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I quartieri popolari nella Milano del 1881

In un volumetto pubblicato dall’editore Vallardi in occasione della Esposizione Nazionale del 1881, un articolo intitolato “La vita intima” presentava uno spaccato interessante della vita quotidiana dei milanesi.

L’autore, Giuseppe Sacchi (1804-1891), fu un educatore e uno studioso particolarmente conosciuto al suo tempo. Varrà la pena ricordare a tal proposito il ruolo decisivo ch’egli assunse negli anni Trenta dell’Ottocento, quando si fece promotore dei primi asili regolati secondo i principi pedagogici di Ferrante Aporti. Negli anni Cinquanta  s’impegnò a garantire l’intervento dello Stato asburgico nel campo delicato dell’educazione infantile e popolare. Funzionario integerrimo, ebbe dal governo austriaco la medaglia d’oro al merito civile per la sua opera indefessa a sostegno dei disagiati. Sacchi era anche conosciuto per aver diretto, sempre negli anni Cinquanta, gli Annali Universali di Statistica, la celebre rivista di economia su cui avevano scritto economisti quali Melchiorre Gioja, Gian Domenico Romagnosi, Carlo Cattaneo. Nel 1860, un anno dopo la liberazione di Milano dal dominio asburgico, fu nominato prefetto della Biblioteca Braidense. Educatore e pubblicista, uomo di profonda cultura, fine conoscitore della società milanese,  il Sacchi era stimato per il suo impegno a sostegno delle classi disagiate.

Ma torniamo al 1881, l’anno dell’Esposizione Nazionale, quando il Sacchi scrisse l’articolo da cui abbiamo preso le mosse. L’anziano studioso conduceva un’analisi delle classi sociali milanesi, svolgendo una similitudine tratta dalle scienze fisiche che mostrava l’influenza del positivismo allora dominante. Come nella composizione del sottosuolo, egli notava che la cittadinanza era divisa in tre classi sociali:

E’ questo uno studio quasi geologico. La composizione demografica di Milano, può dirsi che presenti tre grandi strati. Nel primo strato ove i geologi sogliono scoprire la sede del quarzo e del granito sotto cui cova il fuoco di un perenne vulcano, noi riscontriamo quella parte del nostro popolo che una volta chiamavasi plebe. Caratteri granitici che resistono contro chi tenta opprimere, e tempre ad un tempo vulcaniche le quali si muovono e si commuovono ad ogni alito di novità: quest’è l’indole caratteristica del vecchio popolo ambrosiano. 

[G. Sacchi, La vita intima in Vita Milanese, Vallardi editore 1881, pp.77-96]

Sacchi, proseguendo nella similitudine, enunciava poi le altre classi sociali milanesi (la classe media e la nobiltà) su cui non mi soffermo in questa sede.

Credo invece di grande interesse le riflessioni di Sacchi sul popolino ambrosiano, i cui insediamenti nel nucleo della città antica (oggi coincidenti con il centro storico, zona 1) erano individuati in tre zone. Nel 1881 le umili classi lavoratrici non avevano mutato la loro esistenza secolare nei quartieri di Porta Tosa (inclusa nel sestiere di Porta Orientale), di Porta Garibaldi (ex Porta Comasina) e Porta Ticinese. A colpire era la specializzazione di queste fasce di popolazione. Sacchi tralasciava di prendere in esame il quartiere di Porta Garibaldi ove sappiamo che vivevano, almeno fin dal XVIII secolo, tante famiglie di muratori e manovali. Nel suo intervento egli descrisse invece il popolino di Porta Tosa (oggi Porta Vittoria) e Porta Ticinese. A Porta Tosa abitavano tanti commercianti attivi nel mercato delle verdure:

Verziere Angelo Inganni
Il Verziere in un dipinto di Angelo Inganni risalente al primo Ottocento

La popolazione di Porta Tosa che ha per centro il Verziere (l’antico viridarium vescovile) è tutta dedita alla vita del comprare e del rivendere le cose mangerecce. Essa attende al mercato omnigeno di ogni grazia di Dio, e vive tutto il dì sulle piazze, si ciba alle taverne, e solo di notte si ritira ai suoi abitacoli che li chiama essa stessa i suoi pollai.

Seguivano alcune preziose riflessioni sul popolino di Porta Ticinese. Qui però il Sacchi mostrava di riferirsi a uno spazio esteso, includendo rioni del centro che erano compresi per converso nei sestieri di Porta Vercellina e di Porta Romana. Basandosi sul tracciato secolare del Naviglio Interno, l’anziano studioso prendeva in esame una zona che andava dal ponte di San Vittore (ove oggi si trova la pusterla di Sant’Ambrogio) al ponte di Porta Romana.

La vita intima del popolo è di preferenza concentrata nel vecchio quartiere di Porta Ticinese. Tutta questa parte della città che si distende dal sud al sud ovest, e si allarga a modo di un ventaglio dal Ponte di Sant’Ambrogio per San Vittore sino al Ponte di Porta Romana e fa centro a San Giorgio in Palazzo, raccoglie quasi un terzo della popolazione di Milano.

Ai lavoratori di Porta Ticinese erano riservate le analisi del Sacchi. Stando alle sue considerazioni, nel 1881 ancora esistevano due delle tre anime popolari del quartiere. La prima era costituita dai falegnami, dai lavoratori di marmi e di ferro le cui officine si trovavano nei quartieri di Cittadella e Viarenna: il Naviglio Interno sembrava delimitare e caratterizzare questo insediamento di lavoratori, le cui officine confinanti con il canale si estendevano dal ponte delle Pioppette a quello dei Fabbri.

Al di là del Naviglio Interno, ove oggi si trovano le vie Vettabbia e Santa Croce, c’era l’altra anima del quartiere: si trattava dei lavoratori specializzati nella tessitura e nella tintura della seta. Il Sacchi individuava 500 famiglie chiamate, con un’espressione che lasciava trapelare un certo affetto, “il nostro piccolo Lione: un popolo di operai onesti, educati e gentili, che sentono più che mai la loro morale dignità”.

Vetra nel primo Ottocento2
Piazza della Vetra in un dipinto del primo Ottocento

Il terzo insediamento di operai era scomparso da tempo quando scriveva il Sacchi. Egli tuttavia volle ricordarlo perché la città non dimenticasse la sua storia. Si trattava del quartiere della Vetra, dietro la chiesa di San Lorenzo, ove nel primo Ottocento erano attive sedici concerie che, servendosi delle acque della Vettabbia, “lavoravano più di settecentocinquantamila pelli fornite da 94 macellerie”: un quartiere malfamato ove imperversava la delinquenza. La zona aveva tuttavia un suo fascino singolare. Le numerose abitazioni, formate al loro interno da loggiati di legno, erano abitate da tante famiglie povere. Credo sia opportuno riportare integralmente le parole con le quali il Sacchi ripercorreva la storia della Vetra, luogo di miserie e atrocità. Qui fu operante per secoli, nella Milano d’antico regime, il patibolo ove venivano eseguite le condanne a morte per impiccagione riservate ai criminali delle classi popolari:

Il terzo alveare, ormai disfatto, è posto nel centro di questa civica regione alla piazza della Vetra. Su questa piazza, che sorge a tergo del Tempio di San Lorenzo, si alzava una volta l’infame patibolo, ed era il campo scellerato della città. Fra quallidi strati di macerie spuntavano qua e là poveri steli di erbacce che porgevano di primavera un magro pascolo a branchi di capre che ci davano un latte medicinale. In mezzo a quegli sterpi sorgeva un misero tronco di pietra, ove su una lastra metallica vedevansi dipinte fra le fiamme immagini umane col capestro al collo o colla testa sanguinolenta e recisa, coll’iscrizione espiatoria: pregate per i poveri giustiziati. Il popolo ambrosiano a canto alla Giustizia ha sempre voluto porre la Misericordia.

Quella località rassomigliava di notte alla famosa Corte dei miracoli stupendamente descritta da Victor Hugo nel suo romanzo Notre Dame. In certe luride taverne poste lungo questa piazza si ritraevano ai loro serali bagordi più di mille accattoni che qui noleggiavano all’incanto i veri ed i finti ciechi per condurli di giorno a limosinare.

Mercato latticini piazza vetra
Il mercato dei latticini in piazza Vetra in un’incisione di fine Ottocento

Nel 1881 tutto era scomparso. Non rimaneva più nulla di questi tristi bassifondi. Come ricordava Giuseppe Sacchi, la copertura della Vettabbia dietro San Lorenzo e la costruzione di alcuni edifici avevano contribuito a migliorare notevolmente la vita del quartiere. Al posto delle sozze concerie sorgevano due case ove si teneva un affollato mercato di latticini, erbe e frutta.

La famiglia nella Milano ancien régime

Il tema della famiglia è tornato al centro dell’attenzione. Oggi tenterò di svolgere alcune riflessioni sulla famiglia nella Milano d’ancien régime. Qual era il suo significato nella società milanese e più in generale nella società europea dei secoli passati? Di certo la famiglia era a quei tempi qualcosa di diverso. Oggi siamo alle prese con due dati su cui riflettere. Da un lato la presenza dei single, che costituisce a Milano un dato assai più elevato rispetto alla media nazionale. Dall’altro la precarietà delle famiglie: il legame matrimoniale molte volte si spezza dopo pochi anni per le ragioni più svariate.

In età medievale e in età moderna (almeno fino al Settecento avanzato) la famiglia era un’istituzione stabile che rivestiva un ruolo assai più importante nella comunità cristiana. Per comprenderne le complesse dinamiche, dobbiamo pensare che in quel periodo non esisteva la separazione tra pubblico / privato tipica delle società borghesi dell’Otto-Novecento.

A quei tempi non esisteva neppure la moderna separazione tra Stato e Società, tra area ove si esplicano le istituzioni pubbliche culminanti nello Stato e area ove si confrontano i cittadini e le associazioni private in un regime di libera competizione soggetto alle norme del diritto civile. Potremmo dire in altri termini che nel Medioevo e nella prima età moderna queste due aree erano confuse. Solo a seguito del costituzionalismo rivoluzionario di ascendenza francese, a partire dalla fine del Settecento, iniziò ad affermarsi sul continente – quindi anche a Milano – un nuovo sistema che, con l’abolizione degli ordini e delle corporazioni, segnò la divisione tra cittadini titolari di diritti soggettivi e lo Stato di diritto fondato sui principi dell’eguaglianza e dell’impersonalità della legge. Nella società milanese d’ancien régime, almeno fino alla metà del Settecento, non era così. Non esisteva mobilità sociale che non fosse inquadrata all’interno di un ordine cui gli individui appartenevano fin dalla nascita.

Le famiglie patrizie traevano legittimazione dalla secolare presenza dei loro esponenti nelle istituzioni pubbliche del ducato e della città di Milano. Era assente quindi una sfera privata distinta da una sfera pubblica perché la famiglia non era relegata a una dimensione privata come tende ad avvenire nelle società contemporanee. La famiglia patrizia era una vera e propria istituzione, la cui appartenenza costituiva per i giovani una delle condizioni irrinunciabili per accedere al Collegio dei Nobili Giureconsulti in piazza Mercanti. Si trattava del celebre vivaio di dottori in legge chiamati a rivestire uffici importanti nella pubblica amministrazione dello Stato di Milano tra Cinque e Settecento. Scriveva il giureconsulto Bartolomeo Taegio nell’opera Il Liceo pubblicata nel 1571 che al Collegio non si poteva accedere

senza legittima prova della chiarezza e antiquità del sangue, della eccellenza della dottrina e della bontà dei costumi, così del candidato come del padre suo. Onde per la grande diligenza e sottile investigazione ch’usano i protettori dell’ordine nostro per sostegno e diffesa dell’onore del Collegio, si può concludere ch’el domandar il Collegio di Melano [Milano] non sia altro che sottoporsi voluntariamente ad un sindicato di grandissima importanza, dal quale chi ne riesce con lode, passando per li debiti mezzi, si può dire veramente nobile.

[B. Taegio, Il Liceo. Dove si ragiona dell’ordine delle accademie e della nobiltà, Tini, Milano, 1571, pag.57].

In una comunità per ceti fondata non sulla ricchezza ottenuta nel libero gioco del mercato di beni materiali, bensì sulla funzione sociale svolta da ciascun ordine e corporazione, le famiglie contavano nella misura in cui erano inserite in una fitta trama di relazioni che, salendo per gradi, investiva le supreme funzioni pubbliche.

La regola in base alla quale la vita familiare dei sentimenti deve essere confinata entro le mura domestiche e va rigidamente separata dalla vita lavorativa condotta fuori dalla casa, nel “libero” gioco del mercato, nasce e si afferma nelle società otto-novecentesche quando la famiglia ha ormai perso quella funzione pubblica che aveva rivestito per secoli. Nel Medioevo e nell’ancien régime tale norma di condotta non esisteva. A ben vedere essa è sconosciuta tuttora nel mondo delle aziende di famiglia.

Se questa era la struttura della famiglia nella Milano dell’antico regime, si capisce come i rapporti tra i suoi membri fossero alquanto diversi rispetto ad oggi. La sfera dei sentimenti aveva meno spazio. Le famiglie erano costituite da una prole numerosa per far fronte ai danni della mortalità infantile; erano composte non solo dai figli e dai nipoti, ma anche dai servi le cui famiglie avevano lavorato per generazioni nei possedimenti dei padroni.  A dominare era la figura del pater familias, del padre di famiglia, il quale reggeva il governo della casa. Nelle famiglie nobili e in quelle dell’alta borghesia, l’educazione dei figli era affidata a precettori privati. Il più delle volte si ricorreva tuttavia agli ordini religiosi: i rampolli della nobiltà frequentavano i prestigiosi collegi diretti dai Gesuiti; per le altre famiglie si ricorreva all’insegnamento di altri ordini, come ad esempio i Barnabiti. Alla donna era assegnata la cura della casa e il compito primario di generare i figli. Questa era la natura delle famiglie, ove potremmo dire che il ruolo pubblico assorbisse in larga parte la sfera privata dei sentimenti, quasi inesistenti.

A Milano tale situazione cambiò nel corso del Settecento ad opera delle riforme illuminate di Maria Teresa e Giuseppe II: le riforme accentrarono progressivamente nello Stato assoluto burocratico le funzioni pubbliche che le famiglie del patriziato avevano esercitato per secoli nelle tradizionali istituzioni della città e del ducato. Di qui ebbe inizio quella tendenza che vide la famiglia restringersi sempre più in un privato fondato unicamente sul benessere e sulla felicità individuale, mentre l’attività lavorativa in capo ai singoli individui, staccati dai corpi di appartenenza, fu chiamata ad agire sempre più in un libero mercato sottoposto alla vigilanza dello Stato assoluto.

La mentalità era molto diversa rispetto ai nostri tempi. I celibatari, coloro che restavano single – diremmo oggi – per un calcolo di autosufficienza, non a seguito di una vocazione religiosa, venivano spesso fatti oggetto di riprovazione sociale.

Del tutto indicativa la posizione di Cesare Beccaria. Nelle lezioni di economia pubblica tenute tra il 1769 e il 1773 presso le Scuole Palatine di Milano, l’illuminista lombardo tesseva una lode nei confronti delle famiglie numerose. I suoi elogi andavano a quanti lavoravano per rendersi utili alla collettività. Una famiglia numerosa era ben vista da Beccaria perché rientrava in un piano teso a rafforzare la potenza dello Stato mediante l’aumento di una popolazione la cui forza lavoro sarebbe andata a beneficio della monarchia. Il che, beninteso, era in linea con analoghe teorie diffuse dai mercantilisti e dagli economisti europei tra Sei e Settecento. Al contrario, il nobile rimasto celibe era da riprovare perché viveva nell’ozio della sua rendita terriera senza produrre alcunché di concreto per la comunità.

Assai efficace il commosso ritratto che Beccaria tracciava dell’umile famiglia di un artigiano:

Oh umile padre di famiglia; oh, artigiano incallito nell’affumicata tua officina, io rispetto il tuo rozzo abituro: egli è il tempio dell’innocenza e dell’onestà. Quando, tergendo il sudore della fronte, dividi un ruvido pane a’ tuoi figli, ai figli dell’industria e della patria, che levano le tenere loro mani per ricercartelo; quando io contemplo l’amorosa sollecitudine della tua fedele compagna, acciò la semplicità del governo tuo domestico ti sia leggera ed utile, allora io mi risveglio dall’ammirazione che in me destava la contemplazione del sequestrato cenobita, che ha saputo trionfare della natura e della società, che con sì potenti inviti a sé lo richiamavano.

[Cesare Beccaria, Scritti economici, a cura di Gianmarco Gaspari, Edizione Nazionale delle Opere di Cesare Beccaria, vol.III, Milano, Mediobanca 2014, pp.140-141]

 

Sant’Aquilino e i facchini della Balla

Il 29 gennaio è il primo giorno della Merla. E’ anche il giorno in cui si ricorda Sant’Aquilino, predicatore di origine tedesca morto a Milano all’incirca nel 1015 a seguito di un attentato da parte di alcuni eretici. Il suo corpo, ritrovato da un gruppo di facchini nel sestiere di Porta Ticinese, non lontano dalla chiesa di Sant’Alessandro, venne sepolto nella basilica di San Lorenzo.

Dal Medioevo fino alla fine del Settecento i milanesi erano soliti ricordare Sant’Aquilino con una processione. Si trattava di un evento allestito dalla corporazione dei facchini della Balla, che sfilava per le strade che oggi fanno parte di via Torino: partendo dalla chiesa di Sant’Ambrogio alla Palla – che si trovava in zona San Maurilio – terminava nella basilica di San Lorenzo. I facchini donavano al parroco una baga, vale a dire un otre contenente 50 kg di olio purissimo che serviva ad alimentare per tutto l’anno la lampada votiva nella cappella del santo.

Ma chi erano questi facchini che sfilavano per le vie del sestiere di Porta Ticinese? Può sembrare strano ma si trattava di persone non milanesi. Erano montanari che, giunti a Milano in cerca di lavoro, lo avevano trovato specializzandosi in questo mestiere. Provenivano in larghissima parte dalla Val di Blenio, antico dominio lombardo in Canton Ticino compreso tra il passo Lucomagno e Biasca. Nel Seicento si aggiunsero alcune famiglie provenienti dalla Valle Intrasca, un territorio anch’esso soggetto anticamente al dominio milanese, situato nell’attuale provincia di Verbano Cusio Ossola.

Giovanni Paolo Lomazzo
Giovanni Paolo Lomazzo (1538-1592)

La corporazione dei facchini fu costituita in epoca medievale. Essa acquisì una certa popolarità nella vecchia Milano specializzandosi nell’arte della lana e del facchinaggio. Nel 1560 venne fondata addirittura un’accademia poetica che si ispirava ai facchini: i membri scrivevano e recitavano poesie nella lingua di questi poveri lavoratori. Varrà la pena ricordare che il celebre pittore milanese Giovanni Paolo Lomazzo fu tra i fondatori di questa accademia. A carnevale si tenevano le “facchinate”, vale a dire le sfilate di questi poeti che amavano spacciarsi per i facchini della Balla.

Ma torniamo alla corporazione vera e propria. Essa aveva sede in via della Palla (oggi la parte di via Torino compresa tra la chiesa di San Sebastiano e la via dei Piatti), in un portico tra le attuali vie San Maurilio e Valpetrosa. In questa zona si svolgeva, tre volte alla settimana, un mercato di polli, oli e latticini. I facchini erano al servizio della nobile famiglia dei Pusterla, il cui palazzo si trovava non molto distante, nel vicolo omonimo, tuttora esistente, vicino a piazza Sant’Alessandro. Secondo la tradizione milanese, furono i facchini a trovare il cadavere di Sant’Aquilino in una fogna e a trasportarlo nella vicina chiesa di San Lorenzo. Di qui ebbe origine la processione e il rito dell’otre d’olio.

La soppressione della corporazione, avvenuta alla fine del Settecento, non portò alla scomparsa di questa maestranza, che nel giorno di Sant’Aquilino continuò a praticare il rito dell’olio sia pure in forme dimesse. Nel 1867 Felice Venosta, in un prezioso volumetto dedicato alle vie di Milano, ricordava come fosse ancora in vigore la tradizionale cerimonia:

Anche oggi, quantunque la badia dei facchini non abbia più la vecchia importanza, eseguisce a sue spese la cerimonia, però non con le solenni cerimonie di una volta.

[F. Venosta, Milano e le sue vie, Milano 1867, pp.36-37].

Oggi il corpo del Santo si trova all’interno di una preziosa arca di cristallo e argento risalente al 1597.

Milano e la fitta rete delle sue associazioni

In età medievale e moderna le associazioni assunsero un ruolo importante nel fare di Milano una metropoli animata dai valori sociali dell’assistenza e della carità.

Milano e le sue associazioni
L. Aiello, M. Bascapé, D. Zardin, Milano e le sue associazioni. Cinque secoli di storia cittadina (XVI-XX secolo), Scalpendi Editore, Milano 2014.

Da alcuni anni il Dipartimento di Storia dell’Economia, della Società e di Scienze del territorio “Mario Romani” dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e l’Archivio e Beni Culturali dell’Azienda per i Servizi alla Persona Golgi Redaelli svolgono un’opera di ricerca e mappatura delle associazioni che furono attive nei sestieri cittadini dal Medioevo all’Età Moderna. Il progetto, diretto dal professor Danilo Zardin, dal dottor Marco Bascapé e dalla dottoressa Lucia Aiello, ha reso possibile l’attivazione di un sito internet, Milano e le sue associazioni, i cui contenuti sono di notevole interesse per gli studiosi di Milano. Questo sito, facilmente accessibile e consultabile nelle varie sezioni, ha il merito di rivolgersi anche a un pubblico non specialistico. Per gli studiosi consiglio il bel volume, curato da Zardin, Bascapé, Aiello, Milano e le sue associazioni. Cinque secoli di storia cittadina (XVI-XX secolo), Scalpendi Editore, Milano 2014, 179pp. Arricchito da molte immagini, il libro contiene alcuni saggi dedicati alla città ambrosiana dall’età medievale all’Otto-Novecento.

Quello delle corporazioni è un tema importante perché la crescita economica, civile e culturale della città non fu possibile senza il disciplinamento e il concreto operare di queste associazioni per il bene della comunità. Val la pena ricordare che la battaglia contro le corporazioni, accusate di ostacolare lo sviluppo economico della società, iniziò a manifestarsi solo nella seconda metà del Settecento, vale a dire nel periodo delle riforme dell’assolutismo illuminato che tesero a ridurre progressivamente le autonomie dei corpi sociali concentrando le funzioni pubbliche – anche quelle in campo caritativo e assistenziale – negli apparati burocratici dello Stato assoluto.

La società milanese del medioevo e dell’ancien régime – almeno fino alla metà del Settecento – era invece profondamente innervata di associazioni e corporazioni.  Le persone contavano nella misura in cui facevano parte di una schola, di una universitas che, riconosciuta e legittimata dal potere pubblico, consentiva alle persone di svolgere una funzione in una societas cristiana strutturata in modo organico. Senza la trama di confraternite laicali e religiose, senza quel fitto reticolo di corporazioni che si inseriva fin nei più remoti interstizi della società, Milano non avrebbe sviluppato quello spirito di comunità che fu un tratto distintivo della metropoli almeno fino al primo Novecento. Oggi la nostra società è divisa per classi in una economia di mercato in cui l’influenza dei gruppi, confinata nel diritto privato, risiede nella loro capacità di produrre e vendere beni generando ricchezza per sé e per uno Stato separato dalla Società.

Nella società medievale e in quella d’ancien régime non esisteva la divisione pubblico/privato tipica del costituzionalismo “borghese”. La comunità era divisa in “ordini” o “stati” ove i gruppi, rigidamente gerarchizzati, traevano la loro legittimazione dalla funzione sociale che esercitavano in base a valori quali l’onore, la stima, la dignità, la fede religiosa, l’assistenza verso i deboli.

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Tiziano Vecellio, Incoronazione di spine, 1540-1542, Parigi, Musée du Louvre

D’altra parte, per ridurre la questione all’attualità, senza questo tipo di istituzioni corporative noi non avremmo opere d’arte di straordinario valore artistico e culturale: ad esempio il meraviglioso dipinto della Vergine delle Rocce, commissionato a  Leonardo da Vinci nel 1483 dalla confraternita dell’Immacolata Concezione attiva presso la chiesa di San Francesco Grande in Porta Vercellina (chiesa oggi scomparsa, si trovava ove oggi è la Caserma Garibaldi); oppure l’Incoronazione di Spine di Tiziano, opera eseguita tra il 1540 e il 1542 per volontà del Luogo Pio di Santa Corona che svolgeva un’attività che potremmo ricondurre al campo medico e farmaceutico.

Le corporazioni si legavano non solo alle attività lavorative praticate dai soci nell’esercizio di un’arte, ma si riconducevano a finalità di tipo devozionale in forme di religiosità cristiana diffuse nel Medioevo e nell’Età Moderna. Era il caso della corporazione dei muratori e lavoranti nell’edilizia milanese denominata con i termini “paraticus”, “schola paratici”, “magistri a muro et a lignamine ac ingenierii”, che nel 1480 chiedeva al duca di Milano di affittare la chiesa di Santa Maria de Ceppis in Porta Vercellina per svolgere le proprie riunioni e praticare gli uffici divini.

A rendere possibile l’esistenza e il concreto operare di questo tipo di associazioni era la tipica divisione della città in vicinie, dall’unione delle quali erano formati i distretti parrocchiali; le parrocchie erano ordinate a loro volta all’interno dei sestieri milanesi. Le vicinie erano per lo più tratti di contrade e piazze ove si trovavano più abitazioni. Nelle vicinie erano attive molte confraternite di laici: il Consorzio della Pagnottella, di cui facevano parte quanti abitavano nel vicinato della Porta Vercellina sul naviglio, distribuiva pane ai poveri della zona. Un’altra schola di vicinato era dedita alla manutenzione delle immagini sacre: da quella attiva presso la chiesa di San Satiro nel 1480 alla confraternita operante nel vicinato della chiesa di Santa Maria Segreta nel 1516 (chiesa oggi scomparsa).

In altri casi vi furono confraternite attive in opere di assistenza i cui membri appartenevano al ceto patrizio e nobiliare. Indicativa ad esempio la composizione elitaria dei consorzi elemosinieri che formavano il capitolo dell’Ospedale Maggiore di Milano fondato dal duca Francesco Sforza; un altro caso emblematico era la Società dei Protettori dei Carcerati, istituita nel 1466 per assistere i detenuti nelle prigioni della Malastalla (vicino a Piazza Mercanti) svolgendo un servizio che giungeva sino alla protezione legale nei confronti di quanti erano arrestati ingiustamente. Tra i membri di questa Società figurava Giovanni Arcimboldi, maestro delle entrate straordinarie del ducato di Milano, divenuto poi arcivescovo della città.

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Agostino Santagostino, Conforto del condannato, 1660-1665, Como, Pinacoteca Civica. L’opera fa parte di un ciclo di dipinti eseguiti su committenza della “nobile Compagnia” di San Giovanni Decollato.

Un’altra potente corporazione a netta composizione nobiliare furono i Disciplinati di Santa Maria della Morte attivi nella contrada delle Case Rotte nel sestiere di Porta Nuova. Il peso di questa confraternita nella vita cittadina era ben indicato dalle disposizioni emanate dal duca Gian Galeazzo Visconti nel 1395; disposizioni in base alle quali il 29 agosto, giorno della decollazione di San Giovanni Battista, i rappresentanti delle istituzioni cittadine erano tenuti a recarsi in processione nella chiesa di Santa Maria della Morte per farvi un’offerta di 75 lire imperiali. Tra le istituzioni milanesi che partecipavano a questa solenne iniziativa erano il podestà, il vicario e i XII di Provvisione (corrispondenti all’incirca alla nostra giunta comunale) e i paratici con i loro gonfaloni (ossia le varie corporazioni e le confraternite).

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La preziosa banca dati nel sito “Milano e le sue associazioni”. La città è divisa nei suoi antichi sestieri.

Milano e le sue associazioni merita di essere segnalato per un’altra ragione importante, che si ricollega  a quel principio della “eterogenesi dei fini” assai familiare agli storici nello studio dei documenti. Questo sito ha un interesse che oltrepassa il mondo delle associazioni milanesi. Difatti, nella sezione “Banca Dati”, il visitatore dispone di un atlante storico ad alta risoluzione della Milano articolata nei suoi tradizionali sestieri: Porta Orientale, Romana, Ticinese, Vercellina, Comasina, Nuova. Le fonti sono la mappa del catasto teresiano (1751) e le piante edite da Vallardi nel 1884 e nel 1928: strumenti preziosi per chi desidera conoscere non solo il fitto mondo delle associazioni dall’età medievale all’età contemporanea ma anche l’evoluzione urbanistica della città, passata tra Otto e Novecento a una radicale trasformazione del suo tessuto viario in molti quartieri del centro. L’integrazione di queste vecchie piante con la mappa di Milano elaborata da Google Maps consente una percezione immediata dei cambiamenti urbanistici intervenuti nel corso del tempo. Occorre infine ricordare che sulle tre mappe è possibile individuare l’ubicazione delle chiese e degli edifici che furono sedi delle corporazioni, confraternite, associazioni dall’età medievale alla Milano otto-novecentesca.

Una sfida da vincere: il buongoverno della città

Il rapporto tra politica e amministrazione è sempre stato complesso nella storia delle istituzioni. II problema cruciale è tuttora quello di assicurare il buongoverno conciliando l’intervento pubblico con le istanze di rinnovamento che provengono dalla società. Oggi, quando si parla di buongoverno al livello del Comune, della Regione o dello Stato, si fa riferimento a una classe politica che sia in grado di dialogare con le diverse anime della comunità, facendo una sintesi che abbia come fine ultimo il bene comune. Il guaio è che gli interessi di partito e l’insorgere della lotta politica finiscono spesso con il minare alle fondamenta la coerenza dei migliori programmi amministrativi. Programmi la cui attuazione può essere assicurata solo dalla continuità di una classe politica e amministrativa che sia allenata nella corretta gestione delle funzioni pubbliche. La buona amministrazione non è di destra né di sinistra. E’ semplicemente buona amministrazione. Accecati dai bagliori della lotta politica, noi spesso ci dimentichiamo questa palese realtà.

Non si tratta di una cosa nuova. Nella Milano medievale la lotta tra fazioni, ancor più dura e radicale, minò alle fondamenta la costituzione pluralistica del Comune quale si era formata nei secoli successivi all’eclissi del potere vescovile. Per risolvere questa drammatica situazione, il 30 dicembre 1214 il podestà di Milano, il bolognese Uberto da Vialta, emanò alcune disposizioni tese a regolare il governo della città, funestata a quei tempi dalle feroci discordie tra la nobiltà e i ceti popolari. Il suo fu un gesto generoso perché il governo del Comune, affidato per tradizione ai consoli in cui si rispecchiavano le diverse anime della comunità, era passato sotto la sua autorità. L’instabilità politica aveva spinto i cittadini a chiamare un tecnico forestiero, un giureconsulto incaricato di governare assumendo l’ufficio di “podestà” a tempo limitato.

Eppure il podestà Uberto si sforzò di riportare la pace a Milano ricostituendo a grandi linee quel modello di governo misto, diviso tra nobiltà e “corporazioni di mestiere” che, basato sull’istituto consolare, aveva consentito per lungo tempo l’esercizio pacifico delle funzioni pubbliche. Egli riteneva che solo in tal modo fosse possibile conciliare gli interessi dei nobili con quelli dei ceti produttivi: abituandoli al governo condiviso, all’assunzione comune di posti chiave nell’amministrazione cittadina per il bene della comunità. Tali disposizioni stabilirono che il governo fosse formato dai rappresentanti dei quattro ceti milanesi: in prima linea c’erano i capitani e i valvassori, appartenenti alla grande e alla piccola nobiltà. Gli altri ceti erano formati dalla Motta e dalla Credenza di Sant’Ambrogio. Alla prima appartenevano i mercanti, ma anche le famiglie della nobiltà minore che, abbandonata la funzione militare del ceto di origine, si erano arricchite con il commercio. La Credenza di Sant’Ambrogio era composta per converso dai proprietari di botteghe specializzate nell’arte manifatturiera.

Il buon funzionamento di qualsiasi governo pluralistico è l’esistenza di un forte senso civico, di uno spirito di comunità dinanzi al quale gli interessi di parte siano messi in secondo piano. Nella Milano del Duecento questo senso civico non esisteva più.

L’opposizione tra nobiltà e ceti produttivi fu sociale e culturale prima ancora che politica. I nobili fondavano la loro identità nella professione militare: in battaglia erano loro a rischiare la pelle. In seguito alla nascita del Comune anche i ceti popolari furono chiamati ad armarsi e a partire per la guerra. L’arte militare continuò però ad essere materia di spettanza essenzialmente nobiliare. Il nobile viveva con le rendite dei suoi feudi, da cui ricavava le risorse per partire in guerra portandosi dietro i cavalli e i servitori. L’esercizio del mestiere delle armi era un dovere del suo ceto. Per questa ragione i nobili, i bellatores secondo il diritto medievale, godevano di diritti corporativi, come ad esempio i poteri signorili di giustizia nei loro feudi. Un altro dovere del nobile, oltre ad affrontare il nemico in battaglia, era di essere cortese, buono con i deboli, generoso.

I mercanti e i maestri artigiani, che si erano arricchiti nei secoli precedenti, erano animati da valori diversi. Anzitutto vedevano nel lavoro un mezzo di promozione sociale. I mercanti della Motta si specializzarono in una ricchezza che non era immobiliare, bensì mobiliare, finanziaria. Furono loro a gestire i commerci, a far decollare l’economia tessendo i rapporti con i mercanti del Nord Europa, ma anche con quelli delle repubbliche di Genova e di Venezia.

Tra la fine del XII e i primi anni del XIII secolo i ceti popolari divennero talmente forti da costituire una seria minaccia per l’egemonia nobiliare. I rapporti si fecero tesi. Certo, in queste lotte, era la nobiltà a prevalere, non foss’altro che per la sua esperienza nell’uso delle armi. Tuttavia, nella prima metà del XIII secolo, il popolo degli artigiani e dei mercanti mostrò in più occasioni la sua forza ed ebbe la meglio sui nobili.

Ce lo ricorda Pietro Verri nella celebre Storia di Milano quando riporta un episodio tratto dall’opera del cronista medievale Galvano Fiamma [P. Verri, Storia di Milano, a cura di Renato Pasta, Volume IV della Edizione Nazionale delle Opere di Pietro Verri, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2009, pag.224]. Si trattava di una lite per debiti insorta tra il nobile Landriani e il cittadino Guglielmo da Salvo residente nel sestiere di Porta Vercellina. Ad essere nel torto era il nobile, che si era indebitato per una somma cospicua che non intendeva restituire. Dal momento che il creditore faceva pressioni per essere pagato, il Landriani decise di “tagliare la testa al toro”. Invitò il cittadino di Porta Vercellina nella sua villa di Marnate, nel contado del Seprio. Fattolo entrare, lo uccise senza esitazioni. Alcuni conoscenti di Gugliemo, che erano stati informati del suo viaggio a Marnate, non avendo più ricevuto notizie, si recarono nel contado del Seprio. Giunti nella villa del nobile, fatti alcuni scavi nel terreno, trovarono il cadavere. Il corpo fu portato a Milano perché i cittadini fossero consapevoli del crimine efferato commesso dal nobile. Il popolo reagì bruciando le case dei Landriani. Il Fiamma sostiene che tale delitto fu all’origine di una delle tante espulsioni dei nobili da Milano. Non sappiamo quanto fosse vera questa vicenda, dal momento che mancano riscontri nelle altre fonti documentarie. Essa tuttavia ci dà un’idea abbastanza chiara del clima di tensione che si respirava in una città divisa dalle lotte politiche di fazione. Ci mostra anche il grado di maturità politica cui era giunto il popolo milanese.

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Palazzo della Ragione, sede del Consiglio in epoca medievale, in una incisione settecentesca di Marc’Antonio Dal Re. L’edificio fu costruito nel 1233

Fu per sanare in via definitiva tali discordie che il podestà Uberto da Vialta emanò le celebri disposizioni che abbiamo citato all’inizio. In sostanza, gli affari della giustizia e del governo cittadino dovevano essere gestiti assieme dai rappresentanti dei quattro ceti. Pochi anni dopo, gli ordinamenti milanesi del 1241 sancirono che il Consiglio Generale di Milano – il Consiglio degli 800 organo del Comune chiamato ad intervenire nelle materie più importanti – fosse composto per metà da rappresentanti dei Capitani e Valvalssori e per metà da delegati della Motta e della Credenza. Inoltre, ciascuno dei quattro ceti era chiamato a designare una quota di consoli che formavano il governo della città di Milano. Tali disposizioni non bastarono tuttavia a sanare le discordie. La lotta tra fazioni si riaccese e finì con il segnare la vittoria definitiva del governo monocratico: dapprima nella persona del Podestà forestiero chiamato a governare la città a tempo limitato, quindi nell’istituzione autoritaria della Signoria (prima nella famiglia dei Torriani, poi in quella dei Visconti).

Le disposizioni di Uberto da Vialta e quelle dei suoi successori nella Milano della prima metà del Ducento meritano tuttavia di essere ricordate come un tipo emblematico di governo medievale: il governo misto composto dalla nobiltà e dalle “gilde o corporazioni del lavoro” teso a far convergere gli interessi di parte per la promozione del bene comune. Una soluzione che si affermò con maggior fortuna in molte città della Svizzera e dell’Impero germanico tra Medioevo ed Età Moderna. Basti pensare a Zurigo, Basilea, Sciaffusa, Spira, Friburgo, Ulma, Vienna.

Dalle tenebre alla luce: l’illuminazione pubblica

L’illuminazione pubblica è un servizio che rientra nella normalità di qualsiasi paese ad economia avanzata. Non è così nelle società povere. Non fu così in età medievale e per buona parte dell’età moderna quando il calar della notte spingeva i cittadini a rinchiudersi in casa per evitare di essere derubati o assaliti.

A Milano l’illuminazione notturna fu introdotta per la prima volta nel 1784, quando l’imperatore Giuseppe II decise di finanziare tale servizio con i fondi ricavati dai proventi del gioco del lotto e dalla tassazione sugli edifici.

Lampadee
Addetto all’accensione delle lanterne pubbliche. Incisione del primo Ottocento.

La visibilità risultava tuttavia scarsa perché la luce che proveniva dai lampioni era troppo debole, limitata a pochi metri di distanza. La situazione non mutò nel periodo napoleonico. Milano, pur essendo elevata al rango di capitale dello Stato italico, continuò a subire disagi. Il servizio d’illuminazione notturna, gestito direttamente dal Comune, mostrava gravi carenze. In una lettera al prefetto dell’Olona del 15 dicembre 1812, il ministro dell’interno rimarcava il pessimo servizio gestito dagli impiegati del Comune:

Intorno alla pubblica illuminazione notturna di questa capitale due principali inconvenienti si rimarcano…cioè la poca esattezza nella sua esecuzione, e quindi la negligenza di quelli, che sono incaricati d’accendere i fanali; secondo il cattivo sistema di non accendere le lampade nelle notti e nelle ore in cui dovrebbe risplendere la luna, il di cui raggio ci è impedito quando l’aria è nuvolosa, versando così sovente in tenebre le contrade della città.

(Il ministro dell’interno Luigi Vaccari al prefetto dell’Olona Gaudenzio Maria Caccia di Romentino, 15 dicembre 1812 pubblicata in E. Pagano, Il Comune di Milano in età napoleonica, Milano, Vita e Pensiero, 2002, pag.190).

Occorreva una luce più forte che, oltre ad assicurare un migliore decoro pubblico, fosse in grado di garantire la mobilità dei cittadini anche di notte. Negli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento, furono compiuti alcuni tentativi in questa direzione.

Carlo Cattaneo
Carlo Cattaneo (1801-1869)

Giovanni Battista Brambilla (nato nel 1803), titolare di una banca col fratello Pietro denominata “Brambilla & Compagno”, socio di un’azienda milanese specializzata in seta e spedizioni, in una lettera  del 23 marzo 1837 alla delegazione provinciale sosteneva di voler fornire un’illuminazione a gas derivante da combustibili fossili. Carlo Cattaneo fu incaricato da Brambilla di scrivere alcune lettere su questo tema. Il tratto innovativo del progetto consisteva nell’abbandono degli oli combustibili (olio di oliva e olio di noce) e nell’utilizzo dei combustibili fossili da cui trarre il gas con cui alimentare le lampade. Scriveva Cattaneo alla delegazione provinciale:

La Ditta…di questa Regia Città a termini della Sovrana Patente 31 marzo 1832 notifica colla presente un suo progetto di miglioramento che consiste nell’applicare alla illuminazione generale pubblica e privata di questa Regia Città il gas estratto dai combustibili fossili della Monarchia (mediante la costruzione di vasti serbatoi collocati all’aperto e forniti di gazometro e degli opportuni meccanismi di sicurezza praticati in Inghilterra e nel Belgio) il che deve alleviare la spesa giornaliera dei pubblici stabilimenti e delle famiglie e produrre un vantaggio allo Stato in preferenza all’uso delle materie oliacee…

(I Carteggi di Carlo Cattaneo, a cura di Maria Chiara Fugazza e Margherita Cancarini Petroboni, Serie I, volume I, Firenze-Bellinzona, Le Monnier – Casagrande, 2001, pp.80-81).

Il progetto di Brambilla parve avere esito positivo: il 19 maggio l’imperatore Ferdinando gli concesse il privilegio di gestire il servizio in via esclusiva per un tempo di 15 anni. Seguì la fondazione di una società che avrebbe operato a Milano e a Trieste. Nell’atto di costituzione, risalente al 10 gennaio 1838, figurano un negoziante di Lione, Jacques Joseph Rast, tre architetti civili sempre di Lione (i fratelli Jules e Prospère Renaux e Jean Bonnin), i fratelli Giuseppe, Pietro e Giovanni Battista Brambilla.  Il ruolo di Cattaneo può sembrare marginale in questa vicenda. In realtà, pochi giorni dopo, egli stesso si aggiunse come socio alla società fondata dal Brambilla, mostrando di credere nel progetto.

Il banchiere si mise all’opera per assicurare ai milanesi un’adeguata illuminazione pubblica. Il privilegio del governo non era però sufficiente. Occorreva l’autorizzazione del Comune, rappresentato in questa vicenda dalla Congregazione municipale. In una lettera scritta da Cattaneo il 20 gennaio 1838 per convincere le autorità locali, si assicurava: “la luce che tramanderà continuamente la fiamma del Gas illuminante sarà almeno una mezza volta più vivace e potente del miglior fanale possibile ad olio; di maniera che si potrà facilmente leggere alla distanza di venti metri” (I Carteggi di Carlo Cattaneo…cit., pag.109).

Rassicurazioni che non bastarono a convincere la Congregazione municipale, alla quale pervenne in quel medesimo periodo una proposta alternativa da parte dell’ingegnere francese Jules Achille Guillard. Questi promise di garantire l’illuminazione pubblica a gas mediante un metodo di gran lunga più efficiente, già sperimentato con successo a Grenoble e in un quartiere di Lione.  Si trattava del metodo Selligue. Consisteva nell’utilizzo dei cosiddetti “schisti bituminosi”, un tipo di roccia facilmente sfaldabile che a contatto con l’acqua provocava una reazione chimica da cui era possibile ottenere gas idrogeno.

La Congregazione municipale formò una commissione per capire quale dei due metodi fosse da preferire e di conseguenza a quale società fosse opportuno dare l’appalto: se a quella del Brambilla o a quella del Guillard. Furono condotti in città due esperimenti d’illuminazione compiuti l’uno con il metodo Selligue, l’altro con il metodo di estrazione del gas dal carbone fossile. Il primo ebbe luogo nei pressi del Teatro dei Filodrammatici, l’altro al Dazio di Porta Orientale, non molto distante dai giardini pubblici di Porta Venezia. Un curioso articolo apparso sulla Biblioteca Italiana, nel numero di luglio-settembre 1838, così descriveva gli esperimenti:

Due società egualmente rispettabili si sono presentate a contendersi l’onore ed il guadagno di quest’impresa. Assistite e l’una e l’altra da valenti artefici hanno entrambe dato un saggio del loro diverso sistema d’illuminazione, l’una al teatro de’ Filo-drammatici, l’altra alla birreria vicina al dazio di porta Orientale. Distinguendo le società dal sito ove ebbero luogo gli esperimenti, diremo che per quanto comunemente si disse, e per quanto si è potuto arguire dagli effetti dell’esterna illuminazione, sembra che la Società del teatro abbia seguito il nuovo processo di Selligue estraendo il gas dalla decomposizione dell’acqua, combinata coll’idrogeno prodotto da materie oleose, e si sa che la Società della Birreria ha adoperato in parte il carbon fossile delle miniere di Saint-Etienne, ed in parte la lignite indigena del Vicentino, servendosi egualmente per combustibile di lignite nostra….l’una e l’altra società hanno dimostrato come l’arte d’illuminare a gas è in oggi portata ad un grado tale di perfezione da potere senza esitanza applicarla ai bisogni nostri.

La commissione optò alla fine per il metodo Selligue. Il contratto con la società Guillard venne firmato nel giugno 1843. Costruita la fabbrica fuori Porta Lodovica nei corpi Santi di Porta Romana (ove oggi si trova la Centrale del Latte), Guillard curò la graduale posa dei tubi al di sotto delle vie. Il 31 luglio 1845 i milanesi del centro poterono assistere alla nuova illuminazione. Dicevano finalmente addio alla “incomoda e pericolosa oscurità” in cui erano rimasti avviluppati per secoli.

Perchè è opportuno ricordare Sant’Ambrogio

Nel discorso tenuto il 28 gennaio 1897 alla conferenza per il quindicesimo centenario della morte di Sant’Ambrogio, un giovanissimo Angelo Mauri (1873-1936), attivo in quegli anni presso il comitato cattolico diocesano assieme a figure quali Filippo Meda e Bernardino Nogara, tracciava un efficace profilo della popolarità che il santo aveva rivestito nel corso dei secoli presso i milanesi. Noi oggi ricordiamo Mauri soprattutto come docente di storia delle dottrine economiche all’Università Cattolica del Sacro Cuore, titolare di questa cattedra per volontà di padre Gemelli dalla metà degli anni Venti al 1933.

Angelo Mauri
Angelo Mauri fu eletto deputato alla Camera dei deputati negli anni 1905-09; 1919-21 e 1921-24.

Nell’intervento tenuto alla conferenza del 1897, il Mauri tesseva un vivido quadro della storia milanese facendo notare come la figura di Ambrogio fosse stata evocata dai milanesi negli episodi cruciali della storia cittadina: dalla battaglia di Parabiago (1339) alla repubblica ambrosiana (1447-1450); non mancava di ricordare perfino un istituto di credito che per tre secoli, dal 1593 all’arrivo dei francesi comandati dal generale Bonaparte, gestì le risorse del patriziato milanese: il banco di Sant’Ambrogio. Mauri osservava che i milanesi si erano appellati ad Ambrogio nei momenti più difficili, richiamando una memoria del patrono che “non illanguidita mai nell’intimità della coscienza popolare, pur d’ora in ora, a periodi, a ricorsi, manda attraverso la storia milanese vividi guizzi di luce nei momenti più gravi e decisivi della vita cittadina, nelle sue più solenni manifestazioni politiche e sociali” (A. Mauri, La memoria di S. Ambrogio in Conferenze santambrosiane, gennaio-febbraio 1897, Milano, Libreria Religiosa Editrice di G. Palma, 1897, pag.196).

Quale insegnamento possiamo trarre oggi dalla vita di questo santo, a pochi giorni dalla sua celebrazione? Anzitutto cerchiamo di collocarlo nel contesto storico in cui visse, vale a dire l’Impero Romano d’Occidente. Ambrogio (333 o 340-397 d.C.) nacque a Treviri, figlio di un funzionario dell’amministrazione imperiale romana, forse un prefetto del pretorio. Trasferitosi a Roma con la famiglia, si formò negli studi giuridici per seguire la carriera burocratica sull’esempio del padre. Sotto l’imperatore Valentiniano I, nel 370 d.C., fu nominato governatore delle province dell’Emilia e della Liguria che interessavano un territorio corrispondente pressappoco alle attuali regioni Lombardia, Piemonte, Liguria e la parte occidentale dell’Emilia Romagna.  Ma cosa significava essere governatore in età tardo antica? I governatori avevano poteri civili afferenti all’ordine pubblico e alla fiscalità. Esercitavano la giustizia in prima istanza fatta eccezione per i senatori. Avevano alle loro dipendenze non meno di 100 impiegati pubblici.

Il  governatore Ambrogio attivo a Milano dal 370 al 374, anno in cui venne proclamato vescovo della città dopo la morte dell’ariano Aussenzio, era un uomo che conosceva bene l’amministrazione civile romana; sapeva quali fossero i problemi di una società  come quella tardo antica, divisa tra più fedi religiose in conflitto tra loro. A Milano, che Diocleziano aveva elevato assieme a Treviri al rango di capitale dell’Impero romano d’Occidente, oltre ai cattolici c’erano gli ariani che riconoscevano la sola natura umana di Gesù, non quella divina presente in Dio padre; c’erano poi i pagani legati agli antichi culti. Una situazione di conflitto che sfociava spesso in persecuzioni e scontri.

Nell’esercizio della funzione di governatore Ambrogio si guadagnò una certa popolarità presso i cristiani. Lui stesso si avvicinò al culto come catecumeno, preparandosi a ricevere il battesimo. Il 7 dicembre del 374 non fu soltanto battezzato, fu proclamato vescovo della città, segno dell’autorità indiscussa che aveva saputo conquistarsi presso la cittadinanza milanese.

Sant'Ambrogio (339/340-397)
Sant’Ambrogio (339/340-397)

Come vescovo Ambrogio fu un ardente propugnatore del cristianesimo; occorre ricordare che l’editto di Milano emanato da Costantino nel 313 d.C. aveva reso questo culto la religione dell’impero, soggetta quindi alla protezione dell’autorità civile. Eppure, quasi preannunciando gli scontri medievali tra papato e impero, nella difesa e nella salvaguardia dell’ortodossia Ambrogio non esitò a scontrarsi con il potere politico contestando il diritto d’ingerenza dell’imperatore in materia ecclesiastica. Un’ingerenza d’altra parte inevitabile visto lo status di religione protetta che era stato fissato, come si è ricordato, dall’editto di Milano.

Qual era la concezione politica di Sant’Ambrogio? Essa rifletteva le linee del cristianesimo della tarda antichità e dell’Alto Medioevo: si trattava di una concezione della vita politica e sociale intrisa di un tendenziale pessimismo nei confronti della natura umana; una concezione secondo la quale l’uomo, a causa del peccato originale, deve essere governato da un potere pubblico che eserciti la forza coercitiva per il rispetto delle leggi e per il bene comune. Le autorità secolari – che ai tempi di Ambrogio si identificavano con l’imperatore romano – erano quindi legittime perché la loro autorità era riconosciuta da Dio come mezzo necessario per correggere una natura umana corrotta dal peccato.

Ambrogio, che era stato uno zelante funzionario dell’amministrazione imperiale, si richiamava all’insegnamento dell’Apostolo: non est potestas nisi a Deo (ogni potere è derivato da Dio). E’ però significativo che la sua interpretazione della parola apostolica si discostasse notevolmente dai padri cristiani dei secoli precedenti o dallo stesso Agostino che egli stesso battezzò a Milano nella Pasqua del 387 d.C. Secondo il cristianesimo della tarda antichità quelle parole erano interpretate come segno di un obbligo incondizionato verso i detentori del potere. Se il potere politico avesse agito bene, ciò era da riconoscere come un segno della clemenza divina; se avesse agito male, occorreva subire passivamente la malvagità o la corruzione perché vi si ravvisava un segno della collera di Dio per i peccati degli uomini.

Teodosio
Teodosio (347-395 d.C.). Da un ciondolo bizantino del IV secolo d.C.

Ambrogio, da fine giurista qual era, si discostava da questa concezione distinguendo tra l’istituzione politica in sé e il singolo atto amministrativo compiuto dalla persona. In caso di azione malvagia – asseriva il vescovo – la responsabilità non colpisce l’istituzione, bensì l’uomo che si comporta male. Il dovere di obbedienza non è quindi incondizionato, bensì legato al corretto esercizio delle funzioni pubbliche che devono rispettare il diritto positivo, il diritto naturale e il diritto divino. Ne derivava quella concezione del potere imperiale come delega, come mandato divino ad operare per il bene della comunità, che sarebbe stato alla base del Medioevo europeo. Coerentemente con tale pensiero, egli non esitò a condannare l’uccisione in massa della popolazione di Tessalonica ordinata dall’imperatore Teodosio in risposta a un atto di sedizione. All’imperatore, che era giunto a Milano, Ambrogio vietò risolutamente di entrare in chiesa: lo avrebbe potuto fare solo a condizione di chiedere perdono a Dio per i peccati commessi perché, come scrisse in quell’occasione in una lettera a Teodosio, “peccatum non tollitur nisi lacrimis et paenitentia”. Colpito dalla fermezza e dall’autorità del vescovo, l’imperatore fece pubblica penitenza nel Natale del 390 d.C.

Il diritto di natura era essenziale nella filosofia politica di Sant’Ambrogio. Gli uomini tendono a reggersi in pace in società in base al principio di non fare agli altri quel che non vorresti fosse fatto a te. Il vescovo di Milano credeva tuttavia che il solo diritto di natura non fosse sufficiente perché la natura umana era corrotta dal peccato originale. Di qui il richiamo alla legge scritta che obbliga l’uomo al rispetto dei patti: dalla legge mosaica alla legge emanata dai poteri secolari (l’Impero). Contro le ingiustizie e il disordine, solo il potere politico ha il dovere di usare la forza per obbligare gli uomini a vivere pacificamente nella comunità secondo le parole dell’Apostolo: non sine causa gladium portat qui judicat (non senza motivo tiene la spada colui che giudica).

Meritano infine di essere considerate le osservazioni di Ambrogio nei confronti del bene comune. Il vescovo di Milano non condivideva la posizione di quanti ritenevano che tra interessi privati e interessi pubblici andasse operata una netta divisione. Si trovava anche in disaccordo con quanti ritenevano che l’agire degli uomini in società dovesse limitarsi al divieto di far male agli altri. Non fare male al prossimo – ricordava – è un modello di condotta ovvio per qualunque cristiano che segue l’insegnamento di Gesù. Il diritto naturale e il diritto divino impongono invece di far prevalere l’interesse comune su quello individuale operando concretamente con azioni a sostegno dei più deboli.

Difensore della fede cristiana, spinto da uno spirito missionario per la conversione dei pagani e dagli ariani, Ambrogio volle che fuori dalle mura di Milano fossero costruite quattro chiese in direzione dei punti cardinali, affinché i ministri del culto potessero svolgere un’efficace opera di evangelizzazione: Sant’Ambrogio ad ovest (poi nel sestiere di Porta Vercellina), San Nazaro a sud (nel sestiere di Porta Romana), San Simpliciano a nord (nel sestiere di Porta Comasina), San Dionigi ad est, (chiesa oggi scomparsa, situata un tempo nel sestiere di Porta Orientale, ove oggi si trovano i giardini pubblici).

La giustizia nella Milano di ancien régime

Come veniva istruito un processo nella Milano d’antico regime, nel Cinque o nel Seicento? Noi oggi siamo legati a una concezione per la quale nel processo non si fa altro che applicare la legge secondo un codice di norme definito, emanato dallo Stato di diritto. Nell’Europa dell’antico regime – vale a dire nel periodo storico anteriore alla rivoluzione francese e all’età delle codificazioni – il sistema era profondamente diverso. Nello Stato di Milano tra il XVI e il XVIII secolo la giustizia era per lo più una prassi, una pratica quotidiana compiuta dai giudici che non solo informavano le sentenze in base alle norme secolari del diritto comune, del diritto ducale e municipale, ma si fondavano anche sulla communis opinio, vale a dire sulle sentenze dei giudici che in passato si erano espressi su casi analoghi.

Probabile ritratto di Virginia de Leyva, la monaca di Monza (1575-1650)
Probabile ritratto di Virginia de Leyva, la monaca di Monza (1575-1650)

Non vi erano sostanziali differenze tra il processo istruito dai tribunali ecclesiastici e quello dei tribunali secolari. In fondo, il sistema di giustizia dei poteri laici aveva molte affinità con quello ecclesiastico istruito secondo il diritto canonico.  Il processo era di tipo inquisitorio, in gran parte scritto e non consentiva all’imputato la scelta di un difensore che potesse bilanciare efficacemente l’accusa come avviene oggi. Ettore Dezza – che ha studiato un caso importante di giustizia ecclesiastica milanese: il celebre processo contro la monaca di Monza istruito tra il 1607 e il 1609 – ha rilevato come la giustizia penale fosse amministrata nel ducato di Milano da un apposito tribunale presieduto da un vicario criminale appositamente delegato dall’arcivescovo. Il vicario era un giurista, laureato in utroque iure (in diritto canonico e diritto comune). Questo giudice non operava da solo. Era coadiuvato da una squadra composta dall’avvocato fiscale, da alcuni attuari e cancellieri. L’avvocato fiscale era incaricato di tutelare gli interessi del fisco qualora la sentenza arcivescovile avesse stabilito una pena come ad esempio la confisca dei beni. Il vero protagonista era però il vicario criminale: era lui che istruiva il processo a carico dell’imputato. Prima di emanare la sentenza, conferiva con l’arcivescovo per il necessario via libera alla pubblicazione della condanna o dell’assoluzione.

Un altro interessante elemento di diversità era costituito dalla funzione delle carceri. Diversamente dalle nostre società, ove le prigioni sono luoghi ove si sconta la pena, le carceri a quei tempi detenevano una funzione che potremmo definire “preventiva”: vi erano rinchiusi gli imputati per evitare che sfuggissero dalle “mani” della giustizia. Se togliamo le condanne a morte, le pene erano di natura corporale o pecuniaria. Nel primo caso era prevista la galera, intesa nel senso originario del termine, vale a dire di “condanna a remare nelle galee”: il condannato, consegnato alle autorità della repubblica di San Marco o della repubblica di Genova, era impiegato ai lavori forzati da scontarsi per un certo numero di anni a bordo delle navi appartenenti alle flotte di questi Stati.

Nello Stato di Milano di antico regime i conflitti di competenza erano molto diffusi per la molteplicità delle istituzioni religiose e secolari che potevano intervenire in casi che rientravano nel loro ambito giurisdizionale. I tribunali dell’arcivescovo, soprattutto all’epoca di San Carlo Borromeo ma anche nel corso del Seicento, entrarono spesso in conflitto con le istituzioni del ducato di Milano: dal Senato alle altre magistrature secolari. Ulteriori conflitti insorgevano tra il tribunale dell’inquisizione romana, i tribunali dell’arcivescovo o il già citato Senato in casi speciali quali il possesso di libri proibiti o gli atti di stregoneria.

Alfonso Litta, arcivescovo di Milano dal 1652 al 1679
Alfonso Litta, arcivescovo di Milano dal 1652 al 1679

Un altro caso interessante di giurisdizione ecclesiastica è quello che ho preso in esame nel mio libro, G. Coltorti, Via Filodrammatici prima di Mediobanca, Scalpendi Editore, Milano 2015. Donna Giustina Riva venne uccisa il 27 dicembre 1657 dal marito, il colonnello don Filippo Leyzaldi per ragioni di adulterio. Si trattava di un caso di uxoricidio abbastanza comune all’epoca, per il quale la normativa municipale, riconosciuta dal Senato di Milano, stabiliva l’assoluzione dei mariti in caso di flagrante adulterio. Qui è interessante notare come il tribunale incaricato di istruire il processo fu la curia ambrosiana perché don Leyzaldi era membro dell’ordine religioso militare di San Giacomo (San Jago) della Spada. In base a un criterio che potremmo definire ratione personam, il colonnello spagnolo fu giudicato in prima istanza in base alla sua appartenenza a un ordine religioso. A Milano l’autorità che esercitava la funzione di giudice per l’ordine di San Giacomo era l’arcivescovo Alfonso Litta.

Il vicario criminale Giuseppe Rastelli, con sentenza risalente al 1658, stabilì l’assoluzione del colonnello spagnolo ma i familiari dell’uccisa non si arresero. La sorellastra di Giustina, Fulvia Anolfi e il padre di questa, il senatore Francesco Perpetuo, fecero ricorso. Si appellarono non già al Senato di Milano ma a un tribunale spagnolo, al Sacro Consiglio del Re delle Spagne, la cui sentenza nei confronti dell’uxoricida, spiccata quattro anni dopo, fu di condanna pecuniaria e di esilio dallo Stato di Milano.

via filodrammatici copertinaCi troviamo quindi di fronte a due tipi di processo: il primo, quello arcivescovile, di natura per così dire ecclesiastica, istruito nei modi che si sono ricordati; il secondo di natura “secolare”, anche se il carattere confessionale della monarchia spagnola rinviava certamente al sovrano asburgico quale supremo capo dell’ordine spagnolo di San Jago, un ordine che era di tipo sia religioso che militare.

Se desideri approfondire questa vicenda, puoi trovare alcuni spunti interessanti nel mio libro.  Buona lettura 🙂

Il Duomo nella Milano napoleonica

Alla fine del Settecento la facciata del Duomo di Milano era ancora incompiuta. Una parte dei lavori era iniziata nella seconda metà del XVI secolo quando San Carlo Borromeo diede incarico a Pellegrino Tibaldi, detto Pellegrini, di costruire alla ‘romana’, vale a dire in uno stile che si allontanasse dal gotico cui era informato il resto della cattedrale. Alcuni portali erano stati edificati ma le operazioni avevano subito nuove interruzioni. Nella prima metà del Seicento un altro architetto della Milano barocca, Francesco Maria Ricchini ultimò le finestre a timpano (oggi visibili sopra i portali). Nel corso del XVIII secolo i lavori erano però assai lontani dal concludersi. Ci si era concentrati soprattutto sulla parte superiore del Duomo: risale al 1769 la guglia centrale con la celebre Madonnina, opera di Francesco Croce. Per la facciata le opere erano ancora in alto mare. Si pensi che a quell’epoca neppure i portali potevano dirsi compiuti.

Edward Gibbon, nel corso di un viaggio compiuto a Milano nel 1764, non nascondeva la sua delusione alla vista di una facciata tanto “meschina”:

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La facciata incompiuta del Duomo di Milano in una celebre veduta di Marc’Antonio Dal Re risalente al 1745

Siamo andati a vedere la chiesa. L’esterno non mi ha fatto nessun effetto. Per prima cosa si vede un portale incompiuto; è estremamente ornato ma sembra appena grande quanto basta per un edificio così immenso.

Il periodo napoleonico segnò una svolta. Il decreto dell’8 giugno 1805 ebbe un ruolo decisivo. Esso introduceva una razionalizzazione nel campo degli ordini regolari riducendo il numero di conventi e monasteri nel territorio del regno italico. Lo Stato ne avrebbe incamerato i beni ma alcuni di questi sarebbero stati venduti per reperire risorse pari a cinque milioni di lire milanesi da destinare, come recitava l’articolo 34, “al compimento del Duomo di Milano”. L’articolo 35 stabiliva inoltre che la Fabbrica del Duomo – l’istituzione che da secoli era chiamata a dirigere i lavori di costruzione – avrebbe venduto un numero d’immobili sufficiente ad affrontare le prime spese; spese che il decreto stimava non inferiori al milione e duecento mila lire milanesi.

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Napoleone con il costume e la corona ferrea di re del Regno italico (1805)

Pochi anni dopo, un decreto imperiale del 20 febbraio 1810 attribuiva al ministro delle finanze Giuseppe Prina il compito di assegnare alla fabbrica del Duomo un complesso di beni immobili pari a due milioni di lire italiane (corrispondenti all’incirca alle due milioni e duecento mila lire milanesi previste dal citato decreto dell’8 giugno) per consentire alla fabbrica di far fronte in via immediata alle spese di costruzione.

I lavori, affidati inizialmente a Giuseppe Zanoia, passarono presto sotto la direzione dell’architetto Carlo Amati, che li portò a termine nel giro di due anni. Nel 1812 un opuscolo anonimo dedicato al Duomo di Milano, L’Ottava Meraviglia del Mondo osservata nel Duomo di Milano in occasione dell’ora compiuta facciata (stampato dalla tipografia Pulini in contrada del Bocchetto, vicino alla Borsa degli Affari nel sestiere di Porta Vercellina) poteva celebrare il compimento dell’opera inneggiando a Napoleone re d’Italia e imperatore dei francesi:

Questo insigne tempio rimasto sarebbe per avventura  tuttora imperfetto se la mano benefica di Sua Maestà Imperiale e Regia data non gli avesse quella provvida spinta per la quale ha potuto giugnere al suo più alto compimento.

Proseguendo in tono enfatico, l’autore del piccolo opuscolo tesseva ancor più le lodi di Napoleone, le cui gesta – in linea con la retorica del regime diffusa a quell’epoca – erano poste sullo stesso piano della civiltà greco romana:

E se i Greci ed i Latini per rendere immortale la fama de’ loro eroi, e le epoche gloriose delle loro nazioni innalzavano marmorei e grandiosi edifizj, potrà il nostro Duomo egualmente essere considerato come un perpetuo monumento della gloria e della munificenza di questo grande Monarca, e tramandare ai più tardi posteri la memoria di un sì grande avvenimento.

Pochi anni dopo, nella Milano tornata sotto il dominio austriaco nei primi anni della Restaurazione, Stendhal poteva mirare il Duomo scintillante di marmo bianco evocando lo spirito dell’amore.

Duomo-di-Milano-sera5 novembre 1816. Tutte queste sere, verso l’una di notte, sono tornato a vedere il Duomo di Milano. Illuminata da una bella luna, la chiesa offre uno spettacolo incantevole ed unico al mondo. […] Alle persone nate con un certo gusto per le belle arti dirò: “Questa architettura fantasiosa è un gotico senza l’idea della morte; è la gaiezza di un cuore melanconico; e poiché quest’architettura destituita di ragione sembra fatta dal capriccio, essa s’accorda con le folle illusioni dell’amore”.

Meno entusiaste le sue riflessioni in merito alla facciata, anche se non mancò di apprezzarne la linearità. Il suo consiglio ai visitatori era di guardarla al tramonto del sole:

La facciata semigotica del Duomo non è bella, ma graziosa assai. Bisogna vederla illuminata dalla luce rossastra dl sole cadente.

Il pane nella Milano d’ancien régime

Il pane oggi non è più un alimento essenziale nella dieta di una persona. E’ invalso l’uso di farne a meno nei pasti quotidiani, a pranzo o a cena, colpevole di essere troppo pesante da digerire o di fare ingrassare costringendoci ad impegnativi percorsi di dimagrimento. E’ quel che avviene nelle ricche società dell’Occidente, in cui gran parte della popolazione può permettersi il lusso di mangiare quello che desidera, non ciò di cui ha bisogno per sopravvivere. I poveri non ragionano in questo modo. Per loro il pane costituisce l’alimento essenziale, come lo è stato per secoli nella società europea.

Quando si afferma la civiltà del pane? Plinio ricorda che nell’antica Roma i primi forni comparvero nel II secolo avanti Cristo. Nella civiltà mediterranea il pane fu l’alimento fondamentale, presente non solo nella civiltà romana ma anche in quella greca, babilonese ed egiziana. Autentico prodotto della civiltà agricola derivato dai cereali, esso garantiva agli uomini e alle donne le calorie necessarie per vivere. Non è un caso se Omero lo descrive come alimento degli uomini civili in opposizione ai barbari che, vivendo di pastorizia e nomadismo, non lo conoscono. “Mangiatori di pane” sono per Omero gli uomini.

pane cattoliciSe il riso costituiva l’alimento primario per la Cina, il mais per le popolazioni dell’America meridionale, il sorgo per quelle africane, il grano fu la base dell’alimentazione mediterranea. Nella tarda romanità e nell’alto Medioevo il pane raggiunse il Nord germanico contendendo alle carni il primato di alimento fondamentale: un processo che si spiega con la diffusione europea del cattolicesimo. Il pane per i cristiani non è solo il corpo di Gesù. E’ il vero simbolo della fede che, coltivata, macinata, impastata, fermenta nei cuori dei fedeli portandoli alla salvezza eterna. Sant’Agostino ci ha lasciato in proposito pagine memorabili. Certo, in una civiltà come quella nord-europea basata sul largo consumo di carne, il pane fatica ad affermarsi come alimento fondamentale nella dieta delle persone. Esso tuttavia si diffonde sempre più nel corso del basso Medioevo: l’aumento della popolazione, provocando una diminuzione degli spazi cui era possibile accedere per la caccia di animali, rese il pane l’alimento essenziale per i contadini e in particolar modo per le classi urbane.

Per buona parte dell’età moderna fino al Settecento, cura costante dei poteri pubblici europei fu di garantire alle città un mercato ben fornito di pane con prezzo calmierato per i ceti popolari. Lo smercio dei cereali non obbediva alla libera legge della domanda e dell’offerta ma era regolato su prezzi politici perché le classi povere potessero procurarsi senza difficoltà un alimento basilare per l’esistenza della persona.

Negli Stati italiani d’antico regime ogni città si riforniva facendo arrivare i cereali dai contadi circostanti sottoposti al suo dominio. A Milano la più antica istituzione civica, il Tribunale di Provvisione, fu costituita nel 1279 con il compito di impedire che i cereali venissero esportati oltre il territorio del Comune. Tale magistratura sarebbe stata soppressa solo con l’arrivo in Lombardia del generale Bonaparte, nella primavera del 1796. Composto dal Vicario e da dodici funzionari provenienti dalle sei porte cittadine (i quartieri del centro di Milano), il Tribunale aveva tra le sue funzioni quella di assicurare la circolazione di questo bene di prima necessità.

Il duca di Milano, Gian Galeazzo Visconti, emanò il 13 luglio 1386 la prima normativa che vietava l’esportazione dei cereali senza un apposito permesso dell’autorità pubblica. L’obiettivo dichiarato era di evitare carestie nel territorio milanese.

Sotto il dominio spagnolo, le Novae Constitutiones emanate da Carlo V nel 1541 – la suprema fonte dell’ordinamento giuridico lombardo erede del diritto visconteo-sforzesco – riservavano all’annona un’intera sezione intitolata De praefectis annonae.  Cosa significa “annona”? Con questo termine ci si riferiva all’organizzazione della pubblica alimentazione da parte del potere politico (dal latino Annona, dea delle biade dell’anno). I prefetti dell’annona erano incaricati di presiedere all’amministrazione e alla giurisdizione su questa materia cruciale per la popolazione del ducato. L’incipit di questa sezione descrive bene l’importanza di tale magistratura nello Stato di Milano d’antico regime:

Non sine ratione Magistratus annonae in excelsa urbe Mediolani constitutus est, qui curam annonae per universam Mediolanensem ditionem haberet. Studeretque ut ordines in eam causam facti observarentur. Quia per huius Magistratus constitutionem, annonae ubertas conservatur ad commodum subditorum & huius imperii tutelam.

[Non senza ragione fu istituito nell’eccelsa città di Milano il Magistrato dell’Annona, perché avesse la cura dell’annona su tutto quanto il milanese nell’accezione ampia del termine, perché operasse affinché fossero rispettati gli ordini emanati su questo tema. Perché, mediante la formazione di questa istituzione, venisse assicurata l’abbondanza dell’annona per il bene dei sudditi e per la sicurezza di questo dominio]

Nella città di Milano, come si è ricordato, tale funzione era gestita dal Vicario e dai XII di Provvisione. Due erano gli ambiti in cui operava questa magistratura civica: il mercato dei cereali, la produzione e la vendita del pane.

Quanto al mercato dei cereali, occorre ricordare che la maggior parte delle operazioni commerciali avveniva nel Mercato del Broletto, il luogo ove doveva essere sistemato il grano proveniente dal contado avendo cura che la merce non subisse furti lungo il trasporto.

Il forno delle grucce
“Il forno delle Grucce” . Incisione di Gonin tratta dai Promessi Sposi

Altrettanto importante era la gestione della produzione e vendita del pane, l’alimento basilare dei milanesi nell’età moderna fino all’Ottocento. Erano prodotti a tal proposito due tipi di pane: il pane bianco, ricavato dal frumento, accessibile alla nobiltà e alla ricca borghesia; il pane di mistura formato da segale, granoturco e miglio. Due corporazioni distinte gestivano la preparazione e la vendita di questi tipi di pane. I prestinai del pano bianco erano in tutto 13 persone che gestivano in via esclusiva lo smercio di questo alimento a Milano. I 13 forni si trovavano in diversi luoghi: oltre a quelli operanti nei sei quartieri cittadini fino ai Bastioni – ad esempio il celebre “prestin dii Scansch” manzoniano in corsia dei Servi, oggi corso Vittorio Emanuele, per il sestiere di Porta Orientale e altri nei sestieri di Porta Romana, Ticinese, Vercellina, Comasina, Nuova – c’erano panettieri “alla Cicogna” (probabilmente ove si trovava palazzo Cicogna – oggi scomparso – in via Unione), a Sant’Ambrogio, alla Rosa (zona piazza San Sepolcro), alle Farine (zona Duomo), ai Rosti (zona San Giorgio al Palazzo), al Cordusio e ai Bossi (zona via Broletto). Alla corporazione del pane misto appartenevano invece più di 100 membri, i quali non potevano certo permettersi gli alti guadagni riservati ai 13 “panettieri privilegiati”.

D’altra parte occorre rilevare che, diversamente dai panettieri che producevano il pane di mistura, i 13 fornai di pane bianco non erano proprietari dei forni ove lavoravano. Tali negozi erano di famiglie nobili o di corporazioni religiose che li affittavano alla corporazione dei prestinai delegando a un organismo del patriziato milanese, la congregazione del Banco di Sant’Ambrogio, la gestione dei lucrosi affitti triennali. Potente istituzione composta da membri del patriziato, questa congregazione svolse nel Settecento un’attività di sorveglianza sui panificatori.  Si pensi che essa poteva revocare a suo piacimento il contratto con uno o più panettieri se non era soddisfatta del servizio o se questi ultimi non fornivano le necessarie garanzie di tutelare i suoi interessi.

A partire dagli anni Sessanta del Settecento, quando i prezzi dei cereali (e quindi del pane) iniziarono a salire in Europa in seguito all’aumento della popolazione, il governo asburgico intraprese alcune inchieste tese a migliorare il commercio e la produzione di questo bene agricolo. Non si arrivò alla piena liberalizzazione dei grani nel commercio interno ed estero quale si ebbe ad esempio nel Granducato di Toscana, ma si assicurò con gli editti del 1770 e del 1771 una parziale liberalizzazione all’interno della Lombardia austriaca. Così, ad esempio, la riforma del 29 agosto 1770 abolì i divieti nel numero dei panettieri rendendo possibile a chiunque produrre e vendere il pane. Cadeva il monopolio tradizionale dei 13 ‘panettieri bianchi’. Se era uscita sconfitta la linea di Pietro Verri e degli imprenditori agricoli, i quali propugnavano la piena liberalizzazione del settore per massimizzare i guadagni, d’altra parte avevano vinto economisti quali Cesare Beccaria e Gian Rinaldo Carli, aperti a una cauta liberalizzazione, diffidenti verso un’astratta legge del mercato che rischiava di impoverire i ceti popolari. Il governo austriaco, alle prese con gravi problemi di ordine pubblico per le carestie avvenute in Boemia e in Moravia, temeva che, ove fosse stata realizzata una piena liberalizzazione, la popolazione lombarda non avrebbe avuto pane a sufficienza.

Il governo austriaco promosse quindi il libero commercio di cereali all’interno della Lombardia austriaca mediante la graduale abolizione delle corporazioni, ma non rinunciò ad intervenire con azioni volte a salvaguardare i bisogni delle classi disagiate.