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Un campione della riforma cattolica: San Carlo Borromeo

Il 4 novembre è stato l’anniversario della morte dell’arcivescovo di Milano San Carlo Borromeo. Quali furono gli ultimi giorni di vita del presule milanese?

Egli soleva trascorrere il tempo libero praticando la preghiera mentale. Una delle sue mete preferite era il Sacro Monte di Varallo: si tratta del celebre santuario all’imbocco della Valsesia, ove un sentiero tra i boschi è intervallato da cappelle affrescate che consentono al cristiano d’immergersi nella preghiera.

Lasciata Varallo mentre era di ritorno da un pellegrinaggio alla Sacra Sindone, salito su un barcone per raggiungere Milano lungo il Naviglio Grande, il Borromeo iniziò ad accusare i primi segni della malattia che doveva condurlo alla morte nella sera del primo novembre 1584. Giunto al palazzo arcivescovile su una lettiga, il cardinale trascorse le ultime ore assorto nella preghiera. Chiese che nella sua camera gli fosse montato un altare composto di alcuni quadri sacri tra i quali il dipinto Orazione nell’orto .

digiuno di san carlo
Daniele Crespi, Il digiuno di San Carlo. Milano, Chiesa di Santa Maria della Passione

Credo che per comprendere il carattere e l’opera del Borromeo sia utile soffermarci sul celebre dipinto di Daniele Crespi, Il digiuno di San Carlo, conservato nella chiesa milanese di Santa Maria della Passione. Il prelato è ritratto nel suo scrittoio mentre è assorto in preghiera negli esercizi spirituali. Il magro pasto, caratterizzato da un pane e da una bottiglia di acqua, passa in secondo piano rispetto ai due protagonisti del dipinto: da un lato il volto piangente del presule, ritratto in un atteggiamento di commozione e di estasi nella lettura del testo sacro, dall’altro il crocifisso collocato sopra un tavolino di legno poco discosto dallo scrittoio, di fronte al santo.

San Carlo può essere considerato l’interprete più coerente dei canoni riformatori fissati dal Concilio di Trento: tali canoni non solo resero il vescovo un vero pastore d’anime, ma gli conferirono poteri incisivi di disciplina e di controllo sulla condotta del clero all’interno della diocesi. Si pensi ad esempio alle visite pastorali, alla convocazione periodica dei sinodi diocesani o dei concili provinciali. Su questo punto il Borromeo fece di Milano una diocesi modello.

Personalità forte, a larghi tratti autoritaria quella di San Carlo che, nel condurre fino in fondo la riforma della chiesa ambrosiana, per contrastare efficacemente quelli che al tempo erano considerati i mali del secolo (dalle sette protestanti alle feste popolari), non esitò a scontrarsi con il potere spagnolo mettendo in difficoltà la Santa Sede. La sua azione zelante, esemplare, instancabile nell’informare la diocesi ai canoni tridentini, rese l’autorità episcopale milanese un corpo intermedio nella chiesa, quasi sottratto al controllo disciplinare di Roma.

Nel ducato di Milano lo scontro con il governatore spagnolo investì il campo religioso. Di fronte all’intenzione del re Filippo II d’introdurre nella capitale ambrosiana l’inquisizione spagnola onde sradicare le sette protestanti, il Borromeo si oppose risolutamente mettendo in campo tutta la sua autorità. Rimasto vincolato a una concezione medievale dei rapporti tra potere pubblico e potere ecclesiastico nella quale il secondo si poneva su un piano di superiorità rispetto al primo, il prelato si oppose fermamente alla politica di Filippo, affermando non solo una netta diversità nei modi di perseguire gli eretici (così ad esempio avversava il metodo spagnolo  delle “denunce anonime”) ma anche la piena autonomia dell’autorità ecclesiastica, che non poteva in alcun modo essere menomata da un intervento dello Stato in una questione religiosa che spettava in via esclusiva all’arcivescovo. San Carlo scriveva a tal proposito nel 1566: “il popolo milanese ha il sospetto che…si cerchi di mettere in questo Stato l’Inquisizione alla foggia di Spagna, non tanto per zelo di religione quanto per interesse di Stato…”.

carlo borromeoIl Borromeo, appoggiato dal papa, ebbe successo in tale azione di contrasto alla politica spagnola. Agli organi della curia ambrosiana fu riservato il compito di respingere il protestantesimo, il che avvenne mediante un vasto programma di evangelizzazione nella diocesi. Si deve a San Carlo la fondazione del Seminario arcivescovile (tuttora esistente in Corso Venezia 11) affinché il clero, ricevendo una formazione rigorosa, potesse svolgere una migliore azione di evangelizzazione. Interprete inflessibile del modello tridentino per la formazione di una chiesa ordinata, tesa al disprezzo dei beni mondani, tutta lanciata verso l’elevazione morale della comunità e la salvezza spirituale delle anime, l’arcivescovo istituì confraternite per promuovere la religiosità nel popolo favorendo una concreta opera di apostolato presso il laicato.

Celebri le sue battaglie contro le feste popolari, colpevoli di allontanare i cattolici dalla cura dell’anima. Dal carnevale alle feste di quaresima, la sua posizione fu intransigente: anche qui essa provocò uno scontro con le autorità civili milanesi. Il governatore spagnolo, il marchese di Ayamonte, alla fine degli anni Settanta chiese al papa l’allontanamento di un arcivescovo tanto scomodo: richiesta ovviamente respinta.

Per tornare alla formazione del clero, l’opera di San Carlo fu davvero fondamentale. Ricordiamo la fondazione del Collegio Elvetico (oggi palazzo dell’Archivio di Stato di Milano in via Senato 10) per la formazione di preti da inviare in missione nei cantoni svizzeri, oppure l’apertura di istituti quali la fondazione di San Giovanni Decollato per le vocazioni tardive, la fondazione della Beata Maria presso la Canonica arcivescovile per il clero di campagna, o ancora i piccoli seminari di Inverigo e Celana. Ad Arona fu istituita una sezione distaccata del Seminario milanese.

Nella riforma del clero, vietò il cumulo di benefici in capo a una sola persona. I benefici erano beni immobili concessi in origine dal signore per il mantenimento del suo vassallo. In tal modo il clero fu privato di numerose rendite, il che lo rese più povero allontanandolo da quella ricchezza che era stata la causa principale della corruzione della chiesa. Il clero lombardo formato dal Borromeo operò in un clima di austerità e semplicità dedito esclusivamente alla predicazione e alle opere di carità.

Segno di una religiosità combattiva fu la decisione di fondare l’ordine degli Oblati di Sant’Ambrogio, una congregazione di preti a dimensione diocesana il cui obiettivo consisteva nel lavorare instancabilmente perché la pastorale del vescovo venisse attuata fin nei più remoti interstizi della società milanese e più in generale lombarda. D’altra parte, per l’efficace contrasto alla superstizione e al movimento ereticale, l’arcivescovo poteva contare sui “crocesignati”, una congregazione composta da 40 nobili milanesi che avevano giurato di sterminare gli eretici. Si trattava di una compagnia che operava con mezzi violenti, alla quale il Borromeo fece ricorso assai raramente, in circostanze eccezionali. Per l’esecuzione delle sentenze arcivescovili esisteva inoltre una “famiglia armata”, quasi un corpo di polizia incaricato di rendere esecutive le disposizioni della curia ambrosiana.

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Colosso di San Carlo Borromeo ad Arona. I lavori, iniziati nel 1624 per volontà del cardinale Federico Borromeo, terminarono nel 1698. Il disegno della statua è di Giovanni Battista Crespi detto “Il Cerano”

San Carlo si conquistò l’affetto dei milanesi in occasione della peste che imperversò in città nel 1576. La sua azione a sostegno dei malati, dei moribondi, dei poveri fu totale. Forse il ritratto migliore di questa grande personalità della storia milanese ci è offerto dalla gigantesca statua del santo che si trova ad Arona: alto 28 metri, il celebre “Carlone” incarna davvero il modello stoico dell’uomo che obbedisce con umiltà e disciplina ai doveri del suo ministero, operando con coraggio per il bene della comunità.

La lezione di Cattaneo sull’insegnamento produttivo

In una lettera del 21 ottobre 1846 all’imperial regia delegazione provinciale di Milano – l’istituto periferico del governo asburgico in Lombardia – Carlo Cattaneo informava le autorità sulla feconda attività didattica della Società per l’Incoraggiamento delle Arti e dei Mestieri, di cui in quegli anni ricopriva la carica di segretario. In realtà, nello scrivere questa lettera, l’economista lombardo si rivolgeva al governo per chiedere l’autorizzazione ad assegnare la cattedra di Geometria e Meccanica al giovane Paolo Jacini (1823-1852). Questi era stato chiamato a sostituire l’ingegnere Giulio Sarti (1792-1866), che aveva lasciato l’insegnamento per assumere un importante incarico all’estero. Jacini, fratello del più celebre Stefano, patriota e moderato lombardo, si era conquistato la stima di Cattaneo che ne lodava le doti in questi termini:

 

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Carlo Cattaneo (1801-1869)

Non appena aveva intrapreso il Sig. Ing. Giulio Sarti di dare presso questa Società una gratuita istruzione di Geometria e Mecanica alli operai, questo utile proposito venne interrotto da improviso invito ch’egli ebbe di progettare e costruire un canal navigabile da Santarèm a Lisbona.

Dolente come ne fu questa Società, venne tosto confortata dall’offerta che fece il giovine Sig. Ing. Paolo Jacini di supplire con gratuita opera all’assente. Continuò egli con molta approvazione delli intelligenti il corso di Geometria e nell’entrante anno si accinge a quello di Mecànica.

Gravoso è questo assunto per la necessità di districare da una congerie di dottrine le cognizioni più semplici e adattarle alla condizione degli uditori.

[Da Margherita Cancarini Petroboni e Mariachiara Fugazza (a cura di), Carteggi di Carlo Cattaneo, Le Monnier – Casagrande, Firenze – Bellinzona 2001, serie I, vol.I., pp.638-639]

Qui possiamo svolgere due osservazioni. Anzitutto Cattaneo rendeva noto che l’ingegnere Sarti aveva lasciato l’insegnamento perché invitato dal governo portoghese a lavorare alla costruzione di un canale navigabile. Sarti, ingegnere civile e ferroviario, aveva progettato e diretto la strada ferrata Milano-Monza. Nel congresso degli scienziati tenuto a Milano nel 1844 si era fatto notare per aver proposto di regolamentare il lavoro dei fanciulli, mostrando di avere a cuore il triste fenomeno dello sfruttamento della manodopera minorile. Nel 1845 accettò l’insegnamento nella Società d’incoraggiamento di arti e mestieri: dapprima tenne “letture di geometria”, poi fu titolare del corso gratuito di “geometria e meccanica” menzionato da Cattaneo nella lettera citata sopra.

inaugurazione del naviglio pavese

Il lavoro che il Sarti ricevette dal governo portoghese – la costruzione di un canale navigabile – è oltremodo significativo. Oggi Santarèm è una cittadina abitata da più di 63.000 abitanti che dista 80-90 chilometri dalla capitale portoghese. Il territorio tra le due città è attraversato dal fiume Tago, che a quell’epoca non era interamente navigabile. Quando il governo portoghese decise di costruire un canale artificiale, non si rivolse a un ingegnere olandese o tedesco. Chiamò un milanese. Questo significa che la Milano dei navigli era a quel tempo una città in grado di formare ingegneri qualificati la cui competenza in materia di regime idrico e gestione dei trasporti su acqua aveva assunto una fama europea. La Milano di oggi, ove i navigli non rivestono alcuna funzione di utilità sociale, si trova purtroppo agli antipodi rispetto alla città di Manzoni.

La seconda osservazione riguarda il metodo d’insegnamento quale era concepito da Cattaneo. Secondo l’economista lombardo l’attività didattica, per essere efficace, deve saper ridurre a concetti semplici e chiari la complessa materia delle dottrine da trasmettere al pubblico: “districare da una congerie di dottrine le cognizioni più semplici e adattarle alla condizione degli uditori”. Un impegno certamente “gravoso” ma imprescindibile per qualsiasi docente, pena l’inutilità dell’insegnamento.

Ma vediamo di capirci qualcosa di più su questo tema. Quale senso aveva l’insegnamento nella Società di cui Cattaneo fu segretario a partire dal gennaio 1845?

In un articolo pubblicato a gennaio mi sono soffermato su due associazioni d’élite nella Milano della Restaurazione: il Casino dei Nobili e la Società del Giardino. Il tratto caratteristico di questi sodalizi risiedeva nella ristretta cerchia degli associati, nella finalità puramente ricreativa delle adunanze dalla cui frequentazione i soci potevano ricavare benefici per i loro affari privati.

Enrico Mylius
Enrico Mylius (1769-1854)

La Società d’incoraggiamento di arti e mestieri si costituì con caratteristiche nettamente diverse. Fondata nel 1838 grazie all’imprenditore, uomo d’affari e infaticabile mecenate Enrico Mylius – nato a Francoforte sul Meno da una famiglia di origini viennesi – la Società fu costituita con il supporto di un nutrito gruppo di banchieri e negozianti milanesi decisi a migliorare l’economia lombarda mediante il sostegno alle attività utili e produttive. Mylius, che assunse la presidenza della Società, seguì l’esempio di analoghe istituzioni attive a Parigi, a Berlino e nell’impero asburgico (ad esempio nell’Austria inferiore o in Boemia).

Diversamente dalle associazioni d’élite, questo sodalizio – la cui sede fu per circa un cinquatennio in piazza Mercanti – nasceva quindi con un programma vasto, teso alla promozione di attività industriali mediante il connubio tra scienza e lavoro. La finalità era quindi generale, travalicava l’interesse particolare dei soci per puntare al miglioramento economico della società in una tensione continua verso il progresso. Lo Statuto prevedeva sovvenzioni a titolo gratuito ad artigiani e commercianti, stabiliva il conferimento di doni onorifici tesi ad incoraggiare l’attività manifatturiera. Con il passare degli anni gli obiettivi divennero più ambiziosi. In un quadro internazionale dominato da un’accesa concorrenza economica tra gli Stati europei, la Società volle trasmettere ai lavoratori le cognizioni e i saperi utili a svolgere l’attività manifatturiera ai livelli più avanzati sotto il profilo tecnologico. Diffondere il sapere tecnico in imprese produttive, finanziare studi economici tesi ad innalzare le conoscenze delle classi industriali: queste le finalità del sodalizio, rese possibili grazie al contributo della Camera di Commercio ma anche al sostegno dei numerosi soci. Diversamente dalle associazioni d’élite, ove le quote d’iscrizione erano piuttosto elevate, nella Società di incoraggiamento d’arti e mestieri l’ingresso era condizionato al pagamento di almeno 30 lire annue.

Per tornare alla lettera di Cattaneo, nel lodare l’attività didattica del giovane Jacini, egli tornava in chiusura sul già citato principio dell’utilità pratica cui doveva rispondere l’insegnamento. I giovani docenti della Società meritavano stima universale perché sottraevano il tempo all’ozio per trasmettere ai lavoratori le conoscenze più efficaci nel lavoro industriale:

La Società vede con sommo compiacimento questa bella gara di giovani facoltosi nel sottrarre i loro più belli anni alla dissipazione per consacrarli a sollievo della classe industriosa, facendole dono di quelle cognizioni che rendono più fruttuosa la fatica e meno pericolosa la concorrenza straniera. La Società vede con ciò raggiunta la sua destinazione…

Negli anni della segreteria di Cattaneo furono attivati ad esempio corsi di setificio a cura dell’industriale torinese Angelo Piazza e di fisica industriale tenuti da Luigi Magrini. Tali corsi si aggiunsero alle lezioni di chimica industriale tenute da Giovanni Antonio de Kramer. In campo agricolo si propose l’acquisizione di un appezzamento di terra che servisse da modello per introdurre nuove pratiche nella lavorazione del grana padano mediante l’impiego di manodopera specializzata, formata e diretta da professori impiegati in loco. Tale progetto rimase però sulla carta a causa dello scoppio della rivoluzione del ‘48.

La Società d’incoraggiamento di arti e mestieri è tuttora esistente. Dal 1889 ha sede in via Santa Marta al civico 18. Se vuoi saperne di più, val al sito SIAM 1838.

Il pesce e la carne, cibo dell’anima e cibo del corpo

In quel celebre manifesto della Milano viscontea che è il De Magnalibus Urbis Mediolani, Bonvesin de La Riva scriveva alla fine del XIII secolo che tra i vari alimenti di cui la città di Ambrogio era particolarmente ricca ve n’era uno assai importante: il pesce. Con ogni probabilità egli esagerava quando elencava con dovizia di particolari le varie specie ittiche presenti nei torrenti, nei fiumi e nei laghi del milanese. Scriveva Bonvesin:

I pescatori che quasi ogni giorno pescano in abbondanza  nei laghi del nostro contado, più di diciotto, pesci d’ogni tipo, trote, dentici, capitoni, tinche, temoli, anguille, lamprede, granchi e ogni altro genere infine di pesci grossi o minuti, e che pescano nei fiumi, più di sessanta, e che portano in città pesce pescato nei ruscelli innumerevoli dei monti, assicurano di essere più di quattrocento. 

Quando citava i fiumi e i torrenti dai quali i pescatori traevano il pesce che vendevano nei mercati cittadini, Bonvesin ne ricordava alcuni che ci sono familiari: la “Muzza” a sud-est verso Paullo, il “Fossato di Milano” che diventerà alla fine del Quattrocento il naviglio interno in centro città, il “Nirone”, la “Vettabbia”, l’“Olona”, il “Lambro merdario” (sic!), il “Ticino”, il “Ticinello” verso Abbiategrasso.

Libro-dOre-Milano-1473-circa-MorganQueste notazioni di Bonvesin ci inducono ad alcune considerazioni. Anzitutto ricaviamo una grande differenza rispetto alla società odierna. Sappiamo che Milano oggi può vantare un mercato di pesce tra i più forniti della penisola. Si tratta in larga parte di pesce di mare che viene trasportato in città. Nel Medioevo il pesce che si poteva trovare sui mercati era invece pesce di fiume perché la lentezza dei mezzi di trasporto non consentiva l’arrivo del pesce fresco proveniente dalla Liguria o da Venezia. Esisteva certamente il pesce salato, che poteva essere conservato per lungo tempo. Esso era diffuso soprattutto tra le classi popolari: dalle aringhe al merluzzo, quest’ultimo presente nelle tavole europee a partire dalla fine del Quattrocento.

Bisogna poi ricordare che al pesce si ricorreva in circostanze particolari. Nel Medioevo e in età moderna la base dell’alimentazione era costituita dalla carne: cibo raccomandato dai medici del tempo, la carne era importante perché le sue calorie aiutavano a resistere in ambienti in cui non esisteva il riscaldamento; garantiva al corpo la forza necessaria per affrontare la guerra o il pesante lavoro dei campi. I nobili mangiavano carne fresca, in genere dopo una battuta di caccia (attività riservata all’aristocrazia guerriera). Il marchese che imbandiva i suoi banchetti con carne di vitello, ostentava la sua potenza giacché consumare carne di vitello voleva dire sprecare una risorsa, permettersi uno spreco uccidendo un animale che non aveva superato l’anno di età. I contadini invece si cibavano con legumi, formaggi e, quando potevano permettersi un piatto di carne, ricorrevano agli insaccati (salumi).

macellazione suiniOggi è risaputo che la consumazione continua di carne non fa bene alla salute. Inoltre un’alimentazione sana è quella che non ingrassa, che nutre senza esagerare. Nel Medioevo e nell’età moderna ci troviamo in una condizione opposta. Il consumo di carne non solo era raccomandato dai medici, ma costituiva il desiderio inconfessato di tutti coloro che non potevano permettersi quel tipo di alimentazione. L’uomo e la donna grassi erano inoltre segno di salute, mentre le persone magre denotavano povertà e situazioni di disagio sociali. Aldobrandino da Siena, nel XIII secolo, tesseva un elogio della carne con queste parole:

Vous devés savoir ke sour totes coses qui norrissement dounent, doune li chars plus de norrisement au cors de l’homme, et l’encraisse et l’enforce. [Dovete sapere che fra tutte le cose che nutrono l’uomo, la carne è quella che lo nutre maggiormente, l’ingrassa e gli dà forza].

Come ha scritto lo storico dell’alimentazione Massimo Montanari, il pesce godeva quindi di uno “statuto ambiguo”. Era un alimento cui ricorrevano tanto i ceti popolari quanto i ceti nobiliari nei periodi in cui la chiesa vietava di mangiare carne, ad esempio nei periodi di quaresima. Ce lo dice lo stesso Bonvesin quando afferma che gran parte del pesce finiva nelle mense cittadine precisamente in Quaresima. Perché in questo periodo si mangiava il pesce? Fu la Chiesa ad introdurre questa usanza: concepita come sacrificio, essa significava la privazione di un bene fisico (la carne) per un bene spirituale rappresentato dal pesce. Varrà la pena ricordare che le lettere dell’antico lemma greco di pesce, ICHTHYS, costituivano le iniziali di Gesù: Iesus, CHristos, THeù, HYios, Sotèr, vale a dire: “Gesù Cristo figlio di Dio Salvatore”. Non stupisce quindi che il pesce fosse concepito come alimento religioso per eccellenza nel difficile cammino di purificazione in cui il divieto di mangiar carne significava la rinuncia, temporalmente limitata, a un tipo di alimentazione ritenuto “normale”.

Il riso era un altro alimento assai diffuso a Milano. Proveniente dall’Oriente, esso fu introdotto in Lombardia al tempo di Ludovico il Moro, nella seconda metà del XV secolo. Da allora divenne un elemento basilare nella cucina settentrionale. Le prime testimonianze di ricette a base di riso risalgono ai primi decenni del Settecento: dal risotto al brodo di carne al risotto al burro, dal risotto con salsiccia al mitico risotto allo zafferano. Fino al Novecento esso costituirà un elemento insostituibile nella tavola lombarda.

Ma cosa si mangiava nella Lombardia dell’ancien régime? Nei documenti conservati all’archivio di Stato di Milano abbiamo importanti informazioni al riguardo. Gli elenchi degli alimenti consumati dagli ambasciatori riuniti a Vaprio d’Adda per il trattato del 1754 tra la Repubblica di San Marco e lo Stato di Milano, ci informano che furono consumate carni insaccate (salumi, cotechini, salsicce), pesce di lago (lucci, trote, tinche), formaggi e frutta. Poco rilevante la verdura, definita genericamente come “erbe”. Se vuoi saperne di più, ti consiglio di visitare l’interessante mostra Dal riso alla pastasciutta  allestita presso l’Archivio di Stato di Milano, in via Senato 10, fino al 31 ottobre.

Un monumento all’Italia: la Galleria Vittorio Emanuele

La Galleria Vittorio Emanuele è senza dubbio uno dei monumenti più caratteristici di Milano. E’ considerata il Salotto della città. I turisti restano estasiati dalla sua architettura e dalle prestigiose boutique che si aprono al suo interno. La Galleria, i cui lavori erano iniziati il 7 marzo 1865, fu inaugurata il 15 settembre 1867 alla presenza del Re. L’architetto Giuseppe Mengoni, che aveva diretto i cantieri, morì dieci anni dopo, il 30 settembre 1877, precipitando da un ponteggio mentre tentava di ultimare l’arco verso piazza del Duomo: uno dei casi più famosi di morte sul lavoro.

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Giuseppe Mengoni

Come ho ricordato in un articolo di qualche mese fa, non era la prima volta che Milano si arricchiva di un passaggio coperto: la Galleria De Cristoforis, che collegava corso Vittorio Emanuele con via Monte Napoleone, costituì per alcuni decenni un luogo importante di socialità cittadina. Non presentava tuttavia una veste grandiosa.

La nuova Galleria fu qualcosa di diverso. Finanziata dal consiglio comunale, che ne affidò i lavori alla società inglese City of Milan Improvements Company, essa rappresentò nelle sue dimensioni imponenti, nei temi delle decorazioni, l’emblema dell’Italia risorta, gemma preziosa dello Stato nazionale monarchico. Giuseppe Verdi in una lettera scritta a un amico francese nel 1868, non nascondeva la sua ammirazione per questo ardito passaggio vetrato che collegava piazza del Duomo con piazza della Scala:

La nuova Galleria è proprio un cosa bella: un’opera artistica, monumentale. Nel nostro paese c’è ancora il senso del Grande congiunto al Bello.

IMG_6762Alla sua apertura la Galleria ospitava novantasei negozi, un numero certamente rilevante se consideriamo che la Galleria De Cristoforis ne aveva allora una settantina. I caffè rivestivano un ruolo significativo nella vita sociale dei milanesi in Galleria. Chi fosse entrato a fine Ottocento da piazza del Duomo, avrebbe trovato sulla destra il celebre Caffè Campari gestito da Gaspare Campari. Giunto a Milano nel 1863 dopo aver lavorato a Torino e a Novara, Campari fece fortuna con i celebri liquori: il Fernet e il Bitter all’uso d’Olanda come si diceva a quel tempo (oggi conosciuto come Bitter Campari). Nel 1915, anno dell’ingresso dell’Italia nella Grande Guerra, Campari aprì un altro caffè sul lato opposto che dava sempre verso piazza del Duomo. Oggi questo spazio, tuttora adibito a caffé (nonché ristorante al piano superiore) non è più di Campari ma conserva il prezioso  bancone che gli antichi proprietari avevano fatto costruire in stile art nouveau.

Un altro caffè storico era quello aperto da Paolo Biffi nel 1867 al centro dell’Ottagono, nei locali in cui oggi si trovano gli stupendi negozi di Prada. Le vetrine di Biffi, che si era distinto per la produzione di panettoni artigianali, si estendevano lungo il braccio della Galleria verso via Ugo Foscolo.

Sul lato opposto si trovava una sede secondaria del caffè Gnocchi di Galleria De Cristoforis. Poi la proprietà passò alla Birreria Stocker, i cui gestori garantivano ai clienti la calda accoglienza di avvenenti cameriere in abito tirolese. Nel 1885 la proprietà fu acquistata da Virginio Savini, che ne fece la sede del suo celebre caffè frequentato dagli artisti del vicino teatro Manzoni. Dalla metà del secolo scorso il Savini divenne, com’è fin troppo noto, il centro della vita mondana: nelle sale lussuose di questo ristorante si ritrovavano politici, banchieri, intellettuali importanti nella storia nazionale.

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Il Ristorante Gambrinus – Gambrinus Halle in una immagine pubblicata nei primi anni del Novecento

Non possiamo chiudere questa rassegna sugli antichi ristoranti senza citare il secondo locale che Baldassarre Gnocchi aprì in galleria negli spazi ove oggi si trova la libreria Rizzoli. Si trattava di un caffé di notevole grandezza che acquisì una certa fama nella Milano di fine Ottocento: vi si tenevano regolarmente concerti ad opera di una solerte orchestra di signore viennesi.  L’atmosfera filotedesca – e più in generale filo germanica – che vi si respirava era certamente il risultato della politica conservatrice che il governo italiano seguì in quegli anni mediante la firma dei trattati della Triplice Alleanza con gli Imperi centrali (Impero germanico e Impero austro-ungarico). Una politica che recò i suoi frutti anche sul piano economico. Ricordiamo che a Milano furono istituite, grazie al contributo determinante di capitali tedeschi, le due più importanti banche del Paese: la Banca Commerciale Italiana (1894) e il Credito Italiano (1895) le cui sedi si trovavano a pochi passi dalla Galleria.

Tornando al ristorante Gnocchi, senza l’aiuto della casa  tedesca Siemens&Halsk esso non sarebbe certo riuscito ad illuminare i suoi locali con la luce elettrica, il 21 agosto 1880: fu un evento memorabile nella storia cittadina. Esso anticipava di alcuni anni l’illuminazione elettrica, che in città sarebbe stata possibile solo alcuni anni dopo grazie all’apertura della centrale Edison nella vicina via Santa Radegonda. Assunto nel 1882 il nome di Birreria Gambrinus, il ristorante Gnocchi continuò ad operare con tale denominazione fino all’entrata in guerra dell’Italia, nel 1915. A seguito delle campagne nazionaliste antitedesche,  le autorità obbligarono i gestori a chiamarlo “Grand’Italia”.

Se prendiamo in esame alcuni diari scritti da turisti stranieri in visita a Milano nella prima metà del Novecento, ci accorgiamo che il pubblico della Galleria era alquanto variegato. Del tutto indicative le riflessioni scritte nel 1923 dallo scrittore spagnolo Vicente Blasco Ibanez (1867-1928), che si soffermava sui tanti giovani artisti che puntavano sulla Galleria per incontrare un impresario che potesse fare la loro fortuna. La vicinanza al Teatro alla Scala sembrerebbe aver segnato l’identità del celebre edificio:

Vicente Blasco Ibanez
Vicente Blasco Ibanez

Qui si trattengono, mangiando maccheroni nelle trattorie a buon mercato, e aspettando il momento in cui il mondo farà loro giustizia cospargendo di milioni la strada della loro vita, tutte le reclute e i riservisti dell’arte musicale, gente infelice e degna di pietà che si prepara ad entrare nel tempio della gloria cantando per cinque o sei lire in qualunque teatrino municipale del “Milanesado”. Questo soltanto perché qualche giornale di infimo ordine scriva qualcosa su di loro così da poter inviare il ritaglio alla famiglia e agli amici, e convincerli dei grandi successi che ottengono nel paese dell’arte.

Qui ci sono anche i veterani, quelli che, dopo aver fatto la gioia di tutta una generazione in qualunque capitale d’Europa, mettono mano ai loro risparmi, e quelli che, più imprevidenti, debbono dedicarsi, in vecchiaia, a penose occupazioni per liberarsi dalla miseria, dopo aver trascinato sete e velluti sui palcoscenici e aver ricevuto deliranti ovazioni.

Non si può vivere a Milano senza imbattersi, ad ogni istante, nell’artista veterano, nel novellino o nell’audace che tira dritto, fresco come una rosa, di insuccesso in insuccesso e di fischiata in fischiata.

Trent’anni dopo, il quadro sembrava completamente mutato. Nelle brevi note scritte nel 1964 da Henry Vollan Morton (1892-1979), la Galleria assumeva le caratteristiche di un ambiente magico, staccato dalla convulsa vita cittadina dominata dal traffico e dalla frenesia lavorativa; ritrovo prediletto per innamorati, donne avvenenti, ricchi banchieri e politicanti.

Henry Vollan Morton
Henry Vollan Morton

La Galleria mi parve la moderna versione di un Foro romano. Non c’era il traffico viario, la gente poteva a suo piacimento fare acquisti, passeggiare, pettegolare o leggere le ultime notizie del mercato finanziario. Erano presenti tutte le figure tipiche dell’antico foro: gli innamorati che si incontravano nel luogo stabilito per l’appuntamento, i politicanti con l’ultima edizione del Corriere della Sera, le signore alla moda, i ricconi con la loro corte e perfino, come dubitarne, i seccatori! In Galleria non mi annoiavo di certo: là gli esseri umani, lontani dal fragore e dalla confusione del traffico, si pavoneggiavano come su una ribalta dove tutti sono, ad un tempo, attori e spettatori.  

Dall’uva dei ‘borghi’ alla vigna di Leonardo

Settembre è il mese della vendemmia.  Milano ha molto da raccontare. Nei secoli dell’età moderna e ancora a metà Ottocento, quando la città era racchiusa entro la cerchia dei bastioni, esistevano alcune zone ove si produceva e si vendeva il vino. Tale fenomeno interessava soprattutto i luoghi di campagna, i “borghi” come venivano chiamati in relazione alle sei porte medievali che si trovavano nelle vicinanze (Porta Orientale, Romana, Ticinese, Vercellina, Comasina, Nuova). Situati tra la cerchia del Naviglio Interno e il perimetro dei bastoni spagnoli, i borghi erano spazi agresti attraversati da una grande arteria stradale, dominati fino alla metà dell’Ottocento dai giardini delle ville patrizie, dagli orti dei conventi e dai campi di alcuni proprietari privati. In fondo, i borghi di Milano riproducevano in piccolo i tratti della campagna milanese che si stendeva fuori dalle mura, nei territori dei Corpi Santi e dei Comuni limitrofi.

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Il palazzo Castiglioni-Stampa in un’incisione settecentesca di M.A. Dal Re

Ma torniamo al punto dal quale siamo partiti: la vendemmia nella Milano Sette-Ottocentesca. Chi fosse entrato a Milano in questo periodo dell’anno, passeggiando lungo i borghi cittadini, avrebbe trovato in parecchi isolati il cartello “si vende uva”. Dalle fonti sappiamo che alcune case nei pressi delle vie Quadronno, Commenda (nel borgo di Porta Romana), Vivaio (nel borgo di Porta Orientale) o nel borgo delle Grazie in Porta Vercellina (oggi corso Magenta verso piazzale Baracca), possedevano ettari di terreno piantati a vite. Bisogna però ricordare che la produzione e la vendita dell’uva non riguardava solo i borghi fuori del naviglio. Anche all’interno delle mura medievali, nel fitto reticolo cittadino, c’erano residenze nobiliari i cui proprietari mettevano a disposizione i sotterranei per vendere l’uva. Un caso emblematico era la stupenda casa Castiglioni-Stampa (poi Silvestri), l’edificio bramantesco tuttora esistente in corso Venezia. Nel mese di settembre, quando era attivo il mercato dell’uva, i milanesi la conoscevano come la cantinetta  de Cà Castiona.

Certo, noi oggi fatichiamo a immaginare che in zone fittamente urbanizzate del centro potessero trovarsi spazi adibiti alla coltura della vite. Tale realtà diviene però comprensibile se consideriamo le dimensioni di Milano in età moderna (la città si attestava intorno al 1851 sui 158.000 abitanti), il ruolo fondamentale rivestito dall’agricoltura nell’economia del tempo e i tratti agresti dei borghi all’interno delle mura.

D’altra parte, piantare viti e produrre vino in centro città non è cosa irrealizzabile. Qualcuno ci sta provando con grande passione e competenza. In fondo, il centro cittadino non è così urbanizzato come sembra a prima vista. Molti palazzi dispongono di ampi spazi verdi. Ma chi ha avuto il coraggio di produrre il vino nella Milano di oggi?  Sei curioso eh? Per spiegartelo, devo raccontarti una breve storia.

Il Borgo delle Grazie dalla Pianta di Milano di Marco Antonio Dal Re, 1734
Il Borgo delle Grazie dalla Pianta di Milano di Marco Antonio Dal Re, 1734

Alla fine del Quattrocento Ludovico il Moro progettò di costruire un quartiere residenziale che avrebbe rivestito un ruolo ambizioso nella Milano sforzesca: il borgo delle Grazie attorno alla omonima chiesa di Santa Maria. Nelle intenzioni del duca, esso sarebbe stato ingrandito e impreziosito con edifici di notevole valore architettonico. Tra i progetti, rimasti per lo più incompiuti in seguito alla conquista francese del ducato di Milano avvenuta nel 1499, c’era il mausoleo degli Sforza da costruire nella basilica di Santa Maria delle Grazie. Una parte di quel progetto poté tuttavia essere realizzata. Il Cenacolo venne portato a compimento. La parte absidale di Santa Maria delle Grazie fu disegnata da Bramante in stile rinascimentale. D’altra parte Ludovico fece in tempo ad assegnare ai suoi favoriti alcune proprietà nella zona. Due case del borgo furono donate agli Atellani, funzionari ducali fedeli alla signoria sforzesca. Negli anni Venti del secolo scorso Piero Portaluppi le ristrutturò e ne valorizzò le parti rinascimentali fondendole in un unico complesso tuttora visitabile: la Casa degli Atellani.

Leonardo da Vinci, che si trovava a Milano al servizio del Moro come ingegnere militare, ricevette in dono una vigna che superava di poco l’ettaro di dimensione. Si trovava in un’area compresa tra le attuali vie Carducci (ove scorreva il naviglio di san Gerolamo), corso Magenta, via Zenale e via San Vittore. Qualcuno potrebbe chiedersi per quale motivo il duca di Milano avesse regalato a Leonardo una vigna. Il genio toscano era stato allevato in una famiglia di vignaioli ed è lecito ipotizzare che fosse un raffinato estimatore del vino.

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Quel che restava della Vigna di Leonardo in una foto del primo Novecento (Portaluppi)

Oggi, grazie agli studi storici rigorosi promossi dalla Fondazione Portaluppi, è stato possibile individuare il luogo ove si trovava una parte della vigna leonardesca, quella compresa nella proprietà della Casa degli Atellani. Dopo alcune analisi condotte sul terreno, gli studiosi della Facoltà di Scienze Agrarie dell’Università degli Studi di Milano hanno ritrovato le tracce del vitigno originario ricostruendone il profilo genetico. Si è così scoperto che il vitigno leonardesco apparteneva a un tipo di Malvasia assai diffuso nell’Italia del Quattrocento: la Malvasia di Candia Aromatica.

Oggi la Fondazione Portaluppi restituisce a Milano una pagina dimenticata di storia milanese: la vigna di Leonardo. Sessanta viti a piede americano prodotte in serra sono state piantate nel luogo dell’antica vigna rispettando i filari originali. Grazie a questo lavoro, la vigna di Leonardo è tornata a rivivere.

Se vuoi saperne di più, guarda questo video 😉

 

Il coraggio di un Re nella “battaglia dei giganti”

Sono in corso le celebrazioni per l’anniversario della celebre “Battaglia dei Giganti” combattuta nei pressi del paese di Marignano (oggi Melegnano) il 13 e il 14 settembre 1515.  Son passati 500 anni.

Di cosa si tratta? Vediamo di capirci qualcosa.

La battaglia ebbe luogo in uno dei periodi più tormentati della storia milanese. Persa l’indipendenza politica in seguito alla cacciata di Ludovico Sforza detto “il Moro”,  il ducato di Milano fu conteso per più di vent’anni tra francesi, svizzeri e spagnoli. Saccheggi e rapine furono compiute ai danni della popolazione. La nobiltà lombarda, divisa tra la fedeltà all’uno o all’altro dominatore, subì requisizioni, confische e tasse ingenti.

Massimiliano Sforza
Massimiliano Sforza, duca di Milano dal 1512 al 1515

Partiamo dagli antefatti. Conquistato dal re di Francia Luigi XII nel 1499/1500, il Milanese fu soggetto al dominio francese fino al 1512 quando gli Svizzeri, membri di una “Lega Santa” composta dal Papa, dalla Repubblica di Venezia, dal re di Spagna e dall’Inghilterra, riuscirono a mutare la situazione. Il congresso di Mantova stabilì che il ducato dovesse tornare agli Sforza nella persona del figlio primogenito di Ludovico il Moro, Massimiliano. Questi fu riportato a Milano sotto la “protezione” dei Cantoni elvetici. Una protezione per modo di dire: gli svizzeri obbligarono il duca a firmare provvedimenti tesi a favorire i loro interessi, tra i quali vi era il costoso mantenimento delle truppe. Divenuti padroni di vaste zone tra Como e Varese (in quegli anni conquistarono i distretti di Domodossola, Bellinzona, Lugano, Locarno), gli svizzeri avevano le idee chiare: il loro obiettivo era espandersi nelle terre tra il Lago Maggiore e il Lago di Como per farne un grande spazio soggetto al loro dominio.

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Il vescovo di Sion, il cardinale Matteo Schiner

Una nuova alleanza tra Francia, Venezia e Inghilterra cambiò gli equilibri geopolitici. Il re di Francia Francesco I tentò la riconquista del ducato di Milano. Si arrivò così alla cruenta battaglia del 13/14 settembre quando sui campi di Marignano gli svizzeri comandati dal vescovo di Sion, Matteo Schiner, si scontrarono contro i francesi guidati personalmente dal re: 30.000 francesi contro 20.000 svizzeri.

Da un secolo gli svizzeri erano guerrieri formidabili, specializzati nell’uso della picca. Le potenze europee del Quattrocento versarono ai Cantoni ingenti somme di danaro pur di avere i loro uomini in guerra. I fanti elvetici armati di picca, protetti ai lati da archibugieri e alabardieri, si erano rivelati una forza inarrestabile, un riccio contro cui si erano sfaldati molti eserciti fondati ancora sulla cavalleria nobiliare. Gli Svizzeri sapevano maneggiare la picca con precisione. Avanzavano compatti in formazioni quadrate.

batmarignano1La battaglia di Marignano si basò in gran parte su questo tipo di tecnica militare. Nella prima giornata i picchieri svizzeri ebbero la meglio sui francesi. La tattica consisteva nello sfondare le linee nemiche e catturare i pezzi dell’artiglieria. Il tentativo riuscì però solo in parte. I lanzichenecchi al servizio dei francesi furono decimati ma l’intervento personale del re, che affrontò il nemico esortando i suoi a resistere, impedì agli svizzeri di portare a termine il loro piano. Scriveva un cronista dell’epoca, il comasco Paolo Giovio, nel ricordare il coraggioso contributo di Francesco I:

 

Francesco I di re di Francia
Francesco I di Valois, re di Francia dal 1515 al 1547

Et esso con la sopravesta reale, di colore azzurro co gigli d’oro, generosamente appresso de nemici et de suoi facendosi conoscere per re, si mise nella prima battaglia [primo schieramento], dove animosamente feriva i nemici, et qua et là spronando il cavallo pericolosamente affrontava i più valorosi nemici; et finalmente non solo con le parole et con conforti, ma anchora con honorato essempio di vero valore faceva animo a suoi.

Al calare della notte gli svizzeri cantarono vittoria. Il giorno seguente si accorsero invece di essere in netta minoranza perché molti dei loro compagni erano morti.

Il re di Francia ebbe la meglio per tre fattori decisivi. Si servì dell’artiglieria (cannoni) che gli svizzeri non erano riusciti a neutralizzare: in tal modo annientò molti quadrati nemici. Comandò alcune cariche di cavalleria approfittando dell’estrema vicinanza tra i due fronti e dei pochi nemici rimasti sul campo. In terzo luogo l’arrivo della cavalleria veneziana, guidata dal condottiero Bartolomeo d’Alviano, fu decisivo nell’aiutare i francesi.

Il maresciallo Gian Giacomo Trivulzio, che combatté contro gli svizzeri, colpito dall’estrema durezza della lotta, sostenne che quello scontro era stata una “battaglia di giganti”. Così la ricordò Francesco Guicciardini in una pagina memorabile della Storia d’Italia (Libro XII, Cap.XV):

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Affermava il consentimento comune di tutti gli uomini non essere stata per moltissimi anni in Italia battaglia più feroce e di spavento maggiore; perché, per l’impeto col quale cominciarono l’assalto i svizzeri e poi per gli errori della notte, confusi gli ordini di tutto l’esercito e combattendosi alla mescolata senza imperio e senza segno, ogni cosa era sottoposta meramente alla fortuna; il re medesimo, stato molte volte in pericolo, aveva a riconoscere la salute più dalla virtù propria e dal caso che dall’aiuto de’ suoi; da’ quali molte volte, per la confusione della battaglia e per le tenebre della notte, era stato abbandonato. Di maniera che il Triulzio, capitano che avea vedute tante cose, affermava questa essere stata battaglia non d’uomini ma di giganti; e che diciotto battaglie alle quali era intervenuto erano state, a comparazione di questa, battaglie fanciullesche. Né si dubitava che, se non fusse stato l’aiuto delle artiglierie era la vittoria de’ svizzeri, che, entrati nel primo impeto dentro a’ ripari de’ franzesi, tolto la più parte delle artiglierie, avevano sempre acquistato di terreno; né fu di poco momento la giunta [l’arrivo] dell’Alviano, che sopravvenendo in tempo che la battaglia era ancor dubbia dette animo a i franzesi e spavento a i svizzeri, credendo essere con lui tutto l’esercito veneziano.

Nei giorni seguenti il re permise agli Svizzeri di tornare ai loro paesi. Stando al resoconto di un cronista furono molti i feriti, entrati a Milano da Porta Romana, ad attirare l’attenzione dei cittadini per lo stato miserevole in cui versavano:

Ma una meraviglia certo era et compassione a vedere li fugienti sviceri, che a Milano per Porta Romana ritornavano, l’uno avendo tagliato un brazzo, l’altro una gamba; et chi guasto dall’artiglieria, et chi fatto bressagio de passatori, l’un l’altro amorevolmente portandosi, che proprio pareano i peccatori imaginati da Dante nella nona bolgia dell’Inferno… 

G. A. Prato, Storia di Milano scritta in continuazione ed emenda del Corio dall’anno 1499 al 1519, a cura di Cesare Cantù in «Archivio Storico Italiano», anno I, tomo II (1842), pag.325.

Francesco fu talmente colpito dalle dinamiche fortunose di quella battaglia che, tornato in Francia, diede ordine a Leonardo da Vinci e a Domenico da Cortona di organizzare una festa di corte al castello di Amboise per ricordare quel fausto evento. Tale festa ebbe luogo tra il 1517 e il 1518.  Per saperne di più, ti consiglio di visitare il sito  Marignan: histoire d’une célébration ove alcuni filmati ripercorrono il lavoro svolto da storici, attori, costumisti ed esperti nella ricostruzione della festa reale.

 

Un viceré mancato: l’arciduca Ferdinando Massimiliano

Il 6 settembre 1857, pochi mesi dopo la nomina a governatore del regno Lombardo Veneto, Ferdinando Massimiliano, fratello dell’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe, fece un solenne ingresso a Milano. L’arciduca fu chiamato a sostituire l’anziano feldmaresciallo Radetzky, che aveva cumulato negli anni precedenti i poteri civili e militari impersonando, tra il 1849 e il 1853, il volto più truce e spietato della dominazione austriaca.

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Ritratto di Ferdinando Massimiliano governatore del regno Lombardo Veneto (1832-1867). Dipinto di E. Heinrich

Massimiliano entrò in città accompagnato dalla moglie Carlotta di Sassonia Coburgo Saalfeld. I due sposi erano giovanissimi: l’arciduca aveva solo venticinque anni, la moglie diciassette. Il clima che si respirava in città non era tale da suscitare entusiasmi. La repressione militare di Radetzky seguita alla rivoluzione del 1848 era rimasta nella coscienza di molti come il duro segno dell’oppressione.

La nomina di Massimiliano a governatore fu l’estremo tentativo compiuto dall’Austria per ristabilire un dialogo con la società lombarda. Per la verità altri provvedimenti erano stati emanati negli anni precedenti per rasserenare il clima nel rapporto con i sudditi italiani. Varrà la pena ricordare la ricostituzione nel dicembre 1856 delle congregazioni centrali di Milano e Venezia: organi collegiali di rappresentanza a carattere per lo più consultivo che, previsti dall’ordinamento lombardo veneto fin dal 1815, erano stati aboliti dopo il 1848. Un’altra misura adottata dal governo imperiale nel segno della pacificazione era stata la cessazione dello stato d’assedio che Radetzky aveva introdotto durante la repressione militare: a partire dal primo maggio 1854 si era deciso il ripristino dei codici ordinari in sostituzione del giudizio statario (militare). Altri provvedimenti avevano avuto l’effetto di limitare il governo dell’anziano maresciallo. A confermare una netta svolta nella politica dell’Austria verso il Lombardo Veneto era stato inoltre l’annullamento del sequestro dei beni appartenenti ai patrioti italiani emigrati in Piemonte, sequestro che era stato deciso da Radetzky nel 1853 e aveva suscitato grande scalpore nell’opinione pubblica internazionale.

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Carlotta Maria Clementina Amalia, moglie di Ferdinando Massimiliano e figlia di Leopoldo I del Belgio (1840-1927)

Si capisce quindi come l’arrivo di Massimiliano nella città del Duomo fosse accolto con cauta benevolenza. La missione affidata all’arciduca dal governo di Vienna consisteva nel favorire il ristabilimento di quel clima di simpatia verso le istituzioni imperiali che la dura amministrazione della cricca militare aveva dissolto negli anni precedenti. Il governatore, che rilevava da Radetzky le sole funzioni civili mentre quelle militari restavano al generale ungherese Ferencz Gyulai, ebbe successo per un certo periodo. Le sale del palazzo reale di Milano e della Villa Reale di Monza furono aperte alle élites della società lombardo veneta senza distinzioni di sangue. Massimiliano chiamò inoltre a collaborare con le autorità esponenti della borghesia intellettuale che avevano partecipato alla stagione rivoluzionaria del ’48 o erano noti per il loro liberalismo. Allo storico e letterato Cesare Cantù, che dopo l’Unità sarebbe divenuto il primo direttore dell’Archivio di Stato di Milano, affidò la stesura di un ambizioso progetto di riforma degli studi commisurato alla realtà italiana, volto a ridurre gli elementi di germanizzazione allora esistenti nei programmi educativi. Valentino Pasini, uno degli uomini più rappresentativi della Venezia insorta nel 1848-49, fu chiamato ad elaborare uno studio sulle finanze lombardo venete; a Stefano Jacini, esponente della corrente lombarda liberal moderata, fu dato incarico di studiare la situazione in cui versava la Vatellina perché il governo austriaco potesse adottare provvedimenti adeguati onde risollevare l’economia di quel territorio. Seguirono provvedimenti importanti che portarono al potenziamento delle Accademie di Belle Arti  di Milano e Venezia; entrò in vigore una riforma dei medici condotti che permise un miglioramento delle condizioni in cui erano chiamati ad operare.

Nel breve periodo in cui fu governatore del Lombardo Veneto (aprile 1857-aprile 1859) Massimiliano però si spinse oltre e, violando le istruzioni ricevute dal fratello, elaborò un progetto di riforma costituzionale che avrebbe garantito al regno un’autonomia amministrativa fino ad allora sconosciuta. L’arciduca ambiva a divenire viceré di uno Stato il cui governo avesse poteri incisivi. Si trattava di un piano che si poneva verosimilmente all’interno di una riforma federale che Massimiliano caldeggiava per la monarchia austriaca nel suo complesso, ove gli Asburgo avrebbe potuto regnare lasciando alle comunità larghe autonomie territoriali. In tal modo l’arciduca contava di recuperare il consenso dei sudditi lombardo veneti, guadagnando all’Austria un sostegno nell’opinione pubblica che fino a quel momento era impensabile.

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L’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe (1830-1916) in un ritratto risalente al 1850.

Le speranze di Massimiliano andarono deluse. I suoi progetti furono respinti dall’imperatore Francesco Giuseppe, che restava legato a un modello di Stato assolutista e accentratore che riscuoteva larghi consensi nella corte di Vienna. L’arciduca si vide rifiutare dal fratello anche i poteri militari nel Lombardo Veneto, poteri di cui invece era stato investito il suo predecessore Radetzky. In una lettera del 26 dicembre 1858, ove era facile intuire un acceso confronto tra i due, Francesco Giuseppe scriveva al fratello:

Non posso esigere che tu sia d’accordo su tutto ciò che decido, ma devo essere sicuro che ciò che ho deciso venga eseguito con zelo, e che l’opposizione che tale decisione può suscitare non sia incoraggiata dalla credenza che tu pure non sei d’accordo colla direttiva mia. Ciò non esclude naturalmente il tuo diritto di farmi delle obiezioni su quel che non ti sembra atto allo scopo a cui si mira…

L’arciduca fece ritorno in Lombardia consapevole del fallimento del suo ambizioso programma riformatore. In realtà dietro la sconfitta di Massimiliano c’era la sconfitta politica dell’Austria, che nel Lombardo Veneto perdeva irrimediabilmente il sostegno di settori importanti della società. L’altra sconfitta, quella militare, sarebbe giunta di lì a poco nella seconda guerra d’indipendenza (maggio-luglio 1859).

Il Piemonte, ove il governo di Cavour aveva promosso in quegli stessi anni un imponente sviluppo economico, costituiva l’unica alternativa credibile per i liberali delusi dall’Austria. Il fallimento della politica di Massimiliano spianò la strada al programma nazionale del Piemonte sabaudo.

Il “sindaco della micca”: Gaetano Negri

Il 31 luglio ricorre l’anniversario della tragica scomparsa di un grande sindaco e intellettuale: Gaetano Negri (1838-1902). Traccerò un breve profilo di questa importante personalità della vita pubblica milanese nel XIX secolo. Un uomo che acquisì notorietà per essere stato un esponente di punta della Destra moderata lombarda.

Gaetano Negri nell'uniforme di tenente del Regio esercito
Gaetano Negri nell’uniforme di tenente del Regio esercito

Laureato in legge all’Università di Pavia, il giovane Negri si arruolò nel regio esercito pochi mesi dopo l’annessione della Lombardia al Piemonte sabaudo: inviato nel Meridione per reprimere il brigantaggio, si guadagnò due medaglie d’argento al valore, nel 1861 e nel 1862 per la determinazione e il coraggio con cui represse alcune bande di malviventi in Campania.

Tornato a Milano, lavorò come giornalista per il quotidiano moderato La Perseveranza, ove  pubblicò alcuni interventi afferenti alla geologia, alla cartografia, alla geografia: interessi scientifici che aveva coltivato negli anni universitari grazie all’amicizia con il celebre patriota e scienziato Antonio Stoppani.

Consigliere comunale dal 1873 al 1898, Negri rivestì per alcuni anni l’ufficio di assessore all’istruzione nella giunta del sindaco Belinzaghi (1873-1884) mostrando ottime doti di amministratore. Si deve a lui la realizzazione della riforma scolastica prevista dalla legge Casati che portò al pieno funzionamento degli istituti educativi in città. Tale impegno gli guadagnò vasti consensi presso l’opinione pubblica. Negri raggiunse tuttavia la popolarità quando divenne sindaco di Milano nel 1884 in sostituzione di Belinzaghi, costretto a dimettersi per il suo coinvolgimento nella messa a punto di un piano urbanistico (fortunatamente rimasto sulla carta) che prevedeva la demolizione del Castello Sforzesco e la costruzione di nuovi edifici, due operazioni atte a favorire la nascente speculazione edilizia. Il nuovo sindaco seppe conciliare le ragioni di chi voleva tutelare l’integrità del patrimonio storico urbanistico con le richieste che provenivano dagli imprenditori dell’edilizia; richieste che partivano dalle esigenze di costruire case in periferia per gestire l’aumento significativo della popolazione cittadina. Ricordiamo che tra il 1884 e il 1911 Milano passò da 260.000 a quasi 600.000 abitanti.

Progetto del piano Beruto 1884
Il progetto originario del Piano Beruto (1884)

Il primo gennaio 1886 fu approvato il piano dell’ingegnere Cesare Beruto, la cui versione definitiva presentava notevoli modifiche rispetto al progetto originario, assai più radicale. Ad esempio, la prevista copertura del naviglio interno in centro città venne bocciata dalla giunta Negri, orientata alla conservazione di un’infrastruttura che costituiva un segno insopprimibile dell’identità cittadina. Inoltre, se nel progetto originario si proponeva la costruzione di una piazza centrale ad ovest rispetto a piazza del Duomo, collegata con nuove arterie stradali che avrebbero spianato molti isolati del centro, alla fine si decise per una piazza ellittica (il Cordusio) allargando le strade esistenti e costruendo la sola via Dante fino al Castello. Nella piazza d’Armi tra il Castello e l’arco del Sempione l’architetto Alemagna costruì quello che sarebbe poi diventato il parco Sempione. Si evitò poi di demolire l’antico fortilizio accogliendo le sagge indicazioni di Luca Beltrami, che propose di restaurarlo e farne la sede delle maggiori istituzioni storico culturali della città. Dobbiamo ringraziare Negri e Beltrami se il Castello Sforzesco è giunto fino a noi.

Tra i pregi del piano Beruto, varrà la pena ricordare che era prevista la divisione del Comune in zone per la costruzione di edifici appartenenti allo stesso genere: via XX settembre, vicino a Cadorna e a piazza Conciliazione, fu terreno per le ville, mentre la zona compresa tra piazzale Baracca e il Parco Sempione fu riservata ad eleganti abitazioni signorili. Il quartiere di Porta Tenaglia, le zone dell’antico Borgo degli Ortolani e dei Corpi Santi di Porta Comasina (oggi vie Canonica, Bramante, Paolo Sarpi) furono invece destinate all’edilizia popolare.

Il senatore Gaetano Negri
Il senatore Gaetano Negri

Il nome di Negri è poi legato alla riforma amministrativa che portò alla definitiva fusione del Comune dei Corpi Santi con la città di Milano. Come ho ricordato in un precedente articolo, i Corpi Santi erano stati annessi a Milano con decreto reale del 1873. La città restava tuttavia divisa in due zone separate, regolate da norme fiscali e politico-amministrative che finivano per privilegiare il centro cittadino. Una realtà che traspariva ad esempio nella materia elettorale: negli anni successivi all’annessione, la città antica poteva eleggere 61 consiglieri comunali mentre la città nuova (i vecchi Corpi Santi) poteva esprimerne solo 19 nonostante contasse una popolazione decisamente superiore rispetto al centro. Negri ebbe il merito di rimediare in parte a queste ingiustizie. Grazie al suo impegno fu compiuta la piena unificazione elettorale del Comune.

Il sindaco non volle toccare invece il diverso regime fiscale esistente nelle due parti della città. Gli alimenti e le altre merci continuarono ad essere più costose dentro la cerchia dei bastioni. Lo sapevano bene i milanesi che, abitando in periferia, si recavano ogni giorno in centro per lavoro: quelli che, mossi dall’esigenza di risparmiare, si portavano il cibo da casa, erano costretti a pagare il dazio all’ingresso delle vecchie porte cittadine. Negri difese strenuamente questo regime fiscale, il che finì per alienargli il favore dei ceti popolari, oltre a suscitare numerose proteste. In questa circostanza il primo cittadino di Milano fu soprannominato ironicamente il “sindaco della micca”. Solo nel 1897-98 il Comune avrebbe realizzato finalmente la piena unificazione tributaria.

Costretto a dimettersi nel 1889 per le sue posizioni impopolari in merito alla citata questione daziaria, Negri fu nominato senatore l’anno seguente, carica che rivestì fino alla morte. Occorre tuttavia ricordare che il moderato lombardo nutrì nei confronti della politica nazionale una certa estraneità, non sentendosi portato alla vita parlamentare, agli equilibri tra i partiti, ai giochi di potere. Alla faziosità e ai proclami della politica preferiva l’impegno concreto nell’amministrazione locale, nella gestione del suo patrimonio immobiliare, nei suoi studi filosofici e letterari.

Lasciò la guida della Destra milanese all’industriale Giuseppe Colombo che in un commosso intervento tenuto nel 1908, a sei anni dalla morte, volle ricordare l’amico con queste parole:

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La tragica morte di Gaetano Negri da “Il Secolo Illustrato della Domenica”, 10 agosto 1902.

si ritrasse in disparte, come fanno ormai, in proporzione sempre più grande, molti spiriti eletti, disgustati dalla vita pubblica, dall’acerbità delle passioni di parte, dalla crescente insincerità della politica e dall’opportunismo invadente.

Ma il rifugio veramente caro al suo cuore era la sua casa; era il salotto in cui, attorno alla eletta famiglia che egli adorava e dalla quale era adorato, si riunivano periodicamente gli amici più intimi; era lo studiolo, lindo, semplice e chiaro, dove egli passava ore deliziose nei lavori a cui lo portava la natura del suo spirito geniale.

Gaetano Negri morì nel corso di un’escursione mentre si trovava in vacanza nella cittadina ligure di Varazze. 

“A comodo e ornamento” di Milano: la Galleria De Cristoforis

Nella prima metà dell’Ottocento le gallerie coperte, caratterizzate da eleganti soffitti in vetro, divennero frequenti in molte città europee. Erano passaggi che collegavano almeno due vie, al cui interno si affacciavano negozi, ristoranti, caffè, hotel. Milano, come ricorderò fra poco, non mancò di brillare con un’opera architettonica oggi purtroppo scomparsa.

Burlington Arcade
Burlington Arcade a Londra in una stampa ottocentesca

La prima galleria in vetro ad essere costruita fu la Burlington Arcade di Londra, opera dell’architetto Samuel Ware, tuttora esistente tra Piccadilly e Burlington Gardens, non molto distante da Buckingham Palace e Piccadilly Circus. Si tratta di un passaggio coperto che aprì al pubblico nel 1819 per iniziativa di Lord George Cavendish che aveva ereditato i terreni e le case della zona. Costruita per la vendita di gioielli e articoli esclusivi afferenti alla moda, la galleria è lunga 161 metri. In origine era costituita da 72 negozi distribuiti in due piani.

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Galierie Vivienne a Parigi

Pochi anni dopo, nel 1823, l’architetto Francois Jean Delannoy ricevette l’incarico di costruire una galleria vetrata nel centro di Parigi, a pochi passi dalla Borsa, dal Palazzo Reale e dai Grand Boulevards. Anche qui la finalità risiedeva essenzialmente nell’offrire alla nobiltà e alla ricca borghesia cittadina un punto esclusivo di ritrovo su cui si affacciassero negozi, ristoranti e i caffè più esclusivi. Anche questa galleria esiste ancora oggi. Gli ingressi sono da rue des Petit-Champs, rue de la Banque e rue Vivienne. La Galerie Marchoux, denominata poi Vivienne, è lunga 176 metri e larga appena tre.

La prima galleria coperta costruita a Milano, la Galleria De Cristoforis, presentava nella sua struttura alcune caratteristiche presenti nei casi appena richiamati; fu aperta nel 1832 su iniziativa dei fratelli Giovanni Battista e Vitaliano De Cristoforis che, acquistate le case poste tra gli isolati dell’ultimo tratto della corsia dei Servi (oggi corso Vittorio Emanuele II) e di via Monte Napoleone, intendevano donare alla città un monumento – come recitava l’iscrizione posta in uno dei tre ingressi – “a comodo ed ornamento della patria”. I lavori, affidati all’architetto Andrea Pizzala, furono condotti da 450 operai che li portarono a compimento entro l’anno. La galleria somigliava alla Galerie Vivienne di Parigi: lunga 110,67 metri, larga poco più di 4, aveva un ingresso da corsia dei Servi ove il passaggio si allungava in un lungo rettilineo fino a dividersi in due bracci: a sinistra verso via San Pietro all’Orto, a destra verso via Monte Napoleone. Come la londinese Burlington Arcade, anche la Galleria De Cristoforis ospitava una settantina di negozi.

L’estensore di una guida di Milano pubblicata nel 1838 informava i turisti che nella Galleria si trovavano un caffè, un lussuoso albergo, trenta appartamenti, alcuni spazi espositivi di porcellane e bronzi dorati:

DeCristoforis4Fu di recente eretta la Galleria e Cristoforis e porta il nome di una benemerita famiglia milanese, che distinta già nelle lettere e nelle scienze aggiunse con questo edificio nuovo lustro a Milano…settanta botteghe ed altrettanti magazzini superiori compongono la galleria oltre una spaziosa bottega da caffè al punto centrico dei bracci. Rimarchevoli sono i depositi delle porcellane lombarde del nobile Tinelli, e dei bronzi dorati di Aubry e Ronchi. Il fabbricato interno unito alla galleria comprende circa trenta appartamenti oltre il nuovo albergo Elvetico che gareggia nel lusso cogli altri primari, ma di fresca data, non ha ancora quella rinomanza che giustamente merita. [Guida di Milano in otto passeggiate, 1838. Nuova edizione Milano, Il Polifilo, 2005, pp.27-28].

La “spaziosa bottega” menzionata nella guida era il caffè del signor Teodoro Gottardi, la cui proprietà sarebbe passata alla metà dell’Ottocento a Baldassarre Gnocchi. In un album dal titolo Milano illustrata, risalente al 1850, il caffè Gnocchi era così descritto:

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Il Caffé Gnocchi in Galleria De Cristoforis in una stampa ottocentesca

Taluni siedono su gli scranni dell’elegante caffè che si affaccia di prospetto alla Galleria ed abbraccia tutte le sale dell’ala che mette alla contrada del Monte. Un tempo questo caffè era quasi deserto; ma ora mercé l’ottimo e decoroso servigio che somministra il Gnocchi, fa sì che da alcuni anni vedesi assai frequentato…le sale del caffè sono bene addobbate…qui crocchi di vecchi che parlano d’affari e d’antiche reminiscenze, là giovani che discorrono di novità, di avventure galanti, di matrimoni,di teatri, di cantanti, di ballerine…

Al Caffè Gnocchi si ritrovarono, negli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia, i poeti del celebre sodalizio letterario della Scapigliatura: Emilio Praga, Eugenio Bermani, Luigi Conconi, Iginio Ugo Tarchetti.

Nei cento anni della sua esistenza (la galleria venne demolita negli anni Trenta del XIX secolo), molti negozi aprirono in questo elegante e riservato salottino milanese. Varrà la pena ricordare la profumeria Dunant, che attirava i visitatori con un’abile disposizione di specchi tesi a produrre riflessi bizzarri. Inoltre, tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento, nella galleria aprì la famosa libreria fondata da Ulrico Hoepli. A quell’epoca c’era anche un cinematografo, il Volta.

Cesare Cantù
Cesare Cantù (1804-1895)

Tornando alle origini della galleria De Cristoforis, occorre tener presente che la sua posizione, vicino a piazza San Babila, suscitò alcune perplessità nei contemporanei. Alcuni ritenevano opportuno costruire una galleria in posizione più centrale. Nei volumi Milano e il suo territorio pubblicati nel 1844 in occasione del congresso degli scienziati italiani, il celebre storico Cesare Cantù riteneva ad esempio che un passaggio coperto tra piazza del Duomo, via Santa Margherita e piazza San Fedele avrebbe attirato un maggior numero di visitatori rispetto alla galleria De Cristoforis, che appariva troppo defilata. Cantù espresse comunque i suoi apprezzamenti verso la nuova opera, simbolo di una Milano ricca e intraprendente:

Capitali, industria, coraggio sono tre elementi della prosperità materiale di un paese: e tutt’e tre potrebbero dirsi simboleggiati nella Galleria De Cristoforis, primo di tal genere in Italia, che una privata famiglia osò intraprendere a comodo ed ornamento della patria…

Avrebbe incontrato miglior fortuna se si fosse potuto collocare allato al Duomo, sicché mettesse in Santa Margherita con un braccio, coll’altro a San Fedele; ma la scelta dei luoghi non è sempre in arbitrio deg’intraprenditori, come la destinazione delle fabbriche fa dagli architetti sagrificar parte del bello.

Esternamente presentasi come un’ampia casa a tre piani, colla facciata adorna di stipiti marmorei, e di ferro fuso sì i fregi che il parapetto dei terrazzini, tre porte introducono ad un vestibolo quadrilungo, adornato dalle statue di Marco Polo, Flavio Gioia, Colombo e Vespucci, lavoro di Puttinati. Ne parte la via vetriata…che all’estremo dilatasi in un atrio ottagono, di fronte al quale s’apre un ben inteso caffè.

Ventitre anni dopo, il 15 settembre 1867, veniva inaugurata la Galleria Vittorio Emanuele II tra piazza Duomo e piazza della Scala: non era propriamente l’idea del Cantù ma l’opera architettonica, a pochi passi dalle vie che  aveva suggerito, sarebbe stata destinata a miglior fortuna. In breve tempo i negozi più esclusivi fecero a gara per stabilirsi nella nuova galleria mentre la vecchia decadeva lentamente ma inesorabilmente. E’ significativo che la guida in francese del 1906, pubblicata dal Comune per i turisti stranieri che accorrevano a Milano per l’Esposizione internazionale di quell’anno, dedicasse largo spazio alla nuova opera architettonica mentre era assente qualsiasi riferimento alla galleria De Cristoforis.

La nuova Galleria si discostava sensibilmente dalla sua “progenitrice” per le dimensioni imponenti della struttura, il cui stile obbediva a una finalità educativa tesa ad esaltare gli ideali politici dello Stato nazionale monarchico costituito nel 1861.  Questo sarà argomento per un altro articolo del Monitore.

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Il Freyung Passage a Vienna

Più semplice e dimesso, legato ai fini commerciali di una borghesia lombarda sensibile al decoro pubblico, era stato per converso lo spirito informatore con cui i fratelli De Cristoforis avevano costruito la loro galleria trent’anni prima. Un’opera che divenne in breve tempo uno degli esempi più significativi di passaggi coperti. Essa continuò ad influenzare in modi diversi l’architettura europea del XIX secolo: dalle Galeries Royales Saint Hubert di Bruxelles (1846) al Passage sulla Nevsky Prospekt di San Pietroburgo (1848). Occorre ricordare infine il Freyung Passage di Vienna, costruito nel 1860.

Una grande istituzione milanese: il Teatro alla Scala

Il 15 luglio 1776 l’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo approvò il progetto dell’architetto Giuseppe Piermarini per la costruzione di un teatro di corte nel luogo in cui si trovava l’antica chiesa di Santa Maria della Scala.

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Marc’Antonio Dal Re, Festa in Teatro Ducale del Governatore Pallavicini per la nascita dell’arciduca Pietro Leopoldo nel 1747

Da cinque mesi Milano era sprovvista di un luogo in cui potesse riconoscersi la colta società cittadina. Il vecchio teatro ducale, un suntuoso edificio comprendente 800 posti che si trovava in un’ala del palazzo del governatore (oggi Palazzo Reale) era stato distrutto da un incendio il 26 febbraio. Incendio che, oltre a rendere inagibili per alcuni anni le stanze della residenza di corte costringendo gli arciduchi a traslocare nel palazzo Clerici, aveva privato la città di un teatro importante, che era stato costruito nel 1725 con i fondi del patriziato milanese.

L’imperatrice Maria Teresa ordinò la pronta costruzione del nuovo edificio: i lavori, iniziati il 5 agosto 1776 con la demolizione della chiesa scaligera, terminarono due anni dopo. Il 3 agosto 1778 il Teatro alla Scala apriva al pubblico con l’opera in due atti l’Europa riconosciuta di Antonio Salieri. Furono inoltre eseguiti due balletti, uno a metà dell’opera, l’altro al termine.

Qual era il normale allestimento dello spettacolo in un teatro del Settecento? Anzitutto non dobbiamo pensare che vi fosse un direttore e che l’orchestra fosse nascosta, al di sotto del palco, come avviene oggi. Queste furono invenzioni del compositore, poeta e musicista tedesco Richard Wagner (1813-1883) che vennero introdotte progressivamente nei teatri europei verso la fine dell’Ottocento.

Nel XVIII secolo l’orchestra era situata sul palco ove si svolgeva la scena principale. Allo spettacolo principale (commedia o melodramma) era affiancata l’esecuzione di scene mute nei palchi situati ai lati. Il melodramma poteva essere intervallato da balletti.

Scrisse Montesquieu in un passo delle Lettere persiane (pubblicate nel 1721) ove descriveva una rappresentazione  teatrale all’Opera di Parigi:

Montesquieu
Charles Louis Secondat barone di Montesquieu

La gente verso la fine del pomeriggio si raduna per fare una specie di recita che ho sentito chiamare commedia. L’azione principale si svolge su una scena che si chiama teatro. Ai due lati, in certi piccoli ridotti, che si chiamano palchi, si vedono degli uomini e delle donne che rappresentano insieme delle scene mute… Qui c’è un’amante afflitta che esprime il suo abbattimento; un’altra con occhi vivaci e aspetto appassionato, divora con gli occhi il suo amante, che la guarda allo stesso modo; tutte le passioni sono dipinte sui visi ed espresse con un’eloquenza che, essendo muta, è ancora più viva.

Gli spettacoli teatrali nella Milano settecentesca non dovevano essere molto diversi da quelli descritti da Montesquieu.

Ma torniamo a quel 3 agosto 1778, giorno dell’inaugurazione del teatro alla Scala. La Gazzetta di Milano, nel descrivere l’entusiasmo con cui i presenti avevano assistito allo spettacolo, non mancò di accennare alla grandiosa architettura del teatro, soffermandosi in particolar modo sull’impegno con cui le famiglie milanesi, proprietarie dei palchi, avevano contribuito a rendere memorabile quella serata addobbando gli ambienti con mobili e oggetti lussuosi. Anche l’impresa teatrale aveva arredato sontuosamente i ridotti, le stanze ove si praticava il gioco d’azzardo. A quell’epoca l’impresa teatrale era stata appaltata dallo Stato ad alcuni nobili milanesi. Dal 1776 vi facevano parte il conte Carlo Ercole Castelbarco Visconti, il marchese Antonino Menafoglio, il marchese Bartolomeo Calderara amico intimo di Cesare Beccaria, il marchese Giacomo Fagnani. L’impresa curava l’amministrazione del teatro vendendo i posti accessibili al pubblico, curando lo smercio delle bevande, allestendo i tavoli per il gioco d’azzardo.

Sulla Gazzetta di Milano si leggeva questo resoconto pochi giorni dopo l’inaugurazione:

Nella sera di Lunedì scorso giorno 3 del corrente, giusta quanto erasi già da due mesi annunciato, si fece l’apertura di questo nuovo Regio Ducal Teatro colla prima rappresentazione intitolata L’Europa riconosciuta in due Atti…

Non potevasi con pompa maggiore solennizzare un’Epoca di simile pubblica allegria in questa Città. E ben lo meritava la grandiosità, e magnificenza dell’Edificio disegnato ed eretto dal Regio Professore ed Architetto Signor Don Giuseppe Piermarini, il quale mediante il favore di Sua Altezza Reale il Serenissimo nostro Arciduca [l’arciduca Ferdinando di Asburgo Lorena, figlio di Maria Teresa, governatore della Lombardia] e la splendidezza de’ Proprietari de’ Palchetti, lo seppe rendere in questo genere il migliore forse d’Europa.

Frontispizio, solidità, forma, compartimento, grandezza, comodi, ornamenti, proporzione, risonanza, visuale, tutto in esso è ammirabile, tutto grandioso, tutto il meglio all’uso adattato. Corrispondente a sì bella fabbrica è pure il lusso ed il buon gusto, con cui, e ciascun Particolare adornò il proprio Palchetto e la nobile Associazione della teatrale impresa sfoggiò negli ornati e ne’ mobili delle vaste Sale de’ Ridotti; onde senza esagerazione potrebbe assicurarsi non ritrovarsi altrove un pubblico luogo da potersi a questo in ricchezza e beltade uguagliare.

L’apertura di un tal Teatro: il Dramma di composizione nuovo, di genere inusitato: la prima rappresentazione, che da’ nobili Associati dopo l’impegno da loro assunto si esponeva: la notorietà del dispendioso apparecchio, che da lungo tempo questi facevano, erano motivi, che tanto avevano l’universale aspettazione ingrandito, che credevasi difficile il poterla bastantemente appagare. Con tutto ciò lo Spettacolo ebbe un felicissimo incontro, ed il Pubblico restò soddisfatto…

In realtà, l’architettura del teatro sollevò alcune perplessità nei contemporanei. Pietro Verri, in una lettera al fratello Alessandro scritta nel luglio 1778, ammise la sua delusione per la mole dell’edificio il cui loggiato, distaccandosi dalla facciata per consentire il passaggio delle carrozze, spezzava a suo giudizio l’armonia complessiva della fabbrica. Bisogna tener presente che allora non esisteva piazza della Scala, che fu costruita nel 1858 mediante l’abbattimento delle case tra palazzo Marino e il teatro. Verri, passeggiando in via Santa Margherita, non disponeva quindi di spazio sufficiente per ammirare la facciata nella sua interezza, il che finiva per rendergli sproporzionata la mole dell’edificio rispetto all’asse della strada. Verso la fine della lettera, l’illuminista lombardo accennava curiosamente  a “un casotto”, termine con cui si riferiva al tetto, eccessivamente alto.

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Un particolare del quadro di Angelo Inganni, La facciata del Teatro alla Scala, 1852

La facciata del nuovo teatro è bellissima in carta, e mi ha pure sorpreso quando la vidi prima che si mettesse mano alla fabbrica; ma ora quasi mi dispiace. Nel disegno tu vedi la facciata come una sola superficie, nella esecuzione sono tre pezzi. Il portico di bugne si avanza molto, e servendo al passaggio delle carrozze che vanno al teatro ti copre e offusca parte dell’edificio. Se ti scosti poi per vedere scemata la deformità, ti spunta un casotto in cima alla facciata che è poi il tetto assai alto.

Mi chiedo cosa direbbe oggi Pietro Verri se vedesse la colossale torre scenica a forma di cubo o l’edificio a pianta ellittica: due recenti costruzioni che troneggiano sopra il vecchio tetto del teatro.