La cucina milanese nel Medioevo: tempo del cibo e tempo dei pasti

Limitare la fame nel mondo è obiettivo centrale di Expo, ben sintetizzato dallo slogan “nutrire il pianeta, energia per la vita”.

Nella storia europea la fame è sempre stata un terribile spettro da cui fuggire ricorrendo ad ogni mezzo. Uno sguardo al Medioevo milanese ci consente alcune riflessioni significative in tema di cucina e alimentazione.

fame carestieNel Medioevo il mangiare era influenzato sostanzialmente da due tempi. Il primo è il tempo della natura. Alcuni cibi erano ricavati da materie prime che si potevano ottenere solo in alcuni mesi dell’anno: sappiamo bene che ogni stagione ha i suoi frutti tipici. Eppure, a ben guardare, c’inganneremmo se pensassimo che gli uomini medievali vivessero unicamente in base ai ritmi della natura, come certa vulgata vorrebbe farci credere. Dobbiamo considerare un secondo tempo, il tempo artificiale dell’uomo garantito dalle tecniche di conservazione dei cibi. Certo, anche gli antichi avevano imparato qualcosa al riguardo. Aristotele raccomandava ad esempio di coprire le mele con l’argilla per farle durare più a lungo. Tuttavia, mai come nel Medioevo l’uomo europeo riuscì ad ingegnarsi per sconfiggere il duro ritmo delle stagioni che costringeva molte famiglie a morire di fame. “O tu che reggi ogni cosa, perché succede che le stagioni non siano sempre uguali a se stesse, distinte solo da quattro numeri?” implora Merlino in un testo di Goffredo di Monmouth risalente al XII secolo. Segno che davvero il mutare delle stagioni costituiva una grande incognita per l’uomo medievale, esposto in tutta la sua fragilità all’incertezza del futuro.

L’uomo riuscì a vincere questa battaglia grazie alla capacità di prevedere il mutamento del tempo. Di qui la necessità di conservare i cibi perché la carestia era dietro l’angolo e, come recitava un antico proverbio milanese: Calastria preveduda, l’è mezza preveduda: carestia prevista, è per metà evitata.

Se riprendiamo due termini citati in un documento toscano del IX secolo dopo Cristo, possiamo quindi concludere che il Medioevo era articolato in un tempus de glande (tempo di ghiande) – in cui si raccoglievano i frutti della vegetazione arborea – e un tempus de laride (tempo di lardo) che non era collegato solo all’allevamento del maiale e alla consumazione della carne, ma anche al tempo in cui si metteva da parte tutto quel che si poteva conservare.

Quali furono le tecniche di conservazione più usate? Anzitutto il ricorso al sale, che non solo rendeva più gustosi i cibi ma, prosciugandoli, li rendeva secchi, più durevoli nel tempo. Ad essere messi sotto sale furono cibi quali la carne, il pesce, le verdure. Era poi diffusa l’essiccazione del pesce al sole o mediante il fumo. Altre tecniche si affermarono ricorrendo all’olio, all’aceto, al miele e allo zucchero. Quest’ultimo fece tuttavia la sua comparsa alla fine del Medioevo e solo nelle mense signorili europee.  Per restare ancora alla conservazione degli alimenti, un’altra tecnica era la fermentazione, che rese possibile sfruttare a vantaggio dell’uomo un processo tutto naturale come la putrefazione. La fermentazione, assieme alla salatura, venne impiegata in prodotti quali salami, formaggi, prosciutti.  Un caso emblematico era costituito a tal proposito da un genere di verdure, i crauti, tuttora diffusi nell’Europa germanica: erano ottenuti mediante un processo di fermentazione acida.

cucinaUn altro strumento per “addomesticare” il tempo consisteva nel diversificare la coltivazione delle piante. Carlo Magno, nel capitolare De villis, invitava a piantare nelle aziende regie “meli di diverso genere, peri di diverso genere, prugni di diverso genere…” affinché si potesse procedere a una raccolta differenziata nel tempo. Dei sette tipi di mele citate nel documento, sei erano definiti “serbevoli”, conservabili, mentre le “primitiva” potevano essere mangiate subito.

Alcuni frutti ricchi di calorie si mangiavano tutto l’anno e, nel duro inverno, servivano addirittura da ripieno. Era il caso delle noci, che a Milano erano mangiate alla fine di ogni pasto. Bonvesin de la Riva ci fornisce altre preziose informazioni al riguardo nel suo De Magnalibus urbis Mediolani, vero e proprio spot pubblicitario della città ambrosiana nel XIII secolo. Sappiamo così che i milanesi amavano triturare le noci, impastarle con uova, cacio e pepe “unde carnes inde iemali tempore impleantur” (tradotto: affinché potessero costituire un ripieno per le carni nella stagione invernale. Libro IV, paragrafo III).

Nel caso dei cereali – base dell’alimentazione contadina – la tecnica era sempre quella di differenziare le colture, un po’ come facciamo oggi quando investiamo in banca diversificando il nostro portafoglio per limitare il rischio e spalmare nel tempo i frutti dei capitali investiti. I contadini coltivavano segale, miglio, avena, spelta, orzo, frumento perché sapevano che i tempi di crescita propri di ciascuna pianta costituivano un altro mezzo efficace per far fronte all’incertezza del domani.

carniSe dal tempo dei cibi passiamo al tempo della cucina, ci accorgiamo che quest’ultimo era assai più lungo rispetto al nostro perché comprendeva fasi di lavoro oggi inesistenti: ad esempio la pestatura dei cereali, il taglio e la macellazione della carne. La lunghezza e la complessità nella preparazione dei cibi non era tipica soltanto delle cucine signorili. Era una costante della società contadina. Il bollito fu per secoli un tipo di alimentazione tipico dei ceti popolari, mentre l’arrosto – ottenuto con l’utilizzo di griglie o spiedi – era prerogativa delle mense signorili. In quest’ultimo caso ad essere cotte erano le carni giovani degli animali uccisi nelle battute di caccia: attività, quest’ultima, riservata alla nobiltà guerriera del Medioevo (i bellatores), prerogativa di questo ceto ancora nell’antico regime. La carne giovane costituiva la base dell’alimentazione del clero regolare in ricche abbazie come ad esempio, per restare a Milano, quella di Sant’Ambrogio. Da un documento del 1148 sappiamo ad esempio che, nel corso delle innumerevoli liti insorte tra i canonici e i monaci di Sant’Ambrogio, il prevosto pretese dall’abate un pranzo in occasione della festa di San Satiro (17 settembre) composto da svariati tipi di carne: polli freddi e carni di porco fredde, poi polli ripieni e carni di porco pepate, infine polli arrosto, lombetti e porcellini ripieni.

minestraGli animali vecchi, consunti dal tempo e dalla fatica del lavoro agreste, erano destinati invece alle mense popolari: le carni erano bollite in calderoni rimestati dalle donne; spesso venivano messe in pezzi nella minestra, La menestra l’è la biava de l’omm: la minestra è la biada dell’uomo, recitava un altro proverbio milanese. Segno che tale alimento era la base dell’alimentazione contadina.

Le cotture lunghe furono caratteristiche della cucina medievale. La pasta era cotta fin quasi a spappolarsi, un’usanza che si conserva tuttora nelle cucine dei paesi nordici ove è possibile rintracciare molti segni degli antichi usi culinari. La pasta al dente è un’invenzione tutta moderna e italiana.

Veniamo ora al tempo dei pasti. Quante volte si mangiava e quando? Anche qui gli usi erano diversi. Il pranzo cadeva in tarda mattinata, mentre la cena al tramonto del sole: tempi che erano in linea con i ritmi della civiltà contadina. E’ possibile che i nostri antenati mangiassero qualcosa di mattina ma è poco probabile che ricorressero a cibi dolci come pane e marmellata. Una chiave di lettura può esserci offerta dalla cucina germanica, che mantiene molte usanze medievali. La mattina si ricorreva probabilmente a piccole porzioni di cibi presenti nei pasti ordinari: salumi, formaggi, prosciutti, carni.

La durata dei pasti era senza dubbio un segno di status. I pranzi signorili potevano durare ore se non addirittura giorni interi. Se vuoi saperne di più sulla cucina medievale a Milano, clicca qui.

La Darsena ritrovata

Sono stato anch’io tra i 70.000 visitatori che domenica scorsa hanno assistito alla riapertura della Darsena dopo anni di lavori. Il giudizio è nel complesso positivo. In un perodo difficile come quello attuale, la riqualificazione dell’area, decisa due anni fa dalla Giunta Pisapia, consente a Milano di presentarsi degnamente all’appuntamento di Expo.

Darsena1Oggi i milanesi possono fruire di uno spazio tra i più pittoreschi della città, un bacino ripensato in chiave turistica con alcune novità di rilievo. Penso ad esempio al mercato coperto. Inoltre, vicino all’arco di Porta Ticinese, è stato aperto un breve tratto del Ticinello: i visitatori possono ammirare i tre antichi archetti in pietra che collegano il canale alla Darsena, oggi visibili grazie a un sapiente lavoro di recupero.

Anch’io non posso esimermi da alcune critiche. Discutibile è stata la scelta di non conservare il tratto dei bastioni confinante con la Darsena. Discutibile la copertura del ponte verso la storica Conca di Viarenna. Discutibile la scelta di autorizzare nel naviglio grande quei box galleggianti che, gestiti da negozianti e ristoratori, occupano quasi metà del canale compromettendo la visuale pittoresca della zona.

Come ho detto all’inizio, il mio giudizio è tuttavia positivo. Mi auguro che l’amministrazione comunale, nei prossimi anni, sappia proseguire nella valorizzazione sociale e culturale dei navigli milanesi.

Che rapporto ha la Darsena con Milano? Partiamo anzitutto dalla parola. Il lemma, risalente all’arabo dar as-sina’a entrò nella lingua italiana mediato dal genovese nel corso del XVI secolo. La parola ha assunto il significato di “fabbrica”, intesa come area interna di un porto ove si effettuano riparazioni di barche e hanno sede officine e bacini di carenaggio.

IMG_5961In effetti, se studiamo la storia di Milano, ci accorgiamo che la nostra Darsena rientra bene in questa definizione. Il laghetto di Sant’Eustorgio fu certamente un porto per la città – anche se porto sui generis, come vedremo – ma funse soprattutto da deposito di merci; merci che, giunte in città mediante le imbarcazioni provenienti dal Naviglio Grande e dal Naviglio Pavese, erano depositate nelle banchine e nei quartieri vicini.

Ricordo che la Darsena, come il quartiere di San Gottardo e i due navigli nel tratto urbano, erano compresi fino al 1873 nel Comune dei Corpi Santi.

La Darsena fu insomma un grande deposito di materie prime per l’industria cittadina: pensiamo alla sabbia o alla ghiaia per la costruzione delle case. Nell’Ottocento vi erano anche trasportate le forme di parmigiano che si producevano nelle cascine della bassa, in particolar modo a Fombio, un paese in provincia di Lodi che era compreso nel territorio del ducato di Parma e Piacenza. Ecco una possibile chiave di lettura per capire l’origine del “parmigiano”! ;))).

Cesare Cantù, nella Grande Illustrazione del Lombardo Veneto pubblicata verso la metà del XIX secolo, stimava in 300.000 le forme di parmigiano depositate nelle ricevitorie di finanza di Codogno, Lodi, Pavia e nel borgo di San Gottardo. Questo borgo era chiamato dai milanesi burg de’ furmagiatt in ragione delle innumerevoli casere, le tipiche case milanesi – molte tuttora esistenti – costruite tra corso San Gottardo e il naviglio pavese per collocarvi il cacio da invecchiare.

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La Conca di Viarenna in una foto del primo Novecento

Dalla fine del Quattrocento, quando le acque del Naviglio Martesana vennero congiunte con quelle del Naviglio Grande grazie alla piena navigabilità della fossa interna in centro città, la Darsena divenne un vero e proprio porto cittadino. Il numero delle imbarcazioni crebbe a dismisura facendo dell’area un bacino equiparabile per volume di traffico ai principali porti della penisola. Le barche che solcavano i navigli appartenevano a diverse tipologie. Le “zeppate” o “ceppate” erano zattere di varia lunghezza che trasportavano per lo più legname. Discendevano il naviglio Martesana e, mediante il naviglio interno, raggiungevano la Darsena passando per la conca di Viarenna. C’erano poi i burchielli: quelli della Martesana erano lunghi 22 metri e larghi nel punto di maggiore ampiezza 4,65; quelli del Naviglio Grande, chiamati anche cagnoni, erano lunghi 23.50 metri, larghi 4,75.

La conca di Viarenna costituiva un punto di passaggio cruciale per le barche perché si trattava dell’unica via d’acqua per trasportare le merci nel Naviglio Interno verso la Martesana o, all’opposto, per portarle nella Darsena in direzione di Pavia o di Abbiategrasso. La conca era ceduta dallo Stato ai privati mediante contratti di affitto di durata pluriennale.

Diamo un’occhiata al contratto firmato il 18 dicembre 1815 dal funzionario di finanza Gioacchino Frigerio con il signor Giovanni Molinari. In base a questo documento, conservato nel fondo notarile dell’Archivio di Stato di Milano, sappiamo che il Molinari ricevette in affitto la Conca di Viarenna per “anni sei continui che avranno il loro principio nel giorno primo gennaio 1816 prossimo futuro e termineranno nel giorno 31 dicembre dell’anno 1821 mediante la prestazione annua di lire 1.100…da corrispondersi di trimestre in trimestre”. Nel contratto era allegata la tariffa che l’affittuario era autorizzato a riscuotere al passaggio delle barche per la conca di Viarenna. L’elenco ci dà un’idea del traffico di imbarcazioni nel primo Ottocento:

  1. Per le Barche grosse, cioè di montagna, abbino da pagare soldi 10
  2. Le Barche di Bereguardo [provenienti dal Naviglio di Bereguardo, tra Abbiategrasso e Pavia] mezzane ed altri luoghi quali siano della medesima grandezza abbino da pagare soldi 7 e mezzo
  3. Li navetti ordinari hanno da pagare soldi 5
  4. Li Burchielli pagheranno soldi 2 e denari 6
  5. Le Zeppate intiere pagheranno soldi 15
  6. Le Zeppate mezzane pagheranno soldi 10
  7. Le mezze Zeppate pagheranno soldi 7 e denari 6

Le barche grosse erano probabilmente quelle provenienti dal Lago Maggiore o dal Lago di Como.

Nella seconda metà dell’Ottocento l’avvento della ferrovia portò a una drastica riduzione del traffico merci lungo i canali. Nel Novecento la Darsena fu notevolmente ridimensionata, anche se fino agli anni Cinquanta continuò a fungere da deposito di materie prime.

Una preziosa guida di Milano in lingua francese pubblicata dall’amministrazione comunale in occasione dell’Esposizione Internazionale del 1906, forniva un quadro indicativo della Darsena di Porta Ticinese. La navigazione milanese si era considerevolmente ridotta, anche a seguito della chiusura di alcuni canali avvenuta a fine Ottocento. Ricordo  ad esempio la copertura del Naviglio di San Girolamo (lungo le attuali vie Carducci e parte di via De Amicis) nel 1894-95. Scriveva l’estensore della guida descrivendo la Darsena:

IMG_5964A 420 mètres de longueur sur une largeur qui varie de 28 à 68 mètres, avec une profondeur moyenne de mét. 1,20. Ce Bassin, creusé au pied des remparts, est actuellement le centre de ce qui reste de la navigation milanaise, puisqu’il recoit, outre les eaux du Grand Canal [Naviglio Grande], celles du Canal Intérieur [Naviglio Interno] alimentant l’écluse de la rue Arène [Conca di Viarenna nell’allora via Arena, oggi via Conca del Naviglio] et qu’il sert de prise au Canal de Pavie [Naviglio di Pavia] et donne origine à cette voie navigable qui, dans le conditions actuelle, réunit au Po le réseau des canaux milanais. C’est aussi dans ce bassin que vient se jeter la riviére Olona [il fiume Olona, oggi interrato], qui aux abords de Milan se trouve généralement asses pauvre, ses eaux étant dérivées pour les usages industriels mais dont les crues sont néamoins parfois assez importantes.  

Traduzione

“Ha una lunghezza di 420 metri e una larghezza che varia tra i 28 e i 68 metri e una profondità media di 1,20 metri. Questo bacino, scavato ai piedi dei bastioni, è attualmente al centro di quel che resta della navigazione milanese  perché riceve , oltre alle acque del Naviglio Grande, quelle del Naviglio Interno che alimentano la chiusa di via Arena [la Conca Viarenna, oggi in via Conca del Naviglio]; la Darsena serve per convogliare l’acqua nel naviglio pavese e dà origine a questa via navigabile che, nelle condizioni attuali, unisce al Po la rete dei canali milanesi. In questo bacino si getta anche il fiume Olona, che nella periferia di Milano è generalmente povero d’acqua servendo ad usi industriali. A volte i suoi allagamenti sono però notevoli”.

Fiera del Mobile e FuoriSalone: Milano capitale dell’interior design

La settimana scorsa si è tenuta la fiera del mobile e il FuoriSalone, due eventi che hanno visto la partecipazione di tante aziende specializzate nell’arredo e nell’interior design.  Le vie del centro e alcune periferie sono state invase da una folla di visitatori – in gran parte stranieri – desiderosi di essere aggiornati sulle ultime novità del settore. In realtà, a ben guardare, molti di loro erano maledettamente curiosi di sapere che aria si respirasse sotto la Madonnina a poche settimane da Expo 2015.

FuoriSaloneLa città (amministrazione comunale, imprenditori, negozianti) ha saputo gestire questo evento con grande professionalità, offrendo un modello di gestione degli spazi in chiave turistico culturale di notevole spessore. Mi riferisco in particolar modo ai 1258 eventi organizzati dal FuoriSalone, ove molti quartieri cittadini hanno mostrato una vitalità davvero inaspettata. Ogni zona ha saputo reinventarsi, facendo respirare al visitatore un’atmosfera peculiare alla storia del luogo e alle attività imprenditoriali che vi si svolgono nel segno della creatività e dell’innovazione. Un ruolo centrale hanno giocato i classici quartieri del design: zona Tortona (Superstudio Più), Porta Venezia (Porta Venezia in design), Brera (Brera Design District), il quartiere Ventura-Lambrate, San Babila (San Babila Design Quarter), la zona Monumentale (Fabbrica del Vapore) fino a Porta Romana (Elita Design Week Festival). Di notevole interesse è stata la valorizzazione di un quartiere storico come le “5Vie” (situato tra le vie Santa Marta e San Maurilio, a cavallo degli antichi Sestieri di Porta Vercellina e Porta Ticinese) dove, in coincidenza con la Milan design week, le gallerie d’arte, i negozi di abbigliamento e di antiquariato, i cortili interni di antichi palazzi privati sono rimasti aperti ai visitatori aderendo agli eventi FuoriSalone.

Il risultato è stato al di sopra di ogni attesa. Milano si è animata grandemente, richiamando un pubblico internazionale che ha apprezzato le tante novità italiane nel settore dell’arredamento e dell’interior design.

Non sono ancora disponibili i dati relativi al numero dei visitatori. A quanti sono accorsi alla Fiera del Mobile andranno aggiunte le tante persone che dal 2003 partecipano agli eventi del FuoriSalone. Il bilancio che si può trarre è certamente positivo. Gli organizzatori hanno stimato una media compresa tra i 310.000 e i 350.000 visitatori. In attesa dei numeri definitivi, limitando l’esame ai dati storici della fiera del Mobile, si possono fare tuttavia tre considerazioni.

01-00222927000013Anzitutto va ricordato che il Salone del Mobile ha assunto da tempo un’importanza cruciale per il Made in Italy. Nata nel 1961 come fiera del mobile ristretta all’industria nazionale – il numero degli espositori era pari a 328 in quell’anno – la Fiera del Mobile accrebbe nel tempo le sue dimensioni, segno di una vocazione italiana alla produzione manifatturiera nel comparto dell’arredamento. Nel 1967 la fiera si aprì per la prima volta agli espositori stranieri, anche se il loro numero fu esiguo: 63 contro i ben 1319 italiani. I dati sono tratti dal sito del Salone del Mobile di Milano.

In quel periodo si decise di adottare, per l’allestimento dell’evento, il criterio degli anni pari/dispari: negli anni pari la fiera era ristretta agli espositori italiani, in quelli dispari la partecipazione comprendeva le ditte straniere.

La dimensione internazionale della fiera del mobile risale però al 1991, quando fu deciso che ogni anno l’evento avrebbe visto la partecipazione di espositori tanto italiani quanto stranieri. Negli anni Novanta e Duemila, la specializzazione delle aziende manifatturiere nell’arredamento di qualità  e nell’interior design (dall’illuminazione agli arredi per l’ufficio, dalla cucina ai mobili per bagno) spinse gli organizzatori a concentrare l’esposizione su alcuni settori. Il criterio degli anni alterni non fu abbandonato. Dal 2010 gli anni pari sono dedicati ai mobili per cucina, bagno e complemento d’arredo, quelli dispari all’illuminazione e ai mobili per ufficio.

La seconda riflessione concerne la presenza degli espositori alla Fiera del Mobile. Se prendiamo in esame i dati di questi ultimi dieci anni, ci accorgiamo di un cambiamento di portata storica.

fuorisalone1In passato le ditte straniere costituivano un’esigua minoranza rispetto a quelle italiane. Si è accennato ai dati del 1967. Ancora nel 2004, su un totale di quasi 1500 espositori, gli italiani erano più di 1200, mentre gli stranieri non superavano le 230 ditte presenti al Salone del Mobile. Prendiamo ora il 2013, anno dedicato ai settori oggetto della esposizione appena conclusa (illuminazione, ufficio, complemento d’arredo). La situazione è mutata, le ditte straniere sono cresciute di peso, anche a seguito degli effetti recessivi che la crisi economica ha provocato nel nostro paese: su 1269 espositori, gli italiani erano appena 953 mentre gli stranieri restavano minoranza, ma una minoranza rilevante, pari a 316 ditte.

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Manifesto del primo Salone del Mobile risalente al 1961

Quest’anno l’ottimismo degli organizzatori ha certamente le sue ragioni ma la forte presenza di espositori stranieri costituisce un segnale che il governo e gli imprenditori non devono sottovalutare: il Made in Italy nel campo dell’arredamento di qualità continua a rivestire un ruolo di primo piano nei mercati internazionali, ma la concorrenza si è fatta più dura. I consumi nell’interior design sono aumentati a livello mondiale, interessando una classe media determinata ad acquistare prodotti che siano garanzia di altissima qualità. Il Made in Italy tiene ancora per il prestigio del marchio. Esso tuttavia va difeso strenuamente: gli imprenditori devono continuare a garantire gli elevati standard qualitativi dei prodotti italiani; il governo deve mettere in campo con più coraggio tutte le misure per rafforzare una ripresa ancora flebile. E’ una sfida che richiede risposte in tempi brevi perché i competitori stranieri sono più agguerriti rispetto al passato.

visitatoriLa terza riflessione riguarda i visitatori al Salone del Mobile. Dal 2004 gli stranieri hanno superato gli italiani, un fenomeno determinato dal prevalere dell’export rispetto alle vendite nel mercato interno. Il fenomeno, che nei primi anni Duemila non presentava elementi di rilievo, dal 2006 ha assunto dimensioni macroscopiche. Inoltre dal 2009 la crisi economica in Italia, comprimendo drasticamente i consumi interni, ha obbligato le aziende ad investire nelle vendite all’estero: l’export è stato un’ancora di salvezza per il manifatturiero italiano, che altrimenti non avrebbe retto alla crisi economica. Si spiega così il vistoso allargamento della forbice nel rapporto visitatori italiani/stranieri: dai quasi 100.000 italiani contro i 123.391 visitatori stranieri nel 2006, si è arrivati due anni dopo al record di 210.249 stranieri contro i 138.203 di nostri connazionali. Per capire i dati che verranno presentati quest’anno occorre misurarsi con i numeri del 2013 che, confermando il trend appena esposto, ha visto la netta prevalenza di stranieri (193.000) rispetto agli italiani (92.674). Come ho accennato all’inizio, occorrerà poi aggiungere le stime relative ai visitatori del FuoriSalone.

Come possiamo spiegare il successo di un evento che richiama ogni anno tanti stranieri? L’interior design a Milano interessa una clientela internazionale che vede nel Made in Italy un segno di status: la qualità, lo stile raffinato, il gusto discreto per il bello si sposano mirabilmente in un delicato equilibrio che richiama i valori della classicità italiana. Un successo mondiale da difendere a tutti i costi.

Il “caso Confalonieri” e alcune note sulla giustizia austriaca del primo ‘800

Se camminate per via Monte di Pietà partendo da via dei Giardini, vedrete sulla sinistra, al civico 14, il palazzo Confalonieri. Lo si riconosce per il colore giallognolo della facciata.  Qui, nei primi decenni dell’Ottocento, abitò il conte Federico con la moglie Teresa Casati. Sulla facciata dell’edificio una lapide ricorda il drammatico arresto del nobile milanese ad opera della polizia austriaca:

“IL CONTE FEDERICO CONFALONIERI CHE CON L’INDOMITA FORTEZZA D’ANIMO E CON LUNGO MARTIRIO DELLO SPIELBERG INSEGNO’ AI SUOI CONCITTADINI CON QUALI SACRIFICI E CON QUALI VIRTU’ SI PREPARANO MIGLIORI DESTINI ALLA PATRIA FU IN QUESTA CASA ARRESTATO LA NOTTE DEL 13 DICEMBRE DELL’ANNO 1821 IL COMUNE POSE”.

La lapide fa riferimento al lungo periodo di prigionia trascorso dal Confalonieri nella fortezza morava dello Spielberg (oggi situata nel comune ceco di Brno): qui il patrizio milanese fu recluso dal 1824 al 1835, anno della grazia concessagli dall’imperatore d’Austria Ferdinando I. Perché il Confalonieri fu arrestato? L’accusa era di alto tradimento per aver congiurato con alcuni patrioti allo scopo di sovvertire l’ordinamento politico vigente nel regno lombardo veneto, che era parte integrante dell’impero d’Austria.

Il Confalonieri era una della persone più in vista della società lombarda. Nel 1818, assieme all’amico Luigi Porro Lambertenghi che abitava nel palazzo di fronte (oggi al civico 15), aveva fondato la celebre rivista Il Conciliatore, un giornale di scienza, letteratura, politica, arte, che la censura fece chiudere ben presto per le idee liberali che vi venivano esposte.

La polizia austriaca non ebbe molta difficoltà a dimostrare, grazie ad alcuni interrogatori abilmente condotti, che il Confalonieri era coinvolto in un piano – ordito dall’associazione segreta dei Federati – teso a favorire la costituzione di un regno italiano indipendente esteso alla Lombardia e al Piemonte sabaudo.

Ma torniamo a quel 13 dicembre 1821, quando il commissario di polizia austriaco, assieme ad alcuni gendarmi, arrestò il patrizio milanese. Il conte Confalonieri ricordava nelle sue memorie di essere stato arrestato con l’imputazione di alto tradimento. Il nobile lombardo fu rinchiuso nelle carceri della polizia – che si trovavano nell’ex convento di Santa Margherita, nella via omonima (oggi scomparse) – tenuto in cella per quasi due anni fino alla sentenza di condanna a morte, spiccata nel novembre del 1823. Grazie alle suppliche rivolte all’imperatore d’Austria dai familiari e da molti esponenti della nobiltà lombarda, la condanna fu commutata nel gennaio del 1824 nel carcere duro a vita. Torneremo in chiusura di questo articolo sul significato della locuzione “carcere duro”.

Il capo d’imputazione era il delitto di alto tradimento, un reato – ricordava Confalonieri – formulato dal codice penale austriaco in termini tanto vaghi e generici da consentire allo Stato un ampio margine di discrezionalità nell’interpretazione e nell’applicabilità della norma ai casi concreti.

Si tratta, come si può facilmente comprendere, di critiche assai dure ed esplicite nei confronti dell’ordinamento imperiale austriaco. Qual era la situazione effettiva della giustizia asburgica nel regno lombardo veneto del primo Ottocento? Aveva ragione il Confalonieri e tanti altri patrioti, quali ad esempio Silvio Pellico (arrestato nell’ottobre 1820 in casa Porro e detenuto anch’egli allo Spielberg), a ritenere particolarmente duro il sistema giudiziario austriaco?

Francesco I di Asburgo Lorena
Francesco I imperatore d’Austria (1768-1835)

All’epoca in cui si verificò l’arresto di Confalonieri era in vigore il Codice dei delitti e delle gravi trasgressioni politiche. Emanato dall’imperatore Francesco I d’Austria nel 1815, entrato in vigore in Lombardia il primo gennaio 1816, esso si differenziava notevolmente da larga parte dei codici penali del Vecchio Continente che si rifanno al modello franco napoleonico. Se questi si fondano su un elenco di reati formulati in modo rigoroso e si concentrano sul tipo di reato commesso più che sul soggetto che lo commette, il codice austriaco era completamente diverso. Esso assumeva le caratteristiche di un trattato ove largo spazio era dato alla “soggettività”, vale a dire alla verifica della malvagità del presunto reo. Se il nostro codice penale riflette un impianto accusatorio in cui l’imputato ha diritto di difendersi in un processo orale valendosi di un avvocato, il codice austriaco del primo Ottocento aveva un impianto inquisitorio: il processo era scritto, segreto, teso ad ottenere la confessione dell’imputato mediante lo strumento della carcerazione preventiva. Spettava al giudice, che agiva in base a una procedura rigidamente formalizzata a tutela dell’imputato, verificare la “pravità d’intenzione”, ossia la malvagità del presunto reo. L’interrogatorio – definito “costituto” – era verbalizzato.

Nei tribunali di prima istanza il magistrato inquirente coincideva con il magistrato giudicante. Anzi, a voler essere più precisi, si può dire che nel giudice austriaco fossero concentrate tre funzioni. Egli era un po’ un giudice factotum. Nello svolgere le funzioni dell’accusa, il giudice di prima istanza impostava la causa: fase delicata e decisiva perché solo nel primo grado era consentito raccogliere le prove. Il giudice, attenendosi alle norme procedurali del codice, istruiva il processo seguendo un metodo rigoroso in cui, senza la confessione della persona arrestata, era molto difficile ottenere la prova legale della colpevolezza. Inoltre, affinché i diritti dell’imputato fossero salvaguardati, la corte era composta non già da un solo giudice, bensì da tre (tra i quali il giudice capo che istruiva il processo); a questi tre magistrati si aggiungevano due probiviri o assessori giudiziali a garanzia ulteriore dell’imputato. Ciascun membro del tribunale così composto aveva diritto a un voto e la sentenza era data in base alla regola della maggioranza. Se il tribunale di prima istanza rivestiva un ruolo primario nell’ordinamento austriaco, il tribunale di seconda istanza era chiamato solo a confermare o ad annullare la sentenza di primo grado. Tuttavia, se la sentenza fosse stata confermata, non era previsto il ricorso alla terza istanza – il Senato lombardo-veneto con sede a Verona – che interveniva unicamente in caso di disaccordo tra le sentenze di grado inferiore.

Confalonieri aveva torto quando sosteneva che il capo d’imputazione di alto tradimento fosse formulato dal codice penale austriaco in termini generici. Aveva ragione però quando sottolineava le numerose violazioni del codice compiute dal giudice di prima istanza, il trentino Antonio Salvotti. Inoltre, come ricordava il patrizio milanese nelle sue memorie, l’imperatore aveva nominato una commissione speciale per istruire il processo, sottraendo in tal modo gli imputati alla giustizia ordinaria. Tuttavia, la procedura a tutela dell’imputato restava quella fissata dal codice penale. Confalonieri, ricordando la sua vicenda a distanza di molti anni, denunciò le violazioni della legge commesse dal magistrato inquirente.

Ricordo che le pene previste dal codice penale austriaco del 1815 erano particolarmente dure, anche se passi in avanti erano stati compiuti rispetto alle normative precedenti. Oltre alla pena di morte, il codice austriaco prevedeva la reclusione del reo in un carcere che poteva essere a vita o a tempo determinato. In questi casi, vi erano tre tipi di condanne: carcere, carcere duro, carcere durissimo. Nella condanna al carcere, il detenuto era imprigionato senza i ferri, aveva diritto a un vitto normale con solo acqua come bevanda, poteva avere colloqui in presenza di un custode del carcere e in una lingua di sua conoscenza.

Il carcere duro prevedeva invece ferri ai piedi, cibo caldo con esclusione della carne, letto fatto di nude tavole, nessun colloquio eccetto quello con gli addetti alla custodia. Il carcere durissimo, convertito in carcere duro con risoluzione 10 gennaio 1833, obbligava il detenuto ad essere legato alla parete con ferri pesanti alle mani e ai piedi; aveva inoltre un cerchio di ferro attorno al corpo dal quale era liberato solo nei periodi di lavoro forzato. Il cibo era solo di pane e acqua. Vitto caldo senza carne ogni due giorni. Letto di nude tavole con esclusione di ogni colloquio.

Confalonieri fu condannato a scontare la pena del carcere duro nella fortezza dello Spielberg per nove anni. Tuttavia, nei mesi della carcerazione preventiva nelle prigioni di Santa Margherita, aveva già presentito quali fossero le condizioni che avrebbe dovuto sopportare nei lunghi anni di detenzione allo Spielberg.

Scriveva nelle sue Memorie ricordando i primi mesi di arresto nel periodo invernale:

Federico Confalonieri
Federico Confalonieri (1785-1846)

Io fui per due mesi nel verno tenuto espressamente in un carcere ove eravi un muro maestro ed il pavimento di fresco fatti; già malato com’era, ne contrassi un riattacco d’artrite che mi lasciò le membra lungamente rattratte, ed il destro braccio all’uso perduto. Trattamenti ancora più duri e prolungati furono da altri incontrati. Teneasi il prigioniero alle segrete quanto tempo piaceva, anche per tutto il processo. Io vi fui tenuto per un anno e tre mesi, infino alla prima chiusura del mio processo, poi rimessovi dopo la riapertura per gli otto ultimi mesi. Durante il processo, non vedeasi nessuno de’ parenti; non escivasi mai dal carcere né per prendere aria, né per fare moto; si era tenuto privo di mezzi da scrivere…visite sulla persona venivano impudentemente eseguite, e sovente dopo di esse erasi spogliato di tutto il necessario.

In realtà, come ammise lo stesso Confalonieri, la sentenza di condanna per la sua “immischianza nelle cose politiche” era inevitabile. Tuttavia, una conoscenza più approfondita del Codice penale austriaco gli avrebbe consentito di sfuggire facilmente alla condanna a morte, come era accaduto a Gian Domenico Romagnosi. Questi, fine giurista, profondo conoscitore delle leggi austriache, arrestato dalla polizia con l’accusa di non aver denunciato alle autorità i patrioti liberali Pellico, Maroncelli, Confalonieri con cui era in contatto, negando recisamente ogni collusione con le sette dei Carbonari e dei Federati, venne scarcerato per difetto di prove legali.

Un’antica eccellenza milanese: le botteghe di armaioli

Le vie Spadari e Armorari sono a pochi passi da piazza Duomo. Oggi non resta alcun vecchio edificio che possa aiutarci a capire quale fosse la vita sociale in quelle contrade. Tuttavia la loro antica denominazione ci consente di risalire a una bella pagina di storia milanese. I nomi hanno origine dalle botteghe di artigiani specializzati nella fabbricazione di corazze, armature, spade, lance ed elmi. Fino al 1902, in via Spadari, ai numeri 10 e 12, era possibile visitare la casa dei Missaglia, una famiglia di magistri armorum: l’edificio venne abbattuto nel corso dei lavori che portarono alla demolizione delle case tra via Orefici, via Spadari e l’antica via Ratti.

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Facciata della Casa dei Missaglia, demolita nei primi anni del Novecento.

Nel centro medievale di Milano era presente fin dal Medioevo una ricca borghesia di artigiani e commercianti. Ricordiamo le vie Orefici, Speronari e, nel primo tratto di via Torino, le contrade (oggi scomparse) dei Mercanti d’Oro, dei Pennacchiari, o ancora – nella parte occidentale dell’attuale piazza Duomo – le vie dei Profumieri e dei Cappellari.

Fino al tardo Cinquecento Milano era famosa non solo per i capi di alta moda – come ad esempio i tessuti auro-serici di cui mi sono occupato in un precedente articolo – ma anche per le fabbriche artigianali di spade e armature. Bonvesin de la Riva, nella celebre opera De magnalibus Mediolani risalente alla seconda metà del XIII secolo, al capitolo quinto ove parla del valore dei milanesi in guerra, ricordava con forza la presenza in città di molte botteghe di artigiani specializzati nella produzione di materiali bellici:

Nella nostra città e nel suo contado vi è fior fiore e abbondanza di fabbri, i quali ogni giorno fabbricano armature di ogni tipo, che poi i mercanti vendono in mirabile abbondanza nelle città vicine e anche in quelle lontane. I principali fabbri di corazze superano infatti il numero di cento e ciascuno di essi tiene sotto di sé moltissimi operai che si dedicano ogni giorno alla lavorazione mirabile delle macchie. Vi sono anche moltissimi fabbricanti di scudi e infine di ogni tipo di armi, del cui numero non faccio neanche menzione.

Le “macchie” erano complesse raffigurazioni che venivano incise nelle armature di acciaio. Si noti quanto scriveva Bonvesin a proposito della localizzazione delle fabbriche e del commercio di queste armi: i fabbri specializzati si trovavano non solo in città, ma anche nel contado circostante. La vendita dei prodotti si spingeva fino a coinvolgere le città lontane: segno che l’industria milanese delle armi era molto apprezzata in Europa.

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Tommaso e Antonio Missaglia con Pier Innocenzo da Faerno e Antonio Seroni, Armatura alla francese in acciaio per l’imperatore Federico III di Asburgo, 1450.

Nel corso del Quattrocento l’industria bellica raggiunse il vertice della sua fortuna, specializzandosi nella produzione di armature all’avanguardia. Milanese è l’invenzione dell’armatura completa in piastra che consentiva un’adeguata protezione del soldato, consentendogli piena agilità nei movimenti. Pressoché contemporaneo è il nuovo tipo di elmo: diversamente da quelli precedenti, presentava una visiera in grado di proteggere completamente la testa. Altra caratteristica delle armature ambrosiane – prodotto di una vera e propria scuola milanese alternativa rispetto a quelle tedesche e francesi – fu la sproporzione, nell’armatura degli arti superiori, tra la parte sinistra e quella destra: la sinistra (dalla copertura della spalla a quella del braccio fusa il più delle volte in solo pezzo fino all’altezza della mano) era molto più grande rispetto all’altra; in tal modo l’uomo d’arme poteva servirsi di questa parte del corpo per la difesa dai colpi del nemico, lasciando al braccio destro il compito di offendere maneggiando la lancia o la spada.

Tra la fine del Quattrocento e il primo Cinquecento l’avvento delle armi da fuoco (dalle bombarde ai falconetti), l’introduzione della picca alla svizzera nei combattimenti campali ove era nettamente prevalente l’uso della fanteria sulla cavalleria, produssero alcuni cambiamenti significativi nel modo di fare la guerra.

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Resti di armatura. 1490 ca.

Questi cambiamenti non devono però ingannarci. Le armature pesanti continuarono ad essere utilizzate. Certo, il netto prevalere della fanteria – che nel corso del Cinquecento vide un progressivo impoverimento del suo personale, sempre meno pagato – finì con il rendere meno diffusa questo tipo di armatura (troppo costosa), a vantaggio di un armamento agile e leggero. Ciononostante, le armature pesanti continuarono ad essere richieste, anche se persero quella funzione militare che avevano rivestito anticamente. I fabbri del quartiere tra le antiche parrocchie di Santa Maria Segreta, Santa Maria Beltrade e San Michele al Gallo (tra le vie Spadari e Armorari) ricevettero lucrose commissioni da una nobiltà desiderosa di partecipare alle parate e alle solenni adunanze sfoggiando armature finemente decorate: tali manufatti furono realizzati con tale precisione e cura dei dettagli – ad esempio nell’incisione dello stemma gentilizio – da costituire un vero e proprio segno di status per il casato.

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Fra Paolo Morigia (1525-1604)

Ma chi erano questi fabbri di armature? Ricordiamo Bartolomeo Piatti, la cui famiglia – acquisita ben presto la nobiltà – si stabilì in un bel palazzo nella via omonima (tuttora esistente) che incrocia via Torino; Giovanni Pietro Figino; Giovanni Antonio Biancardi; Antonio Piccinino con i figli Federico e Lucio. Erano artigiani rinomati, chiamati a lavorare per molti principi europei. Paolo Morigia, nella sua Nobiltà di Milano pubblicata nel 1595, scrisse, a proposito di Antonio Piccinino, “che morse l’anno 1589 nell’età di anni 80, fu il primo huomo non solo della nostra Italia ma anco di tutta Europa, per far’una lama di spada, o pugnale, o coltello, o qualunque arma da tagliare, che tagliava ogni sorte di ferro senza lesione delle sue lame; e però [per questo motivo, NdR] era conosciuto e nominatissimo appresso dei maggiori principi de’ Christiani e alli professori d’arme”. Il figlio Lucio “nel lavorar di rilievo in ferro e in argento, sì di figure come di groteschi [grottesche: tipo di decorazione] e altre bizzarrie d’animali, fogliami, e paesi, è molto eccellente e rarissimo nella Gemina e ha fatto armature di gran pregio al Serenissimo Duca di Parma Alessandro Farnese, ed altri Prencipi, che sono tenute per cose rare”.

Se nella seconda metà del Quattrocento gli Sforza praticarono una politica tesa a mantenere in patria queste botteghe rinomate vietando agli artigiani di stabilirsi all’estero, nel corso del Cinquecento, molte famiglie di fabbri e armaioli si stabilirono oltralpe. Così ad esempio, Filippo de Grampi e Giovan Angelo Litta, che nel 1511 lasciarono Milano per stabilirsi in Inghilterra con altri tre operai invitati dai Tudor a fondare una fabbrica di armature per la corte. Fu anche il caso di alcuni membri della famiglia Piatti: Matteo si trasferì a Firenze tra il 1568 e il 1569, ove aprì una bottega in cui lavoravano dodici maestri e operai milanesi; il nipote Giacomo Filippo fece lo stesso nel 1592. Nel Milanese la presenza di queste botteghe si andò assottigliando. Durante la dominazione spagnola, Filippo II chiamò ad Eugui, nel regno di Navarra, molti armaioli milanesi per costituire una fabbrica di armature di lusso in grado di eccellere come le celebri botteghe di Milano.

La manifattura delle armi era ancora fiorente a Milano alla fine del Seicento. Il nobile russo  Peter Andreevic Tolstoj, in un diario di viaggio risalente al 1698, forniva questo quadro interessante dei negozi milanesi:

La città è ricca di negozi forniti d’ogni tipo di merce, e vi si trovano i più svariati oggetti di ferro e armi: pistole, fucili molto belli, stupende spade. Però questi oggetti, se ben lavorati, si comperano a prezzo piuttosto alto.

Era tuttavia il canto del cigno. Nel corso del Settecento tali fabbriche scomparirono progressivamente lasciando alle vie il compito di ricordare ai milanesi i loro antichi successi nell’industria bellica.

Le origini della Grande Milano

Milano è al centro di una vasta area metropolitana in cui vivono e si muovono milioni di persone. La Città metropolitana, costituita il primo gennaio 2015 in sostituzione dell’attuale provincia, può essere un’occasione per migliorare il governo del territorio: si tratta di un ente intermedio che, subentrando alla Provincia di Milano (soppressa), è formato dall’unione dei municipi dell’area urbana milanese allo scopo di fornire ai cittadini standard omogenei di servizi nel campo dei trasporti, dell’urbanistica e dell’ambiente.

In realtà, quando pensiamo a Milano, noi oggi non prestiamo la dovuta attenzione al fatto che la città è già un grande Comune in base alla sua evoluzione storica. Nel comune ambrosiano, la cui superficie è pari a 18.176 ettari, risiede una popolazione superiore al milione e trecentomila abitanti. Quando è nato il comune di Milano nella sua attuale estensione territoriale?

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Milano con l’annessione del comune dei Corpi Santi. Mappa del 1873

Come ho ricordato in un post di qualche settimana fa, la città si era ingrandita notevolmente in seguito all’annessione dei Corpi Santi avvenuta nel 1873. Nel 1921 il territorio era pari a 7.600 ettari. Gli abitanti erano più di 700.000.

Vediamo nel dettaglio l’estensione del Comune nel primo ventennio del Novecento: il territorio compreso entro i bastioni era pari a 832 ettari; i Corpi Santi occupavano una superficie di 6.643 ettari. L’ingrandimento di Milano proseguì nel 1918, quando venne decisa l’annessione di Turro, il cui territorio misurava un’estensione di 125 ettari.

Eppure, nonostante tali ingrandimenti, Milano misurava una superficie troppo angusta per una città considerata la capitale morale d’Italia, sede delle maggiori banche e industrie del paese. Secondo il censimento del 1921, la superficie del comune meneghino era tra le più ridotte in Italia: 76,29 kmq. Se si tolgono i casi di Genova, Firenze e Bari, le città con una popolazione superiore ai 100.000 abitanti presentavano un’estensione incomparabilmente maggiore: da Ferrara (405,25) a Taranto (411,80) per non parlare di Roma (2074,62).

Milano in una mappa del 1910.
Milano in una mappa del 1910.

L’ingrandimento della città era sentito come una priorità da molti esponenti della classe dirigente milanese, il che era comprensibile se si considera che molti servizi civici erano ancora localizzati al di fuori del territorio comunale: la ferrovia e gli impianti sportivi si trovavano a Lambrate, il collettore della fognatura nel Vigentino; a Trenno era stato costruito il celebre ippodromo; a Musocco il cimitero; a Baggio l’aerodromo; a Dergano l’ospedale dei contagiosi.

Nel 1923, quando il sindaco di Milano, il ginecologo Luigi Mangiagalli, si fece promotore del piano d’ingrandimento del comune, in Italia era in carica il primo governo Mussolini di cui facevano parte esponenti del partito fascista, del partito liberale e del partito popolare; un governo il cui operato sembrava porsi entro i confini della legalità. In realtà, come vedremo tra poco, il capo del governo mostrò già in questi anni una scarsa attenzione per le leggi dello Stato liberale.

Mussolini incoraggiò il progetto d’ingrandimento del comune di Milano. In una lettera del 7 luglio 1923 al sindaco Mangiagalli, il capo del governo si espresse in questi termini:

 

Benito Mussolini in una foto dei primi anni Venti.
Benito Mussolini in una foto del 1923.

Caro ed illustre Sindaco…ho la sensazione che Milano abbia il respiro della sua fatale espansione mozzato dalla fungaia di piccoli comunelli che sorgono alla sua periferia (Greco, Lambrate, Dergano, Gorla, Turro, Musocco, Affosi, Chiaravalle). Se Vostra Signoria crede di provocare un provvedimento di annessione che io stimo utile e forse necessario, io sono disposto a farlo approvare. Qualche intesa dovrebbe intervenire con i sindaci dei comuni. Io credo che la cosa piacerebbe anche a loro o prima o dopo. [Le sottolineature sono di Mussolini, NdR]

A ben vedere, il capo del governo mostrava di non avere buona memoria perché il comune di Turro era già stato annesso a Milano alcuni anni prima. Il governo sembrava favorevole a un ingrandimento della città mediante il coinvolgimento dei comuni secondo il dettato dell’articolo 118 della legge comunale e provinciale del 4 febbraio 1915 n.148: “Il governo del Re può decretare l’unione di più Comuni, qualunque sia la loro popolazione, quando i Consigli comunali ne facciano domanda e ne fissino di accordo le condizioni”.

Mussolini in realtà non esitò a violare la legge quando fosse risultata d’intralcio ai suoi interessi. Il governo seguì infatti una procedura che violò la normativa esistente. L’annessione dei Comuni limitrofi a Milano, avvenuta con decreti reali del 2 e del 30 settembre 1923, fu operata senza alcun coinvolgimento dei consigli comunali dei municipi interessati. L’ispiratore di tali atti autoritari fu lo stesso sindaco Mangiagalli, il quale caldeggiò l’unione immediata dei comuni suburbani “risparmiando le pratiche burocratiche”. Anziché attendere i pronunciamenti degli undici municipi limitrofi, si decise di convocare i sindaci in prefettura per informarli in merito al decreto di aggregazione deciso dal governo. Si stabilì inoltre che nel consiglio comunale di Milano, in carica dal 30 dicembre 1922, sarebbero entrati i rappresentanti dei municipi aggregati. Tuttavia, per rafforzare la componente fascista, Mussolini decretò lo scioglimento dei consigli comunali e nominò undici “amministratori o commissari straordinari” che sarebbero entrati a Palazzo Marino come rappresentanti dei municipi annessi alla città.

La grande Milano, nata per rispondere alle esigenze di una città in rapida espansione, venne realizzata quindi con metodi autoritari che erano la negazione delle autonomie locali. Questa è la storia del comune di Milano nella sua attuale estensione territoriale. In realtà, la città ingrandita fino a comprendere i confini attuali è storia risalente ancor più indietro nel tempo.

Beauharnais
Il viceré del regno italico Eugenio Beauharnais (1781-1824)

Negli anni del regno d’Italia napoleonico, con un decreto del viceré Eugenio Beauharnais risalente al 9 febbraio 1808, il territorio milanese – allora limitato ai bastioni spagnoli – venne accresciuto nel tentativo di farne una metropoli sul modello di Parigi. In quell’occasione vennero annessi alla grande Milano i Comuni che si trovavano a una distanza non superiore a 7 chilometri dalla torre della piazza dei Mercanti, il cuore di Milano ove convergevano gli assi viari dei sestieri milanesi. Ad essere compresi nella Grande Milano napoleonica furono i comuni di Affori, Bicocca, Boldinasco, Casanova, Chiaravalle, Corpi Santi, Crescenzago, Dergano, Garegnano, Gorla, Grancino, Lambrate, Lampugnano, Linate, Lorenteggio, Macconago, Morsenchio, Musocco, Niguarda, Nosedo, Poasco, Precentenaro, Precotto, Quarto Cagnino, Quintosole, Redecesio, Ronchetto, San Gregorio vecchio, Segnano, Sellanova, Trenno, Turro, Vajano, Vigentino e Villapizzone. La grande Milano napoleonica durò pochi anni. Gli austriaci, tornati in possesso della Lombardia nel maggio 1814, ricostituirono dopo pochi anni l’antico reticolo di piccoli comuni rinchiudendo Milano entro il perimetro secolare dei bastioni spagnoli.

Le radici storiche dell’alta moda a Milano

Quali sono le radici del Made in Italy nel comparto dell’alta moda? E’ facile risalire agli Ottanta/Novanta del Novecento, quando Milano, divenuta sede di importanti brand del lusso quali Gucci, Armani, Prada, Zegna, Dolce&Gabbana, acquisì il ruolo invidiato di capitale italiana della moda e del design.

Eppure, a ben vedere, la lente dello storico induce a risalire indietro nel tempo perché ci sono ragioni più profonde che spiegano per quale motivo Milano sia divenuta capitale del Made in Italy. Nel basso Medioevo, più precisamente all’epoca della signoria dei Visconti e degli Sforza, tra il XIV e il XV secolo, possiamo collocare gli esordi e il definitivo affermarsi dell’industria artigianale del lusso nell’abbigliamento e negli arredi. Certo, a quei tempi, la moda obbediva a finalità diverse, più legate a ragioni di rappresentanza politica. Oggi un imprenditore che lavora nell’abbigliamento orienta le sue produzioni in base a una clientela le cui scelte sono dettate da logiche tendenzialmente “private”: il cliente che acquista un capo di abbigliamento lo fa non solo per rispondere ai suoi gusti; in una società fatta da persone che non conosce – il dato è essenziale – desidera comunicare un messaggio, intende fare del vestito lo specchio in cui appaiono le sue qualità. L’abito diviene insomma un biglietto da visita.

Fante di coppe dal mazzo di tarocchi Brambilla, 1442-1444 ca. Tempera e foglia doro su cartoncino pressato.
Fante di coppe dal mazzo di tarocchi Brambilla, 1442-1444 ca. Tempera e foglia d’oro su cartoncino pressato.

Nel Medioevo la situazione era diversa, ma anche allora ci si vestiva per comunicare, per presentarsi in società secondo un codice di costumi fondato sulle apparenze. La clientela rispondeva a logiche di comunicazione politica legate al ceto di appartenenza. La società di oggi è costituita da cittadini privati ed eguali, liberi di agire nel rispetto delle leggi statali. In fondo, siamo ancora figli della rivoluzione francese. Nel Medioevo non esistevano cittadini in questo senso. I diritti e i doveri di ciascuno erano legati al ceto di appartenenza. Si capisce quindi come l’abbigliamento fosse un codice distintivo di fondamentale importanza, perché consentiva a una società corporativa come quella medievale di riconoscere le persone dall’abito che portavano.

La corte dei duchi di Milano costituisce un esempio emblematico. Il segno più distintivo dell’alta moda fu la produzione dei tessuti auroserici, un tipo di lavorazione che, affermatosi a Milano nel corso del Quattrocento, raggiunse livelli di eccellenza per tutto il secolo seguente. In effetti il ducato visconteo-sforzesco poteva contare su tecniche consolidate di tessitura e tintura che riguardavano capi come i fustagni o la lana.

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Frammento di velluto, broccato e bouclé in oro. Tessitura milanese risalente al 1460-1475 ca

La produzione dei tessuti auroserici era qualcosa di molto diverso. Si trattava di una lavorazione di altissima qualità che, alla fine del Trecento, era presente in alcuni Stati italiani (repubblica di Genova, repubblica di Firenze, repubblica di Venezia, repubblica di Lucca) che per ricchezza potevano permettersi la produzione e il commercio di questi manufatti. In cosa consisteva tale lavorazione? Ad essere tessuti erano articoli quali lampassi e damaschi, broccati d’oro e d’argento, velluti sul cui pelo di seta venivano incisi disegni araldici. Le fasi della lavorazione e del commercio del prodotto erano gestite interamente da una persona che potremmo definire “mercante imprenditore”. Questi acquistava anzitutto la materia prima. La seta proveniva dalla Spagna meridionale; la cocciniglia – il prezioso colorante rosso prodotto in Polonia o in Armenia – o l’indaco di Baghdad  – il miglior colorante azzurro per la seta – erano acquistati nei mercati sulle sponde del Mar Nero, alcuni fatti arrivare mediante il trasporto su chiatte lungo il Danubio; i lingotti d’oro e d’argento giungevano invece dalle miniere del Nord Europa. Il processo di lavorazione avveniva in due stadi. Nel primo il mercante forniva le materie prime agli artigiani. Una particolare fase di lavoro era ad esempio quella del battiloro: consisteva nel ridurre il singolo pezzo d’oro in lamine finissime che venivano poi tagliate con apposite forbici e inserite nel tessuto di seta dalle “filaoro”, maestranze femminili specializzate. Nel secondo stadio il mercante ritirava la stoffa lavorata e la portava nell’“apotheca”, ove il maestro tessitore, sulla base del disegno che gli veniva fornito, procedeva alla complessa tessitura del prodotto: tale lavoro poteva richiedere fino a tre settimane per la consegna dell’articolo finito. Il capo d’abbigliamento o l’articolo di arredamento veniva quindi venduto dal mercante alla corte ducale, alle ricche famiglie della nobiltà, ma anche a numerosi borghesi arricchitisi in questo settore.

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Filippo Maria Visconti, duca di Milano dal 1412 al 1447

Come fu possibile la nascita di quest’arte nel ducato di Milano? Nulla nasce per caso. Tale lavorazione venne introdotta in città per volontà del duca Filippo Maria Visconti. Gli Sforza poi incrementarono l’industria auroserica. I duchi praticarono una politica di “apertura all’esterno” creando le condizioni per fare arrivare a Milano i migliori artigiani e le macchine più importanti che servivano alla lavorazione. Negli anni di Filippo Maria Visconti (1412-1447) e di Francesco Sforza (1450-1466) vennero chiamate a lavorare a Milano le migliori maestranze tessili provenienti da Genova, da Venezia, da Firenze, da Lucca. Questi artigiani insegnarono la lavorazione auroserica alle famiglie dell’aristocrazia mercantile lombarda, tanto desiderose di apprendere i segreti dell’arte quanto decise ad arricchirsi mediante l’innovazione e il commercio dei prodotti. In secondo luogo, questi maestri poterono lavorare in libertà: la loro attività non venne impedita, rallentata, ostacolata dagli Statuti delle corporazioni cittadine e non esistevano neppure leggi suntuarie che limitavano il commercio. Una situazione di assenza di vincoli che durò fino al 1461. Tuttavia, val la pena ricordare che anche dopo quella data, le norme sul lusso furono abbastanza elastiche, rendendo possibile la produzione e il commercio di articoli di alta moda.

L’aristocrazia mercantile milanese investì ingenti risorse finanziarie nella produzione di tali manufatti auroserici, curandone lo smercio nei mercati internazionali.  Mandò inoltre i suoi figli ad imparare l’arte nelle botteghe dei migliori tessitori toscani e genovesi immigrati a Milano. In alcuni casi si andò anche oltre. Del tutto indicative in proposito le strategie matrimoniali messe in campo dal consigliere ducale Oldrado Lampugnani, che nel primo Quattrocento fece sposare una delle sue figlie con il tessitore fiorentino Pietro di Bartolo.

Quali insegnamenti possiamo ricavare da questa storia? Anzitutto che l’ipertrofia legislativa, la presenza di vincoli burocratici soffoca qualunque impresa. Nel ducato di Milano l’industria auroserica rimase un comparto di eccellenza nel campo dell’alta moda per tutto il Cinquecento proprio per l’assenza di vincoli particolarmente stringenti nel comparto del lusso. Nel Seicento la crisi economica provocata dalle guerre, dalle carestie e dalle pestilenze impoverì la borghesia milanese, segnando una netta separazione tra il ricco patriziato cittadino e una popolazione in gran parte ridotta in povertà. Eppure, anche allora, nonostante tali difficoltà, la nobiltà cittadina – cui competeva la disciplina normativa sul lusso – emanò poche disposizioni in materia. Tra il XVI e il XVIII secolo nel ducato di Milano vennero emanate solo otto normative suntuarie: un numero esiguo se rapportato alle ventuno leggi vigenti in materia nel granducato di Toscana o alle ottanta o poco più nella repubblica di Venezia. Inoltre, diversamente da altri Stati europei, le normative milanesi si caratterizzarono in molti casi per la mancanza di pene severe contro i trasgressori. Segno che i governanti, costretti a legiferare per ragioni di ordine politico e religioso, lo fecero con l’intenzione di limitare il più possibile i danni all’industria milanese.

I Corpi Santi: porto franco di Milano

I Corpi Santi di Milano sono un antico comune, oggi scomparso, poco conosciuto ai milanesi. Annessi a Milano nel 1873, presentavano una conformazione a dir poco originale. Il territorio confinante con la città circondava i bastioni spagnoli come un grande anello. Verso la campagna i Corpi Santi si estendevano in alcuni punti per svariati chilometri, in altri si riducevano a una ristretta fascia di territorio.

Ma cosa vuol dire il termine “Corpi Santi” e quando furono costituiti in Comune? L’origine è incerta. Alcuni ritengono che il termine rinviasse all’uso di seppellire i primi martiri cristiani fuori dalle mura cittadine, altri si richiamano ad antiche processioni religiose che si svolgevano intorno alla città.

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Milano con il territorio dei Corpi Santi annessi nel 1873

Nei secoli del Medioevo e dell’Età Moderna il territorio era soggetto a Milano. Difatti i Corpi Santi traevano la denominazione dalla Porta su cui gravitavano. I Corpi Santi di Porta Orientale, partendo dalla zona Buenos Aires, si spingevano verso la campagna fino a comprendere la cascina Monlué (oggi a pochi metri dalla tangenziale est) e la cascina delle Rottole (primo tratto di via Palmanova all’incrocio con via Tolmezzo). Nei Corpi Santi di Porta Romana, che comprendevano Porta Vigentina, era incluso quello che oggi è Corso Lodi fin quasi a Corvetto; fuori Porta Vigentina la loro estensione si riduceva a meno di due chilometri dalle mura di Milano, confinando con il Vigentino pressappoco all’incrocio di via Ripamonti con la Vettabbia, tra via Serio e via Rutilia. I Corpi Santi di Porta Ticinese (con Porta Lodovica) si estendevano nel contado per più di sette chilometri: oltre alla Darsena di Porta Ticinese – punto di arrivo delle barche provenienti da Pavia, dal Lago Maggiore, dal naviglio interno di Milano – comprendevano Ronchetto delle Rane (zona via dei Missaglia) e, lungo il naviglio grande, San Cristoforo, arrivando quasi alle porte di Corsico. I Corpi Santi di Porta Vercellina si espandevano a macchia d’olio lungo Corso Vercelli, la zona Fiera, San Siro. I Corpi Santi di Porta Comasina gravitavano sui quartieri di via Bramante e Paolo Sarpi: includevano il territorio dove oggi si trova il Cimitero Monumentale, il Borgo degli Ortolani (oggi via Luigi Canonica) e, verso Nord, i quartieri Ghisolfa, Bovisa e Fontana fino a confinare con il comune di Niguarda. I Corpi Santi di Porta Nuova erano limitati sostanzialmente alla zona tra piazza della Repubblica e la Stazione Centrale.

L’unione dei sei Corpi Santi in un solo comune venne realizzata dall’imperatore Giuseppe II di Asburgo-Lorena con dispaccio del 21 maggio 1781.

Il territorio era costituito in gran parte da campi e ortaglie. Alla fine del Settecento i maggiori proprietari erano gli enti religiosi milanesi e i nobili che abitavano in città: l’abbazia di San Vittore al Corpo nel sestiere di Porta Vercellina, il Venerando Luogo Pio di Santa Corona in piazza San Sepolcro vicino alla Biblioteca Ambrosiana; il marchese Pompeo Litta Visconti Arese, il cui fastoso palazzo in corso Magenta – una parte dell’edificio è oggi sede del Teatro Litta – era il simbolo della sua immensa ricchezza; il marchese Egidio Orsini di Roma, anche lui abitante in una stupenda dimora in via Borgonuovo, oggi sede di rappresentanza della ditta Armani (via Borgonuovo 11).

Carlo Cattaneo
Carlo Cattaneo

Nel corso dell’Ottocento la popolazione del suburbio si accrebbe a un ritmo nettamente superiore rispetto alla città: dai 16.000 abitanti stimati nei primi anni Ottanta del XVIII secolo, si passò nel corso dell’Ottocento ai 28.635 abitanti (dati  del 1834) per oltrepassare ampiamente i 45.000 cittadini negli anni a cavallo dell’Unità italiana (1859-61). All’aumento della popolazione seguì un incremento delle attività industriali. Difatti i Corpi Santi erano divenuti – come scriveva Carlo Cattaneo – il “porto franco” della città: luogo privilegiato per il commercio e per l’industria ove l’attività imprenditoriale era favorita dall’assenza dei dazi su alcune merci importanti. Presso i caselli di ciascuna delle sei porte cittadine si trovavano le pese pubbliche ove i funzionari dello Stato stabilivano il dazio da applicare sui prodotti che entravano in città. Per questo motivo, il costo della vita in quello che è oggi il centro di Milano (zona 1) era più alto rispetto al suburbio. Una difformità che Cattaneo così descriveva in una bella lettera alla rivista “Il Diritto” risalente al 4 settembre 1863:

Valse alla popolazione suburbana il solo e semplice fatto d’essere rimasta fuori dalla cerchia daziaria; cioè d’aver avuto in sorte, oltre al contatto d’una capitale, un grado di agevolezza nei viveri e di libero traffico che Milano non aveva. Il suburbio era il porto franco della città. Era congiunto alla libera campagna come un porto franco è congiunto al libero mare.

Nel territorio dei Corpi Santi si erano stabilite molte industrie, che avevano approfittato di una politica fiscale favorevole fin dal 1817. Quando Cattaneo scriveva al “Diritto”, le imprese erano numerose: ricordiamo ad esempio le Officine Meccaniche di Girolamo Miani (specializzate nella produzione di carrozze, vagoni e locomotive) che occupavano l’area situata ad ovest dell’Esselunga di via Ripamonti, tra via Pompeo Leoni e via Carlo Bezzi; lungo il naviglio grande, vicino a San Cristoforo, c’era la Società per la fabbricazione delle porcellane lombarde fondata nel 1833 dal nobile Luigi Tinelli, acquistata nove anni più tardi dal piemontese (di origine svizzera) Giulio Richard; le cartiere di Ambrogio Binda si trovavano lungo il naviglio pavese, nei pressi della Conca Fallata.

La fabbrica di ceramiche Richard Ginori a San Cristoforo, lungo il naviglio grande
La fabbrica di ceramiche Richard Ginori a San Cristoforo, lungo il naviglio grande

Perché si verificava questa diversità di condizioni tra la città e i Corpi Santi? Vediamo di vederci chiaro. Negli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia la legge prevedeva due generi di dazi: quelli governativi e quelli applicati dagli enti comunali come sovraimposte. V’era però una differenza tra i comuni murati e i comuni aperti. A Milano, città murata, i dazi erano applicati alle merci che entravano e uscivano dalle sei porte cittadine: colpivano gli alimenti (pane, olio…), combustibili (cera, gas per l’illuminazione…), foraggi, materiali da costruzione (legnami, gesso, pietre, mattoni, marmi) e altri articoli (vernici, sughero, cristalli). Al dazio governativo, il cui gettito andava allo Stato, il Comune di Milano applicava sovraimposte che variavano dal 43% su vino al 30% sui buoi e sulla carne macellata. Perché la fiscalità vigente nei Corpi Santi era migliore? Per due motivi. Diversamente dalle città murate, i Corpi Santi erano anzitutto un comune aperto: qui le tasse erano riscosse solo alla vendita al minuto, colpivano gli articoli venduti. Questo spiega per quale motivo il Comune fosse divenuto in breve tempo un grande deposito di merci. A Milano si tassava invece ogni tipo di prodotti in entrata, anche quelli che non sarebbero stati venduti. In secondo luogo, le sovraimposte dei Corpi Santi erano largamente inferiori rispetto a quelle di Milano e in alcuni settori, come ad esempio i combustibili o i materiali da costruzione, la tassazione non esisteva. Si trattava di condizioni, come si può facilmente intuire, nettamente favorevoli alla cultura d’impresa.

Pianta di Milano del 1884.
Pianta di Milano del 1884.

Dopo l’Unità il Comune di Milano volle inglobare i Corpi Santi. I milanesi sostenevano che i corposantini godevano di un vantaggio ingiusto perché usufruivano di beni e servizi cittadini pagati con la loro fiscalità. D’altra parte molti edifici che servivano alla città, ma anche la sede di molte aziende cittadine, si trovava nei Corpi Santi, pochi metri fuori dalle mura: la vecchia Stazione Centrale in piazza della Repubblica, la Stazione della Società Anonima degli Omnibus fuori Porta Orientale, in uno stabilimento tra le vie Spallanzani, Sirtori e Melzo; il Cimitero Monumentale fuori Porta Garibaldi; il gasometro, che regolava la fornitura di gas ai milanesi, fuori porta Ludovica. L’assorbimento del Comune anulare era sentito come un atto doveroso per una città in rapida espansione.

Gli industriali erano però preoccupati di perdere i vantaggi del “porto franco”. L’annessione a Milano fu però inevitabile: venne realizzata con regio decreto l’8 giugno 1873.

Il Tredesin de Marz e una pietra misteriosa

Ieri si è festeggiato il Tredesin de Marz, tradizionale festa dei fiori milanese che sembra quasi propiziare l’avvento della primavera. La festa sarà ripetuta domani, domenica 15, nel quartiere in zona Porta Romana, tra via Crema, via Piacenza e via Giulio Romano: si terrà un mercato di fiori con tante iniziative legate al mondo della floricultura.

Da cosa trae origine questa festa? Come cercherò di spiegarvi in questo articolo, l’evento si lega probabilmente ad antichi culti pagani che vennero cristianizzati nel corso del Medioevo.

Nell’Ottocento e ancora nella prima metà del secolo scorso il Tredesin si festeggiava a non molta distanza dalla zona che ho ricordato. La festa aveva il suo fulcro nella chiesa di Santa Maria al Paradiso e interessava il corso di Porta Vigentina fino all’incrocio con via Beatrice d’Este. Emilio De Marchi (1851-1901) ricordava: “E qui giornad del tredesin de Marz? Gh’era la fera, longa longhera, giò fina al dazi, coi banchitt de vioeur, de girani, col primm roeus…”.

Se entrate in Santa Maria al Paradiso troverete sul pavimento un’enorme pietra circolare ove al centro si trova un foro; vi sono incisi tredici segni. Quale significato abbiano è un mistero.

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La misteriosa pietra nella chiesa di Santa Maria del Paradiso

Partiamo da un dato certo: questa pietra, risalente all’epoca romana (se non addirittura pre-romana), si trovava anticamente in un’altra chiesa, oggi scomparsa: San Dionigi. Era situata nell’area dei giardini pubblici di Porta Venezia, quasi a ridosso delle mura spagnole: difatti la festa del Tredesin veniva celebrata nei pressi di quella basilica prima di “traslocare”, alla fine del XVIII secolo, nel sestiere di Porta Romana. La prima costruzione di San Dionigi vien fatta risalire all’epoca di Sant’Ambrogio, alla fine del IV secolo dopo Cristo, nel periodo in cui Milano fu capitale dell’Impero romano. Com’è facile immaginare, non esistevano a quei tempi né giardini pubblici né mura spagnole. La zona era circondata da campi perché le mura della Milano romana, relativamente al settore orientale, non oltrepassavano il tracciato delle attuali vie Durini, piazza San Babila e via Monte Napoleone.

Che senso poteva avere dunque una chiesa in mezzo ai campi, distante un chilometro dalle mura?

Sant'Ambrogio (339/340-397)
Sant’Ambrogio (339/340-397)

Una risposta potrebbe esserci. Quando Ambrogio divenne vescovo di Milano, il cristianesimo era una religione che interessava soprattutto le classi cittadine medio-alte. La conversione dell’imperatore Costantino aveva spinto l’alta burocrazia dell’impero ad abbandonare la fede pagana. Nel IV e V secolo dopo Cristo si era venuta a determinare una situazione paradossale: il cristianesimo, che nei primi secoli aveva conquistato i ceti popolari, nel tardo-impero divenne parte integrante della formazione culturale dell’aristocrazia romana che risiedeva in città. Milano, capitale dell’impero romano d’Occidente dal 286 al 402 d.C., costituiva un esempio lampante. Ambrogio non era forse stato un alto funzionario romano prima di diventare vescovo della città? Si giunse così al paradosso che il paganesimo, sconfitto nella capitale dell’impero, sopravviveva nelle campagne ove i contadini erano rimasti fedeli ad antiche tradizioni del folclore sorte in epoca pre-romana. Come ha scritto lo storico Jacques Le Goff, il laicato rurale, sprovvisto della formazione culturale cristiana diffusa nelle classi cittadine: “divenne sempre più vulnerabile agli urti di una cultura primitiva rinascente”.

Per evangelizzare le masse rurali Ambrogio fondò alcune chiese fuori dalle mura: la chiesa che venne poi intitolata al suo nome, ma anche San Nazzaro e San Dionigi.

So cosa stai per dirmi adesso: come si lega tutto questo con la pietra circolare??

Si può ipotizzare che la pietra fosse preesistente alla chiesa. Questo spiegherebbe per quale motivo il misterioso manufatto, forato al centro, sul quale sono incisi 13 segni  – forse ad indicare i 13 mesi lunari del calendario celtico? – si trovasse all’interno della chiesa nel sestiere di Porta Orientale.

San Barnaba
San Barnaba, anonimo lombardo, XVIII secolo.

Nel Medioevo le tradizioni pagane continuarono a sussistere nonostante la cristianizzazione dei secoli precedenti. Per contrastarle, a partire dall’XI secolo la chiesa ambrosiana diffuse la storia di San Barnaba, considerato il primo evangelizzatore di Milano. Il  13 marzo del 52 d.C., entrando in città da Porta Orientale, l’apostolo sarebbe passato nei campi e avrebbe piantato la sua prima croce di legno. Sapete dove? Nel foro della misteriosa pietra rotonda ovviamente. Tutto quindi lascia supporre che la chiesa ambrosiana mise in campo una raffinata operazione culturale tesa ad assimilare alla tradizione cristiana un rito preesistente risalente almeno al periodo romano, quando a marzo (il nome deriva da Marte) si festeggiava Marte per l’appunto, dio della Natura, della fecondità, della vegetazione primaverile oltre che della guerra.

La chiesa ambrosiana stabilì che l’apostolo fu il primo evangelizzatore di Milano: al suo passaggio, la neve si sarebbe sciolta per miracolo e i prati fuori porta Orientale si sarebbero riempiti di fiori. Gli storici sono però concordi nel ritenere una leggenda l’origine apostolica della chiesa milanese.

La storia di San Barnaba come “primo vescovo di Milano”, divenuta ben presto popolare, ebbe però l’effetto che la curia milanese si attendeva: contribuì ad elevare il prestigio di Milano, conferendole la dignità di “sede apostolica” quasi allo stesso livello di Roma.

La prima testimonianza di cui disponiamo oggi a proposito della festa del Tredesin è contenuta nel manoscritto trivulziano F35, copiato tra il 1450 e il 1461, negli anni del ducato di Francesco Sforza. Vi era ricordata la festa religiosa durante la quale veniva concessa l’indulgenza di tutti i peccati ai fedeli che si fossero recati a San Dionigi riconoscendo le colpe e facendo atto di pentimento: “Item quilibet bene confessus et contrictus visitans ecclesia infrascripta sancti Dionixi die XIII marti ut indulgentia plenaria omnium suorum peccatorum remissionem”. 

Nel 1583 San Carlo confermò il 13 marzo come dies festibus, giorno di festa.

Domenico Balestrieri
Domenico Balestrieri

Nella seconda metà del Settecento la zona compresa tra corso Venezia, via Senato e via Marina, continuò ad essere il centro della festa del Tredesin fino al 1783, quando le autorità procedettero alla demolizione di San Dionigi. A quell’epoca, in una società che andava secolarizzandosi,  la festa aveva perso in larga parte lo spirito religioso dei secoli precedenti. Il poeta dialettale Domenico Balestrieri (1714-1780) ricordò i milanesi, tutt’altro che pentiti e contriti, in una bella poesia dialettale di cui riporto alcune quartine:

Hoi da dilla? Hoo pavura, che ghe sia/ In cert dì d’Indulgenz, e de fonzion / Chi viva pesg per nostra confusion,/ Che in temp che gh’era anmò l’idolatria.  

L’è inscì pur tropp, e gh’avarev on mucc/ De coss de fatt in proeva del mè assont;/ Ma per sbrigà la predega in d’on pont,/ Gh’è ’l Tredesin, ch’el pò bastà per tucc.

 El dì tredes de marz, come se cred/ Generalment, l’è staa quel santo dì, / Che al temp di Apostel s’è piantaa anca chì / La primma Insegna della vera Fed./ 

Ora in sto dì se ’n celebra la Festa/ A Sant Dionis in fond de Porta Renza,/E gh’è foera el cartell dell’Indulgenz,/ Ma vaan là per tutt olter che per questa. …Signorìa in Gesa o no ghe n’è, o ben scarsa.

 Traduzione:

Devo dirla tutta? Ho paura che in certi giorni d’indulgenze e di messe si viva in un disordine peggiore rispetto ai tempi dell’idolatria. E’ così purtroppo e avrei molti fatti che provano il mio assunto. Ma per accorciare la predica, c’è il Tredesin: credo che possa bastare per tutti.  Il tredici di marzo, come si crede da tutti, è stato quel giorno santo in cui al tempo dell’Apostolo (San Barnaba) si è piantata anche qui a Milano la prima insegna della vera fede. Ora in questo giorno si celebra la festa a San Dionigi in fondo a Porta Renza [Porta Orientale]:  c’è fuori il cartello dell’indulgenza ma le persone vanno là per tutt’altre ragioni…signori in chiesa o non ci sono o sono molto pochi.

Giro del mondo sull’aereo figlio del Sole

Ieri è decollato da Abu Dhabi il primo prototipo di aereo alimentato esclusivamente con l’energia del sole. Al comando del Solar Impulse 2 – le cui ali superano in lunghezza quelle del jumbo jet della Boeing – è lo svizzero Bertrand Piccard, assistito dal collega André Borschberg. Il velivolo farà il giro del mondo passando sopra l’India, la Cina, l’Oceano Pacifico, l’America, l’Oceano Atlantico e l’Europa. Se tutto andrà bene, le ore di volo previste saranno in tutto 500, distribuite nell’arco di cinque mesi.

Qualora Piccard riuscisse nella sua impresa (com’è d’altra parte in tutti i pronostici), ci troveremo dinanzi a una svolta epocale perché le grandi aziende costruttrici di aeroplani – che hanno rifiutato di finanziare il Solar Impulse 2 – saranno costrette a fare marcia indietro. Maggiori risorse saranno investite nella ricerca per la fabbricazione di aerei di linea ad energia solare. I benefici saranno considerevoli, soprattutto nella riduzione dell’inquinamento atmosferico.

Bertrand Piccard
Bertrand Piccard (n.1958)

Il Solar Impulse 2 ha una forma curiosa: la notevole apertura alare e le ruote appese a un lungo carrello sotto la piccola cabina di equipaggio lo rendono simile a un enorme insetto. La superficie dell’aereo è coperta da celle solari ultra leggere prodotte dall’azienda belga Solvay, i cui laboratori di ricerca hanno sede a Bollate, un Comune alle porte di Milano. Queste celle forniscono energia alle batterie al litio con cui sono alimentati i quattro motori elettrici presenti nel prototipo. Il velivolo sta viaggiando a una velocità di 50 Km/h.

Ieri, quando ho visto il video che mostrava il decollo del Solar Impulse 2, il pensiero è corso a Leonardo da Vinci. Nella sua feconda vita di pittore, ingegnere e studioso, Leonardo si sforzò d’inventare un paio di ali meccaniche che consentissero all’uomo di volare. Un sogno che non riuscì a tradursi in realtà per molti secoli, finché l’invenzione dei motori ad elica cambiò la storia. Leonardo fu il primo a capire che uno dei segreti del volo risiedeva nello sfruttamento delle correnti d’aria. Nell’osservare gli uccelli rapaci scrisse in una bella nota risalente ai primi anni del Cinquecento:

Quando l’uciello ha gran larghezza d’alie e pocha choda, e che esso si voglia inalzare, allora esso alzerà forte le alie, e girando riceverà il vento sotto l’alie, il qual vento facendosegli intorno lo spingerà molto con prestezza, come il cortone uccello di rapina chio vidi andando a Fiesole sopra il locho di Barbiga nel [150]5 addì 14 di Marzo.

In fondo, l’impresa di Piccard si pone nel solco di tante avventure compiute in passato da uomini ardimentosi, i quali tentarono la sorte con gli ultimi ritrovati della scienza.

La mongolfiera del conte Andreani
La mongolfiera del conte Andreani mentre prende il volo nei pressi di Moncucco

E’ il caso ad esempio del conte Paolo Andreani (1763-1823), appartenente a una ricca famiglia del patriziato milanese, il cui palazzo a Milano ha dato il nome alla Biblioteca Comunale, la Sormani appunto. Andreani volle ripetere l’impresa dei fratelli Montgolfier: finanziò la costruzione di una grande mongolfiera affidandone la costruzione ai fratelli Agostino, Giuseppe e Carlo Gerli. Si trattava di un globo aerostatico che misurava 72 piedi in altezza e 66 in larghezza. Il conte prese il volo il 13 marzo 1784 prendendo quota dal giardino della sua villa di campagna sita a Moncucco (un paese in provincia di Milano). Il pallone scomparve subito tra le nubi. Dopo mezz’ora il conte venne trovato a tre miglia dal paese facendo tirare un sospiro di sollievo alla popolazione e alle autorità. Non fu un viaggio lungo ma bastò a rendere celebre l’Andreani, che fu invitato a Parigi per incontrare i maggiori studiosi di aeronautica. Ad Andreani si deve peraltro l’invenzione dell’eudiometro, uno strumento in grado di calcolare la quantità di ossigeno presente nell’atmosfera.

Meno fortunata l’impresa del bolognese Francesco Zambeccari (1762-1812). Tra il 1803 e il 1812 questi effettuò alcune  ascensioni con una mongolfiera di sua invenzione. Trovò la morte nel corso di una di queste imprese.

Il canonico Luigi Mantovani, in alcune note del suo diario, ci ha lasciato la curiosa testimonianza di un volo risalente all’ottobre del 1803. Zambeccari si era innalzato con il suo pallone in un luogo imprecisato tra le Romagne e le Marche. Poche ore dopo i membri della spedizione, perso il controllo della mongolfiera per un forte temporale, furono trasportati dalle correnti fin sopra le acque dell’Istria, dove si buttarono in mare colti dal freddo e dalla disperazione. La mongolfiera, priva di equipaggio, continuò imperterrita il suo viaggio. Venne ritrovata in Bosnia alcuni mesi dopo, curiosamente venerata dalle popolazioni locali (cristiane e musulmane) come se fosse una reliquia divina.

Seguiamo nelle note del Mantovani  le notizie frammentarie che erano giunte a Milano. E’ curioso che il canonico non esiti a bocciare la spedizione del conte bolognese, giudicato un pazzo esaltato in cerca di notorietà.

 16 ottobre 1803

Con staffetta espressa venuta da Bologna si dice essersi saputo colà da Pesaro, e con varie lettere del Rubicone, che gli Areonauti (sic!) sei ore dopo la partenza sono andati a cadere nelle acque d’Istria, e che per accidente furono raccolti in una barca. Si aggiunge che erano stati un giorno e mezzo senza parlare, che erano gonfi, e che si dovette loro tagliar gli abiti indosso. Questa notizia non essendo stata portata dal corriere di Venezia non pare verosimile

19 ottobre 1803

Si sono avute ulteriori, e più distinte notizie del Pallone sventurato di Zambeccari. Fortunatamente i tre Aeronauti furon ajutati da una barca in dette acque,e co’ pronti rimedj voglionsi quasi ridotti a buon essere di salute: contano essi di varie cose da loro vedute nell’altissimo giro dell’aria, varie vicende etc. che forse saran frottole, o sogni imaginarj di quella fantasia abitualmente stravolta, senza la quale non sarebbe stata possibile la loro matta determinazione

 21 ottobre 1803

Il Governo sempre sollecito per le utili cognizioni e per le intraprese vantaggiose al ben pubblico, si è fatto premura di render conto alla nostra Città dell’esito del conte Zambeccari che ha volato in Bologna. Dio volesse che si perdesse non solo la razza, ma anche la memoria di simili disperati, che senza aver in vista alcun bene, arrischiano quanto è più prezioso, cioé la vita, per una buffoneria. Il Conte Zambeccari è curato in Venezia dall’assistenza dei’ migliori medici per vedere di recuperarlo ne’ suoi sensi esteriori ch’egli ha perduto, sia pel freddo, sia per lo spavento, assai più degli altri suoi socj. Egli conta di aver sofferto una fiera tempesta con successiva neve, e dippiù esservi trovato in situazion parallela alla luna. Sì l’una che l’altra di queste supposizioni devesi attribuire a fantasia esaltata.

 3 dicembre 1803

 Giunge oggi la notizia della finale caduta del Pallone Zambeccari. Esso è caduto nella Bosnia, non molto lungi dal forte turco Viatrez alla sponda dell’Uria, 14 ore lontano da Gospich. Nel globo si trovarono alcune ruote e catene di ferro e tre capelli. Fu creduto prodigio da’ Turchi e da’ Cristiani, che a vicenda si disputarono il possesso, ed oggi pure il vulgo colà è fisso nell’opinione di cosa miracolosa a segno, che corrono gli malati a prender dell’acqua del ruscello, ove discese il globo, per guarire dai loro malanni

Non resta che augurare buona fortuna a Piccard. Speriamo che un giorno, grazie alla sua impresa, potremo salire su un aereo di linea alimentato con la sola energia solare.

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