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Annale 2023 di ASL: tra armi e comunità

L’ultimo numero dell’Annale della Società Storica Lombarda si segnala per diversi contributi afferenti al tema della guerra dal Medioevo all’Età Moderna.

L’Annale 2023 dell’Archivio Storico Lombardo presenta notevoli spunti d’interesse nel panorama degli studi storici. La linea editoriale che si è affermata negli ultimi anni presenta la prima sezione del volume dedicata a un tema di attualità o ritenuto meritevole di analisi specifiche. Nell’Annale 2023 ci si è dedicati al tema delle guerre e dell’amministrazione militare nel ducato di Milano tra Medioevo ed Età Moderna con saggi di notevole spessore scientifico.

Il contributo di Paolo Grillo si concentra sulla devastazione di Como avvenuta nel 1127 ad opera dei milanesi, trentacinque anni prima della celebre distruzione di Milano compiuta dalle truppe filoimperiali delle città ghibelline lombarde. 

Il saggio di Giancarlo Andenna, muovendo da un robusto apparato di fonti, ricostruisce gli anni difficili vissuti dai cittadini di Novara alla fine del XV secolo, quando dovettero far fronte non solo a una lotta aspra tra le fazioni locali dei guelfi e ghibellini, ma anche ai problemi legati all’occupazione francese di Louis d’Orléans e all’assedio del duca Ludovico Maria Sforza nel 1495. Eventi ulteriori che segnarono profondamente la storia cittadina furono nel 1500 la cattura dello Sforza da parte dell’Orléans, re di Francia da alcuni anni con il nome di Luigi XII, la pestilenza scoppiata l’anno successivo e un nuovo assedio, questa volta francese, avvenuto nel 1513. 

Il saggio di Emanuele Pagano si concentra su un tipo particolare di uomini armati presenti negli Stati italiani tra XVI e XVIII secolo. Oltre agli eserciti regolari comandati dalla grande nobiltà specializzata nel mestiere delle armi, articolati in corpi di archibugieri, picchieri, moschettieri e cavalieri, vi erano infatti le milizie che si aggiungevano alle truppe regolari e venivano impiegate per lo più nella difesa delle piazzeforti o nel controllo del territorio al posto delle guarnigioni professionali. In alcuni casi le milizie erano impiegate anche in guerra, al fianco degli eserciti regolari. Le caratteristiche di questi corpi paramilitari risiedevano nella loro diretta dipendenza dal sovrano e nella presenza di personale che non apparteneva solo alla grande nobiltà. Si trattava di uomini reclutati nelle fasce comprese tra i 16 e i 60 anni di età, con una netta prevalenza di giovani provenienti per la maggior parte dallo strato sociale dei contadini o degli artigiani. I cavalieri, per lo più nobili, erano gli unici che potevano permettersi di pagarsi la cavalcatura e le armi. Diverso il caso dei fanti, le cui spese per l’apparato militare ricadevano in parte su di essi, in parte sullo Stato e sui corpi locali. 

La nobiltà che comandava i vari corpi di milizia era uno strumento fondamentale per il sovrano, perché assicurava da un lato un valido collegamento con la nobiltà più influente presente negli eserciti regolari attraverso legami di fedeltà di natura clientelare, dall’altro assicurava il servizio di un maggior numero di uomini comuni in forza dei legami – anch’essi clientelari – esistenti a livello locale nei più remoti interstizi della società civile. Queste dinamiche assicuravano al sovrano il consenso della popolazione. Varrà la pena ricordare che i miliziani godevano di particolari diritti rispetto al resto della società: oltre al porto d’armi, gli arruolati in questa tipologia di corpi paramilitari potevano contare su specifiche tutele giuridiche, come il diritto di essere giudicati per alcuni reati da tribunali speciali oppure una serie di privilegi connessi anche al diritto di proprietà. 

Interessanti le analisi di Pagano sulla milizia nazionale mantovana, un corpo paramilitare che ebbe una storia di notevole rilievo nell’amministrazione del ducato gonzaghesco, molto simile alle “cernide” della repubblica di Venezia. Il prestigio di cui godeva la milizia mantovana fu decisivo nel garantirne la sua conservazione anche nel corso del Settecento e questo per volontà degli Asburgo di Vienna, nei cui domini il ducato era stato inglobato dopo l’estinzione della dinastia ducale. Nettamente diverso il caso delle milizie nel ducato di Milano, che non furono formate con la stessa regolarità e sistematicità. Questo fu dovuto probabilmente all’esistenza di forze regolari assai ben munite e articolate nel periodo della dominazione spagnola e nei primi decenni del Settecento. I corpi paramilitari delle milizie furono impiegati quindi in modo per lo più saltuario, solo in anni di particolare crisi internazionale, quando le guerre del primo Seicento o del primo Settecento richiedevano l’impiego di formazioni ausiliarie da dislocare nelle piazzeforti o in campo aperto al fianco delle truppe regolari impegnate in battaglia. 

Al centro del saggio di Alessandra Dattero vi è la battaglia di Tornavento (22/VI/1636), presa in esame nelle sue ricadute in campo politico e finanziario nell’amministrazione del ducato nel periodo particolarmente complesso costituito dalla guerra dei Trent’Anni.

Oltre alla sezione dedicata alla guerra che si è per sommi capi ricordata, sono presenti altri saggi di argomento diverso che si concentrano su  molti aspetti della storia lombarda e italiana dal Medioevo al Novecento. Due contributi, il primo di Lavinia M. Galli e il secondo di Annalisa Zanni si focalizzano sulle origini del Museo Poldi Pezzoli di Milano e sulla nascita della omonima fondazione artistica. Giampiero Fumi prende in esame il primo periodo di attività di un istituto di credito dalla storia lunga e prestigiosa come la Cassa di Risparmio delle Province Lombarde, focalizzandosi sugli anni dal 1823 al 1860.

Ancora al tema della guerra è dedicato il saggio di Marino Viganò, che pone al centro della sua indagine i primi mesi del 1945 nel periodo sofferto e drammatico che vide nel Nord Italia lo scontro feroce tra i partigiani e l’esercito della repubblica di Salò: Viganò prende in esame la milizia francese, un battaglione della forza militare ausiliaria della repubblica di Vichy di cui il governo nazifascista di Salò si servì in Valtellina contro i partigiani. 

Pietro Verri

Occorre infine ricordare i due contributi di Maria Francesca Turchetti e Carlo Capra che prendono in esame la corrispondenza epistolare tra l’economista milanese Pietro Verri ed esponenti del patriziato della Milano settecentesca quali Francesco IV d’Adda e Alfonso Castiglioni. Lettere preziose perché consentono non solo di capire la mentalità dei gentiluomini del Settecento e il loro modo di rapportarsi di fronte ai problemi della vita, ma anche di comprendere sotto diversi punti di vista eventi importanti come la guerra dei Sette Anni o le riforme asburgiche nel ducato di Milano. Sull’epistolario di Pietro Verri – una fonte straordinaria per capire il Settecento europeo – si attende un lavoro di ripubblicazione integrale all’interno dell’Edizione Nazionale delle Opere di Pietro Verri.

Il coraggio di un Re nella “battaglia dei giganti”

Sono in corso le celebrazioni per l’anniversario della celebre “Battaglia dei Giganti” combattuta nei pressi del paese di Marignano (oggi Melegnano) il 13 e il 14 settembre 1515.  Son passati 500 anni.

Di cosa si tratta? Vediamo di capirci qualcosa.

La battaglia ebbe luogo in uno dei periodi più tormentati della storia milanese. Persa l’indipendenza politica in seguito alla cacciata di Ludovico Sforza detto “il Moro”,  il ducato di Milano fu conteso per più di vent’anni tra francesi, svizzeri e spagnoli. Saccheggi e rapine furono compiute ai danni della popolazione. La nobiltà lombarda, divisa tra la fedeltà all’uno o all’altro dominatore, subì requisizioni, confische e tasse ingenti.

Massimiliano Sforza
Massimiliano Sforza, duca di Milano dal 1512 al 1515

Partiamo dagli antefatti. Conquistato dal re di Francia Luigi XII nel 1499/1500, il Milanese fu soggetto al dominio francese fino al 1512 quando gli Svizzeri, membri di una “Lega Santa” composta dal Papa, dalla Repubblica di Venezia, dal re di Spagna e dall’Inghilterra, riuscirono a mutare la situazione. Il congresso di Mantova stabilì che il ducato dovesse tornare agli Sforza nella persona del figlio primogenito di Ludovico il Moro, Massimiliano. Questi fu riportato a Milano sotto la “protezione” dei Cantoni elvetici. Una protezione per modo di dire: gli svizzeri obbligarono il duca a firmare provvedimenti tesi a favorire i loro interessi, tra i quali vi era il costoso mantenimento delle truppe. Divenuti padroni di vaste zone tra Como e Varese (in quegli anni conquistarono i distretti di Domodossola, Bellinzona, Lugano, Locarno), gli svizzeri avevano le idee chiare: il loro obiettivo era espandersi nelle terre tra il Lago Maggiore e il Lago di Como per farne un grande spazio soggetto al loro dominio.

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Il vescovo di Sion, il cardinale Matteo Schiner

Una nuova alleanza tra Francia, Venezia e Inghilterra cambiò gli equilibri geopolitici. Il re di Francia Francesco I tentò la riconquista del ducato di Milano. Si arrivò così alla cruenta battaglia del 13/14 settembre quando sui campi di Marignano gli svizzeri comandati dal vescovo di Sion, Matteo Schiner, si scontrarono contro i francesi guidati personalmente dal re: 30.000 francesi contro 20.000 svizzeri.

Da un secolo gli svizzeri erano guerrieri formidabili, specializzati nell’uso della picca. Le potenze europee del Quattrocento versarono ai Cantoni ingenti somme di danaro pur di avere i loro uomini in guerra. I fanti elvetici armati di picca, protetti ai lati da archibugieri e alabardieri, si erano rivelati una forza inarrestabile, un riccio contro cui si erano sfaldati molti eserciti fondati ancora sulla cavalleria nobiliare. Gli Svizzeri sapevano maneggiare la picca con precisione. Avanzavano compatti in formazioni quadrate.

batmarignano1La battaglia di Marignano si basò in gran parte su questo tipo di tecnica militare. Nella prima giornata i picchieri svizzeri ebbero la meglio sui francesi. La tattica consisteva nello sfondare le linee nemiche e catturare i pezzi dell’artiglieria. Il tentativo riuscì però solo in parte. I lanzichenecchi al servizio dei francesi furono decimati ma l’intervento personale del re, che affrontò il nemico esortando i suoi a resistere, impedì agli svizzeri di portare a termine il loro piano. Scriveva un cronista dell’epoca, il comasco Paolo Giovio, nel ricordare il coraggioso contributo di Francesco I:

 

Francesco I di re di Francia
Francesco I di Valois, re di Francia dal 1515 al 1547

Et esso con la sopravesta reale, di colore azzurro co gigli d’oro, generosamente appresso de nemici et de suoi facendosi conoscere per re, si mise nella prima battaglia [primo schieramento], dove animosamente feriva i nemici, et qua et là spronando il cavallo pericolosamente affrontava i più valorosi nemici; et finalmente non solo con le parole et con conforti, ma anchora con honorato essempio di vero valore faceva animo a suoi.

Al calare della notte gli svizzeri cantarono vittoria. Il giorno seguente si accorsero invece di essere in netta minoranza perché molti dei loro compagni erano morti.

Il re di Francia ebbe la meglio per tre fattori decisivi. Si servì dell’artiglieria (cannoni) che gli svizzeri non erano riusciti a neutralizzare: in tal modo annientò molti quadrati nemici. Comandò alcune cariche di cavalleria approfittando dell’estrema vicinanza tra i due fronti e dei pochi nemici rimasti sul campo. In terzo luogo l’arrivo della cavalleria veneziana, guidata dal condottiero Bartolomeo d’Alviano, fu decisivo nell’aiutare i francesi.

Il maresciallo Gian Giacomo Trivulzio, che combatté contro gli svizzeri, colpito dall’estrema durezza della lotta, sostenne che quello scontro era stata una “battaglia di giganti”. Così la ricordò Francesco Guicciardini in una pagina memorabile della Storia d’Italia (Libro XII, Cap.XV):

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Affermava il consentimento comune di tutti gli uomini non essere stata per moltissimi anni in Italia battaglia più feroce e di spavento maggiore; perché, per l’impeto col quale cominciarono l’assalto i svizzeri e poi per gli errori della notte, confusi gli ordini di tutto l’esercito e combattendosi alla mescolata senza imperio e senza segno, ogni cosa era sottoposta meramente alla fortuna; il re medesimo, stato molte volte in pericolo, aveva a riconoscere la salute più dalla virtù propria e dal caso che dall’aiuto de’ suoi; da’ quali molte volte, per la confusione della battaglia e per le tenebre della notte, era stato abbandonato. Di maniera che il Triulzio, capitano che avea vedute tante cose, affermava questa essere stata battaglia non d’uomini ma di giganti; e che diciotto battaglie alle quali era intervenuto erano state, a comparazione di questa, battaglie fanciullesche. Né si dubitava che, se non fusse stato l’aiuto delle artiglierie era la vittoria de’ svizzeri, che, entrati nel primo impeto dentro a’ ripari de’ franzesi, tolto la più parte delle artiglierie, avevano sempre acquistato di terreno; né fu di poco momento la giunta [l’arrivo] dell’Alviano, che sopravvenendo in tempo che la battaglia era ancor dubbia dette animo a i franzesi e spavento a i svizzeri, credendo essere con lui tutto l’esercito veneziano.

Nei giorni seguenti il re permise agli Svizzeri di tornare ai loro paesi. Stando al resoconto di un cronista furono molti i feriti, entrati a Milano da Porta Romana, ad attirare l’attenzione dei cittadini per lo stato miserevole in cui versavano:

Ma una meraviglia certo era et compassione a vedere li fugienti sviceri, che a Milano per Porta Romana ritornavano, l’uno avendo tagliato un brazzo, l’altro una gamba; et chi guasto dall’artiglieria, et chi fatto bressagio de passatori, l’un l’altro amorevolmente portandosi, che proprio pareano i peccatori imaginati da Dante nella nona bolgia dell’Inferno… 

G. A. Prato, Storia di Milano scritta in continuazione ed emenda del Corio dall’anno 1499 al 1519, a cura di Cesare Cantù in «Archivio Storico Italiano», anno I, tomo II (1842), pag.325.

Francesco fu talmente colpito dalle dinamiche fortunose di quella battaglia che, tornato in Francia, diede ordine a Leonardo da Vinci e a Domenico da Cortona di organizzare una festa di corte al castello di Amboise per ricordare quel fausto evento. Tale festa ebbe luogo tra il 1517 e il 1518.  Per saperne di più, ti consiglio di visitare il sito  Marignan: histoire d’une célébration ove alcuni filmati ripercorrono il lavoro svolto da storici, attori, costumisti ed esperti nella ricostruzione della festa reale.

 

Un’antica eccellenza milanese: le botteghe di armaioli

Le vie Spadari e Armorari sono a pochi passi da piazza Duomo. Oggi non resta alcun vecchio edificio che possa aiutarci a capire quale fosse la vita sociale in quelle contrade. Tuttavia la loro antica denominazione ci consente di risalire a una bella pagina di storia milanese. I nomi hanno origine dalle botteghe di artigiani specializzati nella fabbricazione di corazze, armature, spade, lance ed elmi. Fino al 1902, in via Spadari, ai numeri 10 e 12, era possibile visitare la casa dei Missaglia, una famiglia di magistri armorum: l’edificio venne abbattuto nel corso dei lavori che portarono alla demolizione delle case tra via Orefici, via Spadari e l’antica via Ratti.

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Facciata della Casa dei Missaglia, demolita nei primi anni del Novecento.

Nel centro medievale di Milano era presente fin dal Medioevo una ricca borghesia di artigiani e commercianti. Ricordiamo le vie Orefici, Speronari e, nel primo tratto di via Torino, le contrade (oggi scomparse) dei Mercanti d’Oro, dei Pennacchiari, o ancora – nella parte occidentale dell’attuale piazza Duomo – le vie dei Profumieri e dei Cappellari.

Fino al tardo Cinquecento Milano era famosa non solo per i capi di alta moda – come ad esempio i tessuti auro-serici di cui mi sono occupato in un precedente articolo – ma anche per le fabbriche artigianali di spade e armature. Bonvesin de la Riva, nella celebre opera De magnalibus Mediolani risalente alla seconda metà del XIII secolo, al capitolo quinto ove parla del valore dei milanesi in guerra, ricordava con forza la presenza in città di molte botteghe di artigiani specializzati nella produzione di materiali bellici:

Nella nostra città e nel suo contado vi è fior fiore e abbondanza di fabbri, i quali ogni giorno fabbricano armature di ogni tipo, che poi i mercanti vendono in mirabile abbondanza nelle città vicine e anche in quelle lontane. I principali fabbri di corazze superano infatti il numero di cento e ciascuno di essi tiene sotto di sé moltissimi operai che si dedicano ogni giorno alla lavorazione mirabile delle macchie. Vi sono anche moltissimi fabbricanti di scudi e infine di ogni tipo di armi, del cui numero non faccio neanche menzione.

Le “macchie” erano complesse raffigurazioni che venivano incise nelle armature di acciaio. Si noti quanto scriveva Bonvesin a proposito della localizzazione delle fabbriche e del commercio di queste armi: i fabbri specializzati si trovavano non solo in città, ma anche nel contado circostante. La vendita dei prodotti si spingeva fino a coinvolgere le città lontane: segno che l’industria milanese delle armi era molto apprezzata in Europa.

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Tommaso e Antonio Missaglia con Pier Innocenzo da Faerno e Antonio Seroni, Armatura alla francese in acciaio per l’imperatore Federico III di Asburgo, 1450.

Nel corso del Quattrocento l’industria bellica raggiunse il vertice della sua fortuna, specializzandosi nella produzione di armature all’avanguardia. Milanese è l’invenzione dell’armatura completa in piastra che consentiva un’adeguata protezione del soldato, consentendogli piena agilità nei movimenti. Pressoché contemporaneo è il nuovo tipo di elmo: diversamente da quelli precedenti, presentava una visiera in grado di proteggere completamente la testa. Altra caratteristica delle armature ambrosiane – prodotto di una vera e propria scuola milanese alternativa rispetto a quelle tedesche e francesi – fu la sproporzione, nell’armatura degli arti superiori, tra la parte sinistra e quella destra: la sinistra (dalla copertura della spalla a quella del braccio fusa il più delle volte in solo pezzo fino all’altezza della mano) era molto più grande rispetto all’altra; in tal modo l’uomo d’arme poteva servirsi di questa parte del corpo per la difesa dai colpi del nemico, lasciando al braccio destro il compito di offendere maneggiando la lancia o la spada.

Tra la fine del Quattrocento e il primo Cinquecento l’avvento delle armi da fuoco (dalle bombarde ai falconetti), l’introduzione della picca alla svizzera nei combattimenti campali ove era nettamente prevalente l’uso della fanteria sulla cavalleria, produssero alcuni cambiamenti significativi nel modo di fare la guerra.

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Resti di armatura. 1490 ca.

Questi cambiamenti non devono però ingannarci. Le armature pesanti continuarono ad essere utilizzate. Certo, il netto prevalere della fanteria – che nel corso del Cinquecento vide un progressivo impoverimento del suo personale, sempre meno pagato – finì con il rendere meno diffusa questo tipo di armatura (troppo costosa), a vantaggio di un armamento agile e leggero. Ciononostante, le armature pesanti continuarono ad essere richieste, anche se persero quella funzione militare che avevano rivestito anticamente. I fabbri del quartiere tra le antiche parrocchie di Santa Maria Segreta, Santa Maria Beltrade e San Michele al Gallo (tra le vie Spadari e Armorari) ricevettero lucrose commissioni da una nobiltà desiderosa di partecipare alle parate e alle solenni adunanze sfoggiando armature finemente decorate: tali manufatti furono realizzati con tale precisione e cura dei dettagli – ad esempio nell’incisione dello stemma gentilizio – da costituire un vero e proprio segno di status per il casato.

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Fra Paolo Morigia (1525-1604)

Ma chi erano questi fabbri di armature? Ricordiamo Bartolomeo Piatti, la cui famiglia – acquisita ben presto la nobiltà – si stabilì in un bel palazzo nella via omonima (tuttora esistente) che incrocia via Torino; Giovanni Pietro Figino; Giovanni Antonio Biancardi; Antonio Piccinino con i figli Federico e Lucio. Erano artigiani rinomati, chiamati a lavorare per molti principi europei. Paolo Morigia, nella sua Nobiltà di Milano pubblicata nel 1595, scrisse, a proposito di Antonio Piccinino, “che morse l’anno 1589 nell’età di anni 80, fu il primo huomo non solo della nostra Italia ma anco di tutta Europa, per far’una lama di spada, o pugnale, o coltello, o qualunque arma da tagliare, che tagliava ogni sorte di ferro senza lesione delle sue lame; e però [per questo motivo, NdR] era conosciuto e nominatissimo appresso dei maggiori principi de’ Christiani e alli professori d’arme”. Il figlio Lucio “nel lavorar di rilievo in ferro e in argento, sì di figure come di groteschi [grottesche: tipo di decorazione] e altre bizzarrie d’animali, fogliami, e paesi, è molto eccellente e rarissimo nella Gemina e ha fatto armature di gran pregio al Serenissimo Duca di Parma Alessandro Farnese, ed altri Prencipi, che sono tenute per cose rare”.

Se nella seconda metà del Quattrocento gli Sforza praticarono una politica tesa a mantenere in patria queste botteghe rinomate vietando agli artigiani di stabilirsi all’estero, nel corso del Cinquecento, molte famiglie di fabbri e armaioli si stabilirono oltralpe. Così ad esempio, Filippo de Grampi e Giovan Angelo Litta, che nel 1511 lasciarono Milano per stabilirsi in Inghilterra con altri tre operai invitati dai Tudor a fondare una fabbrica di armature per la corte. Fu anche il caso di alcuni membri della famiglia Piatti: Matteo si trasferì a Firenze tra il 1568 e il 1569, ove aprì una bottega in cui lavoravano dodici maestri e operai milanesi; il nipote Giacomo Filippo fece lo stesso nel 1592. Nel Milanese la presenza di queste botteghe si andò assottigliando. Durante la dominazione spagnola, Filippo II chiamò ad Eugui, nel regno di Navarra, molti armaioli milanesi per costituire una fabbrica di armature di lusso in grado di eccellere come le celebri botteghe di Milano.

La manifattura delle armi era ancora fiorente a Milano alla fine del Seicento. Il nobile russo  Peter Andreevic Tolstoj, in un diario di viaggio risalente al 1698, forniva questo quadro interessante dei negozi milanesi:

La città è ricca di negozi forniti d’ogni tipo di merce, e vi si trovano i più svariati oggetti di ferro e armi: pistole, fucili molto belli, stupende spade. Però questi oggetti, se ben lavorati, si comperano a prezzo piuttosto alto.

Era tuttavia il canto del cigno. Nel corso del Settecento tali fabbriche scomparirono progressivamente lasciando alle vie il compito di ricordare ai milanesi i loro antichi successi nell’industria bellica.

Il maresciallo Trivulzio nella Milano del primo ‘500

Camminando lungo il corso di Porta Romana da piazza Missori, prima di arrivare all’incrocio con via Francesco Sforza, si apre a sinistra la piazzetta di San Nazaro in Brolo. La chiesa omonima, di origine medievale, fu una delle prime basiliche paleocristiane ad essere costruita per volontà di Sant’Ambrogio.

Non voglio annoiarti facendo la storia della chiesa, che puoi trovare in una delle tante guide cittadine. Desidero ricordare la curiosa struttura architettonica. E’ infatti l’unico caso a Milano di una basilica la cui facciata sia interamente coperta da un altro edificio: il Mausoleo Trivulziano.

La Trivulza
San Nazaro in Brolo in corso di Porta Romana. Ingresso nel Mausoleo Trivulzio

Quando entrai per la prima volta in questa cappella, ebbi una sensazione di lugubre solennità. Progettato dall’architetto Bartolomeo Suardi detto il Bramantino, edificato in parte da Cristoforo Lombardi, il mausoleo risale alla prima metà del XVI secolo. E’ una fabbrica a pianta quadrata che, se non si trovasse nella parte anteriore della chiesa, sembrerebbe una torre anziché un luogo di sepoltura.  D’altra parte il Bramantino, che era stato a Roma tra il 1508 e il 1510, parve richiamare in questo edificio le linee architettoniche dei grandi monumenti della Roma imperiale. All’interno otto nicchie, collocate in posizione elevata, accolgono i sepolcri di alcuni Trivulzio, una famiglia nobile che abitava in un bel palazzo situato in via Rugabella, oggi purtroppo scomparso.

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Il sepolcro del maresciallo Gian Giacomo Trivulzio

Nella parte del mausoleo che confina con l’ingresso della chiesa spicca il sepolcro del maresciallo Gian Giacomo Trivulzio (1442-1518), il maggiore esponente del casato. L’iscrizione che ricorda il defunto recita solennemente: “IO. IACOBUS/MAGNUS TRIVULTIUS/ANTONII FILIUS/QUI NUNQUAM/ QUIEVIT QUIESCIT/TACE”; tradotto in italiano significa: “Riposa Gian Giacomo Trivulzio, figlio di Antonio, che mai ebbe pace”.  Una frase concisa, che sembra quasi ammonire il visitatore a non disturbare il sonno eterno di un grande personaggio che visse una vita tormentata.

Chi fu questo nobile milanese? Per saperne di più, ti consiglio una fonte preziosa che è stata pubblicata da pochi mesi dalla Fondazione Trivulzio. L’opera, curata da Marino Viganò, si intitola Le imprese dell’illustrissimo Gian Giacomo Trivulzio il Magno: l’autore è un monaco cistercense di Chiaravalle che visse a fianco del maresciallo nei primi anni del Cinquecento: Arcangelo Madrignano.

So già cosa mi dirai: Gabriele, la solita opera noiosa scritta da un uomo di chiesa con stile ampolloso. Cosa me ne faccio?

IMG_5818Non si tratta di un’opera noiosa per due ragioni. Anzitutto perché scritta da uomo che, benché si chiamasse Arcangelo e facesse parte di un ordine religioso, fu tutt’altro che uno stinco di santo. Il che, se non contribuisce di per sé a renderci l’autore simpatico, lo rende certo meritevole della nostra attenzione. Un uomo, il Madrignano, che non esitò nel corso della sua vita a tradire i confratelli, a cambiare casacca per convenienza politica, a perseguitare altri religiosi pur di conseguire ricche prebende e compiacere i suoi superiori.

In secondo luogo il testo, il cui intento apologetico non inquina la ricostruzione di alcune vicende, contiene proverbi popolari, massime di scienza politica, riflessioni che sono una fonte preziosa per comprendere l’Italia del primo Cinquecento.

L’opera racconta le imprese del condottiero di ventura Gian Giacomo Trivulzio dal 1465 fino al 1494, l’anno della calata in Italia del re di Francia Carlo VIII.  Il testo venne scritto tra il 1503 e il 1509, il periodo di massima fortuna politica del maresciallo.

Bisogna riconoscere che il Trivulzio ebbe pessima fama nella Milano del primo Cinquecento e nella storiografia risorgimentale. Negli anni del suo declino politico, venne accusato di essersi venduto al re di Francia, di aver tradito la dinastia sforzesca. Nell’Ottocento ritornò ancora questa “macchia”: aver tradito Ludovico il Moro, uno dei simboli del Rinascimento italiano.

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Il maresciallo Gian Giacomo Trivulzio (1442-1518)

In realtà, il Trivulzio non può essere considerato un traditore della patria. Il mestiere del condottiero di ventura lo poneva in una condizione che non è equiparabile a quella del soldato odierno. Il condottiero di ventura arruolava il maggior numero possibile di “lance”: squadre di armati ciascuna delle quali era composta mediamente da 5/7 uomini tra i quali un cavaliere vestito con armatura pesante.  Queste lance, reclutate a centinaia, erano impiegate al servizio della repubblica o del principato con cui era stata firmata una lettera di “condotta”: ecco per quale motivo tali uomini erano chiamati “condottieri di ventura”. Oggi appare inconcepibile questo modo di gestire le operazioni militari, ma la guerra del Rinascimento era fatta così. Era una faccenda in larga parte “privata”. Il Trivulzio, come il coetaneo Giovanni dalle Bande Nere o prima di lui Francesco Sforza, furono brillanti condottieri di ventura, pronti a vendere la loro professionalità in campo militare al migliore offerente.

Ludovico Sforza detto il Moro, in una pala del 1495. Museo di Brera
Ludovico Sforza detto il Moro, in una pala del 1495 conservata al Museo di Brera

L’impopolarità del Trivulzio nella Milano del primo ‘500 – impopolarità che segnò la vita tormentata del maresciallo come ci ha ricordato l’iscrizione funeraria in San Nazaro – fu dovuta all’accusa di aver tradito la dinastia sforzesca. Il rifiuto di riconoscere Ludovico Sforza “il Moro” come duca di Milano era considerato da molti coetanei un tradimento feudale. In realtà il maresciallo – che non fu certo il solo nobile lombardo a ‘tradire’ il duca di Milano – si rifiutò di riconoscere l’autorità del “Moro” perché riteneva che questi si fosse impadronito del potere estromettendo il nipote, Gian Galeazzo Maria Sforza, morto in circostanze misteriose nel 1494. E’ molto probabile che il Moro avesse fatto avvelenare quello scomodo parente. Tuttavia bisogna riconoscere che Ludovico Sforza era riuscito in quello stesso anno ad ottenere l’investitura ducale dall’imperatore Massimiliano d’Asburgo, conseguendo in tal modo quel riconoscimento giuridico in campo internazionale che agli Sforza era mancato fin dai tempi in cui erano ascesi al governo dello Stato di Milano.

Molti nobili lombardi – e tra questi il già citato Gian Giacomo Trivulzio – rifiutarono tale investitura. Ritenevano che il re di Francia Luigi XII, discendendo da Valentina Visconti – figlia del primo duca di Milano Gian Galeazzo Visconti e andata in sposa a Luigi duca di Orléans – avesse maggiori diritti nella successione. Per questo motivo giurarono fedeltà a Luigi XII e lo aiutarono a conquistare il ducato nel 1499/1500.

Diversamente dalle opere scritte in quel medesimo torno di tempo da Donato Bossi e da Bernardino Corio per celebrare Ludovico il Moro, il Madrignano ci descrive una Milano preda dell’instabilità, funestata da violenze e da congiure, mostrando un taglio narrativo ostile allo Sforza. Una testimonianza preziosa che aiuta a comprendere meglio il filo delle drammatiche vicende in cui il Trivulzio fu chiamato a vivere.