La strage di piazza Fontana e le sue ombre sul presente

Lo sciopero generale di oggi cade nello stesso giorno in cui, quarantacinque anni fa, si consumò la strage di piazza Fontana, avvenuta a Milano il 12 dicembre 1969.  Una bomba, piazzata nella sede della Banca dell’Agricoltura, scoppiò alle ore 16.37 di un venerdì. I morti furono 16, i feriti 90.  Massimo Mazzucco, uno dei tanti testimoni che si trovavano nelle vicinanze, ha descritto così quegli istanti drammatici:

 

Il 12 Dicembre del 1969 ero un ragazzino, e verso le 4.30 del pomeriggio ero chinato sul mio motorino, in un garage di via Larga, tutto intento a limare i condotti del carburatore per farlo “andare di più”. Ad un certo punto ho sentito un tonfo sordo, forte, opaco, che ha scosso l’aria e i vetri dappertutto. Nel giro di tre minuti c’era gente che correva e urlava da tutte le parti. Sono uscito nel buio (a Milano, d’inverno, a quell’ora è già notte) e mi sono unito a tutti quelli che confluivano come automi verso piazza Fontana, dalla parte opposta della strada. Sono però riuscito ad arrivare solo fino all’angolo della piazza, e tutto era già bloccato. Dappertutto arrivavano ambulanze, carri pompieri e auto della polizia, e dopo pochi minuti la piazza veniva illuminata a giorno da potenti riflettori, come se fosse un set cinematografico a 360 gradi.

Giravano mille voci, ma nessuno capiva bene cosa fosse successo. C’era chi diceva… “l’è stada ‘na bumba”, l’altro che rispondeva “ma che bumba, pirla, l’è sciupada la caldaia del gas”, e il terzo “la caldaia del gas? Ma t’è vist che bùs che l’ha fà de sòta?” La gente urlava, le sirene urlavano, i vigili urlavano, i feriti urlavano. Eravamo tutti ipnotizzati, confusi, senza punti di riferimento“.

Oggi il Paese sta vivendo gravi tensioni sociali: ai problemi legati alla mancanza di riforme strutturali nel sistema politico amministrativo, si aggiunge la grande piaga della disoccupazione dovuta a una crisi economica devastante. Le manifestazioni dei sindacati, contraddistinte in alcune città da attacchi dei manifestanti e cariche della polizia, fanno pensare a quei lunghi anni Settanta segnati da innumerevoli lutti e violenze.

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Foto scattata da Paolo Pedrizzetti il 14 marzo 1977: l’estremista Memeo punta la pistola contro la polizia

Non rifarò la storia degli innumerevoli processi che furono istruiti per trovare i colpevoli della strage di piazza Fontana. Da storico mi preme accennare brevemente allo stato della città in quegli anni drammatici. Milano era dominata da un notevole disordine sociale. I fascisti e le frange rivoluzionarie della sinistra estrema si opponevano alle forze dell’ordine in un clima di guerriglia continua. Il sabato era giorno di cortei e manifestazioni in cui i cittadini avevano paura. Si usciva di casa malvolentieri. Gli scontri erano continui e spesso ci scappava il morto. Per chi li ha vissuti furono anni orribili.

Da quel 12 dicembre 1969 e per più di un decennio la mala pianta del terrorismo insanguinò l’Italia spegnendo le vite di giornalisti, uomini delle forze dell’ordine, professori, magistrati la cui unica colpa era di aver difeso lo Stato democratico.

Fortunatamente, non foss’altro che per ragioni anagrafiche, posso dire di non aver vissuto quegli anni. Eppure, se le cose non migliorano in Italia e in Europa, c’è il rischio che quella stagione si ripresenti in tutta la sua violenza.

Certo, crollato da più di vent’anni il Muro di Berlino, le ideologie comuniste non sono più il punto di riferimento dei giovani. Il grande problema dell’Europa è la mancanza di lavoro che colpisce ormai una larga fascia della popolazione. In Italia la situazione è ancor più drammatica perché i disoccupati sono in numero esponenziale. Se nei prossimi mesi l’economia italiana non si rimetterà in moto, il Paese non solo imboccherà la strada del declino (come ha detto il premier Renzi), ma dovrà lottare per la sua stessa esistenza.

Macroregioni e Regioni: pilastri del buongoverno in una riforma federale

Recentemente il ministro dell’ambiente, Gianluca Galletti, ha proposto di ridurre il numero delle regioni portandole a 11. Tale riforma viene caldeggiata da una parte dei democratici per ora apparentemente minoritaria. Difatti, oltre a Galletti, non sono molti ad essersi schierati a sostegno di questa proposta. L’unico ad avergli fatto eco è stato il neogovernatore dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini. A far discutere è stata in particolare l’idea di accorpare la Regione Emilia Romagna con la Toscana dando vita ad un’unica macroregione tosco emiliana. Un’idea certamente originale, che può avere una sua giustificazione nella storia peculiare di quei territori e nello stile di vita degli abitanti.

Galletti e Bonaccini
Il ministro dell’ambiente Galletti e il governatore dell’Emilia Romagna Bonaccini (da Il Resto del Carlino)

Per il resto l’accorpamento interesserebbe almeno 15 delle 20 regioni esistenti. Resterebbero invariate, oltre alle isole, Lombardia, Puglia e Campania. Troveremmo invece quali “macroregioni”, oltre ad Emilia Romagna-Toscana, Piemonte-Liguria-Valle d’Aosta; Friuli Venezia Giulia-Veneto-Trentino Alto Adige; Umbria-Lazio; Marche-Abruzzo-Molise; Basilicata-Calabria.

La fusione delle Regioni rivela una concezione sostanzialmente estranea alle ragioni dell’autonomia: si propone di modificare dall’alto, con provvedimenti decisi a tavolino, l’assetto di enti territoriali la cui nascita è in molti casi antecedente all’attuale ordinamento repubblicano. Penso ad esempio al Trentino Alto Adige-Sud Tirol o alla Valle d’Aosta-Vallée d’Aoste. Cambiamenti nella fisionomia di questi territori non possono essere decisi in via unilaterale dal Parlamento perché le autonomie speciali vennero riconosciute alla fine della guerra con veri e propri trattati di diritto internazionale.

La proposta di costituire le macroregioni accorpando le regioni esistenti non è nuova. La Fondazione Agnelli elaborò nel 1993 un progetto analogo che proponeva 12 regioni. L’unico ad avere introdotto il tema delle macroregioni coniugando l’esigenza della funzionalità amministrativa con le ragioni dell’autonomia e dell’autogoverno è stato però Gianfranco Miglio. Nel suo modello, presentato per la prima volta nel 1994, la riforma degli enti locali si accompagnava a una riscrittura completa della Costituzione in senso federale. Oltre all’abolizione delle province, era proposta la conservazione delle Regioni esistenti che, per un migliore governo del territorio, avrebbero formato tre o quattro macroregioni disegnate secondo criteri afferenti alla geografia economica: una macroregione individuata nella Valle padana (Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna); una nel Centro Italia (Toscana, Umbria, Marche, Lazio) e una nel Sud Italia (Abruzzo, Molise, Puglia, Calabria, Campania, Basilicata). Le 5 Regioni a Statuto speciale sarebbero state salvaguardate. Se vuoi saperne di più, ho trattato questo tema nell’articolo Le tre Repubbliche di Miglio.

Macroregione alpina

Il progetto migliano rivela in larga parte la sua attualità. Un’area rilevante della macroregione padana è stata riconosciuta dall’Unione Europea come parte integrante di una macroregione alpina estesa su un territorio di 450 mila chilometri quadrati comprendente 46 Regioni appartenenti a sette Stati diversi (Francia, Italia, Svizzera, Austria, Slovenia, Germania, Liechtenstein). Le Regioni italiane coinvolte nella macroregione alpina (EUSALP) sono cinque: Piemonte, Valle d’Aosta, Veneto, Lombardia, Friuli Venezia Giulia. A queste si aggiungono le Province autonome di Trento e Bolzano. In base all’accordo di Grenoble, firmato il 18 ottobre 2013, la macroregione alpina sarà oggetto di specifiche politiche europee: le Regioni potranno individuare e finanziare interventi comuni nelle materie dell’ambiente, delle infrastrutture, nonché delle politiche economiche e sociali. La costituzione della macroregione alpina si pone sullo stesso piano di analoghe esperienze portate avanti dall’Unione europea verso territori contraddistinti da lineamenti culturali e geofisici abbastanza precisi: è il caso della macroregione danubiana o della macroregione del Baltico.

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L’Italia formata da 9 enti territoriali: 4 Macroregioni e 5 Regioni a Statuto Speciale

Una macroregione padano alpina (costituita dall’unione di Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto) potrebbe essere integrata in un progetto di riforma federale teso non solo a conservare le Regioni a Statuto Speciale ma anche ad individuare le macroregioni sulla base dell’autonomia finanziaria, delle dinamiche geo-economiche, dei caratteri geofisici e soprattutto dei peculiari lineamenti storico culturali risalenti al periodo preunitario.

La macroregione tosco emiliana proposta da Galletti e Bonaccini potrebbe essere una scelta felice a patto che sia integrata in una più ampia riforma federale che preveda, oltre alla macroregione padano alpina, una macroregione del Centro Italia (composta da Marche, Umbria e Lazio e coincidente in via tendenziale con la parte di territorio rimasta più a lungo nello Stato pontificio) e una macroregione del Sud Italia (Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Campania, Calabria) ricalcata sulla parte continentale dell’antico Regno delle due Sicilie.

Le Regioni non dovrebbero scomparire. Ad esse spetterebbe l’amministrazione del territorio nelle materie di competenza macroregionale; inoltre i Presidenti delle Regioni, in quanto membri del Direttorio della macroregione, parteciperebbero direttamente a un esecutivo presieduto dal governatore della macroregione eletto direttamente dai cittadini.

Seguendo il modello di Costituzione di Miglio, si potrebbe estendere la forma direttoriale al governo federale che, presieduto da un Presidente della Repubblica eletto direttamente dai cittadini italiani, sarebbe composto dai Governatori delle quattro macroregioni (padano alpina, tosco-emiliana, Centro Italia, Sud Italia) e da un Presidente a turno annuale di Regione a Statuto Speciale.

La Cà Granda nel Sestiere di Porta Romana

 

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L’Ospedale Maggiore in una foto del primo Novecento.

 L’Università degli Studi è un altro dei luoghi simbolo di Milano. In realtà nell’immobile aveva sede un tempo uno dei più importanti ospedali europei, noto ai milanesi come la Cà Granda. D’altra parte all’osservatore attento non sfuggirà che il quartiere di Porta Romana conserva tuttora la sua impronta socio assistenziale nei molteplici padiglioni  del Policlinico di via Francesco Sforza, a pochi passi dall’Università.

La costruzione della Cà Granda si deve al duca Francesco Sforza e alla moglie Bianca Maria Visconti, i quali vollero fondare un grande ospedale che si prendesse cura dei malati, in particolar modo i poveri sparsi nelle città e nelle campagne dello Stato lombardo. Il duca donò all’ospedale alcune case nel quartiere di Porta Romana: le fece risistemare e abbellire dall’architetto fiorentino Antonio Averulino detto “il Filarete” e, ricorrendo ai fondi degli altri ospedali della città e della diocesi, fece in modo che la nuova istituzione fosse provvista di adeguate risorse. Insomma, decisamente altra cosa rispetto al modo con cui viene gestita nei tempi attuali la sanità italiana. L’Ospedale Maggiore (che è l’altro nome con cui i milanesi erano soliti riferirsi alla Cà Granda) sorgeva entro le mura medievali, vicino al naviglio interno che, scorrendo praticamente al di sotto di quelle opere di fortificazione, costituiva allora una formidabile via di comunicazione. Sulle sue acque transitavano i grandi barconi carichi di merci, derrate e materiali da costruzione che poi i barcaioli lasciavano nelle ‘sciostre’, le aree di sosta che, poste a ridosso del naviglio, servivano quali magazzini.

Portone d’ingresso alla Cà Granda sul naviglio interno in una foto del primo Novecento

 

A questo punto si riesce forse a capire per quale motivo Francesco Sforza avesse deciso di donare all’ospedale quelle case poste proprio a ridosso del naviglio. Il complesso sanitario sorgeva infatti in una posizione strategica: situato all’interno delle mura medievali, l’edificio non solo si trovava nel centro cittadino ma, posto in prossimità del naviglio e vicinissimo al contado circostante, era in collegamento diretto con i paesi circostanti. L’utilizzo del naviglio quale via di comunicazione consentiva ai milanesi di rifornire continuamente l’ospedale con viveri e medicinali provenienti spesso dalle campagne.

Verso la metà del Seicento, l’edificio venne ampliato grazie agli interventi dell’architetto Francesco Maria Richini: il grande chiostro interno e la chiesa dell’Annunciata diedero all’ospedale una veste grandiosa ma al contempo misurata; un’atmosfera solenne corretta da quell’austera chiesetta posta a ridosso del naviglio.

Ma come riuscì a prosperare l’Ospedale Maggiore nella sua lunga vita al servizio della comunità? Potrà stupire in una città di cui si lamenta quasi sempre l’eccessivo consumismo ed egoismo, ma la grandezza dell’Ospedale Maggiore nei suoi cinque secoli di storia fu resa possibile dal profondo senso di carità della nobiltà ambrosiana, che non mancò di impiegare le sue risorse in favore dei poveri.

Ricordo di Nicola Raponi

Il 26 novembre 2007 moriva a Milano il professor Nicola Raponi, uno dei maggiori storici dell’età moderna che abbia avuto il nostro Paese. Ricordo ancora quando lo vidi per la prima volta, in una grande aula al pianterreno della sede distaccata dell’Università Cattolica in via Sant’Agnese. Correva l’anno 1998. Raponi parve entrare quasi di nascosto, come se volesse sfuggire agli occhi indiscreti dei curiosi. Avvolto in un cappotto scuro, si recò con passo deciso verso la cattedra che si trovava in fondo all’aula, nella parte opposta rispetto all’ingresso; vi prese posto, toccò il microfono con l’indice della mano per accertarsi che gli altoparlanti fossero in funzione, tirò fuori dalla borsa i suoi quaderni fitti di note e, dopo aver dato un’occhiata al pubblico – forse per misurare il numero degli studenti – iniziò la lezione.
Il professore spiegava con una profondità di analisi che mi colpì fin dall’inizio. Il contenuto delle sue lezioni era il risultato di un paziente lavoro di scavo condotto in tanti anni di ricerche negli archivi e nelle biblioteche.
Raponi aveva un aspetto inconfondibile: i capelli, accuratamente pettinati, erano  divisi in due parti; qualche volta terminavano con un ciuffo che, scendendo sulla fronte, pareva conferire alla persona una certa qual aura di giovinezza. La voce, tenue ma al contempo lievemente roca, mi colpì per il timbro originale, non molto diverso da quello del presentatore Corrado Mantoni. La cadenza nel parlato rivelava le origini marchigiane, ma solo a tratti e mai in modo troppo marcato. I lineamenti del viso mi ricordavano quelli dell’attore Walter Matthau.
A quel tempo ero un giovane studente iscritto nell’ateneo di Largo Gemelli. Frequentavo il secondo anno del corso in Lettere moderne nella Facoltà di Lettere e Filosofia. Quando ascoltai Raponi per la prima volta, rimasi colpito dalla semplicità dell’esposizione, dall’umiltà e dalla cura con cui esponeva le questioni rinviando sempre alle fonti storiche. Ricordo che uno dei consigli che dava agli allievi era di studiare attentamente le carte lasciate da una persona o prodotte da un’istituzione; ci sollecitava a frequentare le biblioteche e gli archivi: “noi dobbiamo” – diceva a lezione –  “far rivivere il documento… un po’ come la favola della bella addormentata”.
Le lezioni terminavano quasi sempre in ritardo. Squillava la campana: il professore, immerso nelle sue riflessioni, si accingeva a concludere; Raponi continuava a tessere pazientemente i fili del ragionamento in uno sforzo di affinamento dei concetti, chiarendo le questioni oggetto di analisi. Allora ci domandava: “E’ suonata la campana?”, quasi volesse avere conferma che la lezione fosse finita.

La storia era la disciplina che mi aveva sempre appassionato grandemente. Verso la fine dei miei studi, quando avevo ormai superato quasi tutti gli esami, mi recai quindi da Raponi per chiedergli un argomento su cui impostare la tesi di laurea.

Quando gli espressi il desiderio di scrivere la tesi sotto la sua guida scientifica, mi pose dinanzi a una scelta. Avrei potuto dedicarmi a un tema afferente alla storia delle mentalità o alla storia delle istituzioni. Nel primo caso mi disse che il lavoro non sarebbe stato particolarmente difficile. Nel secondo invece si richiedeva allo studente un sforzo maggiore perché occorreva prendere in esame le leggi e le varie normative prodotte da una istituzione pubblica e verificare poi in archivio, mediante lo spoglio dei documenti, le reali dinamiche, la prassi effettiva dell’ente amministrativo preso in esame. Decisi di percorrere questa seconda strada. Mi buttai a corpo morto nella ricerca, che verteva sullo studio delle vice prefetture nel dipartimento dell’Agogna (Novara) negli anni della repubblica e regno d’Italia (1802-1814).

Fu in quell’occasione che frequentai per la prima volta gli archivi. Quando mi trovai dinanzi alle carte dell’epoca provai un certo smarrimento: le grafie mi parevano illeggibili e spesso contenevano informazioni che rimandavano a leggi, decreti, regolamenti, protocolli di cui io, inesperto studente alle prime armi, non conoscevo quasi nulla. Solo dopo aver preso in esame svariati documenti manoscritti, il mio occhio si abituò alle varie grafie sette-ottocentesche. La determinazione, la tenacia, la pazienza ma soprattutto la passione sono doti fondamentali in qualsiasi lavoro.

Il mercoledì pomeriggio mi recavo nell’ufficio di Raponi, il quale dedicava le (lunghe) ore del ricevimento prima agli studenti, quindi ai laureandi, poi ai dottorandi e colleghi. Quando arrivava il mio turno – il che avveniva quasi sempre nel tardo pomeriggio – gli chiedevo informazioni, gli manifestavo i miei dubbi sul contenuto dei documenti che andavo studiando. Ricordo che mi sembrava di entrare in confessionale. Mentre gli esponevo lo stato delle ricerche, vedevo che il professore mi ascoltava con attenzione assorto nei suoi pensieri. Lui non mi dava risposte definitive. Credo che lo facesse di proposito, forse perché intendeva spingermi a studiare con maggiore profondità oppure perché desiderava mettere alla prova la mia preparazione sull’argomento. I colloqui erano lunghissimi – lo sanno bene i colleghi e gli ex studenti – perché a lui premeva affrontare le questioni con attenzione. Entravo nel suo studio, lasciavo socchiusa la porta come chiedeva quasi sempre di fare, mi sedevo di fronte a lui, nella parte opposta di uno scrittoio occupato in gran parte da lunghe file di libri. 

Quando gli mostravo copie di documenti che facevano nuova luce su un argomento che gli stava a cuore, i suoi occhi brillavano e si accendeva di entusiasmo. In quei momenti sembrava che fosse tornato a vestire il camice dell’archivista, la professione che aveva esercitato con passione per tanti anni affiancandola a quelle di storico e di insegnante.

Le colonne di San Lorenzo tra passato e presente

Le colonne di San Lorenzo costituiscono un punto di ritrovo per centinaia di giovani milanesi. Di sera la piazza davanti alla chiesa è gremita di gente. Ci si dà appuntamento lì, tra una colonna e l’altra. Sono in gran parte studenti, ma trovi anche persone di mezza età dai cui volti traspare il desiderio di lasciarsi dietro alle spalle le preoccupazioni di una giornata di lavoro (o di non lavoro, visti i tempi) abbandonandosi al divertimento in compagnia degli amici e di una birra.
            C’è però qualcosa di speciale in quella piazza così gremita di giovani, un’atmosfera che, in fondo, si respira solo nella zona Ticinese. E’ un’anima popolare, da bassifondi parigini che continua a trasparire qui. Nei secoli passati proliferavano botteghe, laboratori artigianali e osterie. Ad esempio, nel parco della Vetra lavoravano i conciatori di pelli. Era anche un quartiere malfamato: vi abitavano delinquenti e assassini se è vero, come è vero, che i vecchi milanesi dicevano: A la Vedra no ghe va che i colzon de fustagn: alla Vetra vanno soltanto i calzoni di fustagno (ossia i ladri). Non a caso, proprio dietro le colonne e la basilica di San Lorenzo si ergeva un patibolo ove venivano impiccati i facinorosi della zona.

Ma il quartiere di Porta Ticinese era anche ricco di osterie. Lo stemma del quartiere, il famoso sgabello a tre gambe, riprendeva probabilmente l’insegna dell’osteria dei Trii Scagn, situata un tempo nei pressi del Carrobbio. E questa, per chi ancora nutrisse dei dubbi, è un’altra prova del fatto che nel vecchio ‘sestiere’ di Porta Ticinese abitavano in prevalenza artigiani e locandieri, ossia persone del popolo.

Durante il Medioevo e per tutta la dominazione spagnola, nel corso principale – il corso di Porta Ticinese – veniva organizzata la processione dei Magi con attori presi spesso dal popolino. Quelle erano ricorrenze che richiamavano persone di ogni genere, comprese le teste calde che ne approfittavano per menar le mani. Gli Austriaci, quando conquistarono il Milanese in seguito alla guerra di successione spagnola, si affrettarono – da buoni amanti dell’ordine quali erano – ad abolire quella festa che, a loro avviso, faceva solo confusione.
Io credo però che la zona di Porta Ticinese conservi ancora oggi quell’anima un po’ anarchica che ha sempre posseduto nel corso dei secoli. Alle colonne di San Lorenzo ti capita di trovare di tutto. Non avventuratevi in bicicletta la mattina successiva al venerdì o al sabato sera: rischiate di forare a causa di qualche scheggia o frammento di bottiglia.

Porta Romana e le slittate del peccato sul Monte Tabor

A chi capiti oggi di attraversare piazza delle Medaglie d’Oro non può sfuggire la porta maestosa che segnava anticamente il confine della città di Milano con la campagna in direzione sud-sud est. A onor del vero un certo paesaggio agreste era presente anche all’interno dei bastioni spagnoli, la cinta muraria costruita a partire dal 1545 dal governatore di Milano Ferrante Gonzaga. Difatti la metropoli ambrosiana era articolata un tempo in almeno due zone: la prima, compresa all’interno della cerchia del naviglio e della cinta muraria di epoca medievale, era caratterizzata da una fitta concentrazione di case divise tra loro da vicoli stretti e tortuosi. Al di là del naviglio era invece la seconda zona, contraddistinta dai borghi che traevano la loro denominazione dalle rispettive porte medievali da cui si dipartivano i principali assi viari. Esistevano quindi sei borghi: borgo di Porta Romana, borgo di Porta Ticinese, borgo di Porta Vercellina…e così via. In queste zone le abitazioni – più diradate, disposte per lo più lungo i corsi principali –  costituivano un tratto secondario, essendo nettamente predominante un paesaggio agricolo che si estendeva fino ai bastioni.
L’arco monumentale di Porta Romana venne innalzato nel 1598 su disegno dell’architetto Aurelio Trezzi per festeggiare le nozze tra la principessa Margherita d’Austria e il re di Spagna Filippo III Asburgo. Difatti sul momumento è incisa la figura di una perla rappresentata all’interno della conchiglia madre: incisa nella facciata dell’arco rivolta un tempo verso la campagna (oggi verso Corso Lodi), la perla denotava il significato celebrativo del monumento. Difatti “margarita” presso gli antichi romani significava “perla”, il che consentiva ai dotti milanesi, ai turisti e ai viandanti di tornare con il pensiero alla regina asburgica passata per Milano alla fine del Cinquecento. Varrà la pena ricordare che il matrimonio tra Margherita e Filippo fu particolarmente gradito agli esponenti della patriziato e della nobiltà milanese, che dedicarono alla giovane sposa il primo teatro stabile di corte nel palazzo ducale: si trattava del salone “Margherita” che andò distrutto nel 1708 a causa di un incendio.
Sul lato sinistro della porta, all’incirca nel punto ove oggi si trova il centro ricreativo “TermeMilano”, era un tempo un’altura artificiale eretta nel corso del XVIII secolo con sassi e terriccio tolti dai bastioni ormai caduti in disuso. I milanesi la chiamavano arditamente “Monte Tabor”, in riferimento al monte della trasfigurazione di Gesù Cristo. Su quest’altura, che si trovava pressappoco allo stesso livello dei bastioni, venne aperta un’osteria assai amata dai milanesi. Il Porta nella poesia On Funeral (El Miserere) non mancò di ricordarla nei discorsi tenuti da due sacerdoti amanti delle osterie, che fecero rimare la locanda del Monte Tabor con il termine latineggiante “dealbabor”. Scriveva il Porta:
“In seguet fan el nomm
A paricc ostarij
In dove gh’è vin bon, ost galantomm,
e mejor compagnij.
Vun loda l’ostaria de la Nos,
l’olter el Monte – Tabor,
e poeù tracc a dò vos
Domine…asperges me…
Hyssopo,…et super nivem dealbabor”.
Traduzione in lingua italiana:
“In seguito fanno il nome
Di parecchie osterie
Dove c’è vino buono, oste galantuomo,
e migliori compagnie.
Uno loda l’osteria della Noce,
l’altro il Monte Tabor,
e poi tracch a due voci:
Signoremi aspergerai
Con hyssopo [pianta aromatica usata nelle cerimonie sacre di purificazione]
e sarò candido come neve”.
[Carlo Porta, Poesie, a cura di Dante Isella, Milano, Mondadori 1989, pag.481]
Nel primo Ottocento erano molti i milanesi che amavano recarsi all’osteria del Monte Tabor. Si saliva in cima a quella curiosa altura, il cui terreno digradava in una ripida discesa verso la porta monumentale. Il Rovani, nel romanzo Cento anni, ricordava il curioso passatempo cui erano soliti dedicarsi gli abitanti più arditi del quartiere. Difatti la discesa del Monte Tabor serviva magnificamente al gioco delle slitte “alla russa”, un evento che attirò ben presto l’attenzione di molti milanesi i quali finirono per recarsi in Porta Romana al solo fine di assistere o prender parte a questi divertimenti. Alle classiche passeggiate in via Marina o sui ridenti bastioni di Porta Orientale (oggi bastioni di Porta Venezia) i cittadini preferirono ben presto recarsi in Porta Romana…sul Monte Tabor.
Scriveva il Rovani nel suo romanzo, al capitolo XVII del libro XIX:
Una quarantina d’anni sono, il corso festivo del popolo milanese, disertato dall’antica via Marina, e poscia dai giardini e dal bastione di Porta Orientale [Porta Venezia], erasi ridotto a porta Romana. Pare che questa deviazione, che infranse per cinque o sei anni la secolare consuetudine, sia stata occasionata da un tale che, avendo viaggiato in Russia, introdusse nell’osteria del Monte Tabor, posta ai fianchi della porta Romana, il divertimento della slitta. Costui, traendo profitto degli accidenti della giacitura di quella parte di bastione che si venne col tempo addossando ed innalzando sulle vetuste mura di Milano, vi praticò una discesa precipitosa di centocinquanta passi, pavimentata in legno liscio con solchi paralleli, in cui scorrevano due ruotelle in ferro portanti una seggiola per una sola persona, od anche per due, quando l’una avesse caro di sedere in grembo all’altra.
Questo divertimento, per quanto fosse puerile, come dicevano gli uomini gravi e non più giovani d’allora, fu potente a far cambiar direzione a centomila gambe. Fosse la novità della cosa; fosse che (siccome si usa nelle feste da ballo che il cavaliere si piglia seco la dama o la damigella, e anche senza conoscerla, dalla usanza tiene la sanatoria di danzare con essa e di abbracciarla a suon di musica) fosse dunque che i giovinotti e i cacciatori d’amore avessero il permesso di tirarsi in grembo le signore più o meno custodite, e che alle fanciulle e alle signore non dispiacesse niente affatto di sedere a quel modo, il fatto sta che l’insolito gioco ebbe un successo di entusiasmo e di delirio. Nelle giornate di giugno il concorso cominciava all’alba e finiva a mezzanotte; cosa che del resto si comprende facilmente quando si sappia che con soli cinquanta centesimi si pagava l’ingresso e tre slitte.
[Giuseppe Rovani, Cento Anni, a cura di Beniamino Gutierrez, Milano, Rizzoli 1935, vol.II, pp.547-548]
Il racconto del Rovani non era per nulla romanzato. Il canonico Luigi Mantovani, il 18 giugno 1818, ricordava nel suo diario la folla di milanesi che si recava sul posto per assistere al gioco delle slitte “alla russa” cui era possibile assistere presso l’osteria del Monte Tabor sul bastione attaccato a Porta Romana. Il sacerdote ricordava che questo passatempo attirava un tale numero di partecipanti da risultare ai suoi occhi addirittura scandoloso. Assai accorto fu il gestore di questa iniziativa, che era probabilmente il padrone dell’osteria. Questi seppe sfruttarla abilmente a fini commerciali ricavando una notevole fonte di ricchezza. A lui spettava l’esclusiva gestione del gioco, facendo pagare agli avventori un biglietto di 25 centesimi per tre discese. Lasciamo la parola al canonico Mantovani:
Egli era già più di un mese che a fianchi del dazio del Porta Romana nella osteria fu fatta una discesa precipitosa non più di 150 passi, suolata d’asse lisce con alcune fenditure, in cui penetrano alcune piccole rotelle di ferro, su cui trovasi una piccola sediola per una sola persona, o per due, ma l’una seduta in grembo all’altra. Qui intervengono i cittadini a fare le slittate a somiglianza di quelle che si fanno in Russia sul ghiaccio. A questa puerilità concorre per essere spettatrice ed esecutrice una infinità di persone dalla prima alba sino verso la mezzanotte. Non è credibile il concorso di carrozze, di nobiltà, dame, gioventù, vecchi, pagando 25 centesimi all’ingresso da scontarsi o con tre corse o con qualche acqua o bicchier di vino. Non avrei mai creduta la popolazione nostra sì sventata di testa e irriflessiva di correre a turma a questo gioco, o per veder questo spettacolo. L’inventore guadagna di netto ogni giorno un coll’altro L.1.000 di Milano. La polizia ha messo in ogni legge positiva, che non possi più come in passato andare scendendo un uomo con donna seduta in grembo, come finora si è fatto. Chi misuri lo spazio di tempo di tali slittate, in tempo di 7 minuti furono eseguite 32 discese. Finora non si rallenta il concorso”.
[Luigi Mantovani, Diario politico ecclesiastico, a cura di Paola Zanoli, Roma, Istituto Storico per l’età moderna e contemporanea, 1994, vol.V., pag.94]
A quegli spudorati organizzatori delle slitte alla russa non può che andare il nostro plauso ammirato. Fecero divertire nelle calure estive i giovani milanesi, i quali accorsero in gran numero attirati dalla facilità con cui, grazie a quel passatempo, era possibile stringere tra le braccia i corpi suadenti di ragazze e donne (più o meno custodite) desiderose solo di divertirsi e di passare un po’ di tempo in modo spensierato. In fondo aveva ragione il Rovani quando concludeva che «quando uno, nel caso di metter fuori una ditta, sceglie per socio il peccato, è quasi sempre sicuro di far fortuna».

Cattaneo e la guida di Milano che non vide mai la luce

Carlo Cattaneo scrisse le celebri Notizie naturali e civili su la Lombardiain occasione del sesto congresso degli scienziati italiani che si tenne a Milano nel settembre 1844. Questo evento coinvolse – com’è noto – larga parte della società lombarda. Parallelamente all’attività di Cattaneo varrà la pena ricordare che furono compilati – a cura dello storico risorgimentale Cesare Cantù – i due volumi intitolati Milano e il suo territorio: vi furono pubblicati testi afferenti alla storia, alla religiosità, alla statistica, all’istruzione, alla sanità, alla vita sociale di Milano ad  opera di eminenti personalità quali il prefetto della Biblioteca Ambrosiana, l’abate Bartolomeo Catena, Giuseppe Sacchi, il nobile Pompeo Litta (noto per le ricerche erudite che andava effettuando sulle famiglie nobili italiane), Giovanni Labus, il professor Achille Mauri e lo stesso Cantù.
Tra le carte mai pubblicate che Carlo Catttaneo scrisse per quell’evento ve ne sono alcune di notevole interesse. Il contenuto di questi documenti, rielaborato ed organicamente ultimato, avrebbe costituito con ogni probabilità una Guida di Milano per i visitatori che fossero giunti in città in occasione del congresso.
In questi manoscritti, che si trovano nell’archivio Cattaneo conservato presso le Civiche Raccolte Storiche del Museo del Risorgimento, la città era presa in esame da un punto di vista geo-economico e storico artistico. 

Particolarmente interessanti le considerazioni introduttive, ove largo spazio era riservato alla descrizione geografica.

Il territorio su cui sorge Milano è un vasto rettangolo il cui lato settentrionale vien formato dalla catena dell’Alpi Leponzie e Retiche; l’occidentale dal Lago Maggiore e quindi dal Ticino; l’orientale dal Lago Lario (Como) e quindi dall’Adda, il meridionale dal Po. Questo territorio dirupato e orrido sotto l’Alpi, viene lentamente ad ingentilirsi in men erte montagne, poi in colline amenissime, quindi in pianure asciutte e vinifere, e finalmente in campi quasi immersi nell’acque che li fecondano.

A gradi 26,51 di longitudine 45,27,51 di latitudine, laddove il piano comincia a farsi umido ed irrigato, s’innalza Milano. Talché uscendo dalle porte rivolte a Mezzodì si ritrova tosto un meraviglioso intreccio di canali irrigatorj; mentre da settentrione a stento si trova un prato o un canale.

Seguivano importanti considerazioni sui canali navigabili che solcavano la città:

Lontana da ogni fiume navigabile Milano sarebbe male atta al commercio, qualora l’industria (operosità) degli abitatori non avesse condotto fino in città due canali navigabili l’uno tratto dall’Adda (il Naviglio Martesana), l’altro dal Ticino (il Naviglio Grande). Parte delle acque in tal modo raccolte va ad irrigare i terreni; parte forma un terzo canale che congiunge Milano con Pavia (il Naviglio Pavese) e apre, mercé del Po, una via all’Adriatico.

Il terreno è per natura e per arte (lavoro) fertilissimo. L’aria bastevolmente pura; se non che presso la città si risente della soverchia umidità della adjcenti campagne.

In margine Cattaneo formulava un giudizio significativo sulla mentalità pratica, sull’indole essenzialmente lavorativa dei milanesi, nati più per operare nella società che per ‘disquisire dei massimi sistemi’. Si riportano tali considerazioni, ove risultava evidente che la cultura milanese, per lo meno negli ultimi due secoli, era andata legandosi strettamente ai bisogni della società. Il castello inaccessibile di una “insetata verbosità” fine a se stessa, diffuso in molte città italiane, non apparteneva a Milano.
In confronto alle altre città d’Italia Milano ha minor numero di cruscanti, di puristi, di periodisti, di parolaj d’ogni razza e d’ogni partito. Qui le persone studiose si ingegnano di essere contemporanee del loro secolo e non s’affannano di ritardare, per quanto è lor possibile, i progressi dell’intellettuale perfezionamento ne’ loro concittadini distraendoli dallo studio delle cose a quello di una insetata verbosità.
Notevoli le notizie topografiche su Milano, che Cattaneo descriveva richiamandosi all’immagine dei due anelli che cingevano la città: il primo era costituito dal Naviglio Interno, che venne scavato dai milanesi al di fuori delle antiche mura medievali. Questo canale, chiuso tra gli anni Ottanta dell’Ottocento e il 1929/30, collegava il Naviglio Martesana (che scendeva da nord est) con i navigli grande e pavese (che percorrevano la bassa pianura in direzione sud-sud ovest). 

Il secondo anello era invece formato dai bastioni spagnoli, i cui frammenti sono in parte tuttora visibili. Seguiva la descrizione delle Porte milanesi, alcune delle quali esistono ancora oggi. Ma lasciamo la parola a Cattaneo:

I bastioni esternamente e internamente il naviglio formano a Milano un doppio recinto quasi circolare. Il naviglio è una fossa scavata appiè delle antiche mura in occasione dell’assedio del Barbarossa ridotta ora a canal navigabile in cui immettonsi le acque de’ due navigli d’Adda e di Ticino. E nel suo giro comprende la città propriamente detta. I bastioni che si estendono più vastamente…furon fabbricati nel 1549 sotto Carlo V per ordine del governatore Ferrante Gonzaga, giusta l’architettura militare di quei tempi. Fra essi e il naviglio si comprendono i propriamente detti “borghi”. Al di fuori rasente i bastioni si aggira la testé compiuta strada di circonvallazione che offre molte miglia di ombroso passeggio. I bastioni vengono interrotti da undici porte. La Porta Tosa volta a oriente; alquanto verso Nord l’attigua Porta Orientale; e così via: a Nord Est la Nuova; a Nord la Comasina (Porta Garibaldi); a Nord Ovest la Tenaglia e il Portello (oggi Parco Sempione, dietro il Castello Sforzesco); ad Ovest la Vercellina; a Sud Ovest la Ticinese; a Sud la Lodovica e la Vigentina, a Sud Est la Romana.

L’Orientale, la Nuova, la Comasina, la Vercellina, la Ticinese, la Romana sono le principali. Anticamente davano il nome ai quartieri della città e scompartimento alle truppe civiche.
Nel centro di essa, ma alquanto verso oriente, sorge il Duomo; da cui quasi come raggi si dipartono i corsi che guidano a ciascuna Porta, tortuosi ed angusti nell’interno della città, ma spaziosi e diritti quanto più se ne dilungano. Essi prendono il nome dalle rispettive porte.

Due idee per sposare Sport e Cultura: MilanoAnticheMura e MilanoSestieri

Ogni anno la Stramilano chiama a raccolta tanti appassionati dello sport. Nata come iniziativa per corridori esperti desiderosi di cimentarsi in una mezza maratona (21 km), con il passare del tempo la Stramilano ha accresciuto il numero delle sue iniziative. Com’è noto, oltre alla mezza maratona da 21 chilometri, vengono allestite anche le corse di 10 e di 5 km. L’evento è divenuto ormai una vera e propria istituzione, una tradizione cittadina. 

 
La Stramilano da 10 chilometri è la più amata dai milanesi perché la lunghezza del percorso consente la partecipazione di persone che non praticano lo sport a livello agonistico. Non è per caso se questa corsa è chiamata oggi “Stramilano dei 50.000”. I corridori in partenza da piazza Duomo, dopo aver attraversato corso Vittorio Emanuele e corso Venezia, svoltano a destra per attraversare gran parte dell’antico tracciato dei Bastioni spagnoli. Non si può dire infatti che i podisti percorrano l’intero perimetro delle mura spagnole: i bastioni di Porta Volta e di Porta Nuova non sono compresi nel giro.

 
Da qui mi son venute due idee che vorrei rivolgere agli assessori allo Sport e alla Cultura del Comune di Milano. Non so quanto siano fattibili ma credo opportuno renderle pubbliche nella speranza che possano suscitare un proficuo dibattito sul tema.
 
La prima idea riguarda una Stramilano agonistica da 21 km lungo il tracciato delle antiche mura milanesi: bastioni spagnoli, mura medievali e mura romane.  La gara, che potrebbe chiamarsi “Milan old walls” o “Milano antiche mura” dovrebbe interessare all’incirca i tre tracciati delle cinte murarie.

I corridori partirebbero dall’Arena Civica per affrontare un percorso ad anelli concentrici. 
 
Il primo anello coprirebbe l’intero tracciato dei bastioni spagnoli: 

via Legnano, Bastioni di Porta Volta, viale Francesco Crispi, Bastioni di Porta Nuova, viale Monte Santo, Viale Città di Fiume, Bastioni di Porta Venezia, viale Luigi Majno, Viale Bianca Maria, viale Regina Margherita, viale Emilio Caldara, viale Beatrice d’Este, viale Gabriele D’Annunzio, viale Papiniano, viale di Porta Vercellina, piazza Conciliazione, via Giovanni Boccaccio fino a piazzale Cadorna.
 
Il secondo anello passerebbe lungo il tracciato delle antiche mura medievali e del vecchio naviglio cittadino la cui parziale riapertura ci auguriamo possibile nei prossimi anni: 

via Carducci, via De Amicis, via Molino delle Armi, via Santa Sofia, via Francesco Sforza, via Visconti di Modrone, via Senato, via Fatebenefratelli, via Pontaccio, via Tivoli. 

Passando per un tratto del foro Bonaparte, i corridori della “Milano antiche mura” giungerebbero infine in piazza Cairoli per percorrere l’ultimo anello, quello più piccolo coincidente in via tendenziale con il tracciato delle antiche mura romane di epoca massimianea: 

via Cusani, via dell’Orso, via Monte di Pietà, via Monte Napoleone, piazza San Babila, via Durini, largo Augusto, via Larga, piazza Velasca, corso di Porta Romana, via Maddalena, corso Italia, via Disciplini, via San Vito, Carrobbio, via del Torchio, via Circo, via Cappuccio, via Luini, corso Magenta, via San Giovanni sul Muro. 

Al traguardo, in piazza Duomo, i partecipanti arriverebbero passando per via Dante, Piazza Cordusio e via Mercanti. 
 
Credo che tale iniziativa possa essere non solo una sfida sportiva, ma anche un evento teso a rendere percepibile al vasto pubblico una parte importante della storia milanese. Anche in questo caso, si potrebbe pensare a una “Milano Antiche Mura” ridotta a 12-13 chilometri lungo il tracciato dei bastioni spagnoli: bastioni da correre integralmente, non in parte come avviene nella Stramilano di oggi!
 

La seconda idea è una gara di corsa a metà strada tra la corsa veloce e la corsa di resistenza. Limitata ai primi sei atleti che abbiano vinto la “Stramilano Antiche Mura”, tale iniziativa si svolgerebbe in sei percorsi (di una lunghezza tra 1.65 e 2 chilometri) lungo i viali e i corsi che si trovano al centro dei Sestieri Milanesi: gli antichi quartieri cittadini che traevano la loro denominazione dalle antiche porte urbane (Porta Orientale, Porta Romana, Porta Ticinese, Porta Vercellina, Porta Comasina, Porta Nuova). Anche questa iniziativa consentirebbe a mio parere un prezioso recupero della cultura milanese valorizzando la storia cittadina. La gara sarebbe vinta dall’atleta che avesse totalizzato il minor tempo di percorrenza lungo i sei tracciati. Ogni percorso avrebbe inizio da una porta o piazza lungo la cinta dei Bastioni. Il traguardo sarebbe fissato invece in piazza dei Mercanti, antico cuore di Milano, il punto ove convergevano i sei assi stradali di ciascun quartiere.   

Corsa nel Sestiere  di Porta Orientale: Porta Venezia, corso Venezia, piazza San Babila, corso Vittorio Emanuele, piazza Duomo, via Mercanti, piazza dei Mercanti.


Corsa nel Sestiere di Porta Romana: piazza Medaglie d’Oro, corso di Porta Romana, piazza Missori, via Mazzini, piazza Duomo, via Mercanti, piazza dei Mercanti.


Corsa nel Sestiere di Porta Ticinese: piazza 24 Maggio, corso di Porta Ticinese, via Torino, via Orefici, passaggio degli Osii, piazza dei Mercanti.


Corsa nel Sestiere di Porta Vercellina: piazza Baracca, corso Magenta, via Meravigli, piazza Cordusio, via Orefici, passaggio delle Scuole Palatine, piazza dei Mercanti.


Corsa nel Sestiere di Porta Comasina: piazza 25 aprile, corso Garibaldi, via Mercato, via Ponte Vetero, via Broletto, piazza Cordusio, via dei Mercanti, piazza dei Mercanti.


Corsa nel Sestiere di Porta Nuova: piazzale Principessa Clotilde, corso di Porta Nuova, via Fatebenefratelli, via Manzoni, via Santa Margherita, passaggio di Santa Margherita, piazza dei Mercanti.


Cosa ne pensate?

La messa natalizia di mezzanotte nella vecchia Milano

E’ assai probabile che non fossero in molti i milanesi dei secoli passati che andavano alla messa di mezzanotte. La funzione religiosa veniva celebrata in poche chiese del centro: il Duomo, San Fedele, l’antica (oggi scomparsa) Santa Maria Segreta.

Nella basilica di Sant’Angelo, un tempo sussidiaria di San Marco nel sestiere di Porta Nuova, venivano addirittura distribuiti bigliettini d’invito per evitare che la chiesa fosse frequentata unicamente da compagnie chiassose di nottambuli, il che la dice lunga sulla scarsa partecipazione dei milanesi alla messa di mezzanotte.

Non dobbiamo pensare tuttavia che si trattasse di scarsa devozione. Occorre tener presente che un tempo gli edifici di culto non venivano riscaldati. Risultava quindi difficile ai milanesi uscire di casa per assistere  alla messa immersi nel freddo. I membri delle classi abbienti entravano in chiesa ben coperti da cappotti o pellicce. I meno fortunati assistevano probabilmente alla celebrazione con lo stesso spirito di chi, entrato in un frigidaire, non vede l’ora di uscirne per tornarsene al calduccio in casa propria.

C’erano poi le allegre brigate di amici che, terminata la messa di mezzanotte, si recavano dal Nava in via Bocchetto o dal Bouthou in contrada dei Due Muri (via oggi scomparsa, si trovava pressappoco tra via Mengoni e piazza del Duomo): erano alcuni dei pochi locali che restavano aperti fino a notte fonda. I fedeli, usciti dalle chiese intirizziti dal freddo, non esitavano ad entrare in queste botteghe per ordinare cioccolate calde o quella che è passata alla storia con il nome di “barbaiada”: una bevanda fatta con caffé e cacao che l’impresario teatrale Domenico Barbaja, giunto a Milano nel 1826 dopo aver lavorato per un certo tempo a Napoli, aveva contribuito a far conoscere ai milanesi.

Più complessa la situazione nelle famiglie più ricche. Se le padrone assistevano alla messa di mezzanotte, le domestiche eran costrette a rinunciarvi, impegnate com’erano nella preparazione del pranzo natalizio. La servitù si accontentava della benedizione impartita dai preti. I cuochi preparavano i ravioli fin dal giorno della vigilia, ovviamente sorvegliati dalle padrone di casa che non esitavano a rimproverarli con inviti più o meno cortesi a metterci meno sale, più salsiccia, poco pepe…..

E il panettone? Non si pensi che la sua forma fosse quella di oggi, simile a una sfera o a un cilindro. Il panettone era semisferico e questo spiega molto bene l’origine del complimento che i corteggiatori un po’ disinibiti rivolgevano alle signore mentre ammiravano il loro fondoschiena: “Che bel panetton!”.

Nella Milano ottocentesca il vero panettone era sfornato dal Baj, un pasticciere il cui negozio si trovava sotto la Madonnina, in piazza del Duomo all’angolo di via Santa Radegonda. I panettoni che avanzavano erano ceduti a poco prezzo ai “fregujatt”,  i “venditori di briciole” che provvedevano a rivenderli raffermi nei borghi o alle fiere. Perché non tutti avevano la possibilità di mangiare il panettone fresco, appena sfornato.

Auguro agli affezionati lettori di questo blog un sereno Natale.

Un misterioso omicidio nei chiostri della Passione


I nostri giornali son pieni di notizie relative ad omicidi. Il “Foglio” di Giuliano Ferrara, nell’edizione del lunedì, riserva addirittura un’intera colonna ai fatti di cronaca nera, descritti con la stessa cura per il macabro dettaglio che Alfred Hitchcock impiegò nel making del memorabile “Psycho”.
Gli uomini hanno sempre ammazzato per qualche ragione, tolti ovviamente i malati di mente che una ragione presumono di averla ma la capiscono solo loro. 
Nella Milano del Settecento gli omicidi per furto erano probabilmente assai diffusi. Altrimenti stentiamo a capire quale altro movente avesse spinto un chierico, Antonio Didino, ad uccidere un anziano religioso di 86 anni, l’ex abate Felice Fedeli. Un delitto particolarmente efferato che suscitò sconcerto per il luogo in cui avvenne e per lo stato della vittima. 
Teatro dell’omicidio fu una cella del “venerando monastero” di Santa Maria della Passione nel sestiere di Porta Orientale, oggi sede del conservatorio musicale Giuseppe Verdi. In quei chiostri, a partire dalla fine del XV secolo, vivevano i canonici regolari lateranensi di Sant’Agostino, un ordine religioso cui si doveva la costruzione della chiesa e dell’abbazia. 
Veniamo ai fatti. Il 22 maggio 1745 il Fedeli, che era stato abate nel monastero della Passione, venne ucciso nella sua cella con venti coltellate di cui quattro mortali. L’assassino doveva conoscere assai bene la vittima perché, in caso contrario, non sarebbe entrato nella stanza ove compì l’omicidio.
 

Il cronista milanese Giambattista Borrani ci ha lasciato nel suo diario un prezioso resoconto di questa vicenda. Nella Milano del primo Settecento, ancora legata ai valori religiosi della riforma cattolica tridentina, esso aveva destato particolare scalpore:

 

“…nello stesso giorno seguì un caso veramente orribile. Entrò nel Venerando Monastero di Santa Maria della Passione dei Canonici Regolari Lateranensi una persona incognita in abito chericale, chiedendo conto del Reverendissimo Padre Abbate Felice Fedeli, altre volte Abbate di quel Monastero, che era nell’età d’anni 86, doppo d’avergli parlato entrò in sua cella insieme con esso lui; e poi uscì dalla Porta del Monastero mangiando alcuni confetti, dicendo essergli stati donati dal detto Padre Abbate. Ma entrando poi alcuni Religiosi nella Cella lo trovaron morto sul pavimento, medianti 20 ferite con coltello di punta acuta, 4 delle quali mortali. Un tal sacrilego, proditorio, ed atroce omicidio commosse la Città tutta”.

[Diario di Giambattista Borrani, anno 1745, Biblioteca Ambrosiana, Fondo Sussidio n.6]
Partì la caccia all’assassino. Il portinaio del monastero, che aveva visto il misterioso malvivente, aiutò le autorità a perlustrare le vie cittadine. Tali sforzi non furono vani. Ben presto il portinaio riconobbe infatti l’omicida davanti a un negozio nella contrada dei Visconti. Si trattava per l’appunto di Antonio Didino, figlio di un falegname specializzato in sgabelli di legno (i famosi scagn milanesi).
Varrà la pena ricordare che la contrada dei Visconti, scomparsa negli anni Sessanta del XIX secolo in seguito all’ingrandimento di piazza del Duomo, si trovava all’incirca nella zona di piazza Diaz, tra le attuali vie Rastrelli e Baracchini: essa collegava l’antica via Dogana (anch’essa distrutta in seguito al citato ampliamento della piazza) con la contrada del Pesce (oggi via Paolo da Cannobio).
Quando il portinaio riconobbe l’assassino, il gendarme cercò di arrestarlo ma il chierico riuscì a fuggire. Il cronista Borrani ci racconta che il Didino si rifugiò in casa dei familiari, che abitavano nella contrada di Santa Margherita. Stando alla nostra fonte, gli amici e i parenti del chierico, appreso quanto era avvenuto, gli suggerirono di consegnarsi all’autorità vescovile per dimostrare l’infondatezza della accuse. Il Didino seguì il consiglio ma dovette ben presto pentirsi della scelta: in seguito ad alcune contraddizioni contenute nella deposizione al giudice ecclesiastico, posto sotto i tormenti della tortura, fu costretto a confessare il delitto:
Annotava il Borrani il 16 dicembre:
“Si passò poi a fare gli esami e per certe contradizioni nelle risposte si formò sospetto di sua complicità; quindi con evidenti prove convinto, e costretto dai tormenti confessò il delitto, cioè che nel detto giorno 22 maggio rubbò al Padre Abbate Fedeli una Cappa, ed altre cose del valore di filippi 23.10; che fece perquisizione per rubbargli altri denari; e che commise il barbaro omicidio con 20 ferite, repplicandogli due colpi con peggiore sevizia doppo caduto quasi morto sul pavimento”.
Il processo terminò in dicembre: la sentenza stabilì la colpevolezza del Didino che, dopo essere stato privato degli ordini religiosi, veniva consegnato dall’arcivescovo al braccio secolare (vale a dire alle autorità dello Stato di Milano).
Il 16 dicembre arrivò la sentenza del Senato, la suprema magistratura giuridico amministrativa dello Stato. Il Didino fu condannato “ad essere condotto il dì 18 [due giorni dopo quindi] sovra Carro allo Stradone che conduce al Monastero della Passione con tre colpi di tenaglia rovente sulle spalle ed ivi appiccato sovra una Forca più alta della solita”. 
L’instabilità politica seguita al repentino mutamento di regime nello Stato di Milano sembrò tuttavia portare fortuna all’ex chierico. Dal 1740 il ducato di Milano, dominio degli Asburgo di Vienna, era infatti coinvolto nella guerra di successione austriaca: com’è noto, il conflitto scoppiò perché i sovrani di Prussia, Spagna, Francia, Baviera e Sassonia non avevano riconosciuto la successione al trono imperiale della giovane Maria Teresa di Asburgo. 
L’intervento dell’Inghilterra, la progressiva divisione degli avversari, l’alleanza con il re di Sardegna Carlo Emanuele III e l’aiuto dei fedeli sudditi della “nazione ungherese” furono però decisivi nel salvare i domini di casa d’Austria da una disgregazione che sembrava inevitabile. Maria Teresa ne uscì vittoriosa: la giovane imperatrice firmò la pace di Aquisgrana il 18 novembre 1748 ma dovette rinunciare alla ricca regione della Slesia, passata definitivamente alla Prussia di Federico II. Inoltre il ducato di Milano, che aveva già subito rilevanti amputazioni a vantaggio del Piemonte, fu ulteriormente ridotto in seguito alla cessione a Carlo Emanuele III dell’Alto Novarese, di Vigevano e del territorio di Voghera. 
Negli anni della guerra Milano venne conquistata dalle truppe nemiche. L’esercito gallo ispano entrò in città il 16 dicembre 1745, nello stesso giorno in cui il Senato pubblicava la citata sentenza di condanna capitale nei confronti del Didino. Per circa tre mesi, dalla fine di dicembre alla metà di marzo del 1746, la città del Duomo fu quindi governata dal re di Spagna Filippo V di Borbone. 
Tornando all’omicidio avvenuto nei chiostri della Passione, il nuovo Sovrano era intenzionato a confermare la condanna capitale ma una ristretta cerchia di persone, animate da sentimenti di filantropia, chiese alle autorità  di salvare la vita al condannato. Spiccava in questo gruppo la nobildonna Clelia Borromeo, che dimostrò di avere a cuore la difesa dei diritti umani anticipando di quasi vent’anni i celebri illuministi milanesi Cesare Beccaria e Pietro Verri. 
Il re di Spagna, nonostante fosse personalmente favorevole alla pena di morte, accolse l’appello della Borromeo, che godeva di enorme credito a Milano. Non sarà fuori luogo ricordare in proposito che il suo salotto culturale, l’Academia Cloelia Vigilantium, frequentato da illustri studiosi di fama europea, contribuì grandemente al progresso delle scienze e delle lettere.
La sentenza capitale fu quindi abolita e la condanna fu tramutata  in carcere a vita.
Scriveva il Borrani:
Nel detto giorno 18 [dicembre], in cui doveva eseguirsi la giustizia col detto chierico Didino, considerando l’Eccellentissimo Senato che la condanna era seguita nella mattina del giorno 16 sotto il governo della nostra sovrana Maria Teresa, e che essendo qui giunte nel dopo pranso dello stesso giorno le Truppe della Spagna, non potevasi eseguire la sentenza senza l’approvazione del Real Principe, commandò che la sentenza fosse sospesa; onde il povero condannato fu trattenuto ancora in Conforteria sin tanto che qui arrivasse il detto Real Principe”.
A 20 fu esposto al Real Principe il detto caso del Chierico Didino, colla sentenza già pronunziata dal Senato, ma poi prorogata, e nello stesso tempo fu pregato a render giocondo il suo arrivo coll’accordare la grazia della vita al povero condannato, ma egli vedendo essere stato troppo barbaro il fatto non volle acconsentire, onde nel dì 21 doveva essere eseguita la sentenza”.
 Ma repplicatesi nel dì 21 le preghiere, particolarmente di Monsignor Gallarati vescovo di Lodi e della Signora Contessa D. Clelia Borromea, si arrese il Principe ad accordare la grazia della vita, colla pena però di prigionia perpetua; onde doppo di esser stato il povero chierico trattenuto in Conforteria quasi 6 giorni, fu levato dalla medesima, e condannato al perpetuo carcere”.
Sembrava che il Didino fosse destinato a trascorrere il resto della vita nelle regie carceri che si trovavano nel palazzo del capitano di giustizia in Porta Orientale. Oggi l’edificio, che si affaccia su piazza Fontana, è sede della polizia municipale. 
Il destino riservava tuttavia una fine ben diversa all’ex chierico milanese. 
Il 16 marzo 1746 gli austriaci tornarono in possesso del ducato di Milano. Alcuni mesi dopo la sentenza di condanna a morte fu resa esecutiva. Il piccolo gruppo di personalità che avevano chiesto di risparmiare la vita al condannato era pressoché scomparso. La Borromeo, appartenente a quella parte della nobiltà che si era maggiormente compromessa per aver collaborato con il cessato regime spagnolo, dovette fuggire da Milano e stabilirsi nella repubblica di San Marco.  
Nulla più si opponeva all’esecuzione della condanna a morte del Didino. Maria Teresa confermò rigorosamente la sentenza del Senato. Il primo settembre l’ex chierico, dopo essere stato orrendamente torturato come era prassi per i rei di omicidio appartenenti al popolo, fu impiccato sopra un carro posto a pochi metri dal luogo ove era avvenuto il truce omicidio. 
Un gran numero di cittadini aveva assistito all’evento, mosso da un sentimento di palese soddisfazione per l’esecuzione della condanna. Come sembravano lasciar trasparire le annotazioni del Borrani, la sentenza del Senato costituiva, nella percezione popolare, il segno della giustizia divina. Il motto “Senatus iudicat tamquam Deus”, con cui si era soliti definire l’attività del Senato, lungi dall’essere un’astratta formula giuridica, riassumeva assai bene le fede dei milanesi nell’operato della suprema istituzione del ducato.
Lasciamo per l’ultima volta la parola al Borrani:
“A 1 [settembre] fu giustiziato il Cherico Antonio Didino …siccome però le grazie fatte dai Spagnuoli nel tempo dell’occupazione di questo Stato furon dichiarate invalide…così l’eccellentissimo Senato per ordine particolare della Corte di Vienna esaminò di nuovo la causa del detto Didino, e a 30 dello scorso mese decise exequendam esse primam sententiam. Onde fu posto di nuovo in Conforteria, e nel detto giorno 1 fu condotto sovra Carro con 3 colpi di tenaglia allo Stradone della Passione, ed ivi sovra d’una forca più alta della solita fu impiccato”. 
“Il concorso di persone d’ogni condizione, e sesso in quelle contrade, che dalle carceri conducono al detto Stradone fu indicibile, ammirando tutti la Divina Providenza, e le cose dalla medesima disposte per voler punito un sì grave delitto”.
Meno di vent’anni dopo il giovane Pietro Verri, pronunciando un audace discorso dinanzi al sodalizio dell’accademia dei Pugni, avrebbe mosso le prime serrate critiche alla giurisprudenza del Senato: 
Oh gran Senato che non giudica come i Senati, bensì come Dio, Senatus judicat tamquam Deus, cioè tamquam Deus non dando mai ragione delle proprie sentenze; poiché se desse ragione gliene resterebbe tanto meno per lui e non è mai soverchia la ragione in un Tribunale di Giustizia; judicat tamquam Deus ad imitazione dei giudizii di Dio col fuoco, coll’acqua, col duello e coi dadi, quali come c’insegnano le storia chiamavansi pure Judicia Dei”.

[P. Verri, Orazione panegirica sulla Giurisprudenza milanese, 1763]

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