Un medico dimenticato: Giovanni Battista Monteggia

Il Policlinico di Milano, come ho accennato in un altro intervento, può essere considerato uno degli ospedali meglio gestiti della città. L’ingresso in via Francesco Sforza si apre su un vasto cortile all’aperto ove una strada consente l’accesso alle varie palazzine. Il padiglione Monteggia è dedicato all’assistenza di pazienti i cui casi sono riconducibili al campo delle neuroscienze. So già cosa state per dirmi:

Gabriele, vuoi forse farci una lezioncina sul reparto di neurochirurgia del Padiglione Monteggia?”.

Me ne guardo bene, anche perché non sono un medico né tantomeno un chirurgo. Desidero ricordare il Padiglione Monteggia perché si tratta, al giorno d’oggi, dell’unica struttura il cui nome ricorda un grande medico lombardo oggi praticamente sconosciuto: Giovanni Battista Monteggia. Ieri – guarda un po’ che coincidenza! – ricorreva il bicentenario della morte, avvenuta il 17 gennaio 1815.

Pietro Moscati
Pietro Moscati, primo direttore dell’Ospedale Maggiore (1785-1788)

Nato a Laveno sul Lago Maggiore nel 1762, Monteggia venne iscritto per volontà del padre alla scuola di chirurgia dell’Ospedale Maggiore di Milano, scuola che in quegli anni era stata inserita nel nuovo piano degli studi predisposto dal governo austriaco. In questo antico edificio Giovanni Battista svolse l’apprendistato sotto la guida di maestri come Pietro Moscati, che fu primo direttore della Cà Granda.

In quegli anni le professioni mediche – come tante altre professioni liberali – erano state oggetto di un vasto piano di riforma ad opera dello Stato austriaco. Prima di questi interventi, le professioni afferenti alla salute erano divise in “maggiori” e “minori” segnando una divaricazione tra professioni teoriche e professioni pratiche: le prime riservate ai nobili, le seconde a persone non nobili. Alle prime appartenevano i “medici fisici” o “medici filosofi”: formati nei collegi e nelle università, questi avevano ricevuto una formazione classica di tipo speculativo. Compiuta l’abilitazione presso medici anziani, erano chiamati a svolgere la professione in ambito per lo più privato, chiamati da famiglie nobili o da enti religiosi. Le loro teorie afferenti alla medicina interna restavano appunto teorie, legittimate da una tradizione secolare di studi secondo principi filosofici totalizzanti. Chiamati al capezzale dei loro illustri malati, i “medici fisici” non erano tenuti affatto a “sporcarsi le mani” perché l’intervento chirurgico era riservato alle professioni vili e meccaniche. Si limitavano a scrivere ricette o consulti la cui esecuzione spettava ai colleghi “minori”: chirurghi o farmacisti.

Gli speziali e i chirurghi appartenevano invece alle professioni “minori”: sprovvisti della formazione filosofica che i collegi riservavano alla nobiltà, il loro tirocinio si svolgeva sotto il controllo della rispettiva corporazione, a diretto contatto con i malati negli ospedali. In fondo, la loro figura assomigliava più a un infermiere che a un medico. Qualcuno potrebbe chiedersi per quale motivo vi fosse una tale separazione tra professioni maggiori e minori. Questo era dovuto ai principi della società d’ancien régime: la chiesa proibiva l’uso del ferro e del fuoco sul corpo umano, nonché la dissezione dei cadaveri; la nobiltà rifiutava invece di praticare lavori che implicassero l’uso delle mani, riconducendoli alle “arti vili e meccaniche”.

A metà Settecento la situazione era quindi la seguente: i nobili “medici fisici” pontificavano sulla scienza medica astenendosi dalle operazioni manuali e svolgendo un tirocinio limitato ai ristretti circoli del loro ceto; i chirurghi e i farmacisti operavano a diretto contatto con i malati, ma erano sprovvisti di una solida formazione teorica. A questa situazione il governo austriaco, negli ultimi anni di regno dell’imperatrice Maria Teresa, aveva posto rimedio con il piano del 29 ottobre 1770 in cui fu costituita una facoltà medica aperta ai non nobili, specializzata nelle varie discipline; nel 1774 venne emanato un Regolamento per la medicina e la chirurgia che, nel segnare la fine della divisione tra professioni maggiori e minori, sottoponeva gli istituti ospedalieri e assistenziali al controllo dello Stato. A un “regio direttorio” istituito dal governo spettava la funzione di abilitare medici, chirurghi e speziali. Le tre professioni erano poste ora sullo stesso piano. Grazie alla riforma nacque il modello della nuova professione medica: a una formazione teorica condotta sulla base degli studi più avanzati e aggiornati, essa univa una pratica sperimentale a diretto contatto con i malati. Nasceva la figura del medico-chirurgo cui apparteneva Monteggia.

Giovanni Battista Monteggia
Giovanni Battista Monteggia

Monteggia si specializzò non solo nell’anatomia, ma anche nella botanica e nelle scienze chimico-farmaceutiche. Nel 1781 superò l’esame di “libera pratica in chirurgia” all’Università di Pavia. Poco dopo conseguì la laurea in medicina. La sua prima pubblicazione scientifica risale al 1789: si tratta dei Fasciculi Pathologici, un’opera in latino che gli consentì di essere conosciuto presso il pubblico specialistico. Nominato nel 1790 chirurgo aiutante e incisore anatomico all’Ospedale Maggiore, Monteggia fu nominato l’anno successivo primo chirurgo nelle regie carceri.

Nel 1794 uscì la sua seconda pubblicazione: Annotazioni pratiche sulle malattie veneree. Era un’opera che, basandosi sul Compendio sopra le malattie veneree del tedesco Johann Friedrich Fritze, conteneva una casistica dei morbi che il Monteggia aveva potuto diagnosticare come medico a contatto con i carcerati. L’opera conteneva una netta presa di posizione a favore del “metodo browniano”, un sistema di cura assai discusso all’epoca. John Brown (1735-1788) riteneva che l’organismo, soggetto alla continua stimolazione dell’ambiente, si fondasse su un equilibrio tra eccitamento ed eccitabilità. La maggior parte delle malattie, rientrando nell’astenia, vale a dire nell’esaurimento delle forze, richiedeva secondo il Brown una cura a base di forti stimoli. Monteggia, aderendo alle teorie del Brown, riteneva che anche le malattie veneree rientrassero nei casi di astenia: nelle Annotazioni consigliava quindi di curare i pazienti con una pianta medicinale conosciuta per i suoi effetti particolarmente stimolanti: la “salsapariglia”. Il metodo di Brown fu poco diffuso nell’Inghilterra di fine Settecento e del primo Ottocento. Sollevò invece entusiasti ammiratori nel continente europeo. In realtà, ben presto fu dimostrato che quel sistema non solo era incapace di guarire i pazienti, ma si risolveva spesso in un peggioramento delle condizioni di salute con terapie intensive che, provocando disturbi nel sistema nervoso, causavano spesso la morte. Pochi anni dopo le Annotazioni del Monteggia, un canonico della cattedrale di Como, Giulio Cesare Gattoni, in un racconto pubblicato nel 1801 (Sogno nella notte vigesima sesta di Giugno poco prima dell’Aurora l’Anno mille ottocento uno dell’Era Cristiana, 1801) forniva un parere a dir poco negativo sul sistema di Brown: “Il solo sistema Browniano quante vittime non ha già sagrificato? Domandatelo a’ Becchini di Londra, che da soli muscoli del viso rattratti san distinguere que’ che finirono la vita per mano de’ Brownisti”.

Nel periodo rivoluzionario e napoleonico il Monteggia conseguì il vertice della sua carriera: in quegli anni insegnò Istituzioni di chirurgia all’Ospedale Maggiore. Tra le sue maggiori iniziative si ricordano le scuole speciali mediche che, attivate presso gli ospedali dello Stato napoleonico, furono decisive nella formazione di una equipe di giovani preparati. La sua simpatia per il regime napoleonico è provata dalle cure che fu chiamato a prestare a uno dei massimi esponenti del governo: Francesco Melzi d’Eril.

Istituzini chirurgiche
Le Istituzioni chirurgiche di Giovanni Battista Monteggia. Prima edizione del 1805

A quegli anni risale l’opera più importante, quella che lo rese celebre nell’ambiente scientifico. Tra il 1802 e il 1805 venne pubblicata la prima edizione delle Istituzioni chirurgiche, un testo che aveva scritto per i suoi studenti. Nella seconda edizione dell’opera, i cui otto volumi vennero pubblicati tra il 1813 e il 1816, l’autore si rivolse invece a un pubblico specialistico. In questo testo il Monteggia riservava largo spazio ai casi che aveva seguito negli anni come medico chirurgo. Le Istituzioni, se confermavano la predilezione dell’autore per la farmacologia, contenevano analisi per quei tempi assai avanzate: i lettori ad esempio avevano a disposizione uno dei primi studi clinici sulla poliomelite. Monteggia intendeva pubblicare una nuova edizione in latino affinché le sue analisi fossero conosciute in campo internazionale. Contava inoltre di pubblicare un nono volume per esporre i suoi risultati nel campo delle vaccinazioni e della farmacopea. La morte troncò però i suoi progetti. I milanesi gli dedicarono una lapide all’ingresso dell’Ospedale Maggiore – oggi Università degli Studi di Milano – andata purtroppo dispersa. Il poeta Carlo Porta lo ricordò in un bel sonetto in lingua milanese ove, nel rendere omaggio all’uomo di scienza, concludeva ironicamente che il pronto soccorso, sia pure condotto con mezzi a dir poco arcaici, restava il solo mezzo utile a salvare le vite dei malati:

Remirava con tutta devozion
vuna de sti mattinn in l’Ospedaa
el ritratt de Monteggia e l’iscrizion
che dis con pocch paroll tanc veritaa;
quan on tricch e tritracch sott al porton
el me presenta on asen mezz spellaa
ch’el fava on vòlt real cont el firon
per rampà sora in cort on ammalaa.
A sto pont tutt l’amor per la virtù
ch’el me ispirava quell dottor de sass
l’è andaa in fond di calcagn lu de per lu.
E ho vist infin che i sciori no gh’han tort
quand se disen tra lor per confortass
che var pù on asen viv che on dottor mort.

Traduzione:

“Rimiravo con tutta devozione, una di queste mattine all’Ospedale Maggiore, il ritratto del Monteggia e l’iscrizione che dice in poche parole tante verità; quando un tricch e tritracch sotto il portone d’ingresso mi presenta un asino mezzo spellato che con le reni faceva una volta reale per salire la ripida rampa e portare in cortile un ammalato. A questo punto tutto l’amore per la virtù che m’ispirava quel dottore ricordato nella lapide di pietra, è andato da solo sotto i piedi. E ho visto alla fine che i ricchi signori non hanno torto quando dicono tra di loro, così per confortarsi, che vale più un asino vivo che un dottore morto”.

La “seconda antenata di Expo”: l’Esposizione del 1906

Come anticipato nell’articolo precedente, dedico questo breve intervento a quella che possiamo considerare la seconda antenata di Expo: l’Esposizione Internazionale del 1906.

Qual era la situazione di Milano al principio del Novecento? In fondo, il periodo compreso tra l’Esposizione del 1881 e quella del 1906 fu caratterizzato da un profondo mutamento urbanistico; tale mutamento investì i quartieri del centro, abbandonati progressivamente dalle classi popolari per divenire spazi esclusivi ove operavano le maggiori istituzioni finanziarie e civili del paese. Inoltre, in questo periodo il centro divenne residenza di una ricca borghesia industriale che subentrò in molti casi alla nobiltà cittadina nella proprietà di palazzi prestigiosi a due passi dal Duomo.

Il mutamento più significativo investì però il complesso della popolazione milanese. Nel giro di quarant’anni la città raddoppiò gli abitanti: nel 1861 Milano contava 242.869 cittadini, nel 1901 erano divenuti 491.460. Nuovi quartieri sorsero a fine Ottocento. Intere zone vennero ridisegnate. In una città che andava lentamente trasformandosi nella metropoli moderna che noi conosciamo, l’Esposizione del 1906 ebbe un significato cruciale, collegandosi al tema del progresso nel campo dei trasporti. Non fu un caso se l’evento venne allestito in concomitanza con l’apertura del traforo del Sempione, avvenuta il primo giugno di quell’anno.

Esposizione 1906 ticketL’Esposizione, tenutasi dal 28 aprile all’11 novembre, si collega assai bene con Expo 2015 per il suo carattere internazionale: vi parteciparono 40 Paesi, i cui padiglioni vennero sistemati in due zone corrispondenti pressappoco all’attuale parco Sempione e all’ex piazza d’armi ove, a partire dal 1923, sarebbe stata costituita la Fiera. Una ferrovia sopraelevata consentiva il libero accesso dei visitatori alle due aree. Il sito si estendeva su una superficie di un milione di metri quadrati. I padiglioni furono 225. I visitatori raggiunsero la soglia dei 5 milioni e mezzo.

Se guardiamo al principio guida che ispirò gli organizzatori, ravvisiamo però una differenza rispetto all’Esposizione del 1881. Più che una rassegna dei prodotti più avanzati nel campo dell’industria, l’esposizione novecentesca rivelò un’attenzione alle ricadute sociali del moderno lavoro di fabbrica. Il benessere e la sicurezza dei lavoratori erano in quegli anni un tema centrale delle politiche condotte dai governi europei.

Galleria del Lavoro
Il Padiglione “Galleria del lavoro” all’Esposizione del 1906 da www.lombardiabeniculturali.it

Del tutto indicativo, a tal proposito, il padiglione “Galleria del Lavoro” ove era possibile assistere al “lavoro in azione”, come ricordavano i documenti dell’epoca. La condizione degli operai italiani era migliorata rispetto a fine Ottocento. Gli storici hanno dimostrato che tra il 1901 e il 1913 i salari erano cresciuti del 26%, mentre il reddito era aumentato del 17%. Un operaio specializzato poteva guadagnare fino a 5 lire giornaliere. In un giornale del 1912 si leggeva: “L’operaio moderno non è più quello di un tempo poiché ama le proprie comodità, non abita più in un tugurio indecente, veste più pulito, ha la bicicletta, compera il giornale”. Si trattava di una rivista pubblicata dall’associazione dei tipografi, che a quel tempo erano gli operai meglio pagati della città. La situazione descritta nel giornale era fin troppo ottimistica e non valeva certamente per la maggioranza dei lavoratori che versavano in estrema povertà. Come testimoniavano le inchieste della Società Umanitaria, gli operai non potevano contare su un’alimentazione adeguata ai ritmi di lavoro. Persone che lavoravano dieci ore al giorno mangiavano cibo carente di proteine e non potevano permettersi il consumo di carne.

Senatore Giovanni Silvestri festeggia vittoria alle Mille Miglia
Il Senatore Giovanni Silvestri (al centro)  festeggia con piloti e meccanici la vittoria della sua O.M. alla prima Mille Miglia del 1927

Tornando all’Esposizione del 1906, il contributo degli industriali milanesi fu notevole. Nel Comitato organizzativo troviamo ad esempio Giovanni Silvestri (1858-1940). Il padre aveva assunto un ruolo di primo piano alla Comi Grandoni e C, poi divenuta Miani e Silvestri. Giovanni proseguì l’attività paterna: presidente del Consiglio di amministrazione, rivestì tale carica anche negli anni successivi, quando l’azienda si trasformò nelle celebri “Officine Meccaniche” (O.M.) i cui stabilimenti, situati fuori Porta Vigentina, erano attivi nel comparto ferroviario producendo carrozze, vagoni, locomotive, rotaie. Inoltre la fabbrica O.M. si fece conoscere per aver realizzato i primi esemplari di automobile, un’attività che le avrebbe procurato una certa fama nei primi decenni del Novecento.

Ettore Ponti (1855-1919)
Ettore Ponti (1855-1919)

Un’altra personalità che fece di tutto per assicurare il successo all’Esposizione del 1906 fu il sindaco Ettore Ponti, figlio dell’industriale tessile Andrea, titolare del Canapificio e Linificio Nazionale. Uomo moderato, colto, di specchiata onestà, animato da un sentimento di sincero amore per la cittadinanza, Ponti preparò con cura l’evento lavorando attentamente alla disposizione dei padiglioni. Questo sindaco liberale va ricordato per tante altre opere a sostegno di Milano. A lui dobbiamo il primo piano regolatore elaborato in funzione di una metropoli quale Milano si avviava a divenire. Il sindaco fondò un ente per la costruzione delle case popolari affinché i tanti cittadini giunti a Milano per ragioni di lavoro potessero trovare una sistemazione nel territorio del comune; Ponti realizzò per primo la pavimentazione delle strade utilizzando il catrame per la copertura dei marciapiedi; costituì l’Azienda elettrica municipale (AEM) perché le case dei milanesi potessero essere illuminate in linea con gli standard più avanzati all’epoca. Introdusse i taxi a Milano, fondò la Biblioteca Civica. Nel corso di un ricevimento organizzato nella sua casa di via Bigli, il Ponti venne insignito del titolo di “marchese” dal re Vittorio Emanuele III, che volle in tal modo premiare l’impegno straordinario profuso dal sindaco nell’allestimento dell’Esposizione internazionale.

La prima ‘antenata’ di Expo 2015: l’Esposizione del 1881

Dal primo maggio al 21 ottobre 2015 si terrà a Milano l’Esposizione Universale dedicata al tema dell’alimentazione e della nutrizione. I paesi che prenderanno parte a questo evento avranno il compito di mostrare come intenderanno far fronte nei prossimi anni al problema dell’alimentazione mediante una gestione del territorio che sia sostenibile per le generazioni future. L’area in cui avrà luogo l’esposizione, larga 1,1 milioni di metri quadrati, si trova a Nord di Milano. E’ prevista un’affluenza di venti milioni di visitatori.

La struttura del sito dell’esposizione riflette l’antica conformazione delle città romane. La via più lunga, il Decumano, si sviluppa in direzione est-ovest per una lunghezza pari a un chilometro e mezzo: attorno ad essa si troveranno i padiglioni dei 130 Paesi che parteciperanno ad Expo. Nelle intenzioni dei promotori, tale asse viario dovrebbe congiungere idealmente il luogo della produzione di cibo (la campagna) con quello della sua consumazione (la città). Sul Cardo, che ha una lunghezza di 350 metri in direzione Nord-Sud, saranno disposti invece i padiglioni del paese ospitante: l’Italia. A nord sorgeranno strutture tese a rappresentare i diversi territori della penisola, a sud si troveranno le aziende del Made in Italy, che hanno saputo rispondere al tema dell’alimentazione e della sostenibilità assicurando ai loro prodotti livelli di eccellenza.

Non è la prima volta che Milano è sede di una Esposizione, anche se questa volta si tratta di un evento allestito per così dire alle porte della città. Il Comune ambrosiano ha vissuto in passato due esposizioni che hanno segnato profondamente la sua storia e che possono ragionevolmente essere avvicinate ad Expo 2015.

In questo post accennerò all’Esposizione Industriale del 1881 perché si lega assai bene al tema delle imprese Made in Italy.  Per ragioni di spazio, dedicherò invece a un altro intervento il tema dell’Esposizione Internazionale del 1906….quindi per dirla all’inglese…stay tuned!!! 

Diversamente da Expo, l’Esposizione del 1881 era ristretta all’Italia. Finanziata dalla Camera di Commercio di Milano, essa mostrò ai cittadini quali fossero i progressi dell’industria nazionale a vent’anni dall’Unità. Un milione e mezzo di visitatori accorsero all’Esposizione, i cui padiglioni furono allestiti nei giardini di Porta Venezia, nell’attuale via Marina e nella villa reale di via Palestro. Ho detto che si trattava di un’iniziativa a carattere nazionale. Essa coinvolse un numero cospicuo di imprese milanesi e lombarde, la cui presenza sul totale degli espositori era pari al 40%.

Notevole per quell’epoca il livello tecnologico raggiunto dai grandi cotonifici: la Cantoni (420 telai), la Crespi (200) e la ditta dei fratelli Borghi (300) mostrarono i progressi nell’integrazione tra filatura e tessitura in una struttura che aveva interamente meccanizzato le fasi di produzione. Inoltre si facevano notare aziende che, quantunque avessero dimensioni più contenute, lasciavano intuire già in quegli anni i futuri sviluppi di eccellenza: i Legler di Ponte San Pietro, i Krumm di Carate Brianza, i Caprotti di Ponte Albiate, i Turati e i Dell’Acqua di Milano che avevano stabilimenti a Busto Arsizio e a Legnano.

Ma a colpire i visitatori furono soprattutto i padiglioni del settore meccanico, ove per la prima volta facevano bella figura macchinari Made in Italy. Tra le aziende presenti c’era ad esempio la Cerimedo (che di lì a poco avrebbe dato i natali alla Breda) specializzata nella produzione di motrici per tram; la Grondona attiva nel comparto delle carrozze e vagoni ferroviari; la Krumm e C. di Legnano che nel dicembre di quell’anno avrebbe mutato la denominazione in Franco Tosi: attiva nella produzione di macchine tessili, tale azienda si andava specializzando nelle motrici e nelle caldaie a vapore.

Il livello tecnologico conseguito dall’industria nazionale dovette colpire notevolmente il milione e mezzo di visitatori accorsi a Milano dal 6 maggio al primo novembre del 1881. Anche gli stranieri non fecero mancare la loro presenza, incuriositi da una iniziativa che consentiva loro di toccare con mano il progresso dell’industria italiana. Un giornalista tedesco del “Berliner Tageblatt”, giunto a Milano per assistere all’evento, non poté trattenere l’entusiasmo per la buona riuscita dell’Esposizione. Nella sezione Mailander Austellungsbriefe scrisse:

“Se Cavour vedesse oggi Milano egli si darebbe una di quelle storiche fregatine di mano che indicavano qualche successo italiano, e direbbe: l’Italia che fu chiamata per lungo tempo terra dei morti, oggi mostra che è il paese dei vivi. L’Esposizione è un’opera imponente, compiuta dall’orgoglio coraggioso e dall’audace spirito d’iniziativa dei cittadini milanesi. Essi possono anche questa volta dire, francamente, che la loro città ha diritto di chiamarsi la capitale morale d’Italia”.

Due associazioni d’élite nella Milano della Restaurazione

Nell’articolo precedente abbiamo visto come nella Milano di fine Ottocento il fenomeno delle associazioni avesse assunto una dimensione ragguardevole grazie alla libertà di riunione garantita dallo Statuto Albertino. Abbiamo anche notato come quelle associazioni fossero in larga parte una realtà borghese o piccolo borghese.

Ingresso di Francesco I nel 1825 da Porta Orientale
Ingresso dell’imperatore d’Austria Francesco I da Porta Orientale, 1825. Fonte: Wikipedia.

La situazione era completamente diversa nella Milano della Restaurazione, quando la città a partire dal maggio 1814 tornò sotto il dominio dell’impero asburgico. Non dobbiamo pensare che l’Austria avesse soffocato d’improvviso lo spirito associativo lombardo. Esso giaceva in uno stato di “mortale languore” già negli anni della repubblica italiana e del regno d’Italia napoleonico (1802-1814) quando lo Stato, retto su una Costituzione autoritaria, aveva sottoposto a rigida tutela il mondo delle società. Difatti, il decreto 130 emanato il 27 dicembre 1802 dal ministro dell’interno vincolava all’autorizzazione del governo qualsiasi tipo di associazione: ottenere il permesso non era semplice giacché occorreva trasmettere allo Stato “il piano dell’associazione colla specificazione degli oggetti e regolamenti rispettivi”. Il decreto stabiliva poi che un “delegato di polizia” avrebbe avuto accesso alle riunioni affinché le autorità potessero sorvegliare l’attività del sodalizio. Ho citato il decreto del 1802 perché esso regolò il mondo delle associazioni milanesi sostanzialmente fino all’Unità d’Italia. L’Austria non apportò cambiamenti. Si limitò a confermare il dettato della normativa esistente. Nulla di cui stupirci: l’impero asburgico era una monarchia il cui regime autoritario era pari a quello napoleonico, sia pure mitigato da alcuni istituti di autogoverno comunale e di rappresentanza corporativa che il Sovrano aveva graziosamente concesso al Lombardo Veneto.

Ma quante erano le associazioni nella Milano della Restaurazione, negli anni immediatamente seguenti alla caduta di Napoleone (1815-1821)? Assai poche. Basterebbero le dita di una mano per contarle tutte. Esse interessavano una ristretta élite composta di aristocratici e di personalità appartenenti all’alta borghesia cittadina. Ci soffermeremo sulle due più importanti, il Casino dei Nobili e la Società del Giardino.

Palazzo Talenti Fiorenza in via Verdi 6
Palazzo Talenti Fiorenza in via Verdi 6  da www.lombardiabeniculturali.it

Il Casino dei Nobili si trovava nel palazzo Talenti Fiorenza nella contrada di San Giuseppe al civico 1602 (oggi via Verdi 6), a due passi dal Teatro alla Scala. Sorto nel 1800, il sodalizio nasceva per riunire la nobiltà in un luogo esclusivo di ricreazione. Il che lascerebbe presupporre che l’unica condizione per farvi parte fosse la nobiltà di sangue. In realtà le cose non stavano esattamente così. Difatti per accedervi occorreva disporre dell’Hofzutritt, vale a dire dell’accesso alla corte imperiale. Non tutti i nobili potevano godere di questo privilegio. V’era poi un altro requisito: le persone di sangue blu dovevano disporre di un notevole patrimonio per pagare le quote associative, piuttosto alte. Se il richiedente non era in grado di pagare, non era ammesso. Si trattava di un criterio censitario che, a ben vedere, non aveva nulla da spartire con le logiche corporative della società d’ancien régime: logiche in base alle quali un individuo non contava per la sua ricchezza o per la capacità di produrre beni materiali, ma godeva dei diritti legati alla funzione che il suo ceto di appartenenza rivestiva nella società. La Rivoluzione francese aveva segnato il crollo di quel mondo e, nonostante le apparenze, i nobili che avevano aderito al Casino mostrarono di accettare il nuovo principio della società civile a matrice individualistica. Dando vita a questa società sul modello della società per azioni, essi accolsero la logica – tutta borghese – del diritto a godere di un servizio per il quale una persona, agendo di sua libera iniziativa, aveva scelto di pagare versando una quota in denaro.

Palazzo Spinola, Sala d'Oro
Palazzo Spinola in via San Paolo 10, Sala d’Oro.

Diversamente dai nobili, il cui casino si era eclissato già negli anni Cinquanta dell’Ottocento, la Società del Giardino esiste ancora oggi. Si tratta del sodalizio più antico di Milano, la cui fondazione risale agli anni Ottanta del XVIII secolo. A farne parte erano i più alti esponenti della borghesia del commercio e delle professioni. Nel periodo che ci interessa esso attraversava una stagione di splendore: l’acquisto nel 1818 del palazzo Spinola in contrada San Paolo al civico 935 (oggi via San Paolo 10) conferì alla Società del Giardino una certa fama. Vi si tenevano riunioni culturali, ma anche concerti alla presenza di star dell’epoca quali Giuseppina Grassini e Giuditta Pasta. Anche in questo caso si trattava però di una società d’élite. Ce lo indicano le elevate quote di associazione.

In una città popolata da 120.000 abitanti, il fenomeno associativo riguardava alcune centinaia di persone, pari allo 0,5% dei milanesi. Qualcuno potrebbe chiedersi cosa spingesse questi ricchi esponenti del notabilato a riunirsi in tali società. Era così importante ritrovarsi in un locale per giocare a biliardo, fumare sigari, assistere a lezioni di cultura, ascoltare la voce di cantanti famose oppure questi tranquilli sodalizi nascondevano una finalità politica? La domanda non è affatto fuori luogo perché in Inghilterra e in Germania molte associazioni di questo tipo preoccupavano le autorità per le attività cospirative che vi si conducevano.

Tranquilli: nulla di cui preoccuparsi per i sodalizi milanesi, sorti – sembrerebbe di poter dire – con il solo obiettivo di passare il tempo in allegria. Ce lo assicura un funzionario della polizia austriaca, Anton Raab,in una relazione al governatore della Lombardia Franz Saurau risalente al 1817:

“I casini italiani sono cose diverse dai circoli tedeschi o inglesi, che sono in realtà riunioni politiche, pericolose e tumultuose. In Italia non è d’uso ricevere in casa la sera in grande stile, né esiste una socialità familiare allargata. Per questo vengono istituiti i casini; per divertirsi la sera senza vincoli. Nei casini si scherza, si gioca, talvolta si fuma, e ci si intrattiene come meglio si crede. I casini sono luoghi d’espressione della voglia di scherzare, così tipica del carattere degli italiani”.

La Società Svizzera: astro dell’associazionismo milanese di fine ‘800

Negli anni Ottanta del XIX secolo Milano vide il fiorire di molte associazioni attive nel campo della cultura, dello sport, della scienza. Questo fenomeno fu dovuto sostanzialmente a due ragioni. La prima si legava alla libertà di associazione garantita dall’articolo 32 dello Statuto Albertino, la Costituzione del Regno d’Italia sabaudo estesa alla Lombardia nel 1859: esso riconosceva il diritto di riunione in luoghi chiusi anche se questo era vincolato alla preventiva autorizzazione del governo. I milanesi poterono disporre in tal modo di un margine di libertà che trent’anni prima, sotto il dominio austriaco, sarebbe stato inimmaginabile.

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Apertura della ferrovia del San Gottardo (23 maggio 1882) da “Centotrentanni della Società Svizzera di Milano”, a cura di Renata Broggini, Jean Pierre Hardegger, Marino Viganò, Hoepli-Seb editrice 2013

L’aumento del fenomeno associativo era dovuto in secondo luogo al proliferare di una classe piccolo borghese bisognosa di spazi in cui condividere i propri hobby. A ben vedere, la formazione di società di questo tipo non riguardava solo i milanesi ma anche i tanti stranieri che, stabiliti a Milano per ragioni di lavoro, desideravano ritrovarsi nel tempo libero e condividere l’amore per la patria lontana. La Società Svizzera di Milano costituiva a tal proposito un caso emblematico. Fondata il 15 dicembre 1883, riuniva al suo interno le associazioni elvetiche esistenti in città. La data di nascita non fu casuale: il sodalizio nasceva infatti per aiutare i cittadini della Confederazione che, in seguito all’apertura della linea ferroviaria del San Gottardo (1882), giungevano numerosi a Milano dai cantoni di lingua tedesca in cerca di lavoro.

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Il volume pubblicato dalla Società Svizzera di Milano

L’anno scorso la Società Svizzera ha pubblicato un bel volume per festeggiare i 130 anni della sua attività. Il libro, Centotrentanni della Società Svizzera di Milano 1883-2013 (curato da Renata Broggini, Jean Pierre Hardegger e Marino Viganò, Hoepli-Seb Editrice 2013) prende in esame la storia del sodalizio mediante il ricorso ai preziosi documenti conservati dalla Società.

Ulrico Hoepli
Ulrico Hoepli

Tra i primi soci troviamo i nomi di tante personalità che diedero lustro a Milano. E’ il caso soprattutto di Ulrico Hoepli, presidente della Società Svizzera dal 1886 al 1889, fondatore della celebre libreria oggi in piazzale Meda. Originario del villaggio di Tuttwill (nel cantone di Turgovia), giunse a Milano all’età di 23 anni. Fissata la prima attività nel campo editoriale in Galleria De Cristoforis, Hoepli divenne famoso per aver fondato l’omonima casa editrice che pubblicò una fortunata serie di manuali nei più svariati campi delle scienze e delle arti.

Fu Hoepli a trovare i primi locali alla Società Svizzera: quattro stanze prese in affitto in via Silvio Pellico 6 con vista su piazza del Duomo. Qui il sodalizio tenne le riunioni dal 1886 al 1914, quando l’aumento dei soci rese necessario l’acquisto di una casa in via Disciplini 11, nel sestiere di Porta Ticinese. Il trasferimento nel nuovo stabile fu però contrastato. Oggi via Disciplini è una tranquilla strada del centro la cui importanza si collega al suo tracciato peculiare: assieme alla parallela via Cornaggia, essa infatti mostra tuttora alcuni ruderi delle antiche mura romane. La situazione era ben diversa nei primi anni del Novecento: l’isolato faceva discutere perché di fronte all’edificio acquistato dalla Società Svizzera si trovava una casa di tolleranza la cui fama non era certo legata a iniziative nel campo dello sport o della cultura. La decisione di trasferirsi in quella via provocò quindi un certo disaccordo tra i membri del sodalizio, sollevando polemiche che culminarono nell’abbandono di 30 soci. La Società Svizzera seppe tuttavia guadagnarsi nel tempo la simpatia dei milanesi, dando vita a tante iniziative che contribuirono a migliorare le condizioni dell’isolato.

La bandiera del "Mannerchor", 1887 da "Centrotrentanni della Società Svizzera di Milano"
La bandiera del “Mannerchor”, 1887 da “Centrotrentanni della Società Svizzera di Milano”

Negli anni Venti e Trenta la Società Svizzera era formata dalle Sezioni più antiche: il gruppo dello Schweizer Gesangverein (esistente dal 1869) riuniva i cultori dei canti patriottici immersi nell’atmosfera romantica di Friedrich Schiller e Wilhelm Tell. Gli appassionati del gioco dei birilli o Kegelspiel (dal 1875) contribuirono a far conoscere ai milanesi uno sport tipico della Svizzera che può essere considerato – nonostante alcune differenze nel regolamento di gioco – l’antenato del bowling britannico. V’era poi la Sezione Ginnasti (1874) che riuniva giovani sportivi legati in amicizia con la milanese “Forza e Coraggio”. La sezione Tiratori (1889) consentì di mantenere vivo a Milano l’amore per un altro sport di origine svizzera. Nel 1914 venne costituita la Sezione Signore su iniziativa di Sophie Vonwiller: nata poco dopo lo scoppio della Grande Guerra, questa sezione procurò il vestiario ai soldati in partenza per il fronte.

La Società Svizzera ebbe sede in via Disciplini fino alla seconda guerra mondiale, quando i bombardamenti spinsero il sodalizio a cercare un altro edificio. Nel 1951, grazie al sostegno della Confederazione, venne inaugurata la parte bassa dell’attuale sede in piazza Cavour. Si tratta di un complesso imponente, costruito dagli architetti Armin Meili di Zurigo (1892-1981) e Giovanni Romano (1905-1990) per ospitare le istituzioni elvetiche: oltre alla Società Svizzera, vi hanno sede oggi il Consolato generale, la Camera di Commercio e l’Ufficio nazionale svizzero del turismo. Nel 1952 venne ultimata la torre tra piazza Cavour e via del Vecchio Politecnico: un edificio di 20 piani, alto 78 metri, che costituiva a quell’epoca il più alto grattacielo di Milano.

Babbo Natale scrive ai bambini Tolkien nel duro inverno 1931

John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973) non è stato solo il grande romanziere fantasy de Il Signore degli Anelli e Lo Hobbit che molti di noi conoscono. E’ stato un brillante professore di storia, esperto di letteratura medievale inglese.

John Ronald Reuel Tolkien da www.tolkien.it
John Ronald Reuel Tolkien da www.tolkien.it

A molti potrà sembrare il profilo di uno studioso immerso negli studi, lontano dalla realtà. Nulla di più sbagliato. Tolkien seguì attentamente gli eventi del suo tempo. Partecipò alla prima guerra mondiale prendendo parte nel marzo 1916 alla sanguinosa battaglia sul fronte della Somme come ufficiale segnalatore nell’esercito britannico.

Nel primo dopoguerra fu professore ad Oxford di Lingua e Letteratura anglosassone ma l’attività accademica non gli impedì di assistere con preoccupazione ai gravi eventi economici e politici che si susseguirono negli anni Venti e Trenta del secolo scorso.

Nel periodo natalizio Tolkien era solito spedire ai suoi nipoti lunghe lettere di auguri calandosi nei panni di Babbo Natale.

Per farti gli auguri di Natale ho scelto il passo di una lettera spedita dal professore inglese il 23 dicembre 1931. Due anni dopo il crollo di Wall Street, quando la crisi economica si era estesa ormai all’Europa gettando nella povertà milioni di persone, Babbo Natale scrisse ai bambini Tolkien:

“Cliff House, North Pole

My dear children,

babbo-verde
Babbo Natale da www.brand-identikit.it

I hope you will like the little things I have sent you. You seem to be most interested in railways just now, so I am sending you mostly things of that sort. I send as much love as ever, in fact more. We have both, the old Polar Bear and I, enjoyed having so many nice letters from you and your pets.

If you think we have not read them you are wrong, but if you find that not many of the things you asked for have come, not perhaps quite as many as sometimes, remember that this Christmas all over the world there are a terrible number of poor and starving people. I (and also my green brother) have had to do some collecting of food and clothes and toys too for the children whose fathers and mothers and friends cannot give them anything, sometimes not even dinner.

I know yours won’t forget you. So, my dears, I hope you will be happy this Christmas do not quarrel, you will have some good games with your railway all together.

Don’t forget old Father Christmas when you light your tree”.

Nelle difficili condizioni economiche in cui versa l’Europa – in particolare l’Italia – credo che questa lettera ci consente di comprendere lo spirito di quei tempi, purtroppo non molto diversi da quelli attuali.

Padre Gemelli e le finalità dell’Università Cattolica

Riprendiamo la storia dei chiostri di Sant’Ambrogio. Cominciamo da una data precisa: il 30 ottobre 1932. In quel giorno l’antico monastero divenne sede dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. In realtà, l’ateneo esisteva già da alcuni anni: la data di nascita risale al 7 dicembre 1921.

Padre Gemelli, Olgiati, Necchi
Monsignor Francesco Olgiati, padre Agostino Gemelli, Ludovico Necchi in una foto del 1919. Foto Masha Sirago

La fondazione dell’Università Cattolica fu dovuta all’incrollabile forza di volontà del francescano Agostino Gemelli (al secolo Edoardo, 1878-1959). Un vivace gruppo di intellettuali cattolici lo aiutò nella realizzazione di questa impresa: monsignor Francesco Olgiati, Armida Barelli, Ludovico Necchi, il conte Ernesto Lombardo.

Padre Agostino Gemelli in una foto dei primi anni del Novecento. Da http://stelleincielofratellosolesorellaluna.blogspot.it/2013/05/padre-agostino-gemelli-ofm-fondatore.html
Padre Agostino Gemelli in una foto dei primi anni del Novecento. Da http://stelleincielofratellosolesorellaluna.blogspot.it/2013/05/padre-agostino-gemelli-ofm-fondatore.html

I chiostri di Sant’Ambrogio erano familiari da tempo al fondatore. Qui Edoardo aveva passato una parte della giovinezza. Nel 1902, appena laureato in medicina, vi trascorse il periodo del servizio militare con l’incarico di curare i soldati rimasti gravemente feriti. In quei cortili Gemelli, che si era allontanato dalla pratica religiosa fin dagli anni del liceo, sentì rinascere la fede grazie ad alcuni amici e all’incontro con i francescani dediti alla cura dei malati. L’anno dopo giunse – improvvisa – la vocazione religiosa: Edoardo entrò nell’ordine di San Francesco alla fine del 1903 nonostante la forte contrarietà dei genitori, i quali non esitarono a sostenere una campagna giornalistica per evitare che il figlio entrasse in convento.

Torniamo all’Università Cattolica. Quali furono le ragioni che spinsero padre Gemelli e i suoi collaboratori a fondarla nel 1921? Possiamo affermare anzitutto che la situazione dei cattolici italiani non era allora particolarmente critica. Le riserve della classe politica nazionale nei loro confronti erano cadute in gran parte: durante la prima guerra mondiale i cattolici si erano dimostrati leali servitori dello Stato; nel dopoguerra  don Luigi Sturzo fondò un partito cattolico che aveva consentito alle masse una larga partecipazione alla vita politica dopo anni di distacco. Deputati cattolici erano addirittura al governo del Paese. La fondazione dell’Università Cattolica costituiva in fondo il coronamento di un percorso di avvicinamento all’alta cultura scientifica – nazionale e internazionale – che era stato assai lungo e tormentato.

Godefroid Kurth (1847-1916). Photo Institut Jules-Destrée (Droits SOFAM)
Godefroid Kurth (1847-1916). Photo Institut Jules-Destrée (Droits SOFAM)

Vent’anni prima, negli ultimi anni dell’Ottocento i cattolici italiani godevano in Europa di un credito assai limitato nel campo degli studi. Alcuni intellettuali, essi stessi cattolici, li consideravano addirittura una massa di ignoranti. Al congresso internazionale degli scienziati cattolici tenuto a Friburgo tra il 16 e il 20 agosto 1897, lo storico belga Godefroid Kurth rivolse critiche spietate. A chi proponeva di scegliere Roma per la riunione degli scienziati da tenersi l’anno successivo egli rispose: “Il nostro è un congresso scientifico. Ora io vi domando: ci vien forse da Roma e dall’Italia la luce scientifica? Dove sono le sue alte scuole, i suoi istituti, le sue pubblicazioni?”.  L’analisi del Kurth fotografava in modo impietoso lo stato della cultura cattolica italiana alla fine dell’Ottocento ma era ancora valida per certi versi nel primo ventennio del Novecento.

Si capisce quindi come l’Università Cattolica fosse stata fondata al fine di sanare la mancanza di cultura scientifica nei cattolici italiani. Non fu un caso se l’ateneo venne stabilito a Milano, città più aperta al progresso e alla modernità rispetto a Roma. Le prime facoltà furono Filosofia e Scienze sociali. Come ricordava padre Gemelli in un discorso degli ultimi anni, le finalità dell’ateneo alle sue origini erano due:

Padre Gemelli
Padre Agostino Gemelli da http://www.studisemeriani.it/archives/3228.

“Nacque la nostra Università con questo duplice programma: innanzitutto preparare all’Italia giovani cattolici in guisa che essi potessero diventare attivi membri della comunità sociale; in secondo luogo, ma non come compito secondario bensì principale, elaborare le dottrine alle quali questi giovani debbono richiamarsi nella loro azione; difatti ciò di cui il mondo ha bisogno sono soprattutto le idee”.  Egli fornì agli studenti una preparazione scientifica informata ai severi standard delle università belghe e tedesche. L’Università Cattolica doveva essere la prova che in Italia scienza e fede non erano inconciliabili.

Russia: le sanzioni occidentali fanno temere la recessione

Fosche nubi si addensano sulla Russia. Nei giorni scorsi il rublo si è svalutato sensibilmente nei confronti di euro e dollaro. Agli sportelli delle banche è stata una corsa al cambio della moneta. Se a questo aggiungiamo il forte calo del prezzo del petrolio, da cui il Cremlino ricava oltre metà delle entrate, non è difficile intuire che i mesi a venire saranno per i russi a dir poco problematici. Alcuni già scommettono che l’anno prossimo Mosca entrerà in recessione. Oggi il presidente Vladimir Putin, parlando in una conferenza stampa davanti a 1200 giornalisti, ha assicurato che il Paese uscirà dal pantano nel giro di due anni. Gli analisti però nutrono seri dubbi.

Il presidente russo Vladimir Putin in una foto pubblicata da www.the-american-interest.com
Il presidente russo Vladimir Putin in una foto pubblicata da www.the-american-interest.com

La crisi della moneta russa è la conseguenza delle tensioni scaturite recentemente nei rapporti tra il Cremlino e la comunità internazionale. Putin ha puntato il dito contro l’Occidente: “La crisi” – ha detto nella conferenza stampa di oggi – “è provocata da elementi esterni. Vogliono che l’orso [la Russia] stia seduto tranquillamente e mangi il miele, ma tentano di metterlo in catene, di togliergli i denti e gli artigli e impagliarlo”. A cosa si riferisce? Alle sanzioni che gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno adottato contro Mosca per aver violato i trattati e le norme di diritto internazionale nella questione ucraina. E’ qui infatti che gli opposti interessi della Russia e dei paesi occidentali si sono scontrati in tutta evidenza. Putin ha mostrato di non voler rinunciare a territori sui quali Mosca ha esercitato da secoli la sua influenza: l’annessione della Crimea, il sostegno ai partigiani filorussi del sudest ucraino sono atti di una politica tesa a difendere il ruolo della Russia quale grande potenza mondiale su un piano di parità con gli altri paesi del G7.

Il presidente degli Stati Uniti Obama con il presidente polacco Komorowski. Photo: PAP/Pawel Supernak
Il presidente degli Stati Uniti Obama con il presidente polacco Komorowski. Photo: PAP/Pawel Supernak

Dall’altra parte troviamo le potenze occidentali, Stati Uniti in testa. Obama ha garantito pieno appoggio ai governi ucraini che si sono succeduti dopo la rivoluzione di Jevromajdan, asserendo che la libertà del popolo ucraino sarà difesa ad ogni costo. Nel discorso tenuto a Varsavia il 5 giugno il presidente degli Stati Uniti, mettendo sullo stesso piano l’Ucraina di oggi con la Polonia dei primi anni Novanta liberata dal comunismo sovietico, ha affermato: “in qualità di uomini liberi noi ci uniamo, non semplicemente per salvaguardare la nostra sicurezza, ma per far compiere passi avanti alla libertà altrui…lo facciamo perché crediamo che i popoli e le nazioni abbiano il diritto di determinare il proprio destino. E ciò include il popolo ucraino”. Obama ha le idee chiare: intende ridimensionare la Russia confinandola al rango di una potenza regionale. L’obiettivo è allargare ad est la sfera d’influenza militare ed economica dell’Occidente, favorendo l’ingresso dell’Ucraina nella Nato e nell’Unione Europea.

Le tensioni tra l’Unione europea e la Russia si sono acuite nelle scorse settimane quando Putin ha annunciato di voler fermare la costruzione del gasdotto Southstream che avrebbe consentito ai paesi dell’Europa meridionale (Bulgaria, Serbia, Ungheria, Slovenia, Austria e Italia) di ottenere il gas russo senza passare per la costosa mediazione dell’Ucraina. Nello spiegare l’abbandono del progetto, Putin ha puntato il dito contro la Bulgaria e l’Unione Europea, responsabili di aver bloccato l’avanzamento dei lavori. Non sappiamo di chi sia la colpa. E’ certo che tutto questo ha finito per rendere ancor più profonda la spaccatura tra Russia e Occidente.

L'assedio di Očakov 1788, di Sučodolskij da http://john-petrov.livejournal.com/655857.html
L’assedio di Očakov 1788, di Sučodolskij da http://john-petrov.livejournal.com/655857.html

Il 17 dicembre 1788, durante la guerra russo-turca, il generale Grigorij Alexsandrovič Potëmkin conquistò la fortezza ucraina di Očacov. Quella vittoria consentì alla Russia di mantenere la Crimea e di ottenere una fortezza che, situata in un punto strategico quale il lato destro della foce del Dnepr, venne espugnata grazie a un memorabile assedio che aveva ridotto alla fame gli occupanti turchi. Allora Kiev e la parte dell’Ucraina situata ad oriente del fiume Dnepr erano da più di un secolo sotto l’impero della grande Caterina e sarebbero rimaste russe fino alla prima guerra mondiale.

Crimea e Ucraina continuano ad essere terreno di contesa ma oggi è la Russia, per uno strano paradosso della storia, ad essere affamata dalle sanzioni occidentali.

La Rinascente: morte e resurrezione di un negozio storico

Facciamo un giro in piazza del Duomo. Lo spazio a sinistra della cattedrale era conosciuto un tempo come “gli scalini del Duomo” perché fino agli anni trenta dell’Ottocento le gradinate si trovavano unicamente sul lato nord della chiesa e sulla parte antistante alla facciata.

Se si prosegue a sinistra  è possibile raggiungere il palazzo monumentale della Rinascente, il prestigioso emporio della moda che va sempre più somigliando al londinese Harrods o alle parigine Galeries Lafayette.  Potremmo dire che la storia della Rinascente è stata un continuo altalenarsi di alti e bassi, di crisi ed inattese resurrezioni.

Ferdinando Bocconi (1836-1908)
Ferdinando Bocconi (1836-1908)

La data di nascita risale al 1889, quando i fratelli Ferdinando e Luigi Bocconi costruirono un negozio di abiti per la borghesia milanese in un’area in via Santa Radegonda, una traversa di corso Vittorio Emanuele. Il negozio era intitolato “Alle città d’Italia” ma non era certamente il primo gestito dai due fratelli. I Bocconi erano conosciuti da tempo nel settore commerciale. Originari di Lodi, iniziarono a lavorare a Milano vendendo abiti nelle bancarelle di piazza Sant’Ambrogio. Fecero fortuna in tempi relativamente brevi. Nel 1877 li troviamo già nei pressi della Galleria Vittorio Emanuele, in via Tommaso Grossi: qui costruirono il primo magazzino di stoffe e generi di arredo in un edificio che in precedenza era stato sede dell’Hotel Confortable: lo battezzarono “Aux villes d’Italie”.

Ad alcuni può sembrar strano che i fratelli Bocconi fossero ricorsi al francese per intitolare il loro primo negozio di dimensioni ragguardevoli. In realtà la scelta era a dir poco ambiziosa: essi intendevano rivolgersi a una clientela completamene diversa rispetto ai milanesi che bazzicavano per le bancarelle di Sant’Ambrogio. Il francese era lingua internazionale nell’Europa dell’Ottocento, un po’ come l’inglese ai giorni d’oggi.  Eppure, a ben vedere, il francese lasciava trasparire qualcosa di più sottile. Indicava quale fosse il modello cui i fratelli Bocconi ispirarono la loro attività: era stato infatti il francese Aristide Boucicaut (1810-1877) ad aprire a Parigi una prima catena di grandi magazzini. Ma il francese era fatto soprattutto per piacere ai ricchi italiani cosmopoliti.

In un catalogo dell’8 dicembre 1879 preparato dai Bocconi per le vendite a corrispondenza era possibile rendersi conto del vasto assortimento di articoli, a partire dai giocattoli per bambini:

auz ville d'italie“Nulla di più grandioso e più ricco dell’assortimento dei balocchi e delle chincaglie…tutto  quel ben di Dio che la più fervida fantasia di un ragazzino può sognare e che le grandiose fabbriche della Germania, della Francia e della Svizzera in questo genere a sollazzo dell’infanzia umana creano, si trova in gran copia in questa speciale Esposizione. D’altra parte non mancano gli oggetti utili, e tra questi talune confezioni speciali e tagli di abiti per signora, e molti altri articoli d’uso di vera eccezionale convenienza”.

I magazzini Aux Ville d'italie in via Tommaso Grossi (1879)
I magazzini Aux Villes d’Italie in via Tommaso Grossi (1879)

Ai nazionalisti italiani il francese faceva però storcere il naso. Fu così che nel 1880 i Bocconi furono indotti a cambiar nome al negozio, ribattezzandolo “Alle città d’Italia”. I magazzini Bocconi davano lavoro in quegli anni a trecento impiegati divisi in 31 sezioni quante erano le tipologie di merci. Nell’azienda e nello stabilimento di produzione delle stoffe prestavano servizio circa 2000 persone, senza contare le succursali di Torino, Genova, Trieste e Roma. Fu in questo quadro, quando la crescita degli affari divenne esponenziale, che i Bocconi fecero costruire nel 1889 la nuova sede in via Santa Radegonda. Oltre ai reparti delle stoffe e abiti confezionati, i clienti potevano accedere a quelli di biancheria, merceria, giocattoli, mobili e arredamento, profumeria.

Al volgere del nuovo secolo si avvicinò la prima crisi. Alla morte di Ferdinando Bocconi, il figlio Ettore guidò la ditta trovandosi presto in difficoltà per la mancanza di adeguate competenze. Inoltre, i problemi nella gestione di un’impresa le cui dimensioni si erano fatte ormai considerevoli si accrebbero nella crisi in cui versò l’Italia durante la prima guerra mondiale.

Senatore Borletti (1880-1939)
Senatore Borletti (1880-1939)

Arrivò però la ripresa. Su consenso dei Bocconi venne progettata e realizzata la fusione della ditta con i “Magazzini Vittoria”. Il regista di tale operazione fu Senatore Borletti: industriale brillante e creativo, specializzato nel settore tessile, aveva fondato nel 1917 una ditta di orologi che le necessità della guerra avevano  convertito a fabbrica di spolette per proiettili. Arricchitosi enormemente grazie alle commesse belliche, il Borletti poté acquistare senza difficoltà i Magazzini Bocconi: il 27 settembre 1917 fondò “la Rinascente” il cui nome fu un’idea di Gabriele D’Annunzio. Il vate sentenziò dalle vette poetiche della sua ispirazione: “La Rinascente: l’Italia nova impressa in ogni foggia”. Si trattava ora di un vero e proprio centro commerciale. Il 7 dicembre 1918 i grandi magazzini riaprirono in corso Vittorio Emanuele.

Rinascente liberty
Il palazzo della Rinascente dell’architetto Giovanni Giachi

Ecco però la seconda crisi, questa volta imprevista: il 25 dicembre di quello stesso anno, in pieno Natale, l’edificio venne distrutto da un incendio. Borletti tuttavia, per nulla piegato da quel duro colpo della sorte, finanziò prontamente la ricostruzione affidando i lavori all’architetto Giovanni Giachi. Il 23 marzo 1921 la Rinascente riaprì le porte in uno stupendo edificio che conferiva alla zona una solenne atmosfera di eleganza e decoro urbano.

I bombardamenti del 1943 segnarono la terza crisi cui seguì per così dire la terza “resurrezione”: quella – si spera per noi milanesi – definitiva. Il 4 dicembre 1950 la Rinascente tornava a rivivere nel palazzo a portici imponenti disegnato dall’architetto Ferdinando Reggiori.

Oggi alla Rinascente respiri un’aria un po’ diversa da quella delle origini.  Trovi tanti turisti, donne d’affari, giovani e meno giovani che vanno a caccia di abiti, prodotti di design, articoli di alta moda. C’è anche chi ne approfitta per acquistare  prodotti culinari: basta prendere l’ascensore per arrivare velocemente all’ultimo piano ove trovi i grandi marchi della ristorazione “made in Italy”: penso ad Obikà o a De Santis.

Lo Stradone e i chiostri di Sant’Ambrogio nel sestiere di Porta Vercellina

Lo "Stradone di Sant'Ambrogio" quale appare oggi dopo i lavori urbanistici.
Lo “Stradone di Sant’Ambrogio” quale appare oggi dopo i lavori urbanistici.

Guardando la basilica di Sant’Ambrogio, costeggiando l’attigua piazza sulla sinistra si accede all’ampio viale che corre parallelo all’antico naviglio di San Girolamo (oggi via Carducci). Quel viale era conosciuto come Stradone di Sant’Ambrogio. Oggi, dopo i lavori urbanistici che hanno interessato l’isolato per molti anni, è divenuto finalmente una piacevole area pedonale intervallata da spazi verdi fino alla Caserma Garibaldi. A quel punto il viale, dopo aver costeggiato i giardini e le case della basilica ambrosiana, piega a gomito sulla destra per terminare in Largo Gemelli.

La strada è percorsa in prevalenza dagli studenti della vicina Università Cattolica. L’ateneo ha sede proprio lì, in quei magnifici chiostri dietro la basilica di Sant’Ambrogio che facevano parte anticamente di un convento abitato dai monaci benedettini dal 789 d.C. fino alla fine del Quattrocento. I canonici, vale a dire i chierici addetti al servizio in chiesa, abitavano invece nelle case vicine all’altra area della basilica. I rapporti tra i monaci e i canonici furono a dir poco complessi, segnati da rivalità che nel Medioevo erano assai diffuse tra corporazioni gelose dei loro diritti particolari.

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La basilica di Sant’Ambrogio e la Caserma San Francesco. Litografia ottocentesca a cura di Giuseppe Elena e Pietro Bertotti.

Vi siete mai chiesti per quale motivo la basilica di Sant’Ambrogio ha due campanili? Semplice: perché i canonici, stanchi di suonare le campane con i monaci del vicino convento, convinsero l’arcivescovo Anselmo V della Pusterla, nel 1128, a costruire a spese del Comune un secondo campanile sul lato opposto della facciata. E pazienza se per completare i lavori fu necessario abbattere il fianco sinistro della chiesa: per i canonici era più importante salire sul “loro” campanile. Chissà quante risate si saranno fatte i monaci quando guardavano i loro vicini dall’alto del “loro” campanile!

I benedettini risero meno quando alla fine del Quattrocento, accusati di cattivi costumi, furono costretti a sloggiare. I chiostri di Sant’Ambrogio furono affidati in commenda al cardinale Ascanio Sforza: uomo colto e raffinato, fratello del duca Ludovico il Moro, l’abate Ascanio affidò la ristrutturazione di quegli edifici religiosi all’architetto Donato Bramante, al cui stile dobbiamo la linea sublime dei capitelli a due ordini, nonché le raffinate logge in pietra e in cotto. Il cardinale assegnò questi spazi ai cistercensi di Chiaravalle, che vi abitarono fino all’arrivo degli eserciti francesi del generale Bonaparte: l’edificio, ora demaniale, divenne un ospedale militare. A tale uso continuò ad essere destinato fino agli inizi degli anni Trenta quando vi fu trasferita l’Università Cattolica. Questa però è un’altra storia che vi racconterò in un altro post….

 

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