Archivi categoria: Storia delle istituzioni

Annale 2023 di ASL: tra armi e comunità

L’ultimo numero dell’Annale della Società Storica Lombarda si segnala per diversi contributi afferenti al tema della guerra dal Medioevo all’Età Moderna.

L’Annale 2023 dell’Archivio Storico Lombardo presenta notevoli spunti d’interesse nel panorama degli studi storici. La linea editoriale che si è affermata negli ultimi anni presenta la prima sezione del volume dedicata a un tema di attualità o ritenuto meritevole di analisi specifiche. Nell’Annale 2023 ci si è dedicati al tema delle guerre e dell’amministrazione militare nel ducato di Milano tra Medioevo ed Età Moderna con saggi di notevole spessore scientifico.

Il contributo di Paolo Grillo si concentra sulla devastazione di Como avvenuta nel 1127 ad opera dei milanesi, trentacinque anni prima della celebre distruzione di Milano compiuta dalle truppe filoimperiali delle città ghibelline lombarde. 

Il saggio di Giancarlo Andenna, muovendo da un robusto apparato di fonti, ricostruisce gli anni difficili vissuti dai cittadini di Novara alla fine del XV secolo, quando dovettero far fronte non solo a una lotta aspra tra le fazioni locali dei guelfi e ghibellini, ma anche ai problemi legati all’occupazione francese di Louis d’Orléans e all’assedio del duca Ludovico Maria Sforza nel 1495. Eventi ulteriori che segnarono profondamente la storia cittadina furono nel 1500 la cattura dello Sforza da parte dell’Orléans, re di Francia da alcuni anni con il nome di Luigi XII, la pestilenza scoppiata l’anno successivo e un nuovo assedio, questa volta francese, avvenuto nel 1513. 

Il saggio di Emanuele Pagano si concentra su un tipo particolare di uomini armati presenti negli Stati italiani tra XVI e XVIII secolo. Oltre agli eserciti regolari comandati dalla grande nobiltà specializzata nel mestiere delle armi, articolati in corpi di archibugieri, picchieri, moschettieri e cavalieri, vi erano infatti le milizie che si aggiungevano alle truppe regolari e venivano impiegate per lo più nella difesa delle piazzeforti o nel controllo del territorio al posto delle guarnigioni professionali. In alcuni casi le milizie erano impiegate anche in guerra, al fianco degli eserciti regolari. Le caratteristiche di questi corpi paramilitari risiedevano nella loro diretta dipendenza dal sovrano e nella presenza di personale che non apparteneva solo alla grande nobiltà. Si trattava di uomini reclutati nelle fasce comprese tra i 16 e i 60 anni di età, con una netta prevalenza di giovani provenienti per la maggior parte dallo strato sociale dei contadini o degli artigiani. I cavalieri, per lo più nobili, erano gli unici che potevano permettersi di pagarsi la cavalcatura e le armi. Diverso il caso dei fanti, le cui spese per l’apparato militare ricadevano in parte su di essi, in parte sullo Stato e sui corpi locali. 

La nobiltà che comandava i vari corpi di milizia era uno strumento fondamentale per il sovrano, perché assicurava da un lato un valido collegamento con la nobiltà più influente presente negli eserciti regolari attraverso legami di fedeltà di natura clientelare, dall’altro assicurava il servizio di un maggior numero di uomini comuni in forza dei legami – anch’essi clientelari – esistenti a livello locale nei più remoti interstizi della società civile. Queste dinamiche assicuravano al sovrano il consenso della popolazione. Varrà la pena ricordare che i miliziani godevano di particolari diritti rispetto al resto della società: oltre al porto d’armi, gli arruolati in questa tipologia di corpi paramilitari potevano contare su specifiche tutele giuridiche, come il diritto di essere giudicati per alcuni reati da tribunali speciali oppure una serie di privilegi connessi anche al diritto di proprietà. 

Interessanti le analisi di Pagano sulla milizia nazionale mantovana, un corpo paramilitare che ebbe una storia di notevole rilievo nell’amministrazione del ducato gonzaghesco, molto simile alle “cernide” della repubblica di Venezia. Il prestigio di cui godeva la milizia mantovana fu decisivo nel garantirne la sua conservazione anche nel corso del Settecento e questo per volontà degli Asburgo di Vienna, nei cui domini il ducato era stato inglobato dopo l’estinzione della dinastia ducale. Nettamente diverso il caso delle milizie nel ducato di Milano, che non furono formate con la stessa regolarità e sistematicità. Questo fu dovuto probabilmente all’esistenza di forze regolari assai ben munite e articolate nel periodo della dominazione spagnola e nei primi decenni del Settecento. I corpi paramilitari delle milizie furono impiegati quindi in modo per lo più saltuario, solo in anni di particolare crisi internazionale, quando le guerre del primo Seicento o del primo Settecento richiedevano l’impiego di formazioni ausiliarie da dislocare nelle piazzeforti o in campo aperto al fianco delle truppe regolari impegnate in battaglia. 

Al centro del saggio di Alessandra Dattero vi è la battaglia di Tornavento (22/VI/1636), presa in esame nelle sue ricadute in campo politico e finanziario nell’amministrazione del ducato nel periodo particolarmente complesso costituito dalla guerra dei Trent’Anni.

Oltre alla sezione dedicata alla guerra che si è per sommi capi ricordata, sono presenti altri saggi di argomento diverso che si concentrano su  molti aspetti della storia lombarda e italiana dal Medioevo al Novecento. Due contributi, il primo di Lavinia M. Galli e il secondo di Annalisa Zanni si focalizzano sulle origini del Museo Poldi Pezzoli di Milano e sulla nascita della omonima fondazione artistica. Giampiero Fumi prende in esame il primo periodo di attività di un istituto di credito dalla storia lunga e prestigiosa come la Cassa di Risparmio delle Province Lombarde, focalizzandosi sugli anni dal 1823 al 1860.

Ancora al tema della guerra è dedicato il saggio di Marino Viganò, che pone al centro della sua indagine i primi mesi del 1945 nel periodo sofferto e drammatico che vide nel Nord Italia lo scontro feroce tra i partigiani e l’esercito della repubblica di Salò: Viganò prende in esame la milizia francese, un battaglione della forza militare ausiliaria della repubblica di Vichy di cui il governo nazifascista di Salò si servì in Valtellina contro i partigiani. 

Pietro Verri

Occorre infine ricordare i due contributi di Maria Francesca Turchetti e Carlo Capra che prendono in esame la corrispondenza epistolare tra l’economista milanese Pietro Verri ed esponenti del patriziato della Milano settecentesca quali Francesco IV d’Adda e Alfonso Castiglioni. Lettere preziose perché consentono non solo di capire la mentalità dei gentiluomini del Settecento e il loro modo di rapportarsi di fronte ai problemi della vita, ma anche di comprendere sotto diversi punti di vista eventi importanti come la guerra dei Sette Anni o le riforme asburgiche nel ducato di Milano. Sull’epistolario di Pietro Verri – una fonte straordinaria per capire il Settecento europeo – si attende un lavoro di ripubblicazione integrale all’interno dell’Edizione Nazionale delle Opere di Pietro Verri.

Milano torni ad essere culla del riformismo

Questo articolo è stato pubblicato in versione ridotta su “Il Giorno” del 17 luglio 2021.

Uno dei tratti caratteristici di Milano è la vocazione al riformismo, la capacità delle sue classi dirigenti e politiche di ripensare le istituzioni lavorando per migliorarle con pragmatismo e coraggio. Tale fenomeno è un dato di lungo periodo nella storia della città.

Si potrebbero citare numerosi esempi in proposito. Mi limito a portarne tre emblematici. Nel corso del Settecento in Lombardia i monarchi assoluti realizzarono incisive riforme nel campo dell’economia, del fisco, dell’amministrazione locale, dell’istruzione, della giustizia: furono rese possibili grazie all’impegno di funzionari austriaci, trentini, istriani, toscani, napoletani che operarono a Milano al servizio di sovrani come Maria Teresa e Giuseppe II che li impiegarono nei loro governi esclusivamente per la competenza ed esperienza che avevano dimostrato nei campi in cui si intendeva operare. Un contributo non trascurabile fu reso anche da giovani patrizi milanesi come Pietro Verri e Cesare Beccaria, che nutrivano simpatie per il governo riformatore degli Asburgo e condividevano l’esigenza di svecchiare le istituzioni dei loro padri giudicate inadeguate e barbare. I sovrani absburgici capirono che per reggere il confronto con gli Stati europei più potenti occorreva cambiare il vecchio sistema giuridico-amministrativo, risanare i bilanci pubblici, fare in modo che l’amministrazione fosse meno imbrigliata nella lentezza di procedure di cui non si capiva più il senso. Bisognava puntare unicamente al conseguimento degli obiettivi della monarchia, tra i quali vi era la cura della felicità dei sudditi mediante il buongoverno. Una lezione quanto mai attuale nell’Italia di oggi: mai come in questi anni si sente la necessità di riformare seriamente le istituzioni della repubblica perché possano reggere il confronto con quelle dei migliori Stati europei. Il fine ultimo è sempre lo stesso: per i sovrani illuminati dell’Europa germanica si chiamava Wohlfahrtsstaat (Stato del benessere) per la cura della felicità dei sudditi, oggi è il Welfare State, quel complesso di apparati pubblici tesi a garantire la salute e il bene comune.

Il secondo esempio di riformismo si lega al periodo tra il 1796 e il 1814, agli anni in cui Milano fu capitale di uno Stato cisalpino esteso a una parte rilevante del Nord Italia. A pochi mesi di distanza dall’ingresso del generale Bonaparte nella città del Duomo, l’Amministrazione generale della Lombardia organizzò una delle iniziative più importanti per il tema che qui interessa: si trattava di un concorso in cui decine di intellettuali, provenienti da ogni parte d’Italia, presentarono progetti per la formazione di un Stato italiano esteso a tutta la penisola nella soluzione federale o unitaria a seconda delle varie proposte. Il concorso era intitolato: “Quale dei governi liberi meglio convenga alla libertà d’Italia”. Quel concorso, vinto – com’è noto – dallo statistico ed intellettuale Melchiorre Gioia, si rivelò una delusione per i patrioti perché ben presto Bonaparte rivelò i suoi piani di dominio che cozzavano contro il progetto italiano di unire la penisola facendone una nazione in grado di reggere il confronto con la Francia. 

Il culmine di questa attività riformatrice si ebbe tuttavia nel periodo in cui Milano fu capitale della repubblica e del regno d’Italia napoleonico (1802-1814). Fu in quella stagione che tanti patrioti provenienti da ogni parte della penisola, che avevano combattuto generosamente per la libertà negli anni 1796-1800, vennero a Milano, abbandonarono l’impegno politico, lavorarono come probi funzionari negli uffici della macchina amministrativa voluta da Napoleone: Milano seppe assumere il ruolo di capitale di uno Stato moderno in cui operava una burocrazia efficiente, veloce nell’andamento delle operazioni, attenta al conseguimento dei risultati fissati dal governo, in dialogo costante con i suoi terminali periferici – prefetti e viceprefetti – allo scopo di migliorare l’efficacia dei suoi interventi.

Il terzo caso ci porta a un periodo più vicino a noi, agli anni Sessanta-Novanta del secolo scorso, quando Milano fu una delle città che più si distinsero nel campo del riformismo. Tra i vari centri di ricerca che allora operarono in tale ambito desidero ricordare in particolare modo la fondazione dell’Isap (Istituto per la Scienza dell’Amministrazione Pubblica), avvenuta grazie al sostegno del Comune e della Provincia di Milano nel 1959. Questo diede al Paese uno dei più avanzati centri di ricerca nel campo delle istituzioni politiche, i cui progetti di riforma erano in grado di competere con quelli elaborati dagli uffici legislativi del parlamento e dei ministeri. L’istituto, che ebbe quale primo direttore Feliciano Benvenuti e vicedirettore Gianfranco Miglio, si segnalò fin dall’inizio per l’originalità delle sue pubblicazioni afferenti alla storia dei poteri pubblici, alla loro tipologia, alla scienza dell’amministrazione. L’Isap è stata una fucina di studi in cui hanno lavorato storici e giuristi chiamati a collaborare esclusivamente per la loro professionalità. Si è operato con rigore, seguendo in molti casi il metodo avalutativo che il professor Miglio, riprendendo la memorabile lezione di Max Weber, non cessava di raccomandare agli allievi: la Wertfreiheit, il fermo distacco dello scienziato e dello storico dalle ideologie di qualsiasi colore. Purtroppo l’istituto ha interrotto da alcuni anni la sua attività per mancanza di fondi pubblici.

E’ importante che la prossima amministrazione torni a finanziare questo prestigioso ente di ricerca scientifica: la capitale morale potrà tornare a competere con Roma quale laboratorio di riforme politiche e amministrative. La Milano del futuro deve avere non solo le idee, ma anche gli strumenti per realizzare concretamente il buongoverno al servizio del Paese.