle loro intenzioni. I primi due, agendo di concerto con altri figuri più o meno famosi, da tempo sono stati decisivi nel rendere la Lega una porcilaia. Maroni sembra essere l’unica persona credibile ma pesa sul suo conto un inquietante interrogativo. Ci chiediamo come sia riuscito in questi anni a trovarsi a suo agio in mezzo alla sporcizia che ora promette di spazzare via.

Il numero uno della Lega, il principale responsabile di ogni azione politica ed economica del movimento, Umberto Bossi, è ancora lì. Nessuno ha avuto il coraggio di toccarlo. Si è dimesso – è vero – ma i vertici (che dipendono da lui e dai suoi sodali) lo hanno subito nominato Presidente del partito. Maroni e i suoi sostengono la tesi che il Senatùr sia stato raggirato da un pugno di disonesti senza scrupoli. Il guaio è che i disonesti sono stati piazzati in Lega dall’Umberto, il quale ha sempre agito con la sua ristretta équipe di fedelissimi e fedelissime (cerchisti e non cerchisti). E’ una storia – questa del povero Bossi raggirato e preso in giro dai furbi – che può reggere per i militanti affezionati alla storia del Senatùr, per gli attivisti resi ciechi dalla fede nei poteri salvifici del Capo o – a dir meglio – di quel che resta del Capo. L’elettorato leghista e filo-leghista (che costituisce forse il 70% dei voti pro-Lega) difficilmente crederà a questa favoletta.

La verità – come sempre in politica – è assai più rude e semplice. Senza l’intervento della Magistratura, Maroni e Calderoli non si sarebbero mai sognati di fare i purificatori. Se gli scandali del partito non li avessero costretti a mascherarsi da moschettieri del re Umberto “puro e incorruttibile”, sarebbero ancora lì a razzolare nell’aia beccandosi come i capponi di Renzo.

Il destino della Lega? Affondata in un Belsito…

Le indagini della magistratura a carico dell’ex tesoriere della Lega Francesco Belsito, accusato di appropriazione indebita, truffa ai danni dello Stato, riciclaggio di denaro sembrano portare alla luce un sistema spaventoso di malversazione ai danni della collettività. Attenderemo il processo e la sentenza della magistratura per capire le responsabilità di ciascuna persona in questa squallida vicenda.

Ha ragione Matteo Salvini a denunciare l’intervento ad orologeria della Magistratura. Ma non è colpa di nessuno se il suo partito è al centro da settimane di indagini su presunti giri di tangenti e malversazioni. Se la Lega fosse un partito gestito con onestà e trasparenza, se i politici della Lega fossero onesti e trasparenti, i magistrati non sarebbero costretti ad occuparsi di loro.

Montanelli diceva: “gli italiani hanno lo stomaco forte: digeriscono tutto”. Un giudizio non proprio calzante per l’elettorato leghista, da sempre accusato di essere poco sensibile all’italianità. Vedremo alle prossime elezioni come reagiranno i militanti leghisti e i cittadini dell’area pedemontana che hanno votato per anni il Carroccio. Continueranno a turarsi il naso dinanzi al puzzo nauseante che esala da via Bellerio o faranno affondare un partito che serve ai Bossi per sistemare i loro famigli more italico

In effetti fa rabbrividire l’accusa che una parte dei fondi pubblici destinati all’attività del partito sarebbe stata impiegata da Belsito per le spese personali di Rosy Mauro e della famiglia Bossi, come d’altra parte non cessano di stupire (in negativo) le rivelazioni di Luigi Lusi, ex tesoriere della Margherita, in merito alla discutibile gestione finanziaria di quel partito. I leader politici pensano di cavarsela scaricando le colpe sui tesorieri. Non è un comportamento corretto. Abbiano la dignità di dimettersi, ammettano di essere responsabili nella gestione clamorosamente superficiale del partito, riconoscano il loro peso nella nomina di determinati figuri ai vertici del movimento.

E’ inutile che Bossi faccia finta di cascare dal pero. Se fosse un uomo politico responsabile, si sarebbe dimesso. Questo tuttavia non avverrà perché dietro il Senatùr c’è il codazzo dei familiari (in senso stretto e allargato) che non solo gli devono la carriera, ma soprattutto – come avviene per tutti i partiti incistati nel sistema – sono titolari – grazie alla Lega – delle rendite politiche nei vari posti dell’amministrazione centrale e locale. Senza Bossi dove andrebbero i tanti aiutanti che si nascondono dietro la sua persona ormai provata dalla malattia? Da almeno un decennio la Lega si è trasformata cambiando la sua natura: da partito del Nord a Roma è diventata un partito romano radicato al Nord.  

 E’ innegabile che la vicenda Belsito non mancherà di pesare sull’elettorato della Lega alle prossime elezioni. Il Carroccio potrebbe subire un drastico calo di consensi. Non si può escludere neppure che il partito di Bossi finisca per implodere.   

Occorre tuttavia rilevare che la battaglia per l’autonomia delle Regioni padane, per una riforma radicale dello Stato italiano in senso autenticamente federale, è ben lungi dall’essere destinata al fallimento. Nel Nord Italia e nel Centro Italia la crisi economica sembra rafforzare i movimenti indipendentisti che, presenti ormai da tempo sul territorio, paiono destinati ad ereditare – sia pure in parte – il bacino elettorale intercettato dal Carroccio. Sono movimenti che si rifanno al programma originario della Lega, quel programma che Gianfranco Miglio aveva mirabilmente condensato nel decalogo di Assago (1993). Per questa ragione le elezioni amministrative potrebbero riservare nuove sorprese, soprattutto nell’Italia padana.

Riforma del lavoro: che intenzioni ha il governo Monti?

L’economia italiana e’ costituita per il 90% da piccole e medie imprese; l’Italia appartiene al gruppo dei paesi più sviluppati, come Francia e Germania. 


Diversamente da Francia e Germania, abbiamo salari molto bassi e contratti che si vorrebbero far somigliare sempre piu’ a quelli dei paesi in via di sviluppo. Cosa fa il governo? Anziché ridisegnare i contratti di lavoro tutelando la dignità dei lavoratori come avviene in Francia e Germania, intende modificare l’art.18 mettendo a repentaglio uno dei pilastri su cui poggia il diritto del lavoro. Bel modo di garantire il futuro ai giovani!

Non condivido la difesa del contratto nazionale da parte dei sindacati, essendo necessario a mio giudizio che il lavoro venga affrontato in un quadro federale con contratti rapportati al diverso costo della vita nelle aree metropolitane e nei territori dell’Italia padana, centrale e meridionale.

Sulla difesa del’art.18 sono pero’ d’accordo con la CGIL.

I fondamenti del vero federalismo secondo Gianfranco Miglio

Questo articolo è uscito sul quotidiano online L’Indipendenza

Quali sono per Gianfranco Miglio i fondamenti di un vero regime federale? Nell’introduzione al volume Federalismi falsi e degenerati (Milano, Sperling&Kupfer 1997), Miglio elencava con grande chiarezza i pilastri su cui deve poggiare un regime fondato su un patto costituzionale in grado di salvaguardare e conciliare l’irriducibile diversità dei territori. Le vere Costituzioni federali sono quelle in cui:
“a) il federalismo è interno al sistema politico e ne costituisce l’asse portante”.
In tutti i sedicenti sistemi “federali” (Germania, Stati Uniti) o quasi “federali” è la prima Camera a rivestire un ruolo politico decisivo nella legislazione e – nei regimi parlamentari – a controllare il governo dandogli o togliendogli la fiducia. La Camera dei rappresentanti statunitense, il Bundestag tedesco sono collegi in cui dominano i grandi partiti “nazionali”, in cui i parlamentari sono eletti direttamente dal “popolo sovrano”. Quelli per Miglio erano falsi sistemi federali perché il federalismo tende ad essere confinato in una seconda camera (Bundesrat in Germania, Senato negli Stati Uniti) che ha uno scarso potere di controllo nei confronti del governo centrale. Se il federalismo deve essere l’asse portante del sistema, questo significa che per Miglio la Camera politica, quella in grado di controllare il governo federale deve essere l’assemblea in cui siedono i rappresentanti delle maggiori Comunità territoriali in cui si articola la Federazione. Nel modello costituzionale di Miglio l’Assemblea federale sarebbe formata dalla riunione periodica delle Diete (Parlamenti) delle tre Repubbliche i cui membri verrebbero eletti dalle rispettive popolazioni: 100 deputati dalla Padania, 100 dal Centro Italia, 100 dal Mezzogiorno. A questi 300 deputati si aggiungono i delegati dei Consigli delle 5 Regioni a Statuto speciale: 15 deputati siciliani, 10 sardi, 10 friulani, 6 dal Trentino Alto Adige/Sud Tirolo, 5 dalla Valle d’Aosta. In tutto 346 deputati con un taglio di 284 parlamentari rispetto ai 630 del nostro ordinamento.


“b) i poteri di governo e amministrazione sono distribuiti (e costituzionalmente garantiti) su almeno due livelli territoriali: Cantoni e Federazione.
La netta separazione di funzioni tra potere centrale e poteri locali era basilare per Miglio. Questo non accade nei falsi federalismi che si sono accennati. Ad esempio la Costituzione tedesca, quantunque stabilisca una separazione di funzioni tra Bund e Länder, non è stata in grado di evitare il netto prevalere dello Stato centrale nella legislazione e – in diversi casi – nella stessa amministrazione, un intervento reso necessario in Germania per assicurare su tutto il territorio i livelli di prestazioni pubbliche dello Stato sociale. Ma lo Stato sociale, scriveva Miglio, “è un sottoprodotto dello Stato unitario e centralizzato di grandi dimensioni” perchè legato a governi che dispongono di ingenti risorse finanziarie. “La falsa idea di trovarsi davanti ‘un corno dell’abbondanza’ di cui non si vede mai la fine, è infatti il fondamento delle politiche di scambio di favori e privilegi, contro sicurezza elettorale e permanenza della classe politica al potere”.
In Germania la revisione costituzionale del 1969 ha fissato i Gemeinschaftsaufgaben, i compiti comuni che, soprattutto in materia finanziaria, hanno finito per amputare l’autonomia dei territori facendo saltare l’originaria coerenza dell’ordinamento tedesco basato sulla divisione di competenze tra Bund e Länder. Una realtà ben presente a Miglio che scriveva: “Se l’equilibrio fra gli almeno due livelli di potere non è solidamente garantito – anche e soprattutto nei confronti degli Stati o Cantoni –  è fatale che chi detiene il potere centrale (federale) tenda ad allargarlo fino ad assorbire le prerogative dell’altro livello o a ridurlo a un significato puramente formale. Così deperiscono (e muoiono) le Costituzioni federali. Il maggior problema tecnico di queste ultime è rappresentato dalla necessità di stabilire espedienti i quali rendano molto difficile ai cittadini degli Stati o Cantoni di rinunciare alle loro prerogative. Perciò il miglior presidio di un ordinamento federale sta nella determinazione con cui il popolo è deciso a resistere contro le intimidazioni e, soprattutto, le suasioni dell’autorità centrale” (Federalismi falsi e degenerati, pp.XIV-XV).


“c) I Cantoni hanno dimensioni tali da poter assolvere la parte principale dell’attività governamentale, resistendo altresì all’eventuale potere di assorbimento dell’autorità federale”.
Le tre macroregioni (Nord, Centro, Sud) fissate dal professore nel Decalogo di Assago presentato nel dicembre 1993 sono individuate in base a criteri etno-linguistici, geo-economici e soprattutto funzionali. Miglio era convinto che non si potesse costruire un vero ordinamento federale partendo dalle venti Regioni attuali. Nel Modello di Costituzione federale per gli italiani scriveva: “Se si creasse una Federazione fra le 20 attuali Regioni, alcune di queste (le più grandi e forti) prenderebbero il volo, e controbilancerebbero validamente l’autorità federale; mentre le più piccole e più deboli, incapaci di assolvere i compiti loro attribuiti, si getterebbero tra le braccia proprio dei poteri federali. Il risultato finale sarebbe quello di una Repubblica squilibrata e dilacerata, e di una restaurazione a furor di popolo del governo centralizzato”. Previsione a un passo dal verificarsi se si pensa alle riforme costituzionali elaborate dal centro-destra (Lega Nord inclusa) e dal centro-sinistra.
“d) Tutte le regole che disciplinano il funzionamento del sistema sono ispirate al principio del contratto (negoziato) e della maggioranza qualificata”.
Il principio della maggioranza semplice, in una repubblica federale in cui vivono popolazioni diverse per storia, costumi, tradizioni, è una violenza intollerabile perché attenta i diritti delle minoranze. Nel volume Federalismo e Secessione (Milano, Mondadori 1997, pp.118-122) il professore rivolgeva una critica radicale al principio di maggioranza: “Cosa ha di più saggio la metà più uno degli uomini? Come si può accettare un criterio tanto rozzo, fondato in definitiva su quell’uno, cioé su di un numero talvolta piccolissimo, in una divisione del mondo nella quale da una parte vi è la metà, che soccombe, e dall’altra la metà più uno che vince? Quell’uno finisce per diventare l’arbitro, il signore della Comunità”. Il principio del contratto, tipico del diritto privato – in base al quale i territori decidono su un piano di parità, sforzandosi di convincere le controparti per raggiungere una mediazione che possa garantire le ragioni di ciascuno – è cosa ben diversa dalla legge o dal regolamento approvato a maggioranza semplice. Ogni atto giuridico dovrebbe essere il prodotto di un negoziato tra le parti. Questo spiega per quale motivo, nel modello di costituzione federale redatto da Miglio il governo è non solo direttoriale –  composto dai governatori delle maggiori Comunità in cui si compone la Federazione – ma esercita le sue funzioni secondo la regola della maggioranza qualificata. “Stabilirei come regola generale la maggioranza dei due terzi e, nel caso in cui non si raggiunga, richiederei il sorteggio. Si presuppone che una scelta condivisa da una larga maggioranza sia ‘più vera’ di quella condivisa soltanto da una minoranza, perché se riduciamo la minoranza ad un terzo o ad un quarto è evidente che esiste una qualche giustificazione al fatto che l’opinione dei pochi, eventualmente dei pochissimi, sia messa da parte” (Federalismo e Secessione, pag122). Il professore proponeva addirittura che il Direttorio federale approvasse all’unanimità materie cruciali quali l’introduzione di nuovi tributi a livello federale, il sostegno economico alle aree svantaggiatate, la legge di bilancio. Il ridotto numero dei membri che compongono il Direttorio (nel suo progetto non più di cinque o sei persone) renderebbe assai facile il raggiungimento dell’accordo in tempi certi e ridotti. Il professore aveva infatti abbozzato una regola d’oro che nel suo modello era in grado di garantire la governabilità: egli lasciava al Direttorio federale otto giorni di tempo per approvare un provvedimento, un Regolamento o un Decreto oggetto di controversie, al termine dei quali sarebbe scattata la “procedura di emergenza”: se entro una settimana il governo non fosse pervenuto a una decisione, i membri sarebbero decaduti dall’incarico e non avrebbero potuto ripresentarsi agli elettori per due legislature. “La minaccia efficace di togliere ai politici la poltrona su cui siedono – diceva nel presentare il suo modello – è un ottimo strumento per farli andare d’accordo nell’interesse del Paese!”.
“e) La Costituzione contiene procedure che rendano sempre certa e rapida la decisione degli affari di governo: per esempio la presenza di un Presidente coordinatore del Direttorio, eletto da tutti i cittadini della Federazione”.

Qui Miglio mostrava di accettare il presidenzialismo: pensava a un Presidente federale eletto direttamente dai cittadini, erede in parte delle funzioni esercitate oggi dal Capo dello Stato e dal Presidente del Consiglio. Il Presidente federale avrebbe nominato i ministri, che per entrare in carica avrebbero dovuto godere della fiducia del Direttorio. Un Presidente federale “ingabbiato” nel Direttorio. E’ precisamente quest’ultimo il vero e unico governo della Confederazione: composto, oltre che dal Presidente federale, dai Governatori dei tre Cantoni (eletti direttamente dalle rispettive popolazioni) e da un Presidente (a turno annuale) di Regione a Statuto Speciale.

“f) La struttura fiscale, coordinata dal Direttorio federale, poggia su due livelli: municipale e cantonale”. Come si vede, un principio completamente estraneo al “federalismo fiscale” italiano, che assegna allo Stato centrale la completa gestione delle imposte (dirette e indirette).

Le tre Repubbliche di Miglio

Questo articolo è uscito sul quotidiano online L’Indipendenza.

Il modello di Costituzione federale elaborato da Gianfranco Miglio prevede una riscrittura della Costituzione che riguarderebbe non solo la seconda parte, ma anche numerosi articoli contenuti nella prima parte e nei principi fondamentali. La stragrande maggioranza dei costituzionalisti ritiene che i primi articoli della Costituzione italiana siano intoccabili. Il professore comasco non era per nulla d’accordo: ho ascoltato tempo fa la registrazione di un’intervista del 1994 in cui sosteneva che la Carta del ’48 era rivoltabile come un calzino. A suo giudizio, l’unico articolo che non poteva essere modificato era il 139, ove è scritto esplicitamente che “la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”. Naturale quindi che per Miglio fosse del tutto insensata una riforma limitata alla seconda parte della Carta, come invece ci propongono tutti i partiti italiani, dal centrodestra al centrosinistra compreso il Presidente della Repubblica. No, direbbe oggi il professore: “Le vere Costituzioni federali o sono tali o non lo sono”.
Ma veniamo al modello costituzionale elaborato da Miglio. Presentato al Congresso della Lega Lombarda tenuto Assago nel 1993, venne perfezionato e parzialmente modificato nelle pubblicazioni apparse negli anni successivi: il Modello di Costituzione federale per gli italiani uscito nel 1995, la prima edizione dell’Asino di Buridano (1999) e la seconda edizione del 2000.


I Principi fondamentali della Costituzione federale proposta da Miglio
Quali sarebbero i Principi fondamentali su cui dovrebbe poggiare la Repubblica federale italiana? Come andrebbe modificato ad esempio l’articolo quinto che oggi sancisce l’unità e l’indivisibilità dello Stato unitario?
Nell’Asino di Buridano il professore dava un’indicazione precisa:
“1. L’Italia è una Repubblica, radicata nei Municipi, e fondata su di un patto di unione fra le comunità naturali in cui i cittadini si articolano. La Repubblica è formata da quindici Regioni, raggruppate in tre Comunità regionali – Nord, Centro e Sud – e dalle cinque Regioni a Statuto Speciale, che hanno dignità di Comunità regionale, e possono adottare, nel loro Statuto, le istituzioni e le procedure previste per le Comunità regionali.
2. Il potere di decidere – sul piano legislativo, governamentale ed amministrativo – appartiene al popolo, il quale lo esercita o per mezzo dei suoi rappresentanti oppure direttamente (referendum). Una legge costituzionale definisce le forme di referendum, i “quorum” necessari, e le procedure che ne regolano lo svolgimento nelle diverse aree della Repubblica.
3. La Costituzione riconosce e garantisce i diritti individuali dell’uomo e stabilisce i doveri del cittadino. Nessun vincolo è posto alla circolazione ed all’attività dei cittadini sul territorio della Repubblica: tale libertà può essere limitata solo per motivi penali. La Costituzione garantisce le quattro fondamentali libertà europee: circolazione delle persone, dei capitali, delle merci e dei servizi. La libertà d’impresa è un diritto costituzionale”. (L’Asino di Buridano, Vicenza, Neri Pozza, 1999, pp.79-80).

Le tre Italie

I soggetti del patto federale coincidono in larga parte con le patrie etno-linguistiche o addirittura – è il caso del Sud Italia –  con antichi Stati preunitari. Nei progetti pubblicati nel corso degli anni cambiano i nomi delle comunità territoriali in cui dovrebbe articolarsi la Confederazione italiana: Repubbliche nel 1993, Cantoni nel 1995, Comunità regionali – come si è appena visto – nel 1999 e 2000. L’impianto del modello resta in larga parte immutato.
La Comunità regionale del Nord coincide con la Padania (Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna) ove sono parlate le lingue padane gallo-italiche e venete; la Comunità regionale del Centro corrisponde in gran parte all’area ove sono parlate le lingue dell’italiano centrale o mediano (Marche, Umbria, Lazio e Toscana); la Comunità regionale del Sud Italia (Abruzzo, Molise, Puglia, Campania, Basilicata, Calabria) coincide con l’antico Regno di Napoli, territorio in cui sono parlate le lingue italiane meridionali.
Le cinque Regioni a Statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige/Sud Tirol, Friuli Venezia Giulia) vengono riconosciute nella loro peculiare identità, rese completamente autonome come avverrebbe per le tre Comunità regionali: istituzioni pienamente responsabili in materia di tassazione e imposte, non più dipendenti dai trasferimenti dello Stato centrale.
Miglio scriveva nel Modello di Costituzione federale per gli italiani (1995):
“Comunque si rigirino le cose, i Cantoni della Federazione devono essere formati dalle quindici Regioni a statuto ordinario, che già vengono abitualmente raggruppate a fini statistici e geo-economici (ma anche dal linguaggio quotidiano) – in tre aree: la Valle padana (Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna), l’Italia centrale (Toscana, Umbria, Lazio, Marche) e l’Italia meridionale (Abruzzo, Molise, Puglia, Campania, Basilicata, Calabria), unificate ciascuna da una innegabile omogeneità storico culturale”.
Le Regioni e i Municipi
Le Regioni non spariscono nel modello di Miglio. Il governo di ciascuna Repubblica (o Cantone o Comunità regionale a seconda delle varie fonti) è direttoriale: composto da un Governatore, eletto dai cittadini, e dai Presidenti delle Regioni comprese entro ciascuna Repubblica italiana. Scriveva nel Modello:
“Le Regioni non scompaiono affatto: perché il Cantone è in fondo, alle sue origini, un ‘consorzio di Regioni’ e il Cantone governa e amministra per mezzo delle Regioni i cui vertici costituiscono il governo del Cantone stesso. Ognuna delle quindici Regioni a Statuto ordinario potrà darsi la struttura interna e la legge elettorale che i suoi cittadini preferiscono. Però ognuna di esse deve culminare con un Presidente eletto direttamente dal popolo: perché i Presidenti delle Regioni comprese nel Cantone devono formare il Direttorio (governo) del Cantone stesso, guidato da un Governatore, eletto anch’esso da tutti i cittadini”. Le Province, inutili e costose per Miglio, vengono soppresse.


E i Municipi? La loro autonomia sarebbe pienamente riconosciuta in Costituzione, non prima di aver compiuto un accorpamento degli enti più piccoli mediante apposite Federazioni di Comuni composte da 15.000 abitanti:  “La scienza dell’amministrazione colloca a 15.000 il punto critico al di sotto e al di sopra del quale si alterano i valori di efficienza e partecipazione di un Comune” (Federalismo e Secessione, Milano, Sperling&Kupfer 1997, pag.105). Il professore non escludeva inoltre un controllo degli enti superiori nei confronti dell’ente comunale: “Secondo me i Comuni devono avere la possibilità di fissare le tasse, ma ritengo sia necessario porre un limite alla loro disponibilità. Faccio un esempio: supponiamo che, per sfrenata passione calcistica, un Comune stabilisca una inostenibile imposizione fiscale per costruire uno stadio fuori da ogni logica. Se anche la popolazione si dimostrasse entusiasta per il progetto e per un simile sperpero di denaro, questo dovrebbe essere impedito da un controllo cantonale” (Federalismo e Secessione, pag.103).
Il grado d’intervento dei Municipi nell’amministrazione del Cantone e della Confederazione nelle materie della politica ambientale, delle comunicazioni e dell’urbanistica era tuttavia notevole nel suo progetto. I Sindaci avrebbero composto le Consulte municipali. Nell’Asino di Buridano (1999) Miglio descriveva dettagliatamente la composizione e le funzioni delle Consulte municipali:
“Presso ogni Direttorio di Comunità regionale è costituita una Consulta municipale comunitaria formata da 30 Sindaci eletti da tutti i Sindaci della Comunità in ragione di 15 rappresentanti dei Comuni fino a 10.000 abitanti, 10 rappresentanti dei Comuni da 10.000 a 25.000 abitanti, 5 rappresentati dei Comuni con più di 25.000 abitanti.
Presso il Direttorio federale è costituita una Consulta municipale federale formata da 30 Sindaci eletti da tutti i Sindaci della Repubblica in ragione di 20 rappresentanti dei Comuni che abbiano fino a 100.000 abitanti, e 10 rappresentanti dei Comuni che abbiano più di 100.000 abitanti. I Sindaci dei Comuni i quali abbiano più di un milione di abitanti fanno parte di diritto della Consulta municipale federale”.
La procedura con cui le Consulte avrebbero espresso i loro pareri ai diversi livelli di governo (cantonali e federali) lascia trasparire il ruolo incisivo dei Municipi nel modello elaborato dal professore: “Il parere espresso da una Consulta municipale con una maggioranza dei due terzi dei componenti è vincolante per il rispettivo organo di governo presso il quale la Consulta è costituita”.

Gli esiti di una riforma costituzionale ispirata al modello di Gianfranco Miglio

Nel complesso le riforme proposte dal professore nel Modello di Costituzione federale contengono notevoli punti di forza. La nuova Costituzione presenterebbe:
–          una maggiore stabilità istituzionale con un governo di legislatura sciolto dal vincolo di maggioranza (forma di governo non parlamentare);
–          la separazione delle funzioni: chi ricopre cariche pubbliche negli organi rappresentativi (Consiglio comunale, Consiglio regionale, Dieta di una delle tre Repubbliche-Assemblea federale) non potrebbe esercitare funzioni amministrative o di governo (Sindaco, Governatore di Regione, Governatore di una delle tre Repubbliche, Presidente di una delle cinque Regioni a Statuto speciale, Presidente federale, Segretario di Stato): in tal modo si formerebbe nel tempo una classe politica responsabile, non sottoposta ai ricatti di parlamentari desiderosi di diventare ministri o governatori;
–          la separazione della magistratura inquirente dalla magistratura giudicante;




–      referendum propositivo deliberativi con l’attribuzione ai cittadini di un potere d’intervento nella legislazione e nell’amministrazione a tutti i livelli della Confederazione: dal Comune alla Regione, dalle Repubbliche o Cantoni alla Federazione (come in Svizzera).

Il presidenzialismo

Il professore comasco riteneva che il presidenzialismo fosse necessario per garantire stabilità al sistema politico: egli pensava a un Presidente federale eletto dagli italiani a suffragio universale e diretto, un presidente dotato in parte delle funzioni esercitate nel nostro ordinamento dal Presidente del Consiglio e dal Capo dello Stato. Miglio riteneva però indispensabile che il presidenzialismo venisse bilanciato da tre contrappesi: a) un forte federalismo istituzionale presente nella prima Camera (quella politica) e nella stessa composizione del governo; b) una Corte costituzionale modificata nella composizione e rafforzata nel suo ruolo di garante della nuova Costituzione; c) Referendum propositivo deliberativi per consentire ai cittadini di intervenire nelle questioni politiche e amministrative contro l’insorgere del dispotismo dei partiti cui è incline la democrazia puramente rappresentativa (modello svizzero).

L’Assemblea federale

Come si è detto, il Parlamento e il Governo centrale verrebbero composti in base al principio federale. Relativamente al Parlamento, la prima Camera – la sola cui spetterebbe il potere di sfiduciare il governo con una maggioranza dei due terzi  – sarebbe l’Assemblea federale e verrebbe formata dalla riunione periodica delle Diete (Parlamenti) delle tre Repubbliche i cui membri sono eletti dalle rispettive popolazioni: 100 deputati dalla Padania, 100 dal Centro Italia, 100 dal Mezzogiorno. A questi 300 deputati si aggiungono i delegati dei Consigli delle 5 Regioni a Statuto speciale: 15 deputati siciliani, 10 sardi, 10 friulani, 6 dal Trentino Alto Adige/Sud Tirolo, 5 dalla Valle d’Aosta. In tutto 346 deputati con un taglio di 284 parlamentari rispetto ai 630 del nostro ordinamento. Nel progetto del professore gran parte della funzione legislativa e amministrativa passerebbe alle tre Repubbliche e alle cinque Regioni a Statuto speciale. Le poche leggi federali e le ristrette funzioni amministrative lasciate alla Federazione sarebbero il risultato di un autentico compromesso tra i rappresentanti delle grandi aree del Paese che siedono nelle Diete riunite nella già ricordata Assemblea federale. Si otterrebbe in tal modo un considerevole risparmio di risorse, non foss’altro perché – lo ripetiamo – sarebbero gli stessi deputati delle Diete a riunirsi periodicamente per formare l’Assemblea federale: questa sarebbe la sola Camera politica della Confederazione, l’unica in grado di sfiduciare il governo con una maggioranza non inferiore ai due terzi che sia concorde nell’indicare un Presidente federale da opporre a quello sfiduciato (sfiducia costruttiva). La sfiducia del Presidente comporterebbe elezioni anticipate: i cittadini sarebbero chiamati a rinnovare le Diete e ad eleggere il Presidente federale scegliendolo tra la persona sfiduciata e il candidato indicato dall’Assemblea nella mozione di sfiducia.

Il Direttorio federale

Ma il federalismo istituzionale investirebbe anche la composizione del governo centrale: un Direttorio presieduto dal Presidente federale (eletto da tutti gli italiani), formato dai Governatori delle tre Repubbliche (anch’essi eletti dalle rispettive popolazioni) e dal Presidente (a turno annuale) di una delle cinque regioni a Statuto speciale. La nomina dei ministri (che nel modello di Miglio assumono la qualifica di “Segretari di Stato”) spetterebbe al Presidente federale, il quale dovrebbe però sottoporli alla fiducia del Direttorio. In altre parole, il Direttorio federale sarebbe un governo di legislatura destinato a durare in carica quattro anni. Un governo schiettamente federale che, a mio parere, Miglio avrebbe voluto dotare di funzioni non solo amministrative ma anche legislative (nelle poche competenze lasciate alla Confederazione italiana). L’Assemblea federale si riunirebbe periodicamente solo per discutere materie importanti per le quali si ritiene indispensabile una legge quadro federale. In tal modo verrebbe sancito il ruolo fondamentale rivestito dal governo nella legislazione, com’è avvenuto d’altra parte negli ultimi vent’anni con i governi di centro-destra e di centro-sinistra, i quali – nell’attuale ordinamento unitario retto sulla forma di governo parlamentare – hanno abusato dei decreti legge e dei decreti legislativi violando la lettera della Costituzione. Nel modello di Miglio tale scostamento tra Costituzione reale e Costituzione formale verrebbe finalmente a cessare: il governo federale avrebbe tutti gli strumenti per esercitare le funzioni senza degenerare in governo autoritario: ricordiamo che saremmo in un ordinamento federale – non più unitario – in cui i Governatori delle diverse Italie – eletti direttamente dalle rispettive popolazioni – compongono il Direttorio federale.

Il Senato legislativo

Nel progetto di Miglio è prevista una seconda Camera. E’ il “Senato legislativo”: una Camera di alta legislazione in gran parte tecnica, specializzata nella redazione dei progetti di legge riguardanti i Principi fondamentali e la prima parte della Costituzione. In questo modo Miglio riusciva finalmente a separare la funzione legislativa da quella propriamente politica, spettante all’Assemblea federale. Formato da 200 senatori in possesso dei titoli per essere eletti a tale ufficio, il Senato legislativo verrebbe eletto dai cittadini italiani con metodo proporzionale. Sarebbe l’unica Camera ‘unitaria’ della Repubblica, il cui ruolo – in un ordinamento veramente federale come quello delineato nel modello migliano – sarebbe confinato a una funzione meramente tecnica. Difatti l’Assemblea federale, riunendosi periodicamente perché i suoi deputati lavorerebbero nelle Diete delle tre Repubbliche italiane e nei Consigli delle Cinque Regioni a Statuto Speciale, affiderebbe al Senato la redazione di progetti di legge nelle materie di competenza federale, progetti che l’Assemblea, tornata a riunirsi, approverebbe in via definitiva con la possibilità di modificarli. Il Senato legislativo sarebbe l’unico collegio rappresentativo riunito stabilmente a Roma.

La Corte Costituzionale

Il potenziamento della Corte costituzionale era fondamentale per il professore. Nel Modello di Costituzione federale per gli italiani egli proponeva una modifica significativa nella composizione della Consulta: “La Corte dovrebbe essere composta da giudici nominati per un quarto dell’Assemblea federale, per un quarto della Diete e per una metà dalle supreme magistrature ordinarie e amministrative. I membri dovrebbero essere portati a venti [dai quindici attuali]”. Riteneva peraltro importante che fosse istituita una Sezione competente in merito all’amministrazione economica della Repubblica.
Il rafforzamento della Corte si otterrebbe in due modi. Anzitutto affidando al Presidente della Consulta (che durerebbe in carica un anno, sorteggiato tra i venti giudici costituzionali) le funzioni di garanzia esercitate oggi dal Capo dello Stato: val la pena ricordare ad esempio la firma e la promulgazione delle leggi, nonché il potere delicatissimo di sciogliere le Camere. In secondo luogo, la Corte verrebbe rafforzata mediante l’introduzione del Procuratore della Costituzione: un altissimo magistrato nominato dalla Consulta al di fuori di essa, tra i candidati in possesso dei requisiti per essere eletti giudici della Corte costituzionale. Il Procuratore, che durerebbe in carica sette anni, avrebbe il potere di impugnare davanti alla Corte tutte le leggi (federali e territoriali) e regolamenti (federali e territoriali) di dubbia costituzionalità. Giova infine ricordare che, nel modello di Miglio, il Procuratore della Costituzione costituirebbe il vertice della Magistratura inquirente e, nell’adozione dei provvedimenti disciplinari, agirebbe di concerto con una commissione di 8 membri eletta dal Senato legislativo.
Il modello di Costituzione federale presentato da Miglio renderebbe l’Italia una vera Repubblica federale, garantendo al Paese piena governabilità nel rispetto della sovranità dei cittadini, ma anche delle Comunità territoriali esistenti nella penisola.

Il falso federalismo di destra e sinistra (Lega inclusa)

Questo articolo è uscito sul quotidiano online: L’Indipendenza

Le riforme costituzionali approvate nel corso degli ultimi quindici anni dal centro sinistra e dal centro destra non possono definirsi federali, quantunque vengano spacciate come tali dalla classe politica attualmente al potere. In questo intervento si cercherà di mostrare per sommi capi le principali innovazioni in tema di autonomia locale approvate dai due schieramenti.

Cominciamo dal centro sinistra. Le maggioranze parlamentari che appoggiarono i governi guidati da Romano Prodi, Massimo D’Alema e Giuliano Amato (1996-2001) si sforzarono di far fronte alla crisi del sistema politico muovendosi sostanzialmente in due direzioni. La Commissione bicamerale presieduta dall’onorevole D’Alema dal febbraio 1997 al giugno 1998 si fondava su un accordo con il centrodestra di Silvio Berlusconi per realizzare una riforma costituzionale limitatamente alla seconda parte della Carta. L’onorevole Berlusconi, dopo alcuni mesi, ruppe quell’accordo per ragioni di convenienza politica, facendo naufragare un lavoro che aveva l’ambizione di mutare in profondità la forma di Stato e di governo della Repubblica italiana.


A pochi mesi dalla fine della XIII legislatura il centro sinistra, nel disperato tentativo di recuperare consensi nel Nord Italia, approvò una riforma costituzionale che riprendeva il Titolo V della seconda parte della Costituzione messo a punto dalla commissione D’Alema: ad essere modificati erano gli articoli riguardanti le autonomie di Regioni, Province e Comuni che, nel nuovo articolo 114, venivano posti sullo stesso piano dello Stato assieme alle Città metropolitane che comparivano per la prima volta nella Carta costituzionale.  Occorre riconoscere che questa riforma, approvata dal Parlamento e confermata dagli italiani con referendum costituzionale il 7 ottobre 2001, ha introdotto nell’ordinamento repubblicano un maggiore decentramento amministrativo e un più ampio margine di autonomia per gli enti locali. Il nuovo Titolo V non istituisce tuttavia un ordinamento federale per le seguenti ragioni. In primo luogo perché la riforma, strettamente limitata alla seconda parte della Costituzione, non ha minimanente intaccato il principio dell’unitarietà dello Stato sancito nell’articolo quinto della prima parte. Il che si trova sideralmente agli antipodi del federalismo, il quale presuppone per converso una pluralità di Comunità riconosciute come enti quasi sovrani in rappresentanza dei popoli che esse rappresentano. In un vero ordinamento federale non esiste la nazione “una e indivisibile” definita nella sua dogmatica razionalità sul modello delle Carte rivoluzionarie francesi; i popoli sono invece riconosciuti in base a criteri storici ed etno-linguistici. Come ci insegnava Gianfranco Miglio il vero federalismo, lungi dal fondare l’Unità, è fatto per salvaguardare, tutelare e gestire le diverse comunità di lingua e di tradizioni presenti in un determinato territorio.


Non v’è chi non veda come una vera riforma federale dovrebbe quindi portare alla riscrittura dell’articolo quinto mediante il riconoscimento delle diverse Italie esistenti nella penisola: fatte salve le cinque Regioni a Statuto speciale (Valle d’Aosta, Sardegna, Sicilia, Friuli Venezia Giulia, Trentino Altro Adige /Sud Tirol), un’Italia padano veneta al Nord, un’Italia toscana, un’Italia centro-meridionale. Ma, a ben vedere, la modifica costituzionale dovrebbe riguardare anche l’articolo sesto in cui, in via del tutto generica, è scritto che “la Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”. Difatti, se togliamo le cinque Regioni a Statuto speciale che godono condizioni particolari di autonomia per ragioni geopolitiche, quell’articolo è rimasto in larga parte lettera morta. Il che non sorprende, se si considera che la Carta italiana non chiarisce quali siano tali minoranze. Se confrontato con l’articolo terzo della Costituzione spagnola o con l’articolo 70 della Costituzione svizzera, l’articolo sesto si dimostra palesemente inadeguato. La sua riscrittura dovrebbe basarsi sul riconoscimento dell’italiano come lingua ufficiale della Repubblica federale e sull’elencazione (con espressa tutela) delle lingue che per storia e tradizione appartengono alle diverse comunità esistenti nella penisola: le lingue romanze padane (gallo-italiche e venete), le lingue italo romanze dell’appennino centrale (toscano, marchigiano, umbro, laziale), le lingue italo romanze dell’appennino meridionale e del Sud Italia (meridionale, salentino, calabrese, siciliano), il sardo, il friulano, il romando (detto anche franco-provenzale) diffuso in alcune vallate del Piemonte e della Val d’Aosta, il ladino, il tedesco sud-tirolese, il mòcheno (presente nella valle del Fèrsina- Bersntol) e il cimbro parlato in alcune zone del Veneto e del Trentino. Una riforma autenticamente federale, sulla base del riconoscimento di tali comunità etno-linguistiche, dovrebbe consentire alle diverse popolazioni di costituirsi in Repubbliche autonome attraverso l’unione degli enti territoriali esistenti o la formazione di nuovi soggetti istituzionali. Occorre infatti ricordare che le Regioni attuali non corrispondono in alcun modo alla realtà etno-linguistica e geo-economica della penisola. Inoltre, territori ristretti e scarsamente popolati come le Marche, l’Abruzzo, l’Umbria, la Liguria, la Basilicata o il Molise non sarebbero in grado di gestire efficacemente le accresciute funzioni di uno Stato regionale provvisto di poteri incisivi all’interno di una Confederazione.


Tornando al centrosinistra, quando fu approvato il nuovo Titolo V, fu fatto credere agli italiani che quella fosse la riforma federale che tutti desideravano, destinata finalmente a mutare l’ordinamento repubblicano in base ai nuovi principi dell’autogoverno. Nulla di tutto questo è accaduto. Gran parte delle competenze in materie importanti come l’ordine pubblico e la sicurezza, l’istruzione, lo sviluppo economico, l’agricoltura, il sistema tributario, vengono esercitate in larghissima parte dallo Stato centrale, il quale – nella persona del Presidente della Repubblica – può addirittura sciogliere il consiglio di una Regione e rimuoverne il Governatore per “motivi di sicurezza nazionale” (art.126, secondo comma): un articolo in cui traspare evidente l’ampio margine discrezionale lasciato al potere centrale e, specularmente, la completa assenza di sovranità dell’ente regionale.


Ma torniamo alle false riforme federali realizzate dai partiti italiani. Nel 2001 Silvio Berlusconi vinse le elezioni politiche con un’alleanza di partiti denominata “Casa della Libertà”, composta principalmente da Forza Italia, Lega Nord, Alleanza Nazionale e i gruppi democristiani guidati da Pier Ferdinando Casini e da Rocco Buttiglione. La XIV legislatura vide all’opera due governi: il Berlusconi II (2001-2005) e il Berlusconi III (2005-2006). In questo arco temporale si lavorò effettivamente a un progetto di riforma costituzionale. Confezionato nella baita di Lorenzago dai “saggi” del centrodestra, approvato in via definitiva dal Parlamento il 16 novembre 2005, fu bocciato clamorosamente dagli italiani nel referendum costituzionale del 25/26 giugno dell’anno seguente. Per fortuna! Se fosse passato, esso avrebbe soffocato quei pochi semi di autonomia presenti nell’attuale ordinamento costituzionale.


La riforma dei “saggi” limitava infatti a tre le competenze in cui le Regioni avrebbero esercitato una legislazione esclusiva: polizia locale, sanità e scuola professionale. Lo Stato centrale, oltre a conservare le sue funzioni, sarebbe rientrato in possesso di competenze decisive come l’energia, le grandi reti di trasporto e le telecomunicazioni che la riforma del centrosinistra – tuttora vigente – vuole gestite in via concorrente con le Regioni. Non basta. La clausola dell’ ‘interesse nazionale’ avrebbe consentito allo Stato di intervenire in via amministrativa nei confronti degli enti territoriali, configurando un sistema centralistico assai vicino a quello della cosiddetta “Prima Repubblica”. Il rafforzamento del governo con l’attribuzione al premier del potere di sciogliere le camere, previsto dalla riforma senza adeguati contrappesi, avrebbe avvicinato il nostro ordinamento alla Quinta Repubblica francese, un paese come noto che non può certamente essere citato come esempio di federalismo. E’ lecito domandarsi come abbia potuto un partito come la Lega Nord accettare e addirittura condividere una riforma che, se approvata dagli italiani, avrebbe reso il Paese certamente più governabile, ma a grave scapito delle libertà locali. Misteri della cattiva politica.


Andiamo avanti. Conclusa la breve parentesi del secondo governo Prodi, il centrodestra ha vinto le elezioni nel 2008 con un programma che non presentava mutamenti significativi in materia costituzionale, salvo riprendere le riforme del 2005 già bocciate dagli italiani. Ci si è limitati – con il tacito consenso del centrosinistra – a dare attuazione all’articolo 119 della Costituzione realizzando per via legislativa un intervento, denominato subdolamente “federalismo fiscale”, teso a migliorare la gestione delle risorse finanziarie da parte degli enti locali lasciando inalterata la struttura unitaria dello Stato. Se il vero federalismo dovrebbe consentire ai maggiori enti territoriali di trattenere sul territorio una parte cospicua delle ricchezze prodotte dai cittadini, la riforma del centrodestra – muovendosi entro il solco dell’art.119 della Costituzione – non fa nulla di tutto questo. Difatti con questa riforma il livello di tassazione a carico dei cittadini viene addirittura aumentato, non foss’altro perché la parte cospicua delle imposte dirette e indirette continua ad essere gestita dallo Stato centrale. E’ significativo che il cosiddetto “federalismo fiscale” abbia confermato il principio in base al quale le imposte non sono dei territori, bensì dello Stato: è lo Stato nazionale a redistribuire dall’alto le risorse prelevate dai cittadini in base a un criterio di equità sociale tipico di un potere pubblico unitario, non federale.


Titolari di una parte significativa del potere impositivo come avviene nella Confederazione elvetica, le Comunità territoriali in un ordinamento federale avrebbero invece gli strumenti per amministrare la cosa pubblica fornendo servizi ai cittadini in un regime di piena concorrenza istituzionale. Tutto l’opposto del “federalismo fiscale” approvato dal centrodestra che, basandosi sul principio dell’unitarietà dello Stato sancito dall’articolo quinto della Costituzione, lascia al potere centrale la gestione di tutte le imposte. Agli enti locali è concessa una compartecipazione al gettito dei tributi erariali, un’addizionale alle imposte dirette/indirette o l’introduzione di nuovi tributi. Quando tale riforma entrerà a regime, il risultato non potrà che essere un aumento della tassazione, il che porterà immancabilmente a un nuovo record della pressione fiscale, ovviamente in negativo.

Il Leviatano inglese pronto a sabotare la Tobin Tax europea

Per contrastare la speculazione finanziaria che minaccia di far saltare la moneta unica, la Francia di Sarkozy propone una Tobin Tax europea sulle transazioni finanziarie. Berlino dissente nel merito ma non si oppone. L’Italia, come al solito, è la cortigiana un po’ malmessa che va a letto con Francia e Germania pur di tirare a campare.

La Gran Bretagna è un paese anfibio, con un piede in terra europea e un altro nell’oceano della globalizzazione. Chiusa nel suo orgoglio insulare, mossa da una politica spesso sensibile alle logiche dei pirati, ha sempre fatto di testa sua; non ha esitato nel corso dei secoli a trasformarsi nel Leviatano marino, sicuro e imprevedibile, pronto a tendere micidiali insidie ai Behemoth terrestri, alimentati da un dispotismo burocratico il cui governo sulla terra  era pianificato con la razionale ed efficiente opera degli Stati-macchina assoluti. A voler uscire da metafore e similitudini, Londra è riuscita (quasi sempre) a rompere le uova nel paniere dei governanti continentali, dall’Europa di Napoleone a quella di Hitler.

Ora la Gran Bretagna si oppone alla Tobin tax europea, quasi proclamandosi unico guardiano della libertà di commercio sul continente. Chissà che anche oggi, come allora, essa non abbia anche una buona ragione, al di là dei suoi interessi particolari.

Il dilemma originato da una bella riflessione di Keynes

“Le idee degli economisti e dei filosofi, giuste o sbagliate che siano, sono molto più potenti di quanto comunemente si pensi. In realtà il mondo è governato praticamente solo da queste. Nel bene o nel male sono le idee a guidare il mondo e non gli interessi materiali”. John Mainard Keynes.

Confesso di nutrire simpatia per l’autore di questa riflessione, dalla quale traspare un certo romanticismo idealistico tipico di un’epoca in cui gli Stati erano dominati dai valori “generali” della politica. Ho tuttavia qualche dubbio sulla sua fondatezza nel mondo attuale, dove i poteri pubblici tendono a perdere la loro politicità soggetti come sono ai poteri economico finanziari che ormai decidono le sorti dei popoli.

L’etologo Konrad Lorenz ha dimostrato che l’uomo – come ogni essere vivente – è guidato nelle sue azioni cognitive dall’istinto tutto materiale per la sopravvivenza e la conservazione. Sorge spontanea la domanda: sono le idee a governare  il mondo o non piuttosto gli individui che nascondono gli interessi materiali mascherandoli con idee altruistiche? In fondo, si tratta di un dilemma dal quale non verremo mai a capo perché investe quel misto di bene e di male che è la natura umana.  

In politica, ad esempio, le idee generali, travestite sotto forma di valori e racchiuse in parole magiche come “democrazia”, “giustizia sociale”, “uguaglianza”  sono spesso servite ai governanti per guadagnare il consenso dei cittadini mascherando i rudi interessi materiali da cui dipendono loro stessi e i loro aiutanti. Il fine di tali azioni risiede in questo caso nell’autoconservazione, nella sopravvivenza raggiunta attraverso la subordinazione dei governati costretti a tributo.

E’ peraltro innegabile che senza la classe politica che ha retto lo Stato di diritto e sociale del XX secolo non avremmo il suffragio universale, le scuole e le università aperte al merito, i diritti dei lavoratori, i sussidi di disoccupazione, le pensioni e tanti altri interventi a sostegno dell’economia volti a correggere un capitalismo altrimenti spietato.

Oggi il quadro sembra nuovamente e radicalmente mutato.

Un consiglio a Monti: tenga lontano i politici dal governo

Il presidente del consiglio incaricato, Mario Monti, ha dichiarato ieri sera di voler formare un governo composto non solo di tecnici ma anche di politici. A suo giudizio, la grave crisi che il Paese sta attraversando richiederebbe uno sforzo comune d’intenti che coinvolga le forze politiche decise ad imboccare un sentiero costruttivo per la crescita economica dell’Italia.

Non condivido questa scelta e temo che Monti, se riuscisse a fare entrare i politici nel governo, compirebbe un passo falso clamoroso. Un governo aperto ad esponenti della politica finirebbe con lo screditare  l’Italia agli occhi degli investitori internazionali,  senza contare la scarsa credibilità di fronte a un’opinione pubblica ostile ai professionisti della politica. Non va inoltre dimenticato che i gravi problemi dell’Italia in campo finanziario sono stati prodotti dal malgoverno partitocratico che inquina le istituzioni da almeno quarant’anni. Se i partiti di centrodestra e di centrosinistra avessero fatto negli anni passati  le riforme economiche e istituzionali che servono al Paese, oggi non saremmo costretti a recitare la parte di sorvegliati speciali nei consessi internazionali.

E’ quindi decisivo che il governo sia composto esclusivamente di “tecnici” che godano del più ampio prestigio in Italia e all’estero. Ovviamente, come in tutti i regimi parlamentari che funzionano, l’esecutivo Monti si sottoporrà alla fiducia delle Camere: in quella sede i partiti faranno le scelte che crederanno più opportune, assumendosi la responsabilità di appoggiare o far cadere il governo.

Vedremo nelle prossime ore quale sarà la composizione dell’esecutivo. Ha ragione Monti quando afferma di voler formare un governo che sia in grado di durare per tutta la legislatura realizzando incisive riforme istituzionali ed economiche. Non riesco a capire tuttavia come possa  farlo se rinuncia a quel profilo eminentemente tecnico – quindi ‘super partes’ – che solo può guadagnare alla sua squadra la fiducia dei mercati e, quel che più conta, il sostegno degli italiani chiamati a fare sacrifici.

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