Un lupo semina il terrore nella Brianza del primo Settecento

Nel diario dell’abate milanese Diego Antonio Minola, sotto l’anno 1741, si trova una curiosa annotazione relativa a una serie di tragici eventi avvenuti nei dintorni di Milano. 


Un lupo aveva sparso il terrore in comuni quali Vimercate, Cambiago, Carugate, Velate, Oreno. Non si trattava degli assalti contro il bestiame cui andavano soggette le proprietà dei contadini. Si trattava di feroci sbranamenti di cui sembravano esser state vittime in larghissima parte bambini.
Nella narrazione il Minola descriveva il lupo ritraendolo con sembianze quasi demoniache. In effetti, vista la scelta delle vittime, il caso presentava elementi assai inquietanti, che avevano grandemente impressionato la collettività. 
Ma diamo la parola al Minola: 
“Un animale selvatico longo tre braccia milanesi [equivalente a 1.78 metri, NdR] fu veduto nella stagione estiva dell’anno passato a rubbare figliuoli, essendo creduto lupo nostrano,  e nell’autunno si ritirò non si sa dove”.
“Questo anno ritornò di nuovo sul principio della estate, e senza toccare né persone, né cani, né altre bestie domestiche faceva strage di carne umana, e particolarmente di fanciulli, contandosi de 80 persona (sic!) sbranate nei territori di Vimercate, Orena (Oreno), Velate, Oldaniga, Cambiago, Carrogate (Carugate)”.
“La fiera nell’assalire la gente in campagna compariva con occhi rossi e lingua serpentina con collo armato di setole lunghe più di quelle del cignale (sic!), e tutto il restante del corpo era basso e ruido color castano macchiato di nero con coda pelosa simile al collo e con agilità incredibile, onde ne restava sempreppiu’ spaventato tutto il paese, benché armato, finché venne uccisa nel dì 15 luglio 1741 nel bosco di Concorezzo quando aveva afferrata una giovane di 14 anni e la divorava”. 
“In tale circostanza fu fatta una stampa incisa dall’incisore Marc’Antonio Dal Re rappresentante al naturale, essendo i piedi avanti muniti di cinque denti (sic!), perciò del genere dei lupi”.
Da “Diario di Diego Antonio Minola” in Biblioteca Ambrosiana, G112 Suss. 
Purtroppo non è stata trovata traccia della stampa eseguita da Marc’Antonio Dal Re, il quale – com’e’ noto – si guadagnò la fama nella Lombardia settecentesca eseguendo preziose incisioni che ritraevano  scorci di strade e isolati milanesi. Del Dal Re merita infine ricordare la raccolta di incisioni riguardanti le ville imponenti che i patrizi milanesi, seguendo i costumi della società di corte tipica dell’antico regime, si erano costruiti nei loro possessi in campagna.

Andreotti, un ritratto con molte ombre e poche luci

La morte di Giulio Andreotti impone alcune riflessioni sul ruolo da lui rivestito nel sistema politico italiano. Ora che se n’è andato nella sorpresa generale – già perché noi tutti eravamo convinti che avesse guadagnato l’immortalità in forza di un patto luciferino – ci sentiamo improvvisamente più leggeri ma al contempo più insicuri, come se avessimo perso con lui, nel bene e nel male, un pezzo di storia, una parte importante del nostro passato, della nostra memoria collettiva. Eppure, a ben vedere, tale sensazione coglie un’esigua minoranza di persone. La maggioranza di quanti sono vissuti negli anni della sua lunga carriera politica crede ancora oggi che sia l’incarnazione del “grande vecchio”, il malvagio custode dei misteri più occulti della cosiddetta Prima Repubblica. C’è poi chi non si pronuncia per ragioni anagrafiche. Provate a chiedere ai giovani di oggi cosa pensano di Andreotti. Molti vi rispondono candidamente che non lo conoscono.


Sarebbe tuttavia un grave errore dimenticarsi del politico romano. Cresciuto nella scuderia di Alcide de Gasperi, Andreotti ereditò dell’uomo trentino il senso dello Stato ma apparteneva a una generazione diversa, era fatto di una pasta diversa. Persona assai più di curia che di governo, sembrava affrontare le prove della vita con cinico distacco, foderato di quel compassato realismo che lo ancorava, nello stile di governo, ai più scaltri e navigati segretari di Stato dell’ancien régime. Insomma, quando penso alla sua condotta in politica, ai sette governi da lui presieduti tra gli anni Settanta e i primissimi anni Novanta, mi vengono in mente le sagge, ciniche massime del cardinale Armand-Jean du Plessis du Richelieu o del cardinale Giulio Mazzarino, due uomini che ressero il governo della Francia per buona parte del XVII secolo. Tra gli adagi più diffusi nelle corti europee di fine Seicento ve n’era uno che costituiva quasi una piccola guida pratica per gli uomini di governo

Non essere facile alle promesse e alle concessioni. Ridi poco. Non prendere decisioni affrettate e non cambiare mai quello che hai deciso. Non fissare le persone, non grattarti il naso e non arricciarlo, non fare l’aria severa, gesticola poco, tieni la testa eretta, parla poco e sentenzioso, cammina a passi misurati, muovi il corpo con dignità”. 

Se si toglie il riferimento alla testa eretta, questa massima attribuita al cardinale Mazzarino sembra uscita dalla penna di Andreotti.

Uomo realista, dotato di un eccezionale fiuto politico, di un senso della misura che superava di gran lunga quello dei suoi avversari, Andreotti aveva capito che per governare l’Italia non era sufficiente il rispetto e l’attuazione dei principi costituzionali. Occorreva agire per così dire dietro le quinte, passare attraverso la mediazione continua con i poteri effettivi di cui è intessuto da sempre il complesso ordito della penisola. Seppe mediare tra i partiti reggendo da maestro il gioco parlamentare. Curò i rapporti  con il Vaticano restando rigorosamente entro le rotaie della laicità dello Stato come insegnava la scuola cattolico liberale.

Relativamente ai rapporti con la mafia, la sentenza del Tribunale di Cassazione del 23 dicembre 2004 ha stabilito la sua assoluzione dal reato di associazione mafiosa dal 1982 in poi anche se restano molti dubbi sui suoi rapporti con uomini di Cosa Nostra nel periodo precedente. Il che peraltro non è bastato a provare una sua effettiva collusione con la mafia perché negli anni anteriori al 1980 il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso non esisteva nel codice penale: per quegli anni Andreotti ha avuto la prescrizione per il reato di associazione a delinquere semplice. Insomma, questa parte della sua vita è ancora avvolta nell’ombra.
 
Nel sistema di governo parlamentare Andreotti fu uno dei maggiori interpreti di quella politica della mediazione, della ricerca del juste milieu nella formazione dei governi di larghe intese per il bene del Paese che fu probabilmente uno dei pochi lasciti preziosi della Prima Repubblica; uno stile di governo che oggi Napolitano ha fatto bene a recuperare e ad incoraggiare – sia pure tra mille difficoltà – in seguito al pieno fallimento del bipolarismo nei vent’anni seguiti alla discesa in campo di Berlusconi.

Come avviene per tutti i grandi capi di governo, chi voglia abbozzare un ritratto del politico romano non può che ricorrere alla tecnica del chiaro scuro. E’ facile ricordare le molte ombre, più difficile scorgere le qualità che pure vi furono in quest’uomo mite, che curava i rapporti con gli elettori agendo con zelo, dedizione e impegno.

Tra le sue qualità non si può negare il senso dello Stato che ebbe fin dall’inizio della sua carriera politica. Un senso dello Stato che, nei momenti più difficili della democrazia italiana, lo pose dinanzi a scelte dolorose. Quando fu rapito Aldo Moro, Andreotti era presidente del consiglio in un governo monocolore appoggiato dalla Democrazia Cristiana e dal Partito comunista. Assieme ad Ugo la Malfa e ad Enrico Berlinguer, non esitò a guidare il fronte della fermezza contro ogni ipotesi di compromesso con i terroristi. Andreotti avvertì addirittura i suoi familiari e gli amici più cari che se la disgrazia di cui fu vittima Moro fosse capitata a lui o a qualsiasi altro politico, il dovere del governo era di non indietreggiare di un millimetro dalla linea della fermezza. Lo Stato non poteva scendere a patti con le Brigate Rosse, con chi aveva assassinato i suoi uomini più fedeli: magistrati e poliziotti. Se questo fosse avvenuto, le Brigate Rosse avrebbero raggiunto il loro scopo: mostrare che lo Stato era debole, incapace di assicurare ai cittadini le sue funzioni fondamentali: la pace sociale e il rispetto del diritto. Se il governo fosse sceso a compromessi con i terroristi, sarebbe stato evidente che il diritto dello Stato poteva essere combattuto, piegato dalle logiche della forza organizzata. Sarebbe scoppiata in altri termini una guerra civile. In un’intervista rilasciata a Radio 24 in cui ricordava a distanza di anni quei drammatici eventi, Andreotti disse:

Durante il rapimento di Aldo Moro, la linea della fermezza era l’unica via possibile. Se noi avessimo ceduto, ci sarebbe stato uno sciopero bianco di tutte quelle categorie che erano state colpite dai brigatisti perché tra morti e feriti un pezzo dell’Italia aveva pagato un contributo pesantissimo. Se noi avessimo trattato ci sarebbe stata la ribellione delle vittime del terrorismo. La linea della trattativa non avrebbe risolto il problema. Resto rammaricato per non essere riuscito a salvare Moro. Sicuramente c’è stata una correlazione tra l’insediamento del mio Governo e il rapimento Moro”.


La seconda qualità di Andreotti risiedeva nell’atteggiamento prudente, in quell’attenta comprensione dei fenomeni storico-sociali che egli si era formato probabilmente negli anni verdi della sua vita, nel periodo trascorso alla Biblioteca Vaticana quando attendeva ai suoi studi sulla marina pontificia. Il politico romano nutriva una grande passione per la storia. Occorre ricordare a tal proposito, tra i contributi da lui resi in questo campo, un interessante libro su Pio IX (G. Andreotti, La fuga di Pio IX e l’ospitalità dei Borbone, Roma, Benincasa 2003) in cui mostrava come papa Mastai Ferretti, negli anni tormentati del 1848-49, non fosse pregiudizialmente contrario alla concessione di una Carta costituzionale per gli Stati pontifici informata, sia pure in parte, ai principi del costituzionalismo moderno. In appendice al volume era allegato il documento della bozza elaborata dai giuristi del Papa.

Insomma, è difficile stilare un bilancio sull’operato di Andreotti in politica. La sua figura non cessa dividere l’opinione pubblica. I giudizi di natura politica, divisi come sono tra quelli che lo accusano e quelli che lo assolvono, rendono assai difficile comprendere con distacco il suo ruolo all’interno delle istituzioni in politica interna. Anche in politica internazionale la sua azione diplomatica filopalestinese e filoaraba tra gli anni Settanta e Ottanta, non è stata ancora studiata come meriterebbe.

Attendiamo dagli storici dell’età contemporenea uno studio che, muovendo dall’analisi rigorosa delle fonti documentarie e degli atti processuali, possa prendere in esame con metodo avalutativo la sua azione in politica interna e ancor più nelle complesse dinamiche della politica internazionale nell’età della guerra fredda.

Belle milanesi e truci impiccagioni nel diario di un celebre turista tedesco

Johann Kaspar Goethe (1710-1782), giurista, uomo di lettere, appassionato bibliofilo e collezionista di opere d’arte, è ricordato per essere il padre del famoso poeta Johann Wolfgang. Anticipando il figlio di quarant’anni, anche Johann Kaspar visitò l’Italia. Fece un breve soggiorno a Milano ai primi di agosto del 1740. Gli appunti riguardanti i suoi viaggi vennero pubblicati in Italia con il titolo Viaggio in Italia nel 1932. Si tratta di un’opera pressoché introvabile nelle librerie. Andrebbe ristampata, non foss’altro che per le preziose riflessioni sui costumi e sugli stili di vita delle popolazioni negli Stati italiani preunitari.

Lo scrittore tedesco forniva un ritratto significativo su Milano. Nelle pagine dedicate alla città del Duomo, in un italiano un po’ rude come poteva essere quello appreso da un tedesco dei primi decenni del Settecento, Johann Kaspar descriveva le principali chiese cittadine quali Sant’Ambrogio, Sant’Eustorgio, San Lorenzo. Del Duomo riconosceva la mole grandiosa anche se a quel tempo la facciata era incompiuta. In realtà, le sue riflessioni meritano di essere commentate e riportate per almeno due ragioni. Anzitutto perché forniva alcune interessanti descrizioni sullo stato della città. Ad esempio rilevava stupito come nei palazzi ci fossero “finestre di carta” mettendo in evidenza come tale realtà fosse del tutto inadeguata per una città importante come Milano, che era a quei tempi – non va dimenticato – capitale di uno Stato nel Nord Italia particolarmente importante sia da un punto di vista economico che geopolitico. Varrà la pena ricordare che l’uso dei vetri nelle abitazioni domestiche si imporrà molto lentamente in età moderna, affermandosi su scala generale solo nel corso del XIX secolo. Johann Kaspar ricordava inoltre come fosse diffusa la convinzione che le donne milanesi fossero particolarmente belle. A suo giudizio il grado di libertà di cui disponeva il gentil sesso sotto la Madonnina era assai maggiore rispetto a quanto avveniva in altri Stati italiani come il Regno di Napoli o la Repubblica di Venezia. Unico difetto delle milanesi risiedeva nella parlata: la pronuncia, l’inflessione della lingua meneghina “è peccato che non sia uguale allo spirito di cui sono dotate”.

Scriveva il padre di Goethe nei suoi appunti di viaggio:

 “E’ vero che le sue strade [di Milano, Ndr] sono storte e strette e le case, come anche i palazzi provveduti di finestre di carta, il che fa un cattivo aspetto in una gran città, la cui grandezza va fino a dieci miglia italiane di circuito; oltre che è popolatissima, contenendo più di 30.000 anime (in realtà la popolazione doveva attestarsi in quegli anni sulle 80-100.000 persone), tra le quali il sesso donnesco circa l’esteriore vien stimato il più bello di tutte le altre, poiché, giusta il calcolo d’uno molto intendente in questa materia e buon aritmetico, vi debbono essere cinque belle contro una brutta, calcolo ch’io né voglio né posso sottoscrivere. Gli abitanti in genere, per le differenti viste degli Spagnoli, Francesi e Tedeschi, hanno acquistato differenti maniere di vivere. Non v’è in uso quella soggezione delle donne, e non sono così rigorosamente osservate ed accompagnate dai cicisbei, e le ragazze restano nelle case paterne, sinché siano maritate, senza rinchiuderle tra le mura d’un oscuro chiostro, come fanno principalmente i gelosi Veneziani o Napoletani. Insomma, donne e zitelle godono gran libertà, ed è peccato che la loro pronunzia non sia uguale allo spirito con cui sono dotate”.

 La seconda ragione per la quale gli appunti di Johann Kaspar meritano di essere ricordati verte a mio parere su alcune descrizioni di vita quotidiana milanese che oggi stenteremmo a credere proprie di questa terra. A cogliere l’attenzione del nostro visitatore erano le truci esecuzioni capitali. Comminate dai tribunali dello Stato potevano essere confermate in ultima istanza dal Senato, la suprema istituzione giuridico amministrativa del ducato composta, come ricordava Johann Kaspar: “di un presidente e venti dottori nobili, tutti indipendenti dal governo generale”.

Tali sentenze, decise dai giudici d’ancien régime, da un lato si uniformavano alla comunis opinio, dall’altro potevano dipendere dal potere equitativo del giudice. Esse si informavano in particolar modo alle consuetudini secolari vigenti nello Stato, consuetudini che affondavano le loro radici nelle antiche normative locali: le Novae Constitutiones del 1541, gli Statuti del Comune, il diritto romano. L’impiccagione di due delinquenti viene descritta all’interno di una lugubre cerimonia i cui effetti teatrali dovevano colpire nel profondo la folla. Lo scrittore tedesco ricordava la confraternita della carità in San Giovanni alle Case Rotte (la chiesa si trovava nella via omonima, a pochi metri di distanza da palazzo Marino), una corporazione composta in larga parte di nobili la cui funzione consisteva nell’accompagnare i condannati sul patibolo fornendo un supporto religioso e provvedendo, al termine dell’esecuzione, alla loro sepoltura nel cimitero della chiesa.

Scriveva Johann Kaspar:

“Vidi ieri impiccare due birbi. Vi furono osservate tante solennità e circostanze che altrove non si usano. La confraternita della carità, che consiste di nobili ed altri cittadini, si radunava innanzi la prigione coll’abito del loro ordine che copre tutto il corpo, eccetto gli occhi, avendo in una mano una candela accesa, nell’altra una corona di stupenda grandezza. Messi in ordine, camminano a paio a paio, col crocifisso nel fronte, ed i loro servitori a canto [sic!], poi segue il delinquente, condotto tra un padre francescano ed uno della confraternita, che porge la mano al condannato vacillante, per pura carità; dietro di questo viene il boia”. “In tal guisa, con urli, canzoni e preghiere s’avvicinano verso la forca, per questa volta dirizzata in piazza del Duomo [normalmente le impiccaggioni avvenivano in piazza Vetra, NdR]. Quando i malefici furono giunti, si confessarono, e poi in su la scala tirati; dall’altra parte ascende uno de’ confrati [confratelli], a cui tocca, mostrando a quell’infelice il crocifisso, sino che il boia lo getta abbasso, tenendo due corde lunghe; l’una lo soffoca l’altra [sarebbe usata] se quella si rompesse; sospeso così in aria, il boia gli salta sul collo in cui resta, ballando sinché quell’infelice è morto, poi l’abbandona. Indi uno della confraternita monta in su battendo [tagliando] le corde, intanto che gli altri in terra l’aiutano, i quali insieme mettono il corpo levato dalla forca in una cassa, portandolo al cimitero della chiesa di San Giovanni delle Case Rotte; ed ivi vien seppellito. In quanto alle corde, servite a questo uso, vengono abbruciate, per non essere impiegate a qualche stragaria [sic!]. Non ho lasciato in questa relazione pur la minima circostanza, per essere molto differente dal nostro paese”. Evidentemente le esecuzioni a Francoforte avevano una dinamica assai più semplice e spedita.

Il turista tedesco concludeva le sue notazioni con un curioso appunto sulle persone che frequentavano piazza del Duomo. Qui si soffermava sui cicisbei – gentiluomini addetti all’accompagnamento delle dame – nonché  sulla moda curiosa dei preti e dei padri di famiglia. A tal proposito, annotava stupito come fossero soliti portare in pubblico gli occhiali sul naso, usanza che in Germania era inconcepibile. A Milano invece questi uomini potevano farlo perché: “la moda li libera dalle risa”. Varrà la pena ricordare che la piazza del Duomo, nella Milano del Settecento, aveva un’estensione assai più ristretta dell’attuale. Ma diamo la parola, per l’ultima volta, al nostro turista:

“Detta piazza del Duomo serve regolarmente per passeggio in carrozza ed a piedi, ove vidi i cicisbei ed altri di questa razza far il loro mestiere. Ma più mi meravigliai quando vidi gli abati e padri coll’occhiale sul naso. Si figuri un nostro Pantalone passeggiar per le strade in tal guisa armato, cosa direbbero i nostri cittadini. E poi qui la moda li libera dalle risa!”.

L’idea (ottima) della Convenzione rivela gli irriducibili oppositori alle riforme

L’opposizione di Stefano Rodotà alla Convenzione per le riforme costituzionali, resa pubblica in un’intervista al Fatto quotidiano , è stata preceduta dalla presa di posizione dei Comitati Dossetti per la Costituzione  i quali, in un appello rivolto al governo, hanno invitato il presidente del consiglio Letta – e implicitamente la maggioranza Pd-Pdl-Scelta civica che sostiene il governo – ad affossare qualsiasi progetto di riforma complessiva dell’ordinamento. Questi giuristi, concordi con il professor Onida, ritengono che l’unica via di riforma delle istituzioni debba passare attraverso la procedura indicata dall’articolo 138  “senza l’osservanza del quale l’intera Costituzione sarebbe delegittimata”.

Tali posizioni mostrano quanto sia ancora forte in questo Paese il fronte di chi considera la Carta del ’48 un feticcio da venerare quasi fosse una Bibbia civile, un testo intoccabile. Rodotà, al quale era stato proposto di presiedere la Convenzione, ha rigettato tale invito mostrandosi recisamente contrario a qualsiasi ipotesi di riforma. Non capisco come i grillini abbiano potuto avanzare la candidatura di Rodotà al Quirinale presentandola come un cambiamento per l’Italia. Si sa d’altra parte che le vere dinamiche che sottostanno alla politica si fondano in larga parte su atteggiamenti e decisioni che hanno ben poco di razionale.

L’elezione popolare di una Convenzione per la riforma della Costituzione costituisce una delle soluzioni più coerenti con il principio della sovranità popolare perché il popolo, quando la Convenzione avrà terminato la redazione della nuova Costituzione, sarà chiamato ad approvare con plebiscito la nuova Carta fondamentale. Questa è la procedura che si è sempre seguita in passato nei processi di revisione costituzionale mediante Convenzione.

Nel nostro ordinamento democratico l’elezione popolare di una Convenzione è possibile mediante una legge di riforma costituzionale che, approvata dai due rami del parlamento in forza dell’articolo 138, introduca nella Carta tale procedura. Una soluzione, quella della Convenzione, in fondo assai più democratica e liberale rispetto al vigente articolo 138, il quale autorizza una maggioranza dei due terzi della classe politica in Parlamento a riformare integralmente la Costituzione senza passare per il referendum popolare.

Ovviamente ci sono altre vie per modificare una costituzione e fondare una nuova repubblica. Ad esempio l’Assemblea costituente, la quale – come fecero i nostri ‘padri’ nel 1946-47 – sarebbe chiamata a riformare l’ordinamento costituzionale esercitando al contempo la funzione legislativa ordinaria.

Credo però che la Convenzione sia la via maestra per gestire il cambiamento salvaguardando non solo la legalità ma ancor più la piena legittimazione democratica delle riforme costituzionali.

Io non so richiamare a tal proposito esempio più prezioso dell’articolo 33 del progetto di costituzione girondino del 15-16 febbraio 1793. Redatto da Condorcet che lo presentò alla convenzione francese, esso recitava:

“Un popolo ha sempre il diritto di rivedere, di riformare e di cambiare la sua costituzione. Una generazione non ha il diritto di assoggettare le generazioni future alle sue leggi e ogni eredità nelle funzioni è assurda e tirannica”.

Tale articolo, che introduceva anche il principio del continuo ricambio della classe politica, dovrebbe costituire uno punto basilare di ogni ordinamento costituzionale poggiante su basi liberali e democratiche.

Non resta che augurarci che i politici seguano tale esempio. In caso contrario, se hanno intenzione di formare una commissione parlamentare aperta ai tecnici come sembrerebbe in base a recenti dichiarazioni rilasciate da politici di area Pdl, evitino di mascherare tale soluzione definendola subdolamente con il termine “convenzione”. Una commissione parlamentare per le riforme costituzionali sarebbe una moderna riedizione della bicamerali di infausta memoria. Infausta perché sappiamo il risultato fallimentare che hanno prodotto.

Le sinistre incognite nel futuro di un Napolitano bis

Se dovesse concretizzarsi la rielezione di Napolitano, saremmo in una situazione terribilmente simile a quella in cui si trovò la Germania nella prima metà degli anni Trenta del secolo scorso. 
Nel 1932 il presidente uscente, l’anziano Paul Ludwig von Hindenburg, fu costretto a ricandidarsi dai partiti  democratici nonostante fosse soggetto a crisi di senilità che gli impedivano da tempo di condurre efficacemente le sue funzioni. Con la rielezione di Hindenburg si evitò il successo di Hitler ma, com’è noto, fu un rimedio di breve durata.

Sappiamo come andò a finire. Il 30 gennaio 1933 Hindenburg, influenzato e incapace di resistere alle pressioni degli ambienti militari e conservatori tedeschi, nominò il capo del partito nazista alla cancelleria del Reich. Il giorno prima della morte, avvenuta il 2 agosto 1934, l’anziano presidente ricevette Hitler nella sua casa nella Prussia orientale: Hindenburg, ormai agonizzante, pensando di trovarsi di fronte all’imperatore, lo chiamò “Sua Maestà”. 

Il nostro Capo dello Stato non si trova fortunatamente nelle condizioni di Hindenburg. Chiediamoci tuttavia se il presidente Napolitano (classe 1925), qualora fosse rieletto – come sembra ormai probabile – sarebbe in grado di esercitare le sue funzioni nei prossimi sette anni con la necessaria forza e lucidità. Le difficili condizioni in cui si trova l’Italia richiedono una guida forte e autorevole che sia in grado di svolgere il mandato presidenziale per l’intero arco del settennato. 

Se la maggioranza del collegio parlamentare (accresciuto dai delegati delle Regioni) non riuscirà a pervenire a una  d e c i s i o n e  politica sull’elezione al Quirinale, ci troveremmo di fronte a una grave crisi istituzionale. A quel punto, non ci troveremmo di fronte all’ascesa di un nuovo Hitler (almeno per ora), ma saremmo invischiati in un tunnel la cui uscita rischierà di essere traumatica nella grave crisi economica in cui si trova il Paese.

Non si riconferma un anziano Presidente, anche se ha reso un ottimo servizio al Paese nel suo settennato. Se ciò avvenisse, avremmo risolto solo per breve tempo una crisi politica senza precedenti. 

Rebus Elezioni 2013

La bomba di Grillo fa strage a sinistra, Berlusconi resuscita grazie all’autogol di Giannino e al frigidaire di Monti. Senato a destra, Camera a sinistra e Grillo nel mezzo…

Credo x Tassassini

‘Nel 1992 fu ISI, imposta straordinaria sugli immobili, imposta onnipotente che colpi’ anche la prima casa. Divenne ordinaria e fu Ici. Il suo gettito fu destinato ai Comuni. Abolita da B. nel 2008, rinacque il terzo anno con Monti…’

Eh no cari Tassassini…su questo sentiero non vi posso seguire. Il Credo si dice solo in Chiesa.

Il dovere di non disperdere una civiltà

“Noi diciamo di esser civili, e ci offende chi dicesse che non lo siamo. Vediamo di capire un po’ meglio che cosa vuol dire civiltà, che cosa vuol dire esser civili.
Anzitutto, non vuol dire forse che partiamo tutti da una certa educazione? E da cosa siamo stati educati? Siamo stati educati da chi ci ha preceduto: da chi ha innalzato le case, coltivato i campi, varato le navi, pensato e scritto ed inventato tutto quello che si chiama civiltà moderna. Di tutto questo siamo stati chiamati a godere, nel momento stesso in cui nascevamo.

Ma di tutto questo non si gode senza rischi. Chi sta in piedi su di un grande passato, chi  h a  q u a l c o s a, ha più doveri di chi nasce senza nulla. Ma nessuno nasce senza nulla, in un paese civile: perché in una società civile c’è un dovere di assistenza che s’estende a tutti, e dev’esserci un minimo di educazione per tutti.
La civiltà è dunque come un grande patrimonio collettivo, che non ci fa ricchi di sostanze, ma ci deve far ricchi almeno di  c a p a c i t à, e ci impone dei doveri. La civiltà è madre di libertà”.

ETTORE PASSERIN D’ENTREVES, Come nascono le libertà democratiche, Rai, Radio Televisione Italiana, Torino, ILTE 1956, pag.5.

Queste parole, pronunciate dallo storico Ettore Passerin d’Entrèves nel corso delle trasmissioni Rai tenute negli anni Cinquanta del secolo scorso, sono valide ancor oggi, a più di cinquant’anni di distanza. Sono valide ancor più oggi, in una congiuntura che sembra mettere a dura prova non solo l’economia del nostro Paese, ma il Paese nel suo complesso. Costituiscono una riflessione sul concetto di civiltà ma, a ben vedere, esse sono un ammonimento a non disperdere, a non dilapidare i valori di libertà e democrazia, quel prezioso bagaglio di conquiste nei più svariati campi del sapere che quanti ci hanno preceduto hanno lasciato in eredità alla nostra generazione e a quelle che seguiranno.

E’ un dovere che incombe su noi italiani nel nostro piccolo ma ancor più sulla classe dirigente e sulla classe politica che ci governerà nei prossimi anni. Ma tale dovere incomberà in maggior misura su quanti saranno chiamati a decidere le sorti dell’Europa. Le elezioni che si terranno in Germania nel settembre del prossimo anno saranno decisive a tal proposito. In gioco non è soltanto la civiltà italiana, ma la civiltà europea con quel complesso di valori, di istituzioni, di stili di vita, di mentalità che l’hanno resa grande nel corso dei secoli prima che i nazionalismi ne minassero le fondamenta.

L’anomalia italiana: quando il buongoverno non si concilia con la democrazia

Michele Salvati, in un articolo apparso sulla rivista “Il Mulino” (anno LXI, 1/12, n.459, pp.22-32), si è chiesto per quale motivo l’Italia, in larga parte della storia repubblicana, non abbia avuto governi responsabili, in grado di realizzare politiche lungimiranti. Perché in Italia non c’è stato il buongoverno? In realtà – sostiene Salvati – il buongoverno c’è stato. Il guaio è che la sua durata è stata breve. Si è verificato quasi sempre in circostanze eccezionali.
Nel dopoguerra, durante la stagione del centrismo (dal 1948 al 1963), il Paese fu governato da una classe politica autorevole, responsabile, alla quale dobbiamo la messa a punto di quelle riforme che portarono al poderoso boom economico dell’Italia padana e dell’Italia centrale negli anni Sessanta del secolo scorso. Meno significativo, come noto, lo sviluppo economico nel Mezzogiorno. Ma, a parte la lunga stagione del centrismo, altre belle pagine non si vedono. Bisogna attendere – fa notare Salvati – la seconda Repubblica, in particolar modo i pochi anni che intercorsero tra la formazione del primo governo Amato (1992) e la fine del primo governo Prodi (1998) per vedere qualcosa che somigli al buongoverno; sei anni nel corso dei quali il Paese, reduce da una crisi finanziaria che aveva messo a repentaglio la tenuta del sistema politico-costituzionale, poté contare su governi in grado di condurre politiche impopolari pur di scongiurare la bancarotta dello Stato. In circostanze eccezionali, essi ebbero il merito di tenere sotto controllo la spesa e il debito pubblico salvando l’Italia da un default le cui conseguenze sarebbero state imprevedibili.  
La tesi centrale del saggio di Salvati risiede nella constatazione che l’Italia, messa a confronto con le altre democrazie europee, presenta una vistosa anomalia caratterizzata dalla non coincidenza tra democrazia e buongoverno. “La mia tesi è che quel contrasto (tra democrazia e buongoverno) è stato mediamente più forte, e ha dato luogo a un governo peggiore, in Italia rispetto ad altri Paesi con i quali è ragionevole confrontarci in questo dopoguerra: Regno Unito, Francia, Germania, Spagna post-franchista”.
Una tesi difficile da confutare. Difatti, se prendiamo in esame le condizioni della penisola italiana nella seconda parte della “Prima Repubblica” (1963-1992) e nella seconda parte della “Seconda Repubblica” (1998-2011) – sembra che quei governi furono incapaci di adottare politiche lungimiranti e questo nonostante fossero composti da partiti che riscuotevano il consenso di larga parte dell’elettorato. Non è un caso se l’immane debito pubblico italiano fu cumulato nei periodi di malgoverno che si sono appena accennati. Certo, ci troviamo di fronte a due sistemi politici diversi ma entrambi furono in qualche modo responsabili.
A mio parere, se prendiamo in esame la storia repubblicana, ci accorgiamo che i punti deboli del nostro vivere in comunità sono sostanzialmente due: la scarsa fiducia dei cittadini nelle istituzioni politiche, considerate estranee quando non rechino vantaggio ai loro interessi particolari; l’assenza di una cultura di governo in larga parte della classe politica. Questo ha prodotto esecutivi irresponsabili, poco autorevoli e per nulla stabili. Nella “Prima Repubblica” ci sono stati cinquanta governi in 47 anni – dal 1946 al 1993 con una media di quasi 1 governo all’anno – con una legge elettorale proporzionale in regime politico parlamentare. Nella “Seconda Repubblica” – che per comodità facciamo durare fino al 2011 includendo il governo Monti – gli esecutivi sono stati dieci in soli 17 anni con una media ancor più bassa rispetto alla precedente. In questo secondo caso, la forma di governo parlamentare è stata regolata da due leggi elettorali (il Mattarellum dal 1993 al 2005, il Porcellum dal 2006 ad oggi) che hanno tentato di risolvere il problema della governabilità: la prima con la prevalenza di un sistema a collegi uninominali sul modello inglese, la seconda con un sistema proporzionale corretto dal premio di maggioranza alla coalizione vincente. Secondo Salvati tali leggi non sono bastate a scongiurare l’instabilità del sistema politico. Gli esecutivi hanno continuato a traballare anche in questi anni, posti perennemente sotto il ricatto dei parlamentari i quali, nel sistema vigente, rivestono il monopolio della legislazione nazionale. Solo in un caso l’esecutivo ha potuto operare per quasi l’intero arco della legislatura: il secondo governo Berlusconi (2001-2005) che per Salvati non può essere considerato esempio di buongoverno. La realtà è che nella “Seconda Repubblica”, quantunque le leggi elettorali abbiano consentito di eleggere direttamente il presidente del consiglio, il buongoverno non è stato assicurato.
Oggi, esattamente come vent’anni fa, siamo alle prese con un governo “tecnico” il cui mandato dovrebbe consistere nel realizzare le riforme che nessun partito ha avuto il coraggio di fare. Salvati ha ragione nel sostenere che in Italia il buon governo non è coinciso quasi mai con la politica democratica. A mio giudizio il problema risiede nel tipo di Stato che ci ha governato finora. Lo Stato nazionale unitario – per il modo in cui si è formato, per la sua stessa costituzione interna – ci ha impedito di identificarci totalmente in un ordinamento saldamente ancorato alle radici della storia preunitaria della penisola. Non ci ha consentito di essere cittadini sensibili al bene comune. Il problema non investe solo la classe politica. Riguarda le classi dirigenti e i cittadini: le une e gli altri più sensibili all’interesse corporativo ed individuale che a quello generale.
Questa situazione è dovuta al fatto che lo Stato viene s e n t i t o  dai cittadini come qualcosa di imposto, di artificiale, di innaturale.

Se non risolveremo questo problema con una serie di riforme coraggiose tese a ridisegnare nel suo complesso l’ordinamento costituzionale, il Paese finirà nei prossimi anni per essere dilaniato dalle sue interne contraddizioni. 

20 aprile 1814: la rivoluzione dei lombardi per uno Stato indipendente nella valle padana

La crisi politica ed economica in cui versa l’Unione Europea sembra rafforzare i movimenti nazionalisti ed indipendentisti che si stanno formando un po’ ovunque nel Vecchio Continente. In Italia i movimenti orientati a promuovere l’indipendenza delle piccole patrie sono divisi nei programmi e nelle idealità. Gli indipendentisti veneti vorrebbero uno Stato veneto, altri invece aspirano a costituire uno Stato padano formato dall’unione delle regioni del Nord Italia. Beppe Grillo, che di tutto può essere accusato fuorché di nazionalismo, sembra voler proporre ai suoi elettori l’uscita dello Stato italiano dall’Unione monetaria. I partiti nazionalisti si spingono addirittura sino a chiedere l’uscita dell’Italia dall’Unione europea.
Nel constatare l’eterogeneità di tali posizioni, il mio pensiero corre ai giorni convulsi dell’aprile 1814 quando, in una crisi europea seguita alla dissoluzione del dominio napoleonico, i lombardi furono protagonisti di un moto rivoluzionario che assunse una notevole importanza nel panorama delle rivolte antifrancesi. Anche in quei frangenti le posizioni dei partiti in cui si articolava l’opinione pubblica a Milano erano assai diverse, inconciliabili fra loro perché nemiche irriducibili sul piano politico.
Nel mio libro (Gabriele Coltorti, I lombardi contro l’Italia di Napoleone, “Quaderni Padani” 99-100, San Marino, Il Cerchio 2012) ho mostrato come la rivoluzione scoppiata a Milano il 20 aprile 1814 causò il crollo del regime napoleonico nella città del Duomo portando al governo dello Stato – sia pure per breve tempo (dal 20 aprile al 25 maggio 1814) – una classe politica di nobili e notabili lombardi determinati ad ottenere l’indipendenza di un regno limitato a una parte della Padania centro-occidentale. Le soluzioni dei rivoluzionari erano tuttavia assai diverse tra loro. Tale Stato poteva ricondursi al vecchio principato regionale visconteo-sforzesco comprendente la Lombardia ma esteso al Novarese, all’Alessandrino e al Genovesato (soluzione caldeggiata dalla nobiltà milanese più tradizionalista) oppure poteva consistere in uno Stato padano-italico esteso alla Lombardia e al Novarese, ma anche ai territori cispadani di Parma, Piacenza, Modena, Reggio e alle Romagne (posizione sostenuta dal ceto medio della burocrazia, dalla borghesia e dalla nobiltà tiepidamente liberale). E’ peraltro significativo che la classe politica napoleonica, contro la quale fu compiuta la rivoluzione, puntasse in fondo ad obiettivi simili sul piano territoriale: le istruzioni rilasciate dai funzionari napoleonici agli ufficiali in missione all’estero insistevano sull’indipendenza di uno Stato cisalpino limitato alla Lombardia, al Novarese, ai territori ex estensi di Modena e Reggio e alle ex legazioni romagnole di Ferrara, Bologna e Ravenna. In tali documenti non si parlava affatto di Italia unita; neppure di rivendicazioni estese al Veneto e al Friuli, ormai acquisiti dagli austriaci in via definitiva.
Perché le cose non funzionarono? Il governo napoleonico chiedeva uno Stato indipendente governato dal principe Eugenio Beauharnais, il figliastro di Napoleone che da nove anni aveva governato il regno italico per conto del patrigno. Una frangia considerevole di rivoluzionari aspirava invece ad uno Stato governato da un principe che non fosse riconducibile in alcun modo ai napoleonidi, tale era l’odio che i lombardi nutrivano verso il regime di Bonaparte. Questa diversità di vedute fu radicale, foriera di uno scontro autenticamente politico (laddove “politico” è qui inteso nel significato schmittiano di “opposizione radicale tra fazioni, lotta all’ultimo sangue”): quando scoppiò a Milano il tumulto popolare, per tre giorni (20-21-23 aprile) ebbe luogo una guerra civile nel corso della quale la fazione dei funzionari napoleonici fedeli al viceré fu travolta dalla ferocia dei rivoluzionari. La violenza di tale scontro, ma soprattutto l’assenza di un gioco di squadra tra le fazioni furono decisivi nel portare al fallimento dei progetti indipendentisti.
20 aprile 1814: il palazzo del ministro Prina saccheggiato dai milanesi.
Qualcuno potrebbe chiedersi quale importanza potesse avere a quel tempo il Regno d’Italia napoleonico governato da Napoleone e dal viceré Eugenio Beauharnais. Milano in quegli anni era capitale di uno Stato che, quantunque soggetto al dominio francese, si estendeva a una parte significativa della valle padana, comprendendo il Novarese, la Lombardia, il Modenese e il Reggiano, le Romagne, il Veneto, il Trentino, il Friuli e le Marche. In fondo Napoleone, il despota Napoleone accusato di aver saccheggiato i territori conquistati drenando risorse e traendo carne da macello per i suoi eserciti con lo strumento della coscrizione obbligatoria, aveva contribuito in modo non trascurabile al risveglio delle nazioni oppresse. Ai polacchi – il cui territorio, fagocitato da Russia, Prussia e Austria, era scomparso alla fine del Settecento dalla carta geopolitica dell’Europa – aveva garantito uno Stato, il granducato di Varsavia, che, quantunque limitato nella sua stessa estensione rispetto all’antico regno di Polonia, costituiva un esempio tangibile di Stato nazionale basato su principi opposti rispetto a quelli seguiti dalla fredda diplomazia delle cancellerie settecentesche.
Nella penisola italiana la repubblica cisalpina – divenuta repubblica italiana e, dal 1805, regno d’Italia – costituiva un altro esempio di Stato poggiante su basi “nazionali”. Questo regno costituì in effetti per tanti patrioti il primo passo verso l’unificazione della penisola. Eppure, a ben vedere, nella sua fondazione era possibile riconoscere il tentativo, compiuto da Napoleone, di riesumare l’antico regno italico di origine longobarda che, a partire dalla metà del VII secolo per arrivare sino al X-XI secolo, si era esteso a larga parte della pianura padano veneta e della Toscana. Faceva eccezione la città di Venezia, antico dominio di origine bizantina, che i longobardi non riuscirono mai a piegare. Nel 774 il regno italico longobardo venne conquistato dai franchi di Carlo Magno, i quali – in linea con le consuetudini medievali – conservarono il diritto e le strutture istituzionali fissate dai longobardi; difatti Carlo Magno – come i suoi successori – non governò il regno italico-longobardo come re dei franchi, bensì come re d’Italia: l’Italia longobarda, presto divenuta “Lombardia”, estesa a larga parte della Padania. La cerimonia dell’incoronazione mediante l’impiego della corona ferrea rivestiva una funzione di legittimazione presso il popolo lombardo. Nonostante la frammentazione politica cui andò soggetto il regno italico di origine longobarda nei secoli del Basso Medioevo – il che portò , com’è fin troppo noto, alla formazione degli Stati cittadini e delle Signorie feudali – la cerimonia dell’incoronazione continuò ad essere tenuta nella basilica milanese di Sant’Ambrogio fino al XVI secolo segnando una continuità con la tradizione medievale.
Ora, tornando al regno d’Italia napoleonico, varrà la pena ricordare che negli anni della sua massima estensione politica (1810-1813) esso occupava una parte considerevole della valle padana fino ad includere le Marche ex pontificie. Diverso il caso di territori quali l’Umbria, la Toscana, il Lazio e la parte restante della Padania occidentale (l’ex ducato di Parma e Piacenza, la Liguria e quasi tutto il Piemonte), annessi all’Impero francese e amministrati con prefetti nominati da Parigi. Nel Sud Italia Napoleone aveva lasciato intatto quel che restava del Regno di Napoli, riconoscendo l’irriducibile diversità di quelle terre rispetto alla parte centro-settentrionale della penisola. Affidò il governo del Mezzogiorno continentale al fratello Giuseppe Bonaparte e, dal 1808, al cognato Gioacchino Murat.  
Al Nord il Regno d’Italia con capitale Milano non riprendeva del tutto i confini dell’antico Regnum Italiae longobardo ma non è azzardato ritenere che Napoleone intendesse richiamare idealmente la tradizione storica dell’antico regno medievale. Basti pensare all’incoronazione di Bonaparte a re d’Italia avvenuta nel Duomo di Milano il 26 maggio 1805: ecco comparire di nuovo la corona ferrea, scelta non casuale perché segnava una certa continuità con la tradizione del Regnum Italiae longobardo. Non diversamente dai polacchi, Napoleone aveva quindi dato ai lombardo-italici un piccolo Stato nazionale in cui potessero riconoscersi, guardandosi tuttavia dall’unire la Padania sotto un solo regime politico istituzionale.
La storiografia risorgimentale ritiene che Bonaparte abbia ostacolato la formazione di uno Stato nazionale esteso dalle Alpi alla Sicilia perché lo giudicava una minaccia per gli interessi francesi. Io penso che, più verosimilmente, egli ritenesse naturale la divisione secolare della penisola. Occorreva ai suoi occhi semplificare la carte geopolitica, riducendo il numero degli Stati senza mettere in discussione le storiche fratture esistenti tra le tre Italie: l’Italia padano-italica di origine longobarda; l’Italia romano-fiorentina  radicata nell’eredità classica che le avevano lasciato il Rinascimento e il Papato romano; il Regno di Napoli depositario della grande tradizione sveva che ne aveva fatto un Reame poggiante su un peculiare senso di nazionalità venuto a delinearsi sotto la monarchia angioina, aragonese, ma soprattutto nei secoli del vicereame spagnolo e del governo borbonico.

Nella valle padana il Regno d’Italia napoleonico costituì il tentativo di costituire una nazione lombardo-italica in ideale continuità con l’antico Regnum ItaliaeLangobardorum. Questo non significa che mancassero a Milano patrioti sensibili al tema dell’unità della penisola. Basti ricordare, per fare alcuni esempi, alle poesie di Ugo Foscolo oppure ai progetti editoriali finanziati dal governo: indicativi in proposito i volumi degli Scrittori classici italiani di economia politica (1803-1816) diretti dal giacobino Pietro Custodi ove erano raccolte le opere di famosi economisti italiani vissuti in ogni parte d’Italia. Pensiamo ancora ai patrioti napoletani che operarono a Milano durante la repubblica e il regno d’Italia e fornirono un contributo importante al rinnovamento culturale della città: Vincenzo Cuoco, Francesco Lomonaco, Francesco Saverio Salfi per citarne solo alcuni. L’ideale di uno Stato nazionale italiano esteso a tutta la penisola, sulla cui formazione i patrioti meridionali esuli a Milano ebbero un ruolo importante, rimase tuttavia limitato a una ristretta minoranza  della classe dirigente italica.

Tornando alla rivoluzione del 20 aprile 1814, il dato significativo è che a Milano – capitale, come si è accennato, di un vasto Stato padano –  quasi tutti lavorassero concretamente per l’indipendenza. Perfino i funzionari italici più fedeli al viceré Beauharnais, chiedevano un regno sottratto al dominio francese. Erano persone come il cancelliere guardasigilli e duca di Lodi Francesco Melzi d’Eril, il ministro delle finanze Giuseppe Prina, il ministro dell’interno Luigi Vaccari: tutti uniti nel chiedere l’indipendenza di un regno limitato a una parte della valle padana e governato dal principe Eugenio.
Questo partito, il partito della “cabala” come era definito sprezzantemente dai nobili municipalisti avversi al regime napoleonico, era nettamente minoritario a Milano. Per certi versi fu un peccato: si trattava infatti dell’unico movimento in grado di sostenere la battaglia per l’indipendenza al congresso di Parigi. In quel fatidico aprile del 1814, il viceré resisteva valorosamente con il suo esercito contro gli austriaci dilagati in Veneto fino al Mincio. Il 16 aprile a Schiarino Rizzino, un castello non molto distante da Mantova, il Beauharnais aveva firmato con l’Austria un armistizio in base al quale gli veniva riconosciuto il diritto di inviare a Parigi una deputazione per sostenere i suoi diritti sul trono di Milano. Tale missione fu affidata ai generali Achille Fontanelli e Antonio Bertoletti, i quali partirono subito per la Francia. Il senato del regno italico, un collegio rappresentativo con poteri prevalentemente consultivi, scelse di inviare due deputati tiepidamente filonapoleonici come Luigi Castiglioni e Diego Guicciardi, i quali tuttavia non poterono raggiungere la capitale francese per lo scoppio della rivoluzione. Se la deputazione avesse avuto i poteri necessari per operare a Parigi per conto del vicerè, non sarebbe stato difficile ottenere il riconoscimento del Beauharnais come re d’Italia al posto di Napoleone, ormai esiliato all’isola d’Elba. Egli godeva infatti della potente amicizia dello zar Alessandro I. Era inoltre legato da un vincolo familiare al re di Baviera Massimiliano I di Wittelsbach avendone sposato la figlia Amalia Augusta. Gli eventi assunsero una piega diversa. Il partito della “cabala”, quantunque fosse in grado di riscuotere alcuni consensi nell’Europa delle corti, era oggetto di un odio feroce da parte della popolazione lombarda che il 20 aprile non esitò a insorgere facendo la rivoluzione.    
Duramente provati dall’elevata tassazione che Napoleone aveva imposto al regno per finanziare le guerre francesi, sconvolti dalla morte di tanti giovani sui campi di Russia e di Germania che avevano militato valorosamente nella Grande Armée, i rivoluzionari lombardi volevano la fine del regime napoleonico. Quanti avevano aiutato il despota francese a sfruttare il popolo prestando servizio in posti di responsabilità nella burocrazia (ministri e direttori generali) furono cacciati. Ad essere colpiti furono principalmente i ministri del governo e non pochi funzionari della pubblica amministrazione. Nel mio lavoro ho dimostrato che gli impiegati pubblici modenesi e reggiani furono i più odiati dai lombardi per la loro fedeltà al regime napoleonico. La reazione colpì tuttavia quasi tutti i funzionari che erano stati ligi a Napoleone, anche quanti potevano vantare origini lombarde, venete o addirittura novaresi come il ministro delle finanze Giuseppe Prina: la feroce uccisione di questo funzionario, linciato dalla folla milanese con i puntali delle ombrelle, è descritta nel libro in modo approfondito sulla base di alcuni documenti risalenti a quell’epoca.
La stragrande maggioranza dei rivoluzionari lombardi si divideva sostanzialmente nei due partiti che si sono accennati all’inizio. Il primo raccoglieva i “cisalpini”: uomini appartenenti al ceto medio burocratico, alla borghesia lombarda del commercio e dell’artigianato, i quali chiedevano l’indipendenza di uno Stato esteso a larga parte della valle padana centro-occidentale. Come il partito dei funzionari fedeli al Beauharnais, essi aspiravano quindi a uno Stato padano italico. Diversamente dagli uomini del cessato governo italico, questi lombardi chiedevano tuttavia che il regno fosse governato da un sovrano non appartenente alla dinastia napoleonica. Erano disposti a sostenere la candidatura di un principe di casa d’Austria il cui potere fosse limitato da una Costituzione disegnata sul modello inglese o sulla falsariga di una Costituzione moderata ispirata alla Carta francese del 1791. Varrà la pena ricordare tra gli esponenti più importanti di questo movimento il cremonese Gaetano Pietro Cadolino, il comasco Ludovico Giovio.
Il secondo partito era formato invece dalla nobiltà lombarda più tradizionalista, la quale aveva colto nel crollo del regime napoleonico una straordinaria opportunità per rifondare uno Stato assai vicino all’antico principato regionale visconteo-sforzesco ad egemonia patrizia: lo Stato che si era venuto formando nei secoli della dominazione spagnola e nei primi cinquant’anni del XVIII secolo, nel primo periodo della dominazione austriaca. Questa nobiltà (Luigi Carlo Rasini, Alfonso Castiglioni, Giacomo Mellerio) chiedeva un regno indipendente limitato all’incirca all’attuale regione Lombardia, alla Liguria, all’alto e basso novarese, a una parte dell’alessandrino: un territorio quest’ultimo che si rendeva necessario per congiungere il Genovesato con il Milanese. Aspiravano anch’essi a un regno governato da un principe di casa d’Austria, ma era importante che l’assetto costituzionale del potere riprendesse  i peculiari moduli di governo della società d’ancien régime: la gestione dell’amministrazione pubblica doveva essere esercitata in una sorta di regime a mezzadria tra la burocrazia professionale del monarca e la nobiltà locale. Tale partito era ben presente in seno al governo provvisorio succeduto a quello napoleonico.
Occorre inoltre ricordare che, tra quanti parteciparono alla rivoluzione, c’era una piccola frangia di patrioti italiani i quali, a voler prendere in esame le loro rivendicazioni sul piano geopolitico, possono considerarsi gli antenati degli attuali paladini dell’Unità d’Italia. Erano uomini assai vicini alla massoneria e alle prime sette carbonare, i quali si battevano per un regno esteso a gran parte della penisola, governato dal re di Napoli Gioacchino Murat.
Quando i rivoluzionari lombardi conquistarono il governo dello Stato in seguito alla rivolta popolare del 20 aprile fu inviata al congresso delle potenze alleate una nuova deputazione in sostituzione di quella napoleonica per ottenere il riconoscimento di uno Stato indipendente in una parte più o meno estesa della Padania centro-occidentale. Tali piani furono destinati al fallimento: il viceré Eugenio, amareggiato per l’odio che i lombardi nutrivano nei suoi confronti, sconvolto per la feroce uccisione del ministro Prina, firmò un trattato con l’Austria (capitolazione di Mantova: 23 aprile 1814) con il quale cedeva all’Impero asburgico quel che restava del regno italico nonché le stesse piazzeforti che ancora resistevano valorosamente al nemico. Gli austriaci si videro consegnare su un piatto d’argento quel che restava del regno italico, senza colpo ferire. Con tale atto di diritto internazionale il viceré non solo rinunciò ai suoi piani per succedere a Napoleone come re d’Italia; compromise gli stessi programmi dei rivoluzionari, i quali non poterono più contare su un esercito “nazionale” con cui far valere materialmente l’indipendenza dei territori lombardi. Come scrisse da Parigi il patrizio milanese Federico Confalonieri alla moglie Teresa Casati, “noi siam venduti”.
TITOLO: I Lombardi contro l’Italia di Napoleone. La battaglia perduta per uno Stato indipendente in Padania AUTORE:  Gabriele Coltorti; EDITORE: San Marino: Il Cerchio, 2012; PAGINE: 112

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