In un passo dell’ode Il Mattino, all’interno della nota critica alla vita oziosa del nobile signore, Giuseppe Parini prendeva in esame il vincolo del matrimonio, osteggiato dal ricco rampollo cui è rivolta la satira del poeta. Seguiva, poche righe più avanti, un chiaro riferimento all’istituzione tipicamente settecentesca del cicisbeismo, vale a dire alla pratica con cui le donne della nobiltà italiana erano solite frequentare i salotti culturali accompagnate da un uomo cui erano legate da sentimenti di affetto e – in alcuni casi – di amore.
Assai pensasti a te medesimo: or volgi
Le tue cure per poco ad altro obbietto
Non indegno di te. Sai che compagna,
con cui divider possa il lungo peso
di quest’inerte vita, il ciel destina
Al giovane signore. Impallidisci?
No, non parlo di nozze: antiquo e vieto
Dottor sarei, se così folle io dessi
A te consiglio. Di tant’altre doti
Tu non orni così lo spirto e i membri
Perché in mezzo alla tuo nobil carriera
Sospender debbi ’l corso, e fuora uscendo
Di cotesto a ragion detto Bel Mondo,
Intra i severi di famiglia padri
Relegato ti giacci, a un nodo avvinto
Di giorno in giorno più penoso e fatto
Stallone ignobil della razza umana. […]
Pera dunque chi a te nozze consiglia,
Ma non però senza compagna andrai,
Che fia giovane dama e d’altrui sposa;
Poiché si vuole inviolabil rito
Del Bel Mondo onde tu se’ cittadino.
[Hai pensato molto a te stesso: ora concentra un poco la tua attenzione ad un altro tema degno di te. Tu sai il cielo assegna al giovin signore una compagna con cui possa dividere questa vita inoperosa. Impallidisci? No, non parlo di matrimonio: sarei un poeta vecchio e inutile se dessi a te un consiglio così folle. Il tuo spirito e le tue membra non sono così provviste di tante doti perché tu debba sospendere a metà il corso della tua carriera nobile e, lasciando quel che a ragione si dice “bel mondo”, tu finisca relegato tra i severi padri di famiglia, avvinto a un nodo che ogni giorno diviene più penoso, ridotto a stallone ignobile della razza umana. […] Muoia dunque chi a te consiglia il matrimonio, ma non per questo andrai senza compagna, la quale sarà una giovane donna e maritata con un altro uomo; perché così vuole il rito inviolabile del bel mondo di cui sei cittadino].
[G. Parini, Il Mattino in G. Parini, Poesie, a cura di Guido Mazzoni, Istituto Editoriale Italiano, Classici Italiani Novissima Biblioteca diretta da Ferdinando Martini, Milano, s.d., pp.38-39].
Il quadro della società milanese settecentesca che Parini tratteggiava in questi versi era assai diffuso tra la nobiltà. Occorre ricordare che nei secoli precedenti, tra il Cinquecento e il Seicento, la vita sociale della donna si era svolta per lo più all’interno delle mura domestiche, in una condizione di completa sottomissione al marito. La nobildonna si trovava al suo fianco nei momenti per così dire istituzionali della famiglia, ad esempio nelle riunioni dei casati nobiliari con i quali si era imparentati: pochi momenti di apparizione “in pubblico” in un’esistenza che si svolgeva entro le spesse mura del palazzo nobiliare.
Alla fine del Seicento e nel corso del Settecento la moda francese imposta dalla vita di corte di Versailles si diffuse progressivamente in Europa, il che contribuì a mutare la condizione della donna nobile cui fu consentita una maggiore libertà di movimento. Le conversazioni nei salotti culturali, spesso tenuti dalle nobildonne nei palazzi ove vivevano, contribuirono a una certa emancipazione. Varrà la pena ricordare, a tal proposito, il celebre salotto milanese della contessa Clelia Borromeo del Grillo che si tenne nella prima metà del Settecento nel palazzo Borromeo di via Rugabella.
Il permanere di logiche tradizionali in base alle quali i matrimoni erano combinati dalle famiglie nobili in base ad interessi cetuali, patrimoniali e finanziari senza alcuna importanza alle inclinazioni delle persone, finì con il favorire, nell’Italia del Settecento, l’instaurarsi di legami affettivi esterni al vincolo coniugale, legami stretti dalle nobildonne con uomini di pari ceto spesso con il consenso dei mariti. Si trattava in fondo di una forma di compensazione nella sfera degli affetti per una donna che veniva spesso unita a un marito assai più anziano, sprovvisto di bellezza fisica e di doti intellettuali.
E’ opportuno chiedersi per quale motivo il fenomeno del cicisbeismo fosse più diffuso in Italia e meno in Francia, nei principati e città del Sacro Romano Impero Germanico e più in generale dell’Europa del Nord. Credo che la risposta sia da ricercare nella maggiore libertà di movimento consentita alla donna europea del Settecento, mentre in Italia si sentì l’esigenza di controllare le sue uscite in pubblico accompagnandola ad un uomo che potesse garantire la sua onorabilità e sicurezza. Nelle città italiane il potere delle famiglie patrizie, radicato nelle istituzioni degli antichi Stati, contava ancora molto, tanto nelle repubbliche quanto nei regni informati alla vita di corte dei sovrani illuminati.
A Milano credo che il fenomeno riguardasse in molti casi i cadetti dell’aristocrazia: questi, non potendo fruire delle pingui rendite patrimoniali riservate al primogenito, educati alle lettere e alle armi più che al lavoro per l’appartenenza all’ordine nobiliare, dovevano accontentarsi di una piccola rendita che era però insufficiente a mantenere una famiglia. Di qui la vita celibe di modesti redditieri, allietata dall’affetto che li legava alle dame di pari ceto in forza del ruolo di cicisbei o di cavalier serventi che accettavano di ricoprire.
Per molti si trattava di una condizione sicuramente preferibile rispetto a quella degli altri cadetti economicamente meno fortunati: alcuni di questi nobili erano costretti ad entrare nell’ordine ecclesiastico rinunciando al mondo secolare per vivere nel celibato religioso, protetti dalla sicurezza economica che conferiva loro il beneficio. Altri invece si arruolavano nell’esercito dedicandosi – com’era tradizione – a una carriera militare che, nel Settecento, li costringeva a lunghe campagne lontano dalla patria di origine.
Cesare Beccaria, nelle Lezioni di economia pubblica tenute nelle Scuole Palatine di Milano dal 1769 al 1773, non esitò ad esprimere tutta la sua avversione per questi celibi: essi erano colpevoli di assumere comportamenti libertini e di mancare ai doveri della procreazione legati alla formazione e al mantenimento della famiglia. Le sue critiche erano mosse all’utilizzo infruttuoso delle piccole rendite di posizione, ristrette al puro e semplice mantenimento del nobile, non impiegate ai fini della ricchezza e della prosperità della nazione. Non faceva un’esplicita menzione dei cicisbei ma non era difficile capire a quali persone si riferisse quando condannava il celibato dei nobili. L’illuminista lombardo mostrava invece un profondo rispetto per il celibato religioso e la dura vita dei soldati.
Se questo stato (il celibato) si diffonde di troppo, egli diventa piuttosto apparente che reale; le facili e tenebrose risorse del libertinaggio compensano una privazione, e la natura si rivendica, ma a carico altrui, e senza raccoglierne alcun frutto. Non parlo di quel sacro celibato che nelle più auguste funzioni della religione si occupa; non parlo di quello che lontano dal tumulto seducente della frequenza si conserva, incontaminato, fra gli appartati ritiri d’una mesta solitudine; ma parlo di quello che, usurpando la considerazione dovuta al vero celibato religioso, grandeggia nella società soltanto per la scelta calcolatrice d’interesse, non per intima superiore spinta di motivi sovraumani. Dico che in questo caso il celibato o è religioso affatto, e le distinzioni mondane e i premi sociali sono alieni del tutto dal suo scopo, o è secolare e realmente profano, e allora dovrebbe cedere in tutte le occasioni alla classe perpetuatrice [la famiglia unita in matrimonio finalizzata alla procreazione NdR]. […]
Oltre a ciò è necessario che questo stato perpetuatore del genere umano [la famiglia] sia…sopra ogn’altro onorato. Perché abbandonarlo totalmente ai sentimenti della natura o alla calcolatrice indagine dell’interesse, mentre taluni, senza i gravi e più sublimi motivi, per un volubile entusiasmo o per una libertina avversione ad ogni legame, osano sottrarre una serie di generazioni che aspettano di respirar aura vitale dagli oscuri recessi dell’insensibilità ed inazione, carpiscono le distinzioni le più lusinghiere, mentre dovrebbono sovente a quella oscurità condannarsi, cui condannano una numerosa posterità?
[C. Beccaria, Elementi di economia pubblica in ID., Scritti economici, vol.III dell’Edizione Nazionale delle Opere di Cesare Beccaria, Milano, Mediobanca 2014, pp.139-140]
Uno dei turisti russi che nel secolo scorso visitò Milano ricavandone un’impressione indelebile è lo storico dell’arte Pavel Muratov (1881-1950). Dopo aver soggiornato a Roma nel novembre 1911, Muratov si spostò nell’Italia settentrionale ove visitò Venezia e Milano. Nella città del Duomo trascorse alcuni mesi del 1912. Le sue riflessioni su quel viaggio furono pubblicate molti anni dopo, in un volume, Obrazy Italii, pubblicato nel 1924. In effetti, non è la prima volta che mi occupo di un turista russo in visita a Milano. In un post di un anno fa ho descritto ad esempio il soggiorno del pittore Vladimir Jacovlev avvenuto nel 1847.
Torniamo allo storico Muratov. Quando giunse a Milano, questi fu colpito da un certa aria di modernità. Rispetto alle città d’arte che aveva visitato nei mesi precedenti – Roma e Venezia – la città ambrosiana gli appariva animata da uno spirito d’intraprendenza, da un dinamismo tipico delle grandi metropoli europee. Al turista che amasse l’Italia per le sue antichità, per le sue maestose rovine segno di un grande passato, il primo contatto con Milano avrebbe destato una certa delusione.
Al viaggiatore, di ritorno da Roma o da Venezia, Milano appare come una città europea qualsiasi, situata oltre i confini dell’Italia vera e propria, cui la unisce soltanto un tenue legame. Non senza sforzo egli si impone di soffermarsi sul passato artistico milanese, mentre inevitabilmente i suoi pensieri e i suoi sentimenti lo riportano a ciò che ha appena lasciato.
[Per questi e altri passi dell’opera di Muratov si veda la traduzione in italiano a cura di Patrizia Deotto pubblicata in “Storia in Lombardia”, anno XXXIII, n.1., 2013, pp.59-94]
Queste tuttavia – si affrettava a chiarire Muratov – erano impressioni superficiali che potevano cogliere il turista che ad esempio avesse prenotato un albergo vicino alla Stazione Centrale, che si trovava a quei tempi in piazza della Repubblica. Per chi invece avesse voluto visitare attentamente la città ambrosiana, entrando in contatto con il vero spirito milanese, il suggerimento era di pernottare nel centro cittadino, magari a Piazza Fontana dove – sono parole di Muratov – “gorgoglia l’acqua delle Sirene e fino al mattino risuonano i canti e le arie dei concittadini della Scala, che rientrano a casa dai teatri e dai caffè senza pretese”. Le sirene sono le statue in marmo di Carrara della fontana disegnata dal Piermarini e realizzata da Giuseppe Franchi nel 1782.
Nel descrivere la città, Muratov oscillava tra due posizioni. Da un lato traspariva la sua ammirazione per la capitale morale del Paese, la città simbolo dell’Italia che guarda al futuro, dell’Italia industriosa che vive nella modernità differenziandosi nettamente da un’Italia “museo” immersa nel culto delle sue rovine e dei suoi monumenti.
Milano rimane una grande città, dove la modernità prevale su tutto il resto. […] Il soggiorno a Milano, probabilmente, ci insegnerà a riconciliarci con l’Italia di oggi. Tutti noi, ospiti di questo paese, avremmo dovuto da tempo considerare come un nostro dovere tale atteggiamento. Guardare alle città italiane soltanto come a musei, a cimiteri o a rovine romantiche, dove gli abitanti di oggi non sempre sono le degne comparse, significa mostrarsi irriconoscenti verso l’ospitalità che il paese e la nazione ci riservano. Questa nazione vive, respira, esiste; ha non soltanto un passato, ma anche un presente.
D’altra parte Muratov era affascinato dal tessuto medievale della vecchia Milano, che nei primi anni del Novecento era possibile cogliere ancora in modo significativo. Egli pareva bocciare gli interventi radicali della seconda metà dell’Ottocento che avevano compromesso l’unità del nucleo urbanistico originario.
Muratov ricordava il viaggio che Stendhal aveva compiuto quasi un secolo prima. In una delle sue celebri passeggiate per il centro, lo scrittore francese era partito dal Teatro alla Scala e, dopo aver attraversato la contrada di Santa Margherita, era giunto alla piazza dei mercanti per terminare il suo giro in piazza del Duomo. Muratov decise di ripercorrere l’itinerario di Stendhal, ma non mancò di rilevare le grandi differenze tra la città che aveva visto lo scrittore francese (che nel primo Ottocento contava 120.000-150.000 abitanti) e la città da lui visitata. Una Milano popolata ai primi del Novecento da più di 700.000 abitanti.
La demolizione dell’antica piazza dei Tribunali con le sue cinque porte storiche ove convergevano i principali corsi cittadini era ricordata dallo storico russo come esempio imperdonabile di cancellazione dell’antico isolato medievale: sulle loro macerie furono costruite via Mercanti e via Dante per collegare il Duomo al Castello Sforzesco. A proposito di via Dante, Muratov non esitò a bocciarla con un giudizio netto. Ricordava poi la demolizione degli isolati antistanti al Duomo, che furono abbattuti per far luogo alla piazza immensa esistente oggi:
La Piazza dei Mercanti, un tempo pittoresca, che si affacciava con le sue cinque porte sulle vie attigue, è attraversata da una nuova strada che poco più avanti assume un aspetto respingente, nonostante porti il nome di via Dante. Nel 1859 la piazza del Duomo ha perso i suoi antichi portici, che risalivano all’epoca di Gian Galeazzo Visconti. Innumerevoli tram compiono il loro eterno giro della piazza, accompagnati dal fastidioso stridere delle ruote e dal suono del campanello. La folla accorre a frotte all’imbocco della Galleria – prototipo di tutti i passages a vetrate.
Sugli “antichi portici” Muratov commetteva un errore. Il Coperto dei Figini era un edificio quattrocentesco che non risaliva al governo di Gian Galeazzo Visconti, bensì al periodo sforzesco essendo stato edificato tra il 1467 e il 1480 su disegno di Guiniforte Solari:
In fondo la Milano più cara a Muratov era quella secolare risalente alla tarda romanità, al medioevo, all’antico regime fino a Napoleone, la cui cifra urbanistica egli era in grado di cogliere nelle antiche contrade che portavano verso l’Ospedale Maggiore, verso Sant’Eustorgio o il palazzo Borromeo nell’omonima piazza:
Lasciamo ora il Duomo e la Scala e inoltriamoci nell’intrico di vie che conducono verso l’Ospedale Maggiore, il Palazzo Borromeo, la Chiesa di Sant’Eustorgio. Qui non c’è quasi nulla della Milano moderna, mentre molto si conserva della Milano antica, costruita con impeccabile buongusto e discrezione nel Cinquecento, nel Seicento e persino nel Settecento fino all’epoca napoleonica. Questa Milano è rimasta, almeno per tre quarti, intatta….
A me pare che oggi sia molto difficile cogliere nella sua interezza il vecchio tessuto urbanistico della città. Qualcosa è possibile ancora vedere nel quartiere vicino al palazzo Borromeo, dove si trovano le Cinque Vie e i resti della Milano romana ma anche lì ci sono stati interventi radicali come ad esempio nella zona attorno alla Borsa e alla piazza degli Affari. Molto meno si è conservato in Porta Ticinese o verso l’Università degli Studi: qui gli interventi di epoca fascista hanno sconvolto ancor più in profondità l’antica impronta medievale. Gli isolati del Bottonuto furono demoliti – com’è noto – negli anni Trenta per costruire piazza Diaz. Considerazioni non molto dissimili possono essere fatte per la zona intorno a piazza della Vetra in Porta Ticinese. Il vecchio tessuto urbanistico riemerge qua e là, quasi a macchia di leopardo. Il turista attento, che possa contare su una buona guida, è ancora in grado di vedere gli edifici del tempo antico, spesso nascosti dietro i palazzi moderni.
In fondo, le memorie di Muratov sono importanti perché ci consentono di individuare i segni materiali, gli elementi tipici di questa Milano vecchia: dalle case nobili, che presentavano cortili interni articolati in colonne di granito secondo il disegno delle case patrizie dell’antica Roma, alle strade in pietra, agli stessi campanili delle chiese.
Queste antiche vie milanesi sono eleganti con le loro facciate dei palazzi in ombra, con le due caratteristiche strisce di listoni di pietra che corrono parallele al centro dell’acciottolato. Spesso alla fine di queste strade svettano tipici campanili lombardi quadrangolari, in laterizio, segnalando la presenza di alcune chiese storiche di Milano: Sant’Ambrogio, Sant’Eustorgio, San Sepolcro, San Gottardo. Molte di esse erano situate ad anello intorno alla vecchia Milano, lungo il “Naviglio”, lo stretto canale che circondava la città.
Questo, il Naviglio Interno, era un altro prezioso elemento della Milano di Stendhal che la Milano del 1912 ancora conservava. Una infrastruttura secolare che consentiva la navigazione dai laghi alla città. Elemento distintivo dell’identità milanese, il Naviglio interno fu costruito alla fine del Quattrocento. Com’è fin troppo noto, esso venne chiuso dai fascisti pochi anni dopo la visita di Muratov, nel 1929/30.
Lo storico russo osservava come il Naviglio cingesse ancora gran parte del centro storico, attraversando da un lato i quartieri di Porta Ticinese e di Porta Romana, popolati da un’operosa borghesia di artigiani, commercianti e impiegati, dall’altro i quartieri aristocratici di Porta Orientale e Porta Nuova, ove si trovavano gli eleganti giardini dei palazzi nobiliari, luoghi d’incantevole bellezza.
Sul Naviglio, che spesso lambiva non le rive, ma le facciate stesse delle case oppure i recinti dei giardini e dei cortili, si possono scorgere i lati più pittoreschi della vita milanese: quella popolare nei dintorni di San Nazaro e di San Lorenzo e quella signorile dalle parti della Chiesa di Santa Maria della Passione, famosa per l’iscrizione incisa sul suo portale: “Amori et dolori sacrum”.
Sulla riva del Naviglio si affaccia il Palazzo Visconti di Modrone, [tuttora esistente nella via omonima], che ispirò ad André Suarez queste righe per il suo Voyage du condottière:
“Sembra fatto apposta per offrire un rifugio agli amori segreti e forse peccaminosi. Un giardino di alberi secolari, pieno di gelsomini e di rose, cade a picco sullo specchio delle acque morte; è delimitato da una balaustrata di pietra, pomposa e un po’ pesante, e pur tuttavia elegante. Il verde e i fiori animano il silenzio, e la loro presenza appassionata è l’unica festa in questo quartiere miserabile della città. Degli amorini sorreggono uno stemma…la giovane vite e i rami degli alberi carezzano lievi ogni voluta, ogni riccio della balaustrata. Tra le foglie si delinea un loggiato a sei archi che separa le due ali del palazzo. Dolce giardino segreto, incantevole riparo! Lo zampillo di una fontana lancia il suo getto cangiante nel sole. Il canale riflette i rami degli alberi, lasciando galleggiare le foglie sulle sue acque meste. A Milano non c’è altro rifugio per il sogno, l’amore e la malinconia”.
In un post pubblicato nel gennaio del 2015, ho preso in esame il mondo dell’associazionismo nella Milano dei primi anni della Restaurazione. Oggi desidero ricordare una interessante iniziativa, poco conosciuta, che il conte Federico Confalonieri intraprese negli anni precedenti ai moti del 1820-21.
Nel campo dell’istruzione elementare, Confalonieri fondò una società il cui fine risiedeva nell’istituire in Lombardia le scuole di “mutuo insegnamento”, istituti già operanti a quei tempi in Stati europei quali l’Inghilterra, la Francia, l’Austria, la Toscana, il Regno di Napoli. In Lombardia l’insegnamento elementare obbligatorio – “normale” come si diceva a quei tempi – era stato introdotto fin dagli anni Ottanta del Settecento sotto il regno di Giuseppe II. Qual era pertanto la novità delle scuole che il patrizio milanese intendeva costituire in Lombardia?
Gli istituti di Confalonieri avrebbero seguito il metodo sperimentato in Inghilterra da Andrea Bell e Joseph Lancaster che consisteva nell’educare i bambini all’impegno nello studio assegnando come premio ai più meritevoli la responsabilità di insegnare agli alunni delle classi inferiori. Un metodo quindi ove la disciplina e l’obbedienza ai maestri era premiata con l’assegnazione di ruoli di responsabilità in campo didattico agli scolari più diligenti. Questo metodo presentava il vantaggio d’impiegare pochi maestri e di risparmiare le spese per la gestione dei corsi. La scuola cui pensava Confalonieri era una scuola cattolica che sembrava ispirata più ai metodi del cappellano Bell che a quelli aconfessionali del quacchero Lancaster. Alle scuole di mutuo insegnamento potevano essere iscritti gratuitamente bambini di un’età non inferiore ai sei anni, ai quali sarebbe stato insegnato a leggere, a scrivere e a svolgere le operazioni aritmetiche mediante l’ausilio di apposite tavole.
Per reperire i fondi con cui aprire queste scuole, Confalonieri ricorse principalmente all’aiuto delle famiglie nobili con cui aveva rapporti. I primi azionisti furono in tutto 31, che accettarono di versare 80 lire all’anno per quattro anni affinché la società potesse aprire i suoi istituti educativi. Molti di loro appartenevano alle famiglie dell’antica nobiltà ed erano amici di lunga data: ad esempio Luigi Porro Lambertenghi, Giulio Beccaria (figlio del famoso Cesare), Alessandro Visconti d’Aragona, Gian Battista Litta Modigliani. La prima scuola di mutuo insegnamento, riconosciuta dalle autorità, fu aperta a Milano l’11 marzo 1820 nell’oratorio di Santa Caterina, una cappella – oggi visitabile – interna alla chiesa di San Nazzaro, nel sestiere di Porta Romana. Vi furono iscritti 300 alunni. In realtà, un’altra scuola era stata aperta fin dal primo ottobre 1818, quasi due anni prima, nell’antico monastero di Sant’Agostino in via Monte di Pietà nel sestiere di Porta Nuova, vicino alla casa di Confalonieri: gli iscritti erano 200. Il costo delle singole azioni, già alquanto ridotto se rapportato ad altre associazioni costituite dal patrizio milanese in quegli anni, venne abbassato nel regolamento del 1819 a 20 lire ciascuna. L’acquisto di un’azione conferiva il diritto d’iscrivere gratuitamente tre bambini.
I fondi così ottenuti consentirono di pagare i maestri, l’affitto dei locali, i materiali per l’insegnamento e , come scritto nel regolamento della Società “piccoli premi d’incoraggiamento mensili ed annuali da darsi a quegli allievi che colla loro condotta avranno meglio meritato”.
In quale modo sarebbe avvenuto concretamente l’esercizio dell’attività didattica? Scriveva Confalonieri:
Gi allievi non potranno essere ammessi prima degli anni 6 compiti e dovranno presentarsi muniti dell’attestato di vaccinazione. Essi saranno ogni mese visitati nella scuola da un medico delegato a sopravvegliare alla salubrità del locale, allo stato di loro salute, ed a prevenire e a riparare a quegli inconvenienti cui possono essere specialmente esposte le numerose riunioni di fanciulli.
Le pene corporali d’ogni genere saranno escluse, ed i castighi s’aggireranno sul perno dell’emulazione che saggiamente e moderatamente impiegata forma la base principale del sistema.
Si daranno nella giornata circa cinque ore di insegnamento, diversamente distribuite secondo le varie stagioni. La preghiera precederà e chiuderà gli esercizi giornalieri, e la domenica sarà divisa tra gli atti della religione ed un’utile ricreazione propria a sollevare l’animo della gioventù ed a meglio prepararla al successivo studio.
Quantunque non abbiano queste scuole per iscopo l’addottrinamento religioso, pure essendo interessantissima cosa l’istillare nel cuore dei fanciulli coi primi elementi dell’istruzione i principi della religione e della morale, le tabelle che dovranno servire d’esempio per la scrittura, e di esercizio per la letteratura conterranno per lo più massime e precetti religiosi e morali, e per le classi più avanzate il catechismo e gli elementi della storia sacra e profana. Tutte queste tabelle stampate ed uniformi saranno sottoposte alla approvazione dell’autorità superiore.
[Società fondatrice delle scuole gratuite di mutuo insegnamento formatasi in Milano il 1° gennaio 1819 in F. Confalonieri, Memorie e lettere, a cura di Gabrio Casati, Milano Hoepli, 1889, vol.I., pp.277-279].
Il governo austriaco riconobbe inizialmente la bontà di queste scuole. L’autorizzazione arrivò con decreto del Viceré Ranieri del 13 marzo 1819. Altre scuole furono aperte in Lombardia. Quantunque le autorità avessero i mezzi per esercitare un ferreo controllo sui contenuti dell’insegnamento – come previsto dallo stesso Confalonieri nel regolamento che si è appena citato – le scuole di mutuo insegnamento furono chiuse pochi mesi dopo, fra l’autunno del 1820 e l’inverno del 1821. Le paure legate allo scoppio delle rivoluzioni liberali a Napoli e a Torino spinsero gradualmente i governi europei a cessare questo esperimento e a tornare al metodo tradizionale delle scuole “normali”: metodo fondato sul ruolo del maestro, unico titolare dell’attività didattica senza alcun coinvolgimento dei discenti. Scriveva sconsolato Confalonieri in una lettera all’amico Gino Capponi del 25 settembre 1820:
Le scuole di mutuo insegnamento furono tutte fulminate in Lombardia, meno le due nostre in Milano perché venturatamente sacramentate con superiore decreto nel loro nascere. Non è peraltro consentita la loro conservazione che fino alla completa attivazione del precellente (sic!) metodo austriaco.
[Dalla lettera di Federico Confalonieri all’amico fiorentino Gino Capponi, 25 settembre 1820, in F. Confalonieri, Memorie e lettere, a cura di Gabrio Casati, Milano Hoepli, 1889, vol.II., pag.92]
In una vecchia guida di Milano pubblicata nel 1838 si consigliava una passeggiata con partenza dal lato nord della piazza dei Mercanti, nel punto in cui si dipartiva l’antica contrada dei Fustagnari, uno dei vicoli del centro che consentiva a quei tempi di raggiungere il Cordusio. Contrada dei Fustagnari: “nome applicabilissimo anche ai giorni nostri” scriveva l’anonimo estensore del libretto “per la preponderante quantità di fustagni che vi si vende” [Guida di Milano in otto passeggiate, Milano 1838, ristampa a cura de Il Polifilo, 2005, pag.131].
Quando ho saputo che la ditta Guenzati è soggetta a una procedura di sfratto perché le Assicurazioni Generali non intendono rinnovare l’affitto, il pensiero è corso subito alla storia di questo piccolo isolato compreso tra le vie Orefici, piazza Cordusio e via Mercanti; una zona ove operò fin dal Medioevo una borghesia mercantile specializzata nella vendita dei tessuti. Guenzati costituisce l’ultima preziosa testimonianza di quella storia milanese. Il Fai ha organizzato una raccolta firme affinché l’azienda non sia costretta a lasciare la sua storica sede. L’assessore alle politiche del lavoro, attività produttive, commercio e risorse umane, Cristina Tajani, ha visitato il negozio mostrando l’attenzione della giunta Sala al tema della salvaguardia dei negozi storici.
Oggi Guenzati è una ditta di alta qualità, particolarmente apprezzata da una raffinata clientela composta non solo da milanesi, ma anche da tanti cittadini italiani e stranieri che da anni apprezzano la vasta scelta degli articoli e l’attenzione premurosa di un personale esperto, pronto a soddisfare con discrezione i bisogni del cliente.
In realtà, se guardiamo a questo negozio con la lente della storia, ci accorgiamo che tali qualità non sono per nulla casuali o improvvisate. Sono il risultato di un fenomeno di “lunga durata”, frutto di un patrimonio di competenze che in quella bottega si è trasmesso per due secoli e mezzo. La storia della ditta Guenzati costituisce un esempio di successo ottenuto in forza di un autentico spirito di corpo tra i dipendenti. Spirito di corpo che ha consentito alla ditta di durare nei secoli nonostante l’estinguersi delle famiglie. Il marchio Guenzati si è fuso da tempo con la storia di Milano, in particolar modo con quella del quartiere di piazza dei Mercanti. Traslocare Guenzati significherebbe privare il centro di un pezzo importante della sua storia; una storia risalente alla borghesia milanese del basso Medioevo.
Risaliamo alle origini, al 1768, anno di nascita della ditta Guenzati nel commercio dei tessuti. Siamo nel periodo delle riforme asburgiche condotte da Maria Teresa d’Austria e dai suoi funzionari: grazie all’impulso del governo austriaco, è iniziata per Milano una stagione di rinnovamento nella società, nei costumi, nelle istituzioni politico amministrative del Ducato. In quell’anno Giuseppe Guenzati assunse la direzione della ditta sita in contrada dei Fustagnari al civico 1677, conferendole il nome “Ditta Giuseppe Guenzati”. Possiamo dire che la nascita del negozio avvenne nel segno della continuità con un modo di lavorare che avrebbe dato frutti duraturi. Giuseppe infatti non era nuovo del mestiere. Con la sorella Giuseppa aveva lavorato per anni alle dipendenze di Giovanni Bertani, la cui famiglia era proprietaria di quel fondaco fin dai primi del Settecento. Il matrimonio tra Giovanni e Giuseppa legò strettamente la famiglia Guenzati ai proprietari, la cui attività verteva principalmente sul commercio dei tessuti di seta. Alla morte di Bertani, Giuseppe subentrò nella gestione.
A quell’epoca, nel periodo compreso tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento, il patrimonio della ditta non doveva essere cospicuo. Sappiamo però che negli anni Quaranta del XIX secolo il nipote Giuseppe Guenzati “junior” non era soltanto un commerciante di tessuti, ma si era specializzato come intermediario nelle operazioni di vendita e acquisto della seta. Era divenuto, come si diceva allora, un “sensale” e questa fu un’attività che Giuseppe junior seppe svolgere da solo, senza l’aiuto di alcun membro della famiglia. Difatti, se controlliamo gli almanacchi napoleonici del 1808 e del 1812, non troviamo il nome dei Guenzati tra i principali “sensali di seta” attivi a Milano, segno che Agostino, padre di Giuseppe junior, era rimasto in quel periodo un semplice commerciante di tessuti.
Il “sensale” era un mediatore la cui attività consisteva nel fare in modo che le parti avessero i mezzi per fare affari rappresentandole se necessario nella firma dei contratti. I sensali di mercanzia operavano nel commercio di prodotti agricoli, agendo come intermediari tra i venditori e i compratori della merce. I primi guadagni considerevoli furono quindi opera di Giuseppe “junior”, figlio di Agostino, il cui nome compariva nella Guida di Milano per l’anno 1844 all’interno dei 24 sensali di seta operanti in città. Giuseppe – che abitava nel sestiere di Porta Comasina dapprima nella contrada del Rovello al civico 2304, poi in contrada Cusani al civico 2287 – raggiungeva a piedi, in pochi minuti, il suo fondaco che si trovava all’interno del sestiere ove abitava, alla fine del vicolo Fustagnari, a pochi metri dall’ingresso sul lato settentrionale della piazza dei Mercanti.
Oltre ad essere un ottimo commerciante, Guenzati fu un intellettuale operoso che riscosse una certa fama nella Milano asburgica. Nel “Giornale dell’Imperial Regio Istituto Lombardo di Scienze, Lettere ed arti e Biblioteca Italiana dell’anno 1847”, tra i testi di cui si raccomandava la lettura, due erano scritti da Giuseppe. Il primo, pubblicato nel 1846, si intitolava Manuale del cultore della seta; il secondo verteva sulla coltivazione delle patate (Il cultore dei pomi da terra, Milano, Valentini 1847).
Il primo libro era dedicato alla coltivazione dei gelsi e all’allevamento dei bachi da seta: l’autore, sulla base delle conoscenze acquisite nei suoi viaggi presso le varie cascine lombarde, forniva consigli sui metodi per disporre dei bachi migliori e ottenere una buona filatura dei bozzoli. Seguiva uno studio comparativo sui vari tessuti di seta presenti sulla piazza milanese, di cui si analizzava nel dettaglio la qualità. Per la verità, la parte relativa ai bachi riprendeva concetti che Giuseppe aveva già esposto alcuni anni prima, nel 1841, in un volumetto intitolato Vero metodo per far nascere la semente dei bachi da seta, loro processo, educazione. L’analisi dei vari tessuti costituiva invece il tratto innovativo del libro, il cui successo fu notevole. Nell’introduzione al volume sulla coltivazione delle patate, Giuseppe, nel ricordare la fortuna del suo “manuale”, rammentava con legittimo orgoglio il favore che esso riscosse non solo presso le autorità asburgiche in Lombardia, ma anche presso i governi di alcuni Stati italiani: il regno di Napoli e il regno di Sardegna.
“Lo scorso anno il Sottoscritto diede alla luce un suo opuscolo intitolato il Cultore della Seta, nel quale trovansi raccolte molte utili cognizioni per la riuscita di sì importante ramo della nazionale ricchezza. Detto opuscolo fu accolto con favore da Sua Altezza Imperiale il Serenissimo Arciduca Ranieri, Viceré del Regno Lombardo Veneto, come risulta dal rispettato rescritto 25 aprile 1846 n.2789, di sua Eccellenza il Signor Conte Governatore, con dichiarazione che l’Altezza Sua si è degnata di accettare di buon grado l’esemplare rimessole, commendando [lodando] lo zelo dell’Autore, e le pervennero parimente lodi da parte del Re di Napoli, col mezzo di suo Ministro dell’Interno…e che finalmente Sua Maestà il Re Carlo Alberto di Sardegna ha desiderato cinquanta copie di detto opuscolo, all’oggetto fossero diramate in tutte le provincie del suo Regno”.
Il declino della seta lombarda nella seconda metà dell’Ottocento spinse i commercianti ad estendere la loro attività ad altre tipologie di merce. Nella Guida generale di Milano pubblicata dall’editore Ticozzi nel 1873-74, la ditta Guenzati compariva ancora tra i principali operatori del settore nella città ambrosiana. La sede era descritta tuttavia come operante in “telerie e cotoni”: scompariva il riferimento alla seta.
Nel 1876 avvenne il secondo passaggio di proprietà della ditta in via Fustagnari. Rosa Casati, vedova di Giuseppe Guenzati, cedette l’attività ai dipendenti più brillanti: Luigi Meda e Giovanni Battista Tomegno. Quest’ultimo si distinse nella rigorosa conduzione degli affari, assicurando alla ditta un discreto margine di guadagno. Con i soldi che riuscì a procurarsi grazie alle brillanti operazioni di vendita Giovanni Battista poté far studiare due dei suoi figli, Domenico e Luigi: il primo divenne dottore commercialista, il secondo avvocato. Il terzo figlio, Giuseppe, avviato invece alla professione del commercio, affiancò il padre nei viaggi d’affari. Ben presto tuttavia, la passione per le stoffe spinse i fratelli ad unire le forze. La conoscenza dei traffici, la ricerca meticolosa dei tessuti, l’abilità nelle operazioni di vendita, furono caratteristiche che segnarono il successo del negozio di via Fustagnari, che tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento assurse a grande notorietà. Tra i clienti più illustri occorre ricordare San Giovanni Bosco, assai legato a Giuseppe Guenzati che lo presentò a Giovanni Battista Tomegno. Dopo la morte del Guenzati, i rapporti con il sacerdote si consolidarono grazie alla forte amicizia con i Tomegno. Quando giungeva a Milano, don Bosco non mancava di far visita ai dipendenti del negozio.
Il terzo passaggio di proprietà avvenne nel 1968. La tradizione di affidare l’attività ai dipendenti migliori venne rispettata anche in questo caso. Domenico e Luigi Tomegno, anziani e senza eredi, cedettero l’attività ad Angelo Moretti e a Vittorio Ragno. Quando venne assunto dai Tomegno, nel 1956, Vittorio era un giovane di 19 anni tutt’altro che inesperto. Cinque anni prima aveva imparato il mestiere lavorando come commesso presso la Tessuti Carlo Alberto.
Il tirocinio alla Guenzati non fu per nulla facile. I titolari erano inflessibili nel servizio alla clientela. In un’intervista rilasciata a Giuseppe Paletta e pubblicata alcuni anni fa dal Centro per la Cultura d’Impresa, Vittorio Ragno ricordava il duro lavoro cui dovette far fronte in un’ambiente in cui i colleghi ‘più anziani’, gelosi della competenze acquisite, erano tutt’altro che disposti ad aiutare i nuovi arrivati. L’impegno, l’umiltà, la dedizione costante al lavoro furono tuttavia qualità che premiarono l’impegno di Vittorio e di Angelo Moretti, consentendo loro di emergere in una ditta composta alle metà del Novecento di appena nove persone tra titolari, commessi e fattorini.
Tra i clienti più importanti della Guenzati meritano di essere ricordati nomi quali Galtrucco, Loro Piana; famiglie dell’alta borghesia meneghina quali i Borletti o i Bassetti; esponenti illustri della nobiltà milanese come i Dal Verme o i Visconti di Modrone.
Per queste ragioni, credo sia importante dare una mano a Luigi Ragno, figlio di Vittorio, perché la Guenzati continui a svolgere la sua attività nella sua storica sede tra Piazza Mercanti e il Cordusio.
Dopo il biennio 1796-1797 varrà la pena ricordare un altro periodo storico in cui Milano giocò un ruolo importante quale cantiere di progetti costituzionali. Avvenne pochi anni dopo. Il 14 giugno 1800 Napoleone sconfisse gli austriaci a Marengo in una memorabile battaglia. Da sette mesi era divenuto Primo Console della Repubblica Francese: il colpo di Stato del 18 Brumaio anno VIII (9 novembre 1799) lo aveva portato alla conquista del potere. L’Italia del Nord Ovest tornò sotto il dominio francese. La Repubblica Cisalpina fu ricostituita. In questo periodo, nel biennio 1800-1801, tra le autorità della Francia consolare e quelle cisalpine intercorse una serrata collaborazione per una riforma delle istituzioni che fosse in grado di restituire all’Italia quella stabilità geo-politica che era uscita gravemente compromessa durante il triennio repubblicano e la breve invasione degli austro-russi.
Quale utilità può rivestire quel periodo storico nel mondo di oggi? La Repubblica Italiana istituita da Napoleone nel gennaio 1802 apparteneva certamente a un costituzionalismo autoritario in cui, scomparso il principio della separazione dei poteri, tutto il peso della funzione politica era concentrato nel governo e nelle sue istituzioni tecnico rappresentative. A prima vista quella esperienza ha quindi ben poco da insegnarci. A un più attento esame, non si può negare tuttavia che quel periodo storico segnò il formarsi di una efficiente burocrazia di funzionari pubblici la cui dedizione alla causa dello Stato sarebbe stata rimpianta da almeno una generazione di uomini politici lombardi. Inoltre quegli ordinamenti, nonostante l’impianto autoritario che li informava, costituivano una variante del sistema rappresentativo che poté garantire la nomina agli uffici e alle cariche pubbliche di personale in larga parte preparato, reclutato in base al merito e alla competenza. Nella Costituzione francese dell’anno VIII il ricorso al popolo era limitato alla compilazione di liste di fiducia sulle quali un Senato conservatore avrebbe esercitato il diritto di elezione alle maggiori cariche della Repubblica.
Nelle parole dell’abate Joseph Emmanuel Sieyes – il padre del costituzionalismo autoritario di quegli anni, anche se il suo progetto non prevedeva la concentrazione del potere nella mani di una sola persona (Napoleone) come previsto dalla Carta del 1799 – quel sistema avrebbe risolto il problema della qualità della classe politica e dell’efficienza delle istituzioni spezzando la dipendenza che nelle democrazie parlamentari, fondate sull’elezione diretta delle assemblee, lega l’eletto al suo collegio elettorale nonostante il divieto del mandato imperativo. Nella Costituzione dell’anno VIII – e ancor più nel progetto di Sieyes – erano assai difficili fenomeni oggi diffusi come le clientele o la corruzione nella scelta dei funzionari e dei rappresentanti perché – avrebbe detto Sieyes – “nessuno deve essere nominato funzionario da coloro sui quali deve pesare la sua autorità”. L’abate aveva vissuto in prima persona la stagione della Rivoluzione francese e aveva toccato con mano quel clima drammatico di instabilità, corruzione e violenze che una concezione radicale della sovranità popolare aveva finito per provocare nel seno di uno Stato in profonda crisi politica. Il filtro costituito dalle liste di fiducia; la scelta dei funzionari e rappresentanti pubblici riservata a un Senato composto da tecnici e da alte personalità della cultura e della scienza; la divisione della funzione legislativa in più organi collegiali formati da personale competente, sottoposti alla direzione politica del governo rappresentante esclusivo dell’interesse pubblico: queste misure costituivano per Sieyes l’unica via per fondare un governo e una pubblica amministrazione rigorosamente impersonali, pienamente operativi, oggi diremmo sottratti agli interessi delle lobbies e degli interessi particolari che ostacolano il cambiamento e il progresso della società.
La situazione italiana nel 1800/1801
Nell’Italia tornata sotto il dominio francese non era più possibile imporre un ordinamento che replicasse quello rivoluzionario d’Oltralpe com’era avvenuto nelle repubbliche “giacobine” costituite durante il triennio 1796-99. Questo per due ragioni. Anzitutto occorre ricordare che metà della penisola si trovava sotto il dominio degli antichi sovrani: il papa era tornato in possesso dei suoi territori nel Centro Italia. I Borbone si erano ristabiliti al Sud dopo il crollo della repubblica partenopea. In secondo luogo la stagione del costituzionalismo “democratico giacobino” era finita. Napoleone l’aveva seppellita in Francia con la Costituzione dell’anno VIII e non aveva alcuna intenzione di riesumarla in Italia, checché ne pensassero i patrioti italiani.
Cessata la guerra, restava da gestire il resto dell’Italia centrale (la Toscana) e dell’Italia del Nord Ovest fino a Verona. Occorreva farlo senza farsi trascinare dalle ideologie o da modelli costituzionali estranei alla penisola. Napoleone in questo periodo seppe muoversi con spregiudicato realismo, guidato nell’azione politica dal fine esclusivo di stabilizzare la Francia mediante una cintura di Stati che fossero il più possibile accetti alle popolazioni.
Con il trattato di Lunéville, firmato il 9 febbraio 1801, Napoleone obbligò l’Austria a riconoscere la Repubblica Cisalpina, accresciuta ad Ovest dell’alto e basso novarese uniti nel dipartimento dell’Agogna. La Toscana, persa dagli Asburgo Lorena, divenne per volontà di Napoleone il regno di Etruria ceduto al figlio del duca di Parma, Ludovico di Borbone. Il ducato di Parma e Piacenza, tolto ai Borbone, passò sotto amministrazione francese. L’unica repubblica destinata a rimanere in vita per alcuni anni fu quindi la Cisalpina, che sarebbe stata “ribattezzata” Repubblica Italiana ai Comizi di Lione verso la fine del 1801.
Come organizzare il nuovo regime? Il patrizio milanese Francesco Melzi d’Eril (1753-1816), uomo assai stimato da Napoleone, riteneva che non dovesse esservi alcun ordinamento sia pur larvatamente democratico come quello francese basato sulla Carta dell’anno VIII. Riteneva opportuno introdurre una sorta di monarchia illuminata retta sull’autorità di Napoleone, il cui governo avrebbe operato con l’aiuto di collegi rappresentativi composti di proprietari scelti in base alla loro ricchezza immobiliare. Era il principio di ascendenza fisiocratica in base al quale aveva diritto di partecipare alla gestione dello Stato solo chi possedeva come privato cittadino una parte del suo territorio sulla quale pagava l’imposta fondiaria. In assenza di un’opinione pubblica e di uno spirito nazionale, l’Italia cisalpina secondo Melzi poteva essere modernizzata solo da un governo la cui azione riformatrice fosse in continuità con la stagione dell’illuminismo asburgico che aveva dato i suoi frutti migliori nella Toscana e nella Lombardia del secondo Settecento. Teniamo presenti queste idee anti-democratiche di Melzi perché ad esse Napoleone avrebbe finito per ispirarsi in misura significativa tra il 1801 e il 1804.
Il progetto della Consulta legislativa cisalpina
Nei mesi che precedettero i Comizi di Lione furono presentati a Bonaparte diversi progetti di costituzione. Il primo fu elaborato dalla Consulta legislativa cisalpina, un collegio composto da 41 membri istituito nell’agosto del 1800. Questo piano riprese con alcune modifiche i lineamenti della Costituzione francese dell’anno VIII: furono previste liste di fiducia ove al popolo, mediante suffragio universale, era riconosciuto il solo diritto d’inserire le persone a lui gradite per i vari uffici della Repubblica. I cittadini di un circondario comunale avrebbero inserito un decimo di essi in una lista da cui sarebbero stati scelti i funzionari e ufficiali pubblici locali. I cittadini compresi in queste liste comunali avrebbero iscritto a loro volta un quinto di essi nella lista dipartimentale (provinciale) dalla quale sarebbero stati scelti i funzionari per le istituzioni di quel livello. I cittadini compresi nelle liste dipartimentali avrebbero indicato a loro volta un terzo di essi in una lista nazionale per le più alte cariche della Repubblica. Il diritto di eleggere i candidati da queste liste “di derivazione popolare” sarebbe spettata al governo e, per gli organi costituzionali previsti nel progetto, da una Camera elettorale composta da membri inamovibili e a vita, la cui età doveva essere di almeno 40 anni. Si trattava insomma di una democrazia “filtrata” in base alla quale gli elettori, lungi dall’essere chiamati ad eleggere direttamente i loro rappresentanti nelle assemblee, avrebbero indicato in tre gradi di scrutinio una rosa di candidati entro la quale chi era già in carica avrebbe operato la sua scelta in via definitiva.
In realtà, l’obiettivo della Consulta consisteva nel fondare un regime in cui la classe politica cisalpina allora al potere – animata in molti casi da ideali democratici e nazionali – avrebbe governato con Napoleone al fine di controllarne l’azione e dirigerla ai suoi fini. Difatti, era facile intuire che i membri della Camera elettorale sarebbero stati gli stessi uomini che governavano a Milano in quel torno di tempo. Inoltre, diversamente da quanto era previsto in Francia dalla Costituzione autoritaria dell’anno VIII, nel progetto della Consulta il Presidente della Repubblica (verosimilmente Napoleone) sarebbe stato ingabbiato in un governo composto da otto senatori scelti dalla Camera elettorale e non revocabili dal Presidente stesso. Il Presidente non avrebbe potuto licenziare i funzionari di sua nomina senza l’assenso della Camera elettorale. La forma di Stato restava unitaria mentre la forma di governo costituiva una lieve modifica dell’ordinamento autoritario francese che concentrava il potere nel Primo Console.
I progetti federali elaborati dai giuristi francesi
Altri due progetti – uno per l’Italia del Nord Ovest, l’altro per la Repubblica Cisalpina – furono presentati a Napoleone. Redatti entrambi in lingua francese, il secondo – quello relativo alla Cisalpina – venne scritto con ogni probabilità dal ministro degli esteri Charles Maurice Talleyrand Périgord (1754-1838). Entrambi erano informati secondo un principio federale teso a recuperare, adattandolo al mutato contesto politico, lo storico pluralismo territoriale esistente nella penisola fin dal Medioevo.
Nel primo progetto la ricostituzione di alcuni antichi Stati – ricalcando addirittura nella conformazione dei confini i territori di vecchie Signorie feudali – rispondeva all’obiettivo di rendere il progetto ben accetto agli italiani facendo del loro particolarismo il perno dell’ordinamento costituzionale. Chi scrisse quel progetto pensava probabilmente che una confederazione di Stati nell’Italia del Nord Ovest avrebbe reso più accettabile il dominio francese, evidente nell’attribuzione di poteri autoritari a generali d’oltralpe inviati a governare questi piccoli Stati: Lucca, la repubblica di Genova, i principati di Correggio e di Piombino, i ducati di Parma, di Piacenza e l’antico Stato Landi nelle valli del Taro e del Cene. Questi Stati avrebbero formato una confederazione dell’Alta Italia sotto protettorato francese denominata: “Paesi liberi e uniti dell’Italia Superiore” di cui avrebbe fatto parte la Repubblica Cisalpina.
Il secondo progetto, centrato sulla Cisalpina, contemplava un ingrandimento della Repubblica che, oltre al Novarese, avrebbe inglobato l’antico ducato di Parma e Piacenza. Riformata in senso autenticamente federale, la Cisalpina avrebbe assunto il nome di “Repubblica degli Stati Uniti d’Italia” sul modello nordamericano o svizzero. Estesa a larga parte della pianura padana centro occidentale (il Veneto era sotto l’Austria e gran parte del Piemonte sarebbe stata annessa alla Francia nel 1802), la Repubblica doveva dividersi in quattro Stati, articolati in vasti circondari municipali dotati di autonomia amministrativa. Milano, elevata al rango di Città federale, avrebbe fruito di uno Statuto autonomo in quanto capitale della Repubblica. Quali erano questi quattro Stati federati? Lo “Stato del Nord Est” diviso nei sei circondari municipali: 1. Valtellina; 2. Bergamasco; 3. Bresciano; 4. Mantovano e parte del Veronese (quella ad occidente del fiume Adige perché la parte orientale della città e della provincia erano sotto dominio austriaco); 5. Cremonese; 6. Cremasco. Lo “Stato del Nord Ovest” con i suoi quattro circondari: 1. Nord Milanese; 2. Sud Milanese; 3. Novarese; 4. Parte del pavese. Lo “Stato del Sud Est” con i quattro circondari: 1. Polesine di Rovigo; 2. Ferrarese; 3. Bolognese; 4. Romagna. Lo “Stato del Sud Ovest” con i quattro circondari: 1. Piacentino; 2. Parmense; 3. Ducato di Reggio; 4. Ducato di Modena.
Replicando in piccolo il modello autoritario tipico del costituzionalismo dell’anno VIII, in ogni Stato vi sarebbe stata una Consulta legislativa, composta da rappresentanti delle città e campagne (verosimilmente scelti dall’alto secondo il citato meccanismo delle liste di fiducia), che avrebbe assistito il governo locale nella elaborazione delle leggi valide per ciascun territorio; era prevista poi una Consulta amministrativa di nomina governativa incaricata di preparare i progetti di legge locale che il Provveditore, capo dell’esecutivo dello Stato, avrebbe sottoposto all’approvazione della Consulta legislativa. Il Provveditore, avrebbe esaminato ed approvato i regolamenti amministrativi proposti dalla Consulta amministrativa.
Il potere centrale cisalpino – le cui istituzioni avrebbero avuto sede a Milano – era costituito invece dal Podestà, dal Consiglio di Stato e dal Senato legislativo, i cui membri dovevano scegliersi secondo un criterio rigorosamente federale. Il Podestà, eletto dai Provveditori dei quattro Stati, avrebbe esercitato la funzione esecutiva; con il Consiglio di Stato avrebbe preparato i progetti di legge da sottoporre all’approvazione del Senato; avrebbe nominato i 12 membri del Consiglio di Stato scegliendone tre dalle amministrazioni di ciascuno dei quattro Stati della Repubblica. Il Senato era formato da 24 membri che le Consulte legislative dei quattro Stati avrebbero eletto in ragione di sei a testa.
A ben vedere, i tecnici francesi che avevano elaborato questo progetto di costituzione, lo avevano fatto per eliminare alla radice le rivalità e inimicizie insorte più volte tra cispadani e transpadani, tra modenesi, bolognesi e milanesi nell’assunzione delle cariche pubbliche. Tali inimicizie sarebbero sparite in una repubblica federale in cui l’esercizio delle funzioni pubbliche di ogni Stato sarebbe stato affidato a persone del luogo. In effetti, la scelta compiuta da Napoleone nel 1802 di confermare la forma unitaria della Repubblica, avrebbe finito per aggravare quel clima di tensione. Al crollo del regime napoleonico, tali dissidi sarebbero degenerati in violenze ed epurazioni nel corso della rivolta popolare del 20 aprile 1814 sulla quale mi sono soffermato in una monografia.
Napoleone non era probabilmente contrario ai progetti federali che gli erano stati presentati. Il suo interesse in quegli anni consisteva nella pacificazione e nella stabilità dei territori conquistati. In Svizzera ad esempio, nel 1803, non avrebbe esitato a “seppellire” la Repubblica Elvetica fondata su una forma di Stato unitaria e a fondare un regime federale con l’Atto di Mediazione che sancì la nascita di nuovi Cantoni quali il Ticino e San Gallo.
Nel caso dell’Italia cisalpina Bonaparte sottopose i progetti federali a Francesco Melzi d’Eril. Melzi era probabilmente la persona più ostile alla soluzione federale: a suo avviso la corruzione e le malversazioni esistenti nella Cisalpina per l’irresponsabilità di un governo a trazione democratica e giacobina sarebbero peggiorate in un regime federale perché ogni fazione avrebbe spadroneggiato sul territorio senza controlli. Melzi sostenne inoltre la sua opposizione per un’altra ragione, assai più convincente: nei paesi federali come l’antica Svizzera, l’antica Olanda o gli Stati Uniti d’America di fine Settecento i poteri pubblici erano diffusi sul territorio, deboli nella funzione politica perché ad essa sopperiva lo spirito d’indipendenza e il forte senso civico dei cittadini. Come poteva l’Italia essere ben governata in un regime federale quando erano i suoi stessi cittadini a mostrare una completa assenza di senso civico, di amor di patria?
Je m’étonné un peu, qu’en citant …les Suisses, les Hollandais, les Américains pour prouver la bonté du système fédératif, il soit échappé à l’auteur de ce projet, que ce n’est pas proprement de ce système, que les Peuples cités ont reçu une consistance et une force durable, mais que c’est bien plutôt la volonté prononcée de ces Peuples de sauver leur indépendance, qui a prêté une force à ce système par lui-même très fable, et bien plus faible encor s’il etoit imposé par force à un Peuple, qui n’en a ni l’envie, ni l’idée, et ne peur avoir un véritable sentiment d’une indépendance qu’il n’a jamais connue.
[Mi meraviglio come, nel richiamarsi agli Svizzeri, agli Olandesi, agli Americani per dimostrare la bontà del sistema federale, sia sfuggito all’autore del progetto che non è in foza di questo sistema di governo che i popoli citati hanno raggiunto un’esistenza durevole, ma al contrario è stata la ferma determinazione di questi popoli nel salvaguardare la loro indipendenza a rendere forte un tale sistema di per sé debole, e ancor più fragile se fosse imposto con la forza a un popolo sprovvisto del desiderio o della passione per un sentimento d’indipendenza che non conobbe mai].
[Francesco Melzi a Talleyrand, 16 maggio 1801 in U. Da Como (a cura di), I Comizi nazionali in Lione per la Costituzione della Repubblica Italiana, vol.I., Bologna, Zanichelli, 1934, pag.151. Nei volumi curati da Ugo da Como, ai quali si rinvia per approfondimenti, sono pubblicati i documenti di quel periodo contenenti i progetti citati in questo articolo].
Il progetto Roederer
L’ultimo progetto, quello elaborato dal giurista francese Pierre Louis Roederer (1754-1835), avrebbe costituito per converso il nucleo originario da cui sarebbe derivata la Costituzione della Repubblica Italiana napoleonica. Se la forma di Stato restava unitaria, la forma di governo presentava tratti di assoluta originalità rispetto alle proposte precedenti. Anche qui erano previste le liste di fiducia, che il popolo avrebbe compilato mediante quel sistema di filtri pensato per limitare fortemente gli effetti della legittimazione democratica. Il diritto di elezione tuttavia non sarebbe stato esercitato da una Camera elettorale come nella proposta della Consulta cisalpina. La scelta sarebbe spettata a tre Collegi vitalizi composti di 300 Possidenti, 200 Dotti e 200 Commercianti. Una nazione articolata in categorie professionali in base a un criterio legato al mondo dell’economia produttiva avrebbe scelto in via definitiva i membri delle istituzioni cisalpine traendoli dalle liste di fiducia popolari. A comporre il governo sarebbe stato un Presidente della Repubblica (Napoleone) e otto senatori per l’esercizio dell’amministrazione interna e internazionale. Il governo si sarebbe esteso ai Consiglieri di Stato per l’elaborazione dei progetti di legge da presentare al Corpo legislativo, i cui membri dovevano eleggersi dai Collegi elettorali.
I deputati cisalpini – Melzi in primis – si mostrarono moderatamente favorevoli a questo progetto, anche se non mancarono di esprimere la loro contrarietà su alcuni punti. Anzitutto criticarono la natura vagamente democratica del progetto di Roederer. A loro giudizio solo i proprietari terrieri avevano il diritto di eleggere i loro rappresentanti. Ad essere bocciate non erano solo le liste di fiducia popolari, il che era prevedibile visto il pessimismo e il rigido conservatorismo di Melzi. Veniva contestata l’introduzione dei collegi dei dotti e dei commercianti, due categorie professionali che non meritavano di essere considerate sullo stesso piano dei possidenti.
Napoleone respinse tali obiezioni, mostrando una maggiore sensibilità per le dinamiche sociali ed economiche della società italiana. Alla fine furono seguiti tuttavia i consigli “antidemocratici” di Melzi: vennero abolite le liste di fiducia di derivazione popolare, che in Francia erano operanti grazie alla Costituzione dell’anno VIII. Napoleone fece dei Collegi dei Possidenti, dei Dotti e dei Commercianti gli organi “primitivi” della sovranità nazionale (questo il tenore dell’articolo 10 della Costituzione del 1802). Su invito del governo, i Collegi avrebbero eletto, oltre ad alcuni collegi tecnici, anche le istituzioni rappresentative a livello comunale, dipartimentale (provinciale) e nazionale. Al Presidente della Repubblica (Napoleone) sarebbe spettata la nomina e la revoca dei ministri, nonché la formazione del consiglio legislativo, un collegio specializzato nei conflitti interni alla pubblica amministrazione. Questo consiglio avrebbe avuto altresì il diritto di voto sui progetti di legge elaborati dal Presidente stesso.
Ai Comizi di Lione la nascita della Repubblica Cisalpina, ora denominata Italiana, fu acclamata dai deputati accorsi dai vari dipartimenti, invitati da Napoleone in larga parte secondo il criterio dell’appartenenza alla corporazione economico professionale dei Possidenti, Dotti e Commercianti. Si trattava di un regime le cui contraddizioni non sarebbero tardate a manifestarsi in tutta la loro portata. Eppure, nonostante i limiti di uno Stato posto sotto il controllo della Francia consolare, la Repubblica Italiana dispose di un governo in grado di intraprendere le riforme economiche e sociali necessarie alla modernizzazione del Paese: questo grazie a una burocrazia efficiente, preparata, mossa all’azione unicamente dalla tutela dell’interesse pubblico.
Ieri, mentre mi recavo in piazza Sant’Alessandro, nel passare per via Unione la mente è corsa a un vecchio fatto di cronaca della Milano di fine Ottocento.
La protagonista di questa storia era nota a Milano come “la contessa Lara”. In realtà il suo vero nome era Evelina: una ragazza che si era fatta notare per la bellezza della persona e per le sue straordinarie doti di poetessa. Nata a Firenze nel 1849, era figlia del console scozzese William Cattermole e della pianista russa Elisa Sandusch. Sposò nel 1871 il capitano Eugenio Mancini, figlio del senatore Pasquale Stanislao, il politico napoletano che sarebbe divenuto di lì a pochi anni, con l’avvento al potere della Sinistra storica, ministro di grazia e giustizia nel governo Depretis. Nel 1873 gli sposi si stabilirono a Milano.
Cosa avvenne di tanto scandaloso in via Unione? Il 22 maggio 1874 Evelina fu scoperta dal marito mentre si trovava in intimità con il suo amante, il giovane veneziano Giuseppe Bennati di Baylon. L’incontro dei due amanti era avvenuto in un piccolo appartamento situato per l’appunto in via Unione.
Bennati di Baylon, che all’epoca rivestiva l’ufficio di segretario capo del Banco di Napoli, era in rapporti d’affari con Mancini. Questi, avendo alcuni debiti da pagare, aveva chiesto più volte all’impiegato di aiutarlo mediante l’emissione di alcune cambiali. Il rapporto tra i due si era fatto più stretto con il passare del tempo e, nel corso di un incontro privato, il Bennati di Baylon aveva conosciuto Evelina, la cui bellezza lo colpì fin dall’inizio. Come spesso accade in questi casi, il tradimento si era consumato a causa dell’infelice matrimonio della ragazza, trascurata dal marito che preferiva trascorrere le sue serate sui tavoli da gioco o a teatro.
Una situazione cui Evelina sembrava alludere nella poesia “Di sera”:
Ed eccomi qui sola a udir ancora/ Il lieve brontolio de’ tizzi ardenti;/ eccomi ad aspettarlo; è uscito or ora/ canticchiando, col sigaro tra i denti. /
Gravi faccende lo chiaman fuora; / gli amici a ’l giuoco de le carte intenti, / od un soprano che di vezzi infiora / d’una storpiata melodia gli accenti. /
E per questo riman da me diviso / Fin che la mezzanotte o il tocco suona / A l’orologio d’una chiesa accanto. / Poi torna allegro, m’accarezza il viso, / e mi domanda se son stata buona, / senza nemmeno sospettar che ho pianto.
Comprendiamo bene come la ragazza non fosse stata insensibile alle attenzioni del giovane veneziano, il quale era rimasto rapito dal suo fascino. L’amicizia tra i due si mutò ben presto in un’appassionata relazione amorosa consumatasi fino a quel fatidico 22 maggio 1874, quando la donna di servizio, che era al corrente di ogni cosa, rivelò tutto al marito.
Mancini si vendicò nel modo consueto a quell’epoca: ricorse al “delitto d’onore”. Quattro giorni dopo sfidò a un duello con pistole il Bennati di Baylon. Questi, mosso da un profondo senso di colpa, rinunciò a difendersi non esitando ad invocare la morte in una lettera che portava con se. Il duello, avvenuto presso una fornace nel comune di Bollate, ebbe un esito che non è difficile immaginare: il giovane veneziano venne ferito mortalmente e morì dopo alcuni giorni.
Evelina, che amava follemente il Bennati, si recò sulla tomba dell’amato al Cimitero Maggiore e, come estremo saluto, depose sulla lapide una corona che aveva formato con le ciocche dei suoi capelli. Abbandonata dal marito, circondata dal pubblico discredito, si trasferì per alcuni giorni nella sua città natale, Firenze. Il padre si rifiutò di accoglierla a causa del disonore che aveva procurato alla famiglia. Solo la nonna si offrì di darle una sistemazione provvisoria.
Il capitano Mancini fu processato per l’omicidio. La sentenza gli concesse le attenuanti del delitto d’onore, condannandolo a tre mesi di confino.
Evelina, rimasta sola, abbandonata da tutti, dovette cercare un lavoro per guadagnarsi da vivere. Si impegnò nel campo del giornalismo sfruttando quelle poche amicizie che le sue doti di poetessa le avevano consentito di formarsi. Pubblicò le sue liriche sulla rivista “Nabab” presentandosi con lo pseudonimo di contessa Lara. Decisiva fu però la conoscenza a Milano di Maria Antonietta Torriani, moglie di Eugenio Torelli Viollier, direttore del “Corriere della Sera”. Grazie alla sua presentazione, Evelina fu tra i primi collaboratori del giornale, responsabile di una rubrica dedicata al costume femminile che riscosse una certa popolarità nella Milano di fine Ottocento. La giovane firmava i suoi articoli con lo pseudonimo “La Moda”. Seguirono collaborazioni con altre testate giornalistiche: da “Il Pungolo” a “La Tribuna illustrata” fino a “Il Fieramosca”. Si firmava spesso Lina de Baylon, n memoria dell’uomo che fu l’unico vero Amore della sua vita.
Ottenuta una certa popolarità presso il pubblico della borghesia colta, nel 1883 Evelina si trasferì a Roma. Qui incontrò il giornalista Giovanni Alfredo Cesareo, un uomo assai più giovane di lei, al quale si legò in un rapporto sentimentale durato una decina d’anni. La relazione, non sorretta dall’amore, si era costituita soprattutto per l’insicurezza della donna, spaventata all’idea di rimanere sola per il resto della vita. Il rapporto tra i due finì tristemente a causa degli sbandamenti di Evelina. Il compagno, stanco del suo atteggiamento, la lasciò nel 1894 gettandola in una profonda crisi di sconforto.
Poco tempo dopo la donna conobbe Giuseppe Pierantoni, noto a Roma come “Bubi”, un pittore venticinquenne napoletano che sbarcava il lunario illustrando le pagine del periodico “La Vita italiana”. Bubi si finse innamorato di Evelina, la cui bellezza era ormai sfiorita con l’incalzare degli anni. In realtà i suoi progetti erano di tutt’altra pasta: intendeva approfittarsi delle fragilità della donna per farsi mantenere a sue spese. Quando vennero a galla le reali intenzioni del giovane, era ormai troppo tardi. L’ultima pagina di una vita tormentata fu volta in tragedia. Nel corso di un litigio per l’ennesima richiesta di soldi da parte di “Bubi”, Evelina fu uccisa con un colpo di pistola al ventre.
Poche le persone accorse al funerale della “contessa Lara”. Tra i presenti val la pena ricordare la scrittrice Matilde Serao, Luigi Pirandello e il marito Eugenio Mancini. Una vita infelice, quella di Evelina Cattermole, cui mancarono saldi affetti familiari. In una delle sue liriche, nel descrivere la profonda solitudine che l’aveva resa incapace di farsi una famiglia, aveva scritto: “Quando la vita ne la madre manca, voi, carte, ingiallirete, io morrò sola”.
In una celebre lettera a Federico Confalonieri, scritta poche settimane dopo il tumulto del 20 aprile 1814 che portò alla feroce uccisione del ministro delle finanze Giuseppe Prina, lo scrittore piemontese Ludovico di Breme descriveva la cupa atmosfera che si respirava a Milano in quei giorni drammatici seguiti al crollo del Regno d’Italia napoleonico. (Se vuoi saperne di più, clicca qui). La Reggenza, l’istituzione subentrata al cessato governo italico, era composta in prevalenza da nobili lombardi che amministrarono la cosa pubblica seguendo una politica fieramente municipalista. Scriveva Di Breme:
Federico mio, nobilissimo amico, qui si è troppo municipali nel governare, e troppo anzi intemperanti e colossali nei desideri. Vorrebbero tutta l’Italia qui soggetta, e poi quando si viene a’ fatti, codesta Italia non s’estende quasi oltre il Borgo degli Ortolani.
[Ludovico Di Breme a Federico Confalonieri, Milano 16 maggio 1814 in L. Di Breme, Lettere, edizione a cura di Piero Camporesi, Torino, Einaudi 1966, pag.227].
L’espulsione di molti impiegati pubblici dai ministeri milanesi perché non originari dell’“antica austriaca Lombardia” fu uno dei provvedimenti più odiati e criticati di quel governo a forte trazione patrizio nobiliare: un governo che nel breve periodo della sua attività (20 aprile-25 maggio 1814) operò in netta discontinuità rispetto agli ideali nazionali che avevano animato il Regno d’Italia napoleonico.
La Milano di Napoleone, la Milano capitale di uno Stato quasi nazionale esteso a una parte importante dell’Italia centro-settentrionale, sembrava distante anni luce dalla Milano municipalista “post-20 aprile” che faceva sdegnare Di Breme. Sotto Napoleone, tanti giovani provenienti da ogni parte d’Italia si erano conosciuti nella città ambrosiana e avevano lavorato assieme. Alcuni di loro si erano distinti come zelanti impiegati nei ministeri e negli uffici dello Stato. La Milano di Napoleone era stata un cantiere di opere pubbliche: dall’Arena civica all’Arco del Sempione, dal Foro Bonaparte concepito originariamente come quartiere sede dei ministeri dello Stato italico alla Caserma dei Veliti dietro Sant’Ambrogio, per arrivare fino ai lavori tesi all’apertura del Naviglio pavese (ultimati sotto gli austriaci).
Dopo la rivolta del 20 aprile la situazione pareva mutata radicalmente. Di Breme stigmatizzava il municipalismo dei milanesi, evidente anche in politica estera. I nuovi governanti chiedevano alle potenze che avevano sconfitto Napoleone il riconoscimento internazionale di uno Stato lombardo ristretto nei suoi antichi confini regionali. Manie di grandezza animate da un amor di patria ambiguamente unito ad aneliti regionalisti che gli faceva esclamare, nella citata lettera al Confalonieri: “Codesta Italia non s’estende quasi oltre il Borgo degli Ortolani”.
Cosa intendeva lo scrittore piemontese quando si riferiva al Borgo degli Ortolani?
Il Borgo degli Ortolani era un villaggio situato a Nord, fuori dalle mura ma quasi attaccato ad esse, nei Corpi Santi di Porta Comasina. Difficile delimitarne esattamente i confini. E’ però possibile individuarne l’estensione con un certo grado di attendibilità: il borgo comprendeva un territorio oggi compreso nel tratto tra via Canonica, piazza Gramsci, e via Piero della Francesca fino all’incrocio con via Cenisio nei pressi di piazza Firenze. Era un piccolo borgo rurale la cui strada principale si collegava a nord con la strada postale per Varese.
In un articolo scritto recentemente a proposito di via Muratori, ho insistito sul ruolo importante che quella zona fuori di Porta Romana ebbe quale via di transito. Possiamo dire che il Borgo degli Ortolani rivestiva una funzione analoga a nord della città: costituiva una via di accesso a Milano per chi proveniva dai territori del comasco e del varesotto.
Questo però non basta a spiegare la curiosa metafora del Di Breme. Cosa lo spinse a pensare al Borgo degli Ortolani per stigmatizzare il municipalismo, il particolarismo, la chiusura dei milanesi nei confronti dei forestieri? In effetti, quantunque fosse una via di transito per tanti lombardi e svizzeri diretti verso Milano, il borgo degli Ortolani presentava una spiccata fisionomia, tale da farne un corpo a sé stante rispetto alla città e ai villaggi circostanti. Sul lungo corso che lo attraversava da Nord-Ovest a Sud-Est si affacciavano alcune case di contadini. I campi, bonificati dall’ordine religioso degli Umiliati fin dalla metà del XIII secolo, erano ricchi di orti e di frutteti. Si segnalava in particolar modo la produzione di cipolle, che rifornivano i mercati cittadini del sestiere di Porta Comasina: nei documenti il quartiere era spesso definito “Borg di Scigolatt” (borgo di produttori e venditori di cipolle). Un altro termine assai diffuso per identificare il borgo degli Ortolani era quello di “Borg di Goss”: borgo di gozzuti. Il Cherubini, nell’edizione del suo celebre “Dizionario Milanese Italiano” risalente al 1843, spiegava l’origine del soprannome facendo riferimento alle parti di animali che venivano lavorate nelle case del villaggio:
El Borg di goss noi chiamiamo…il borgo degli Ortolani che è attiguo alla nostra città da ovest/ovest-nord e ciò per le molte vesciche o gozzaie d’agnelli, castrati…che vi si sogliono conciare.
In quale periodo si passò dal Borgo degli Ortolani alle attuali vie Canonica e Piero della Francesca? Tale trasformazione avvenne in due tempi. Nel 1878, pochi anni dopo l’annessione a Milano del Comune di Corpi Santi (entro il quale era compreso il Borgo degli Ortolani), il quartiere venne inglobato nella città: la giunta Belizaghi diede al lungo corso il nome di via Luigi Canonica, richiamandosi alla vicina Arena che l’architetto svizzero aveva costruito nell’antica piazza d’armi (oggi parco Sempione) a pochi passi dalla Porta Tenaglia, vicino al borgo degli Ortolani. Il secondo tempo arrivò con il fascismo quando, in seguito all’urbanizzazione che aveva interessato l’isolato negli anni Venti del secolo scorso, fu deciso di spezzare la via in due tronconi: il primo da Piazza Firenze a Piazza Crespi (oggi piazza Gramsci) fu intitolato a Piero della Francesca, il resto della strada conservò il nome del celebre architetto napoleonico.
Qualche giorno fa mi trovavo in piazza Medaglie d’Oro, attratto da quella Porta Romana che segna tuttora un punto di confine tra la città storica e la città “più recente”, sorta attorno a Corso Lodi. Non vi annoierò ripetendo la storia del celebre monumento costruito da Aurelio Trezzi nel 1598 in onore dell’ingresso a Milano di Maria Margherita d’Austria (1584-1611), promessa sposa a Filippo III di Spagna.
Farò invece alcune considerazioni su una piccola scoperta che ho fatto in questi giorni. Nel camminare vicino alla fermata M3 della metropolitana diretto verso viale Montenero, mentre guardavo il celebre monumento, ho notato un particolare che mi era sempre sfuggito. Si tratta di un piccolo dettaglio, ma è un dettaglio importante per lo storico di Milano perché rivela l’antica conformazione di questa zona, segnata dai bastioni spagnoli che costituivano il confine tra la città propriamente detta e il contado compreso nell’antico Comune dei Corpi Santi.
Per capire di cosa si tratta, guardate Porta Romana da due punti diversi: dapprima fermatevi all’incrocio di piazza Medaglie d’Oro con Corso Lodi; andate poi al secondo incrocio all’imbocco di via Muratori sostando davanti a Mariposa. Bene: se avete guardato la Porta da queste due diverse angolazioni, ve ne sarete accorti: la Porta è orientata verso via Muratori e non verso corso Lodi come ci si aspetterebbe visto il ruolo fondamentale che il corso riveste oggi per la viabilità e l’urbanistica cittadina. Come mai?
Per quale motivo l’arco di Porta Romana fu costruito perché “guardasse” verso una via che ci appare tutto sommato secondaria rispetto al corso?
Per venire a capo di questo “piccolo” mistero dobbiamo risalire indietro nel tempo, alla Milano d’ancien régime o alla città vecchia che mantenne la sua fisionomia urbanistica fino alla metà dell’Ottocento. Chiariamo anzitutto l’origine di queste vie. La delibera comunale che assegnò la denominazione di Corso Lodi all’antica Strada Provinciale Piacentina risale al 7 giugno 1878, cinque anni dopo l’annessione del Comune dei Corpi Santi alla città di Milano. La costruzione di molti edifici ai lati del corso risale alla fine dell’Ottocento, quando il Comune decise di urbanizzare il nuovo quartiere. Un tentativo riuscito benissimo, tanto che oggi possiamo dire che corso Lodi costituisce il proseguimento in periferia del corso di Porta Romana. Quando venne costruito l’arco di Porta Romana, la zona aveva però un aspetto completamente diverso: oltre a far parte del Comune dei Corpi Santi, il quartiere era dominato da un paesaggio agreste: c’erano campi e cascine comprese in vaste proprietà possedute dalle potenti famiglie del patriziato. Basti pensare alla cascina Gugliemesa, alla cascina Benzona, alla Gambaloita, possedute un tempo dai Visconti Ajmi e da altri casati. Lo stradone verso Piacenza costituiva una via di collegamento per chi si spostava nella campagna milanese. A quei tempi tuttavia non doveva essere così importante come oggi è corso Lodi.
Volgiamoci ora verso il primo tratto di via Muratori, fino all’incrocio con via Bernardino Corio. La storia di questa contrada è completamente diversa. Anche qui, il nome della via venne dato con delibera comunale risalente 7 giugno 1878. Un tempo la contrada si chiamava “Strada dello Strettone” o “della Boffalora”. Quanto al primo nome non son riuscito ancora a sapere nulla. Per il secondo invece è facile trovare una spiegazione.
Ora mi dirai: cosa c’entra Boffalora che si trova ad ovest, in direzione diversa rispetto a Porta Romana? In realtà, il termine Boffalora si riferiva a un piccolo villaggio – chiamato Boffalora per l’appunto – che si trovava in fondo alla via, costituito sostanzialmente da tre cascine di cui una dovrebbe corrispondere al rudere che si trova in via Tertulliano al civico 65.
Insomma: la Strada della Boffalora ha una storia antichissima, quando la zona era costituita per il 95% di campi e per il restante 5% di cascine. In via Muratori sorgono tuttora alcune case vecchie, resti più o meno integri di quelle cascine che si trovavano ai lati della via: cascina Gerazza sul lato destro, pressappoco ove oggi c’è l’Officina Fiat al civico 2, mentre più avanti, sulla sinistra, al civico 7 si affaccia una casa vecchia di color rosa che dovrebbe corrispondere a una parte della cascina Paradisetta. Non è rimasta traccia della cascina Paradisa. La cascina Torchio in fondo alla via, a due passi da viale Umbria, corrisponde invece alla famosa “Cascina Cuccagna”, un antico casolare acquistato dal Comune di Milano nel 1984 che oggi è divenuto una meta d’obbligo per i giovani e per i turisti. Si trova un ristorante ove è possibile assaggiare piatti di alta qualità. In una delle stanze al pianterreno si trova anche un’enoteca. Per gli appassionati delle biciclette, nel cortile c’è uno spazio ove si riparano biciclette.
Torniamo al punto da cui siamo partiti. Perché l’arco di Porta Romana strizza l’occhio a via Muratori? Nei secoli passati i viandanti che entravano in città provenienti da Sud, preferivano passare per quest’antica contrada, ricca di cascine e osterie. E’ probabile che il Trezzi, nel costruire Porta Romana, decise di orientarla verso la Strada di Boffalora perché sapeva che la regina Margherita sarebbe venuta da quella direzione. Ecco cosa rivela quell’arco rivolto verso via Muratori. Guarda un po’ dove si va a nascondere alle volte il demone della storia! 😉
Oggi al turista che visita Milano non è difficile procurarsi una guida in cui trovare i dati più importanti sulla città, i locali più alla moda, le chiese e i monumenti da visitare. Qual era però la situazione nei secoli passati? Esistevano guide di Milano nell’ancien régime? Se esistevano, com’erano formate?
La risposta è affermativa. Esistevano certamente libri che potremmo ricondurre al genere delle guide. Si tratta sostanzialmente di tre tipologie: le guide descrittive, le guide nominative e le guide numeriche.
Le guide descrittive presentavano un’esposizione, abbastanza dettagliata, del patrimonio storico artistico e storico culturale conservato nelle chiese e nei palazzi della città. Non sappiamo quando comparve la prima guida. Gli studiosi hanno però dimostrato che nel corso del XVII secolo uscì un certo numero di guide descrittive riguardanti la città ambrosiana. Ad esempio, il Santuario della città e diocesi di Milano del gesuato Paolo Morigia venne pubblicato nel 1603: il proposito dell’autore era di mostrare ai milanesi le sacre reliquie esistenti nelle chiese cittadine; in realtà, egli non mancava di fornire ai suoi lettori alcune informazioni relative ai monumenti e ai templi trattati.
Altra guida importante della Milano seicentesca, la cui impronta religiosa fu segnata in modo indelebile dal modello tridentino realizzato dall’arcivescovo San Carlo, è la Relatione della Città e Stato di Milano del 1666 scritta dallo storico Galeazzo Gualdo Priorato. Questa guida è rimarchevole perché l’autore forniva informazioni sui palazzi sede delle supreme magistrature del ducato, compilando un elenco dettagliato delle persone titolari dei vari uffici. La descrizione degli edifici sacri è qui basata sulla tradizionale divisione della città nei sei quartieri storici identificati dal nome delle Porte (Romana, Ticinese, Vercellina, Comasina, Nuova, Orientale).
Una descrizione della Milano napoleonica è contenuta nella guida Il forastiere in Milano di Bartolomeo Borroni scritta nel 1808.
Per i primi anni della Restaurazione si ricordano la guida di Luigi Bossi (1818) e quella di Francesco Pirovano (1822). La guida di Bossi fu oggetto di vivaci critiche su cui non mi soffermo in questa sede per ragioni di spazio. Largo successo ebbe invece la guida del Pirovano, della quale vennero curate diverse riedizioni (1824, 1829, 1831). Si ricordano anche le guide di Pietro Ancina (1825) e dell’abate Giuseppe Caselli (1827).
Negli anni Trenta dell’Ottocento il numero delle guide crebbe considerevolmente per il notevole afflusso di turisti. Vennero stampate guide anonime oppure recanti i nomi di poligrafi del calibro di G.B. Carta, Ignazio Cantù, Massimo Fabi e Felice Venosta. In alcuni esemplari compare addirittura il nome dell’editore: Giuseppe Rejna (1838; 1841), Luigi Zucoli (1841), G.B. Zambelli (1865) e Pietro Giovanni Sacchi, proprietario assieme ad altre persone, della casa Artaria (1871, 1881). Tra le guide anonime, ricordo la Guida di Milano in otto passeggiate, recentemente ripubblicata da Il Polifilo in una bella edizione del 2005.
Passando alle guide nominative, la prima fonte da cui partire è il Calendario secolare milanese, pubblicato dal 1730 al 1742: vi sono contenuti gli elenchi dei funzionari e degli impiegati appartenenti alle magistrature giuridico amministrative del ducato di Milano. Il Calendario contiene anche dati riguardanti la composizione del Vicariato di Provvisione, uno dei più antichi uffici del Comune di Milano, corrispondente all’incirca alla nostra giunta comunale.
A partire dal 1782 furono pubblicate le prime guide nominative ove vennero inseriti non solo i nomi degli ufficiali e funzionari dello Stato, ma anche l’indirizzo della loro abitazione. Negli anni Novanta del Settecento comparvero anche guide che indicavano i recapiti di persone che non lavoravano nell’amministrazione statale, ma esercitavano la professione di commercianti, artigiani, avvocati e così via.
Risale a questi anni una guida nominativa recante informazioni su alberghi e osterie: IlServidore di piazza, (prima edizione 1782) divenuto poi Calendario ad uso del Foro su iniziativa del tipografo Geatano Motta. Il Servidore di piazza venne pubblicato dalla stamperia Motta dal 1782 al 1785. Un litigio sorto tra il compilatore Giuseppe Astolfi e la stamperia, provocò la sospensione delle pubblicazioni nei due anni 1786 e 1787. Nel 1788 il Servidore venne ripubblicato a spese dell’Astolfi dai tipi di Francesco Pulini. Tra il 1789 e il 1790 il Servidore uscì col titolo Calendario ad uso del Foro. Nel 1791, sempre a spese dell’Astolfi, il Servidore di piazza ad uso di commercio per la città di Milano venne ripubblicato dalla tipografia di Luigi Veladini: edizione significativa perché per la prima volta compariva un quadro della città assai ampio e dettagliato con l’indicazione delle attività commerciali, artistiche, artigianali, delle strutture alberghiere, dei caffé, delle osterie. Nel 1794 il tipografo Motta continuò a pubblicare Il Calendario ad uso del foro, uscito anche negli anni 1795 e 1796.
Nel periodo napoleonico le guide nominative furono poche e di scarsa qualità. L’interprete cisalpino venne stampato all’incirca nel 1800. Nel breve intermezzo della Repubblica Italiana, più precisamente nel 1804, uscì il Fiacre e il Supplemente al Fiacre, repertorio molto breve che contiene però gli indirizzi dei funzionari e impiegati dello Stato. Nel 1805, data di fondazione del Regno italico, uscì la Guida di Milano ad uso di servitore di piazza e il Supplemento alla prima parte della Guida di Milano ad uso di servitore di piazza: si tratta di due opuscoli di poche pagine, i cui contenuti non sono molto dissimili dai Fiacre del periodo cisalpino. Venne poi pubblicato nel 1808 L’Interprete milanese: le annate 1811 e 1812 sono particolarmente ricche di informazioni.
Vero e proprio repertorio d’informazioni preziose sulle città e i dipartimenti del regno d’Italia napoleonico e su Milano capitale è la serie degli Almanacchi reali, pubblicati regolarmente dal governo dal 1808 al 1814. L’Almanacco reale contiene l’elenco degli impiegati nell’amministrazione del regno italico con l’indirizzo di abitazione. Mancano tuttavia le attività private, fatta eccezione per alcune professioni. Gli Almanacchi, pubblicati anche nel regno Lombardo Veneto asburgico, sono una fonte imprescindibile per gli studiosi di storia delle istituzioni e della società moderna.
Passando infine alle guide numeriche, esse sono successive al 1787, anno in cui Giuseppe II introdusse a Milano la denominazione delle contrade e assegnò una precisa numerazione agli stabili secondo un curioso metodo che partendo dal centro continuava poi in progressione circolare verso i bastioni. La prima guida venne pubblicata nel 1788 a cura di Giacomo Cavaleri: Guida sicura che conduce col numero progressivo a tutte le contrade.
La Madonnina sulla guglia più alta del Duomo è forse il simbolo della città più caro ai milanesi, che a lei hanno guardato nei momenti più difficili della loro storia. Eppure, quando fu costruita, vi fu chi criticò fortemente quel monumento.
Partiamo dalle origini. L’idea di collocare una statua della Vergine Maria sulla guglia più alta del Duomo fu di Francesco Croce, l’architetto che nel 1762 aveva ricevuto l’incarico di costruire la guglia maggiore. Tre anni dopo, Croce propose di issare sulla sommità una statua della Madonna circondata dagli angeli. Com’è noto, l’artefice della statua fu Giuseppe Perego, che nel 1769 lavorò a tre soluzioni alternative: la prima prevedeva che alla base vi fosse una vasta schiera di cherubini e angeli tra le nubi; nella seconda ipotesi vi sarebbero stati alcuni angeli ai piedi della Vergine; il terzo progetto – quello che ricevette il via libera delle autorità – era incentrato pressoché interamente sulla figura di Maria.
I lavori iniziarono nell’estate di quell’anno: ad assistere il Perego furono l’intagliatore Giuseppe Antignati per la struttura in legno e un certo fabbro Varino che lavorò allo scheletro in ferro. Si decise quindi di coprire il modello di legno con lastre di rame, battute e montate dall’orefice Giuseppe Bini. Per la doratura, su consiglio del celebre pittore Anton Raphael Mengs, furono utilizzati 156 libretti, ognuno dei quali formato da due fogli d’oro zecchino.
Quattro anni dopo, nel 1773, i lavori erano terminati. Eppure, per quelle strane circostanze di cui la storia ci rende spettatori, la statua non fu collocata sulla guglia. Per un anno rimase nel palazzo della Veneranda Fabbrica del Duomo: oltre ai pericoli costituiti dalle folate di vento, si temeva che le lastre di rame attirassero i fulmini.
Quale fu la reazione dei milanesi? E’ probabile che l’entusiasmo avesse coinvolto gran parte dei sudditi lombardi dell’imperatrice Maria Teresa. L’opinione pubblica restava tuttavia divisa. La prosecuzione dei lavori di costruzione del Duomo secondo lo stile gotico aveva suscitato viva opposizione presso molti uomini di cultura. In un periodo – la seconda metà del Settecento – caratterizzato dall’avversione per i vecchi monumenti dell’età medievale ritenuta dagli illuministi un’epoca di barbarie e d’inciviltà, l’architettura con cui si andava edificando la sommità della cattedrale era criticata severamente, fuori tempo in un’epoca in cui si andavano affermando i moduli stilistici del neoclassicismo. Del tutto indicativa in proposito la posizione assunta dai fratelli Pietro e Alessandro Verri.
Quando la guglia maggiore fu ultimata dal Croce, nel 1770, Pietro non esitò a definirla “sconcia cosa in architettura”, mentre Alessandro la paragonò ironicamente a un “berretto da pulcinella”. Nove anni dopo Pietro, in una lettera al fratello, lo informava che un fulmine era caduto “sul gran clistere” sopra la cupola del Duomo: il gran clistere era la guglia del Croce.
Critiche ancor più serrate erano rivolte alla Madonnina. Alessandro si espresse in modo particolarmente duro rilevando “l’empietà di aver posta la Santissima Vergine incomoda e sconcia in quell’atto tra i fulmini”.
Con buona pace dei fratelli Verri, la statua fu collocata alla fine in cima alla cattedrale. Il 30 dicembre 1774 il rettore della Fabbrica del Duomo comunicava di aver finalmente collocato la Vergine dorata sulla guglia maggiore “col plauso universale” dei milanesi.
Da allora la Madonnina entrò lentamente nell’immaginario collettivo come simbolo della città. Visto che ci avviciniamo all’anniversario delle Cinque Giornate di Milano, non sarà fuori luogo concludere questo articolo ricordando le toccanti riflessioni del marchese Giovanni Visconti Venosta. Questi, nel suo libro di memorie, rammentava come i milanesi del ’48 avessero più volte sollevato lo sguardo verso la sommità del Duomo, quasi a voler cercare la protezione della Vergine perché li aiutasse nei momenti difficili. Gli occhi erano puntati sulla statua di Maria e sulla bandiera tricolore che i rivoluzionari, durante la terza giornata di combattimenti, erano riusciti a far sventolare dall’alto di quella guglia:
E tutti, ogni tanto, alzavano gli occhi in alto, nella direzione della più alta guglia del Duomo, sulla quale sta la statua della Vergine, con cui i milanesi sono in grande confidenza, come col genio tutelare della casa, e la chiamano la Madonnina. Essa vede da tanti anni le nostre gioie e i nostri dolori; situata sì in alto, pare più vicina al cielo, al quale i milanesi amavano sperare che dicesse in quei momenti una buona parola per loro. Quando, nella terza giornata della rivoluzione, si vide sventolare in mano alla Madonnina la bandiera tricolore, nessuno dubitò più della vittoria. Da tutta la città si levò un grido di trionfo e di gioia, come se la Madonnina avesse fatto causa comune con noi, e avesse preso Milano sotto la sua protezione.
[Giovanni Visconti Venosta, Ricordi di gioventù, Milano, Cogliati 1906, pag.94]