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L’anomalia italiana: quando il buongoverno non si concilia con la democrazia

Michele Salvati, in un articolo apparso sulla rivista “Il Mulino” (anno LXI, 1/12, n.459, pp.22-32), si è chiesto per quale motivo l’Italia, in larga parte della storia repubblicana, non abbia avuto governi responsabili, in grado di realizzare politiche lungimiranti. Perché in Italia non c’è stato il buongoverno? In realtà – sostiene Salvati – il buongoverno c’è stato. Il guaio è che la sua durata è stata breve. Si è verificato quasi sempre in circostanze eccezionali.
Nel dopoguerra, durante la stagione del centrismo (dal 1948 al 1963), il Paese fu governato da una classe politica autorevole, responsabile, alla quale dobbiamo la messa a punto di quelle riforme che portarono al poderoso boom economico dell’Italia padana e dell’Italia centrale negli anni Sessanta del secolo scorso. Meno significativo, come noto, lo sviluppo economico nel Mezzogiorno. Ma, a parte la lunga stagione del centrismo, altre belle pagine non si vedono. Bisogna attendere – fa notare Salvati – la seconda Repubblica, in particolar modo i pochi anni che intercorsero tra la formazione del primo governo Amato (1992) e la fine del primo governo Prodi (1998) per vedere qualcosa che somigli al buongoverno; sei anni nel corso dei quali il Paese, reduce da una crisi finanziaria che aveva messo a repentaglio la tenuta del sistema politico-costituzionale, poté contare su governi in grado di condurre politiche impopolari pur di scongiurare la bancarotta dello Stato. In circostanze eccezionali, essi ebbero il merito di tenere sotto controllo la spesa e il debito pubblico salvando l’Italia da un default le cui conseguenze sarebbero state imprevedibili.  
La tesi centrale del saggio di Salvati risiede nella constatazione che l’Italia, messa a confronto con le altre democrazie europee, presenta una vistosa anomalia caratterizzata dalla non coincidenza tra democrazia e buongoverno. “La mia tesi è che quel contrasto (tra democrazia e buongoverno) è stato mediamente più forte, e ha dato luogo a un governo peggiore, in Italia rispetto ad altri Paesi con i quali è ragionevole confrontarci in questo dopoguerra: Regno Unito, Francia, Germania, Spagna post-franchista”.
Una tesi difficile da confutare. Difatti, se prendiamo in esame le condizioni della penisola italiana nella seconda parte della “Prima Repubblica” (1963-1992) e nella seconda parte della “Seconda Repubblica” (1998-2011) – sembra che quei governi furono incapaci di adottare politiche lungimiranti e questo nonostante fossero composti da partiti che riscuotevano il consenso di larga parte dell’elettorato. Non è un caso se l’immane debito pubblico italiano fu cumulato nei periodi di malgoverno che si sono appena accennati. Certo, ci troviamo di fronte a due sistemi politici diversi ma entrambi furono in qualche modo responsabili.
A mio parere, se prendiamo in esame la storia repubblicana, ci accorgiamo che i punti deboli del nostro vivere in comunità sono sostanzialmente due: la scarsa fiducia dei cittadini nelle istituzioni politiche, considerate estranee quando non rechino vantaggio ai loro interessi particolari; l’assenza di una cultura di governo in larga parte della classe politica. Questo ha prodotto esecutivi irresponsabili, poco autorevoli e per nulla stabili. Nella “Prima Repubblica” ci sono stati cinquanta governi in 47 anni – dal 1946 al 1993 con una media di quasi 1 governo all’anno – con una legge elettorale proporzionale in regime politico parlamentare. Nella “Seconda Repubblica” – che per comodità facciamo durare fino al 2011 includendo il governo Monti – gli esecutivi sono stati dieci in soli 17 anni con una media ancor più bassa rispetto alla precedente. In questo secondo caso, la forma di governo parlamentare è stata regolata da due leggi elettorali (il Mattarellum dal 1993 al 2005, il Porcellum dal 2006 ad oggi) che hanno tentato di risolvere il problema della governabilità: la prima con la prevalenza di un sistema a collegi uninominali sul modello inglese, la seconda con un sistema proporzionale corretto dal premio di maggioranza alla coalizione vincente. Secondo Salvati tali leggi non sono bastate a scongiurare l’instabilità del sistema politico. Gli esecutivi hanno continuato a traballare anche in questi anni, posti perennemente sotto il ricatto dei parlamentari i quali, nel sistema vigente, rivestono il monopolio della legislazione nazionale. Solo in un caso l’esecutivo ha potuto operare per quasi l’intero arco della legislatura: il secondo governo Berlusconi (2001-2005) che per Salvati non può essere considerato esempio di buongoverno. La realtà è che nella “Seconda Repubblica”, quantunque le leggi elettorali abbiano consentito di eleggere direttamente il presidente del consiglio, il buongoverno non è stato assicurato.
Oggi, esattamente come vent’anni fa, siamo alle prese con un governo “tecnico” il cui mandato dovrebbe consistere nel realizzare le riforme che nessun partito ha avuto il coraggio di fare. Salvati ha ragione nel sostenere che in Italia il buon governo non è coinciso quasi mai con la politica democratica. A mio giudizio il problema risiede nel tipo di Stato che ci ha governato finora. Lo Stato nazionale unitario – per il modo in cui si è formato, per la sua stessa costituzione interna – ci ha impedito di identificarci totalmente in un ordinamento saldamente ancorato alle radici della storia preunitaria della penisola. Non ci ha consentito di essere cittadini sensibili al bene comune. Il problema non investe solo la classe politica. Riguarda le classi dirigenti e i cittadini: le une e gli altri più sensibili all’interesse corporativo ed individuale che a quello generale.
Questa situazione è dovuta al fatto che lo Stato viene s e n t i t o  dai cittadini come qualcosa di imposto, di artificiale, di innaturale.

Se non risolveremo questo problema con una serie di riforme coraggiose tese a ridisegnare nel suo complesso l’ordinamento costituzionale, il Paese finirà nei prossimi anni per essere dilaniato dalle sue interne contraddizioni. 

Il falso federalismo di destra e sinistra (Lega inclusa)

Questo articolo è uscito sul quotidiano online: L’Indipendenza

Le riforme costituzionali approvate nel corso degli ultimi quindici anni dal centro sinistra e dal centro destra non possono definirsi federali, quantunque vengano spacciate come tali dalla classe politica attualmente al potere. In questo intervento si cercherà di mostrare per sommi capi le principali innovazioni in tema di autonomia locale approvate dai due schieramenti.

Cominciamo dal centro sinistra. Le maggioranze parlamentari che appoggiarono i governi guidati da Romano Prodi, Massimo D’Alema e Giuliano Amato (1996-2001) si sforzarono di far fronte alla crisi del sistema politico muovendosi sostanzialmente in due direzioni. La Commissione bicamerale presieduta dall’onorevole D’Alema dal febbraio 1997 al giugno 1998 si fondava su un accordo con il centrodestra di Silvio Berlusconi per realizzare una riforma costituzionale limitatamente alla seconda parte della Carta. L’onorevole Berlusconi, dopo alcuni mesi, ruppe quell’accordo per ragioni di convenienza politica, facendo naufragare un lavoro che aveva l’ambizione di mutare in profondità la forma di Stato e di governo della Repubblica italiana.


A pochi mesi dalla fine della XIII legislatura il centro sinistra, nel disperato tentativo di recuperare consensi nel Nord Italia, approvò una riforma costituzionale che riprendeva il Titolo V della seconda parte della Costituzione messo a punto dalla commissione D’Alema: ad essere modificati erano gli articoli riguardanti le autonomie di Regioni, Province e Comuni che, nel nuovo articolo 114, venivano posti sullo stesso piano dello Stato assieme alle Città metropolitane che comparivano per la prima volta nella Carta costituzionale.  Occorre riconoscere che questa riforma, approvata dal Parlamento e confermata dagli italiani con referendum costituzionale il 7 ottobre 2001, ha introdotto nell’ordinamento repubblicano un maggiore decentramento amministrativo e un più ampio margine di autonomia per gli enti locali. Il nuovo Titolo V non istituisce tuttavia un ordinamento federale per le seguenti ragioni. In primo luogo perché la riforma, strettamente limitata alla seconda parte della Costituzione, non ha minimanente intaccato il principio dell’unitarietà dello Stato sancito nell’articolo quinto della prima parte. Il che si trova sideralmente agli antipodi del federalismo, il quale presuppone per converso una pluralità di Comunità riconosciute come enti quasi sovrani in rappresentanza dei popoli che esse rappresentano. In un vero ordinamento federale non esiste la nazione “una e indivisibile” definita nella sua dogmatica razionalità sul modello delle Carte rivoluzionarie francesi; i popoli sono invece riconosciuti in base a criteri storici ed etno-linguistici. Come ci insegnava Gianfranco Miglio il vero federalismo, lungi dal fondare l’Unità, è fatto per salvaguardare, tutelare e gestire le diverse comunità di lingua e di tradizioni presenti in un determinato territorio.


Non v’è chi non veda come una vera riforma federale dovrebbe quindi portare alla riscrittura dell’articolo quinto mediante il riconoscimento delle diverse Italie esistenti nella penisola: fatte salve le cinque Regioni a Statuto speciale (Valle d’Aosta, Sardegna, Sicilia, Friuli Venezia Giulia, Trentino Altro Adige /Sud Tirol), un’Italia padano veneta al Nord, un’Italia toscana, un’Italia centro-meridionale. Ma, a ben vedere, la modifica costituzionale dovrebbe riguardare anche l’articolo sesto in cui, in via del tutto generica, è scritto che “la Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”. Difatti, se togliamo le cinque Regioni a Statuto speciale che godono condizioni particolari di autonomia per ragioni geopolitiche, quell’articolo è rimasto in larga parte lettera morta. Il che non sorprende, se si considera che la Carta italiana non chiarisce quali siano tali minoranze. Se confrontato con l’articolo terzo della Costituzione spagnola o con l’articolo 70 della Costituzione svizzera, l’articolo sesto si dimostra palesemente inadeguato. La sua riscrittura dovrebbe basarsi sul riconoscimento dell’italiano come lingua ufficiale della Repubblica federale e sull’elencazione (con espressa tutela) delle lingue che per storia e tradizione appartengono alle diverse comunità esistenti nella penisola: le lingue romanze padane (gallo-italiche e venete), le lingue italo romanze dell’appennino centrale (toscano, marchigiano, umbro, laziale), le lingue italo romanze dell’appennino meridionale e del Sud Italia (meridionale, salentino, calabrese, siciliano), il sardo, il friulano, il romando (detto anche franco-provenzale) diffuso in alcune vallate del Piemonte e della Val d’Aosta, il ladino, il tedesco sud-tirolese, il mòcheno (presente nella valle del Fèrsina- Bersntol) e il cimbro parlato in alcune zone del Veneto e del Trentino. Una riforma autenticamente federale, sulla base del riconoscimento di tali comunità etno-linguistiche, dovrebbe consentire alle diverse popolazioni di costituirsi in Repubbliche autonome attraverso l’unione degli enti territoriali esistenti o la formazione di nuovi soggetti istituzionali. Occorre infatti ricordare che le Regioni attuali non corrispondono in alcun modo alla realtà etno-linguistica e geo-economica della penisola. Inoltre, territori ristretti e scarsamente popolati come le Marche, l’Abruzzo, l’Umbria, la Liguria, la Basilicata o il Molise non sarebbero in grado di gestire efficacemente le accresciute funzioni di uno Stato regionale provvisto di poteri incisivi all’interno di una Confederazione.


Tornando al centrosinistra, quando fu approvato il nuovo Titolo V, fu fatto credere agli italiani che quella fosse la riforma federale che tutti desideravano, destinata finalmente a mutare l’ordinamento repubblicano in base ai nuovi principi dell’autogoverno. Nulla di tutto questo è accaduto. Gran parte delle competenze in materie importanti come l’ordine pubblico e la sicurezza, l’istruzione, lo sviluppo economico, l’agricoltura, il sistema tributario, vengono esercitate in larghissima parte dallo Stato centrale, il quale – nella persona del Presidente della Repubblica – può addirittura sciogliere il consiglio di una Regione e rimuoverne il Governatore per “motivi di sicurezza nazionale” (art.126, secondo comma): un articolo in cui traspare evidente l’ampio margine discrezionale lasciato al potere centrale e, specularmente, la completa assenza di sovranità dell’ente regionale.


Ma torniamo alle false riforme federali realizzate dai partiti italiani. Nel 2001 Silvio Berlusconi vinse le elezioni politiche con un’alleanza di partiti denominata “Casa della Libertà”, composta principalmente da Forza Italia, Lega Nord, Alleanza Nazionale e i gruppi democristiani guidati da Pier Ferdinando Casini e da Rocco Buttiglione. La XIV legislatura vide all’opera due governi: il Berlusconi II (2001-2005) e il Berlusconi III (2005-2006). In questo arco temporale si lavorò effettivamente a un progetto di riforma costituzionale. Confezionato nella baita di Lorenzago dai “saggi” del centrodestra, approvato in via definitiva dal Parlamento il 16 novembre 2005, fu bocciato clamorosamente dagli italiani nel referendum costituzionale del 25/26 giugno dell’anno seguente. Per fortuna! Se fosse passato, esso avrebbe soffocato quei pochi semi di autonomia presenti nell’attuale ordinamento costituzionale.


La riforma dei “saggi” limitava infatti a tre le competenze in cui le Regioni avrebbero esercitato una legislazione esclusiva: polizia locale, sanità e scuola professionale. Lo Stato centrale, oltre a conservare le sue funzioni, sarebbe rientrato in possesso di competenze decisive come l’energia, le grandi reti di trasporto e le telecomunicazioni che la riforma del centrosinistra – tuttora vigente – vuole gestite in via concorrente con le Regioni. Non basta. La clausola dell’ ‘interesse nazionale’ avrebbe consentito allo Stato di intervenire in via amministrativa nei confronti degli enti territoriali, configurando un sistema centralistico assai vicino a quello della cosiddetta “Prima Repubblica”. Il rafforzamento del governo con l’attribuzione al premier del potere di sciogliere le camere, previsto dalla riforma senza adeguati contrappesi, avrebbe avvicinato il nostro ordinamento alla Quinta Repubblica francese, un paese come noto che non può certamente essere citato come esempio di federalismo. E’ lecito domandarsi come abbia potuto un partito come la Lega Nord accettare e addirittura condividere una riforma che, se approvata dagli italiani, avrebbe reso il Paese certamente più governabile, ma a grave scapito delle libertà locali. Misteri della cattiva politica.


Andiamo avanti. Conclusa la breve parentesi del secondo governo Prodi, il centrodestra ha vinto le elezioni nel 2008 con un programma che non presentava mutamenti significativi in materia costituzionale, salvo riprendere le riforme del 2005 già bocciate dagli italiani. Ci si è limitati – con il tacito consenso del centrosinistra – a dare attuazione all’articolo 119 della Costituzione realizzando per via legislativa un intervento, denominato subdolamente “federalismo fiscale”, teso a migliorare la gestione delle risorse finanziarie da parte degli enti locali lasciando inalterata la struttura unitaria dello Stato. Se il vero federalismo dovrebbe consentire ai maggiori enti territoriali di trattenere sul territorio una parte cospicua delle ricchezze prodotte dai cittadini, la riforma del centrodestra – muovendosi entro il solco dell’art.119 della Costituzione – non fa nulla di tutto questo. Difatti con questa riforma il livello di tassazione a carico dei cittadini viene addirittura aumentato, non foss’altro perché la parte cospicua delle imposte dirette e indirette continua ad essere gestita dallo Stato centrale. E’ significativo che il cosiddetto “federalismo fiscale” abbia confermato il principio in base al quale le imposte non sono dei territori, bensì dello Stato: è lo Stato nazionale a redistribuire dall’alto le risorse prelevate dai cittadini in base a un criterio di equità sociale tipico di un potere pubblico unitario, non federale.


Titolari di una parte significativa del potere impositivo come avviene nella Confederazione elvetica, le Comunità territoriali in un ordinamento federale avrebbero invece gli strumenti per amministrare la cosa pubblica fornendo servizi ai cittadini in un regime di piena concorrenza istituzionale. Tutto l’opposto del “federalismo fiscale” approvato dal centrodestra che, basandosi sul principio dell’unitarietà dello Stato sancito dall’articolo quinto della Costituzione, lascia al potere centrale la gestione di tutte le imposte. Agli enti locali è concessa una compartecipazione al gettito dei tributi erariali, un’addizionale alle imposte dirette/indirette o l’introduzione di nuovi tributi. Quando tale riforma entrerà a regime, il risultato non potrà che essere un aumento della tassazione, il che porterà immancabilmente a un nuovo record della pressione fiscale, ovviamente in negativo.

Bozzetti satirici da frammenti di storia/3

“La differenza tra l’alzarsi ogni mattino alle 6 o alle 8, nel corso di 40 anni, ascende a 20.200 ore, ossia a 3 anni, 121 giorno (sic!) e 16 ore; il che fa 8 ore al giorno per dieci anni. Onde chi per 40 anni s’alza alle 6 invece delle 8, può dire d’aver nel corso della vita una decina d’anni, nei quali gli sono aggiunte 8 ore di vita al giorno; tempo ragguardevole per coltivare il proprio ingegno, moltiplicare il numero degli affari, arricchirsi, e beneficare insomma maggiormente sé stesso e altrui.

Ma per lo stesso motivo che raccomandiamo l’alzarsi di buon’ora a quegli uomini che possono giovare colla mente o col cuore alla società, desideriamo che poltriscano lungamente nelle piume tutti coloro che la natura o l’educazione o l’ignoranza hanno reso malefici. Quanto maggior numero di tirannie avrebbe esercitato Nerone se si fosse alzato ogni giorno due ore più presto che non fu solito! Perciò Seneca sarebbe stato benemerito dell’impero se, vedendo in quel principe un’irresistibile inclinazione al mal fare, nulla avesse bramosamente cercato quanto d’ispirargli l’amore dell’inerzia e del sonno”.

Silvio Pellico, Il Conciliatore, 13 settembre 1818.

Consigliamo vivamente a Marcello Pera di tornare a fare il filosofo. Sarebbe benemerito dell’Italia quando, constatando in B. un’irresistibile inclinazione a mal fare, impiegasse tutte le sue energie ad ispirargli l’amore per l’inerzia e per il sonno.

In assenza della perversa operosità di B. ci risparmieremmo i continui capricci di belle donnine generosamente aiutate, avremmo in Parlamento una maggioranza diversa da quella spettrale che ci perseguita, diremmo finalmente addio al “governo del fare” e il Capo dello Stato riuscirebbe a formare un governo i cui membri siano provvisti degli attributi per fare uscire il Paese dal baratro in cui si trova, ad ogni costo.

La manovra dei sotterfugi e il paese nel tunnel della crisi

Mentre in Parlamento si continua a discutere sui “miglioramenti” da apportare alla manovra, il governo arranca sotto la sferza implacabile della speculazione internazionale. I vertici incessanti tra i ministri della maggioranza dimostrano che la classe politica ha le idee confuse. Il 18 agosto, sotto l’infuriare dei mercati, il governo aveva approvato all’unanimità un decreto-legge “lacrime e sangue”, un decreto redatto da Tremonti per conseguire un solo obiettivo:  guadagnarsi la prima scialuppa di salvataggio europea, convincere la Banca centrale ad acquistare  titoli di Stato italiani. Era una manovra certamente ingiusta in alcune parti perché chiedeva sacrifici a chi già ne faceva pagando le tasse e le imposte alla luce del sole. La sua approvazione a tempi di record convinse però l’Europa –  compresi i tedeschi – che il governo intendeva perseguire finalmente la strada del risanamento e delle riforme strutturali. Arrivò la prima scialuppa di salvataggio.

Poi è venuta la penosa manifestazione di fine agosto: sindaci e presidenti di province, animati da istanze schiettamente conservatrici, hanno sfilato per il centro di Milano in polemica con la manovra di Tremonti. Risultato? Il governo si è calato le brache ritirando quei (pochi) provvedimenti che avrebbero consentito di risparmiare sul fronte della spesa improduttiva negli enti locali. Addio soppressione delle province e accorpamento dei piccoli comuni.

Non basta. La marcia indietro del governo è continuata quando si è saputo che dalla manovra, approvata in Senato con voto di fiducia, i tagli alla politica sono stati fortemente ridimensionati.  Ricordate gli stipendi dei parlamentari che la prima bozza della manovra – quella del 23 giugno – voleva rapportati alla media di quelli europei? Qualcuno in Parlamento ha introdotto un emendamento con cui si stabilisce che l’indennità deve essere pari alla media dei sei maggiori paesi del Vecchio Continente. Escludendo gli Stati ove i costi della politica sono più bassi, i politici son riusciti ad evitare un taglio di almeno 1.000 euro sui loro stipendi. E le incompatibilità? Sparita la norma che estendeva a tutti gli amministratori locali il divieto di cumulo delle cariche, il divieto di ricoprire il seggio parlamentare è rimasto solo per i titolari di cariche monocratiche negli enti locali e nei comuni con popolazione superiore ai 5.000 abitanti: presidenti di provincia e sindaci. Quindi? Assessori, consiglieri comunali e provinciali potranno ricoprire il seggio di deputato o di senatore cumulando due stipendi pagati ovviamente dalla collettività. L’elenco dei privilegi, soppressi dalla manovra di Tremonti e ristabiliti di nascosto in Parlamento, potrebbe continuare.      

Insomma, quel che è rimasto in questa manovra dalle mille correzioni è la scure – pesante – sui ceti produttivi.  Il regime attuale poggiante su una serie interminabile di burocrazie improduttive è ancora in piedi. E i partiti dell’opposizione che fanno? Abbaiano nel tentativo di conservare la poca credibilità di cui ancora dispongono presso l’opinione pubblica addebitando a Berlusconi e alla sua maggioranza il disastro in cui ci troviamo. Il guaio è che non è colpa (solo) di Berlusconi. E’ il sistema Italia che sta arrivando al collasso. Secondo gli economisti di Citygroup il nostro paese chiuderà il prossimo anno con un arretramento dello 0,3%. Certo, possono sbagliarsi ma il rischio di entrare in recessione è dietro l’angolo.

Nel febbraio 1994, accennando all’irriducibile ostilità della classe politica e burocratica nei confronti delle riforme strutturali del sistema politico economico, il professor Miglio diceva:

La reazione rabbiosa che abbiamo dovuto fronteggiare è dipesa dal fatto che coloro i quali sanno per quali canali più o meno oscuri finiscono nelle loro tasche i danari che godono, la ricchezza che godono, sono prontissimi a capire quando c’è un taglio di quei canali. La costituzione federale è la classica costituzione fatta contro i parassiti. Non c’è nella storia del mondo un paese a regime federale che presenti il grado di corruttela di cui siamo oberati noi oggi. D’altra parte la reazione dei politici è anche comprensibile. Perché sono centralisti e anti-federalisti e tirano fuori le icone come la Patria che piange perché viene minacciata nella sua integrità. Perché centralismo e parassitismo sono due facce della stessa medaglia. Io devo scusarmi con voi se uso il termine “pidocchi” ma cosa volete farci…. il paese che siamo chiamati a cercar di cambiare è fatto così. E’ un paese ammalato da un esercito di pidocchi“.

Il professore venne deriso, attaccato da più parti con l’accusa di razzismo se non addirittura di demenza senile.Colpisce invece l’attualità di quel discorso. Il guaio è che, ora come nel 1994, l’Italia manca di una classe politica responsabile disposta a riforme radicali e impopolari per il bene del Paese: riforme che portino a una riforma integrale della Costituzione repubblicana in senso confederale e semipresidenziale. Berlusconi e Bossi hanno fallito. Il centro sinistra ha fallito. Non occorre stupirsi: quale politico di professione metterebbe a rischio la carriera politica limitando un sistema da cui trae tanti privilegi?

E’ di poche ore la notizia che il rappresentante tedesco del comitato esecutivo della Banca centrale europea, Jurgen Stark, ha rassegnato le dimissioni perché non condivide la politica di Francoforte a sostegno dei paesi in difficoltà: Grecia, Spagna e Italia. I tedeschi si chiedono perché dovrebbero aiutare paesi le cui burocrazie continuano a dilapidare i loro aiuti nella spesa pubblica improduttiva.

E’ un bel guaio. Senza scialuppe di salvataggio, è probabile che il Titanic Italia affonderà sotto le onde implacabili della speculazione internazionale. Qualora si configurasse tale scenario, sarebbe la fine dell’Euro o, a dir meglio, arriverebbe al capolinea l’Europa monetaria allargata ai Paesi più esposti alla speculazione internazionale (Spagna, Italia, Grecia, Portogallo).

Non è detto che questo sia un male per gli italiani: lasciati soli nel tunnel di questa crisi economica e politica, obbligati a resistere dalla dura lotta per l’esistenza, forse sapremo trovare con determinazione la via d’uscita fondando un nuovo regime vaccinato da ogni parassitismo.

Usciremo dal tunnel della crisi solo se avremo il coraggio di metterci radicalmente in discussione.

Le mani nelle tasche degli italiani e i cattivi della finanza internazionale

I nostri politici promettono riforme epocali con progetti di mutamento costituzionale che si rivelano per quello che sono: penosi ritocchi a un sistema che continuerà a fare acqua da tutte le parti.

Fino a poche settimane fa Berlusconi assicurava che non avrebbe messo le mani nelle tasche degli italiani. La manovra finanziaria approvata dal Parlamento in tempi di record non solo autorizza lo Stato a metterle quelle mani, ma sembra perfino strappare ai cittadini  le tasche in cui ripongono i loro risparmi. E Berlusconi che fa? Tace.

Nel frattempo la classe politica attestata in Parlamento (di centro-destra e di centro-sinistra) non riesce a staccarsi da un sistema che consente i vergognosi privilegi di cui gode.
Il progetto costituzionale presentato da Calderoli è insufficiente perché costituisce in buona parte la riesumazione della riforma approvata dal centro-destra nel 2005 e bocciata dagli italiani con referendum nel 2006.

A quanto sembra, “i cattivi ragazzi della finanza internazionale”- come li ha ben definiti Giuseppe Turani in un suo interessante editoriale – dovranno bastonare ulteriormente l’Italia per far rinsavire i nostri politici.

Silvio lascia ad Angelino il Pdl, nave “sanza nocchiero in gran tempesta”

Il Cavaliere ha annunciato che alle prossime elezioni politiche non sarà il candidato premier per il Popolo della Libertà. E’ significativo che abbia manifestato tale decisione nel corso di un’intervista concessa a “La Repubblica”, il quotidiano che, or son quasi due anni, non esitò ad attaccare invitando gli industriali a boicottarne i finanziamenti. Cambiando radicalmente strategia, come d’altra parte è suo costume, il Cavaliere sceglie il giornale diretto da Ezio Mauro per dare al pubblico una notizia che i suoi “delfini” attendevano con trepidazione. L’obiettivo è facilmente intuibile: risollevare il centro-destra dal tracollo subito nelle ultime prove elettorali.
Vien da chiedersi se l’investitura di Angelino Alfano a segretario del partito sia sufficiente a raddrizzare la barca del centro-destra. Il ministro della giustizia è uomo brillante, capace, profondamente versato nel campo della giurisprudenza; senza dubbio la persona che ha dimostrato in questi anni di servire il padrone senza “se” e senza “ma”. Tali doti, che hanno consentito ad Alfano una scalata fulminea ai vertici del partito, rischiano tuttavia di essere osteggiate dall’elettorato; un elettorato, come dimostrano i risultati dei referendum, che anche nel centrodestra ha mostrato di rigettare le logiche oligarchiche di una politica abissalmente lontana dal paese. Insomma, un uomo come Alfano, che ha servito gli interessi di Berlusconi con tanta fedeltà e pervicacia, ben difficilmente potrà rappresentare la spinta al cambiamento che i cittadini si aspettano.

Ricorrendo a una metafora eminentemente politica, nel Pdl nessuno sembra essersi accorto che, uscito di scena Berlusconi, c’è ancora un cadavere da sotterrare: il berlusconismo.

Il burattino di Pontida

Berlusconi regge con la maggioranza che è riuscito a coagulare intorno a sé, in un modo o nell’altro. Bossi risponde: “nulla è scontato”. Da dieci anni il Senatùr è un burattino che cerca di nascondere la mano di chi lo muove.

Pontida e i “penultimatum” della Lega

Non c’è che dire. Il cielo azzurro, il sole sfolgorante e il soffio di una dolce brezza di montagna hanno portato bene a quanti hanno trascorso il fine settimana al mare o in montagna. Ha portato male ai leghisti di Pontida, i quali si aspettavano di festeggiare il bel tempo con l’imminente caduta del governo Berlusconi ad opera di Umberto “il Giustiziere” e invece son rimasti a bocca asciutta. Hanno masticato amaro quanti speravano in un gesto risolutivo.

Il capo e i colonnelli ce l’hanno messa tutta per convincere la folla che la Lega di lotta non è ancor spenta. Musiche tratte dal film Braveheart, la voce tonitruante di uno speaker esaltato, parole di sostegno nei confronti degli artigiani e degli allevatori, promesse di riscrittura del patto di stabilità per consentire ai sindaci dei Comuni virtuosi di poter spendere le risorse accumulate in anni di buona amministrazione. Peccato che una parte della base, stufa di esser presa in giro dopo anni di bugie sul “federalismo fiscale”, non ne voleva sapere di false promesse.

La novità stava tutta in un foglietto distribuito ai militanti che nelle intenzioni degli organizzatori doveva suonare come un ultimatum all”amico Berlusconi’ e all”amico Giulio’. Intendiamoci. Un partito ridotto ormai a una larva se non alla caricatura della Lega dei primi anni Novanta, più che ultimatum oggi può rivolgere timide suppliche al principe di Arcore. Nulla di strano se un giorno si scoprisse che le richieste da “penultimatum” sono frutto di una stesura a tavolino tra l’amico Silvio, l’amico Giulio e il club ristretto Bossi-Calderoli-Maroni-Castelli in uno degli ultimi vertici di Arcore. Un programmino, quello contenuto nel “penultimatum”, di cui presto non si sentirà parlare che in qualche osteria della fascia pedemontana tra Como e Treviso. Insomma, chi sperava nel botto – la rottura con Berlusconi –  è rimasto deluso. Eppure, bastava leggersi il bel volume di Leonardo Facco, Umberto Magno. La vera storia dell’imperatore della Padania (Reggio, Aliberti 2010), per capire cosa sia diventata la Lega in quest’ultimo decennio.

Tra le varie richieste presentate a Berlusconi, il Senatùr ha rilanciato il tema dello spostamento dei ministeri da Roma. “Tre dicasteri a Monza, uno a Milano” ha detto Bossi rivolgendosi alla folla dei suoi aficionados. Intendiamoci. Di quali uffici si tratti nello specifico, nulla è dato sapere. L’unica certezza è che alcune scrivanie del suo ministero “senza portafoglio” (quello “per le Riforme e per il Federalismo”) verranno trasferite nella Villa Reale di Monza.

Diciamo la verità. Ieri si son viste le comiche. Il Capo e Calderoli, assisi sul palco, mostravano alla folla la targa sfolgorante del nuovo ministero brianzolo portata da un inebetito quanto ossequiente sindaco di Monza; il quale, atteggiandosi con un certo spirito di sudditanza e devozione nei confronti del Capo, ha perfino estratto dal cilindro la chiave che – stando alla sue parole – consente l’accesso alla Villa Reale; una vera e propria chiave magica destinata ad aprire le decine di porte del maestoso edificio.

Già mi par di vedere rigirarsi nella tomba l’arciduca Ferdinando d’Austria figlio dell’imperatrice Maria Teresa, che nella seconda metà del Settecento riuscì a convincere la madre a finanziare la costruzione della magnifica reggia nella campagna brianzola. Mi chiedo: come può la villa costruita dal grande Piermarini ove vissero arciduchi e arciduchesse, viceré e viceregine, re e regine, simbolo del potere politico di un potente Stato regionale nel Nord Italia, come può esser ridotta a misera dépandance di un ministero romano, per giunta “senza portafoglio”? Misteri della politica, enigmi dell’oscurità bossiana.

La morale è che il decentramento dei ministeri sarà l’ennesima boutade destinata ovviamente a non essere realizzata. Peccato. Tale proposta, se inserita in un piano di riforma autenticamente federale, non sarebbe poi così campata per aria. Negli Stati federali gli uffici dei dicasteri sono diffusi sul territorio. La ragione è presto detta. In un ordinamento federale non esiste la concentrazione del potere nella Capitale, perché in una Federazione le Capitali sono molte e diverse, come molti e diversi sono gli Stati membri del patto confederale. Il guaio è che la proposta leghista, nei termini in cui è stata formulata, ha l’aria di una richiesta improvvisata, buttata lì per non deludere i militanti. Una proposta in fin dei conti assai poco credibile. Come si può pensare di concentrare a Monza tre dicasteri? Che senso può avere? Monza merita forse tanta importanza rispetto alle altre città del Nord Italia e della penisola? Perché non pensare invece di spostare alcuni ministeri nelle città che furono un tempo antiche Capitali di Stati regionali? Milano, Torino, Venezia, Parma, Modena, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Palermo? Lo scrissi su questo blog or è quasi un anno. 

Eppure, a sentir le reazioni del sindaco dell’Urbe Gianni Alemanno, della governatrice del Lazio Renata Polverini, del leader dell’Italia dei Valori Antonio Di Pietro e di buona parte della sinistra, sembra che il federalismo sia estraneo alla cultura di questo Paese. A me sembra che molto debba ancora esser fatto. La ragione suggerisce di essere ottimisti. La lezione dei fatti italiani – come direbbe Machiavelli – induce a un moderato pessimismo.

Fini e la svolta di Mirabello

Il discorso che Gianfranco Fini ha tenuto nella cittadina ferrarese di Mirabello ha il sapore di una sfida lanciata a Silvio Berlusconi e a Umberto Bossi. Certo, Fini si è guardato bene dall’attaccare frontalmente il governo, denunciando tout court la politica seguita dal centro destra. Ma è facile intravedere, nella studiata moderazione delle sue parole, un attacco esplicito ai partiti che hanno vinto le elezioni del 2008.
Il Popolo della Libertà e la Lega Nord vengono accusati di aver perseguito troppo spesso, nell’azione del governo, interessi particolari di territori o di categorie di cittadini a danno di altre. Fini ha criticato i provvedimenti di contenimento della spesa pubblica portati avanti dal governo, puntando l’indice contro i tagli ai fondi per la polizia, alle risorse per la pubblica istruzione, lasciandosi andare a una serie di critiche che neppure l’opposizione ha saputo fare in questi anni con pari intensità. Sulla riforma del processo breve, il presidente della Camera ha difeso la Magistratura affermando che “il garantismo non può essere mai considerato una sorte di immunità permanente”. Evidente il riferimento ai progetti del governo sul “processo breve” o alla polemica insorta alcuni mesi fa sul disegno di legge relativo alle intercettazioni.
Insomma, il suo è stato un discorso da vero leader politico, il che finisce per rendere assai poco credibile il ruolo di terzietà e di garanzia richiesto dall’ufficio di presidente della Camera. Oggi Berlusconi, dopo l’accordo preso ieri al vertice di Arcore con Umberto Bossi, salirà al Colle per chiedere al presidente della Repubblica di convincere Fini a dimettersi dall’incarico che attualmente ricopre. Una richiesta che i finiani hanno buon gioco a definire irricevibile, visto che in questa Costituzione parlamentare il Capo dello Stato, quale garante dell’ordinamento repubblicano, non può arrogarsi il compito di dimettere il presidente di un’assemblea parlamentare o fare pressioni perché questi lasci l’incarico.        
A Mirabello Fini ha denunciato l’assenza nel Popolo della Libertà di uno spazio per una sana dialettica tra le varie correnti, sostenendo che la politica – nel senso etimologico del termine – dovrebbe tendere costantemente alla promozione del bene della comunità (dal greco antico: polis, città, comunità). Fini ha ragione nel contestare al Pdl una gestione scarsamente rispettosa nei confronti di chi la pensa diversamente da Berlusconi. Ma un partito ove la linea del Capo riscuote il consenso del 90% dei seguaci attivi, avrebbe dovuto fargli capire che la discussione di idee alternative a quelle della stragrande maggioranza viene a cessare una volta che la linea da seguire sia stata decisa. Rilasciando continue dichiarazioni in polemica con Berlusconi, Fini sembra aver rubato il mestiere all’opposizione. Berlusconi e Bossi hanno buone ragioni per chiedere le dimissioni al presidente della Camera, ma sbagliano a fare pressioni sul Capo dello Stato perché la Costituzione vigente non prevede che il presidente della Repubblica possa svolgere il compito ch’essi vorrebbero attribuirgli.
Prendendo in esame con il metodo della scienza politica quanto sta avvenendo nel centrodestra,  non Fini, ma  il Cavaliere sembra esser rimasto coerente  alla  s u a   politica, il che può sembrare un paradosso ma è difficilmente contestabile. Berlusconi ha ottenuto un notevole sostegno popolare nel corso di questi quindici anni: assieme alla Lega, rappresenta la promessa di un cambiamento radicale dell’ordinamento costituzionale in netta rottura con i tradizionali equilibri della cosiddetta Prima Repubblica. La riforma della Carta in senso federale e presidenziale costituisce la chiave di volta dell’accordo tra Berlusconi e Bossi. 
In questi ultimi anni, Fini ha dimostrato invece di credere nella validità dei principi cardine su cui si regge la Costituzione parlamentare. Egli si è posto in tal modo sulla stessa linea d’onda del centro sinistra. Credo che il  partito che si accinge a fondare non avrà molta fortuna, e questo per la sua affinità con il Partito democratico, con l’Udc di Casini, con il movimento di Rutelli. 
Le leggi della politica, diceva Max Weber, non si fondano sui dubbi e sui compromessi, bensì sulle certezze e sulla fedeltà del leader ai valori guida del movimento. Gianfranco Fini, criticando pubblicamente una parte rilevante dei provvedimenti del governo, non solo ha tradito la funzione di terzietà che dovrebbe spettare al presidente della Camera, ma ha finito per smontare i valori guida su cui si regge l’operato del governo. In tal modo, egli si è fatto portatore di  valori   a l t e r n a t i v i  ed  o p p o s t i  a quelli di Berlusconi e della Lega, seguendo una politica che non può essere accettata in alcun modo dai suoi (ex) compagni di coalizione.
E’ facile immaginare che nei prossimi mesi i gruppi parlamentari di Futuro e Libertà, costituiti per iniziativa di Fini, avranno due obiettivi. Annientare il Pdl berlusconiano e fermare la Lega. Una strategia condivisa ovviamente dall’Udc, da  Rutelli, dal Partito democratico e dall’Italia dei Valori: tutti uniti nel fermare ogni ipotesi di cambiamento radicale dell’ordinamento costituzionale.
Ma il presidente della Camera intende fare molto di più. Egli vuole salvare l’Italia così com’è,  “una e indivisibile”, opponendosi ad ogni riforma in senso autenticamente federale. Difatti a Mirabello non sono mancati attacchi nei confronti del programma della Lega. “Solo un ignorante di storia e geografia può credere all’esistenza della Padania” ha detto il presidente della Camera, aggiungendo che uno Stato regionale indipendente non potrebbe reggere in alcun modo una crisi economica come quella appena passata. “Se la crisi ha provato duramente un colosso come la Germania, figuriamoci cosa sarebbe accaduto se ci fosse stata una Padania indipendente” ha detto Fini. Sull’attendibilità di quest’analisi è lecito nutrire qualche dubbio. Seguendo il suo ragionamento, gli Stati piccoli non avrebbero alcuna chance nel mondo globale. Se le cose stessero realmente in questi termini, paesi come la Repubblica Ceca, la Slovenia, l’Austria, il Belgio, l’Olanda o i paesi scandinavi  – tutti con  popolazioni al di sotto dei 20 milioni di abitanti – non dovrebbero esistere. Invece non solo esistono,  ma sono anche ben governati e amministrati come dimostrano le statistiche del World Economic Forum.
Ma, tornando al tema Padania, credo siano opportune alcune precisazioni. Relativamente alle nozioni geografiche, basta aprire il manuale di Geografia economica e sociale di Angelo Mariani, edito da Hoepli or son precisamente cent’anni, nel 1910, per trovare notizie particolarmente “scomode” per quanti negano l’esistenza di una Padania geografica: il concetto geoeconomico di Padania viene infatti preso in esame mettendo in luce i suoi elementi di diversità dall’Appenninia. Non basta. Quasi settant’anni dopo, il geografo Jean Gottmann, in un saggio pubblicato nel 1978 nel volume curato da Calogero Muscarà (Megalopoli mediterranea,  Milano, Franco Angeli 1978) confermò la prospettiva di una megalopoli padana. Insomma, solo i geografi influenzati dai valori dello Stato nazionale italiano hanno negato negli ultimi mesi  l’esistenza geografica della Padania.
Relativamente alla storia, Fini ha ragione nel sostenere che uno Stato esteso a tutto il Nord Italia non è mai esistito. Ma non si può sapere cosa avverrà nei prossimi anni. In fondo, chi avrebbe mai immaginato, nell’Europa della Restaurazione, che gran parte della penisola italiana sarebbe stata unificata in soli due anni da un piccolo Stato regionale come il Piemonte dei Savoia? Eppure fu quel che accadde, principalmente grazie all’opera di un politico spregiudicato come il conte di Cavour. Allo stesso modo, non vedo come si possa escludere che l’Italia torni ad essere nei prossimi anni un’espressione geografica, una penisola articolata in più Stati come la Scandinavia. 

Lo show di Gheddafi a Disneyland Italia

E’ facile immaginare che il soggiorno a Roma di Muammar Gheddafi finirà per rafforzare ancor più i rapporti economici tra Italia e Libia. Grazie alla stretta amicizia tra il premier Berlusconi e il colonnello libico gli investimenti italiani nel paese africano non potranno che beneficiarne in misura notevole.

Ma le dichiarazioni che Gheddafi ha rilasciato nel corso della sua visita romana hanno provocato serio imbarazzo nell’opinione pubblica italiana e non sembrano agevolare i rapporti diplomatici. Ieri il raìs, intervenendo all’Accademia libica circondato da una folla di ragazze italiane appositamente reclutate dall’agenzia Hostessweb, non solo ha invitato le avvenenti fanciulle a convertirsi all’Islam, ma ha sostenuto che la religione di Maometto dovrebbe “diventare la religione di tutta l’Europa”. In un continente la cui civiltà è radicata fortemente nel cristianesimo, in un paese come l’Italia giardino del cattolicesimo romano, in una Roma antica capitale del potere pubblico pontificio e tuttora sede dello Stato Vaticano, tali dichiarazioni rivelano il tentativo maldestro di irridere la civiltà europea e ancor più la religione cattolica su cui si fonda in larga parte l’identità italiana. Le dichiarazioni rilasciate oggi dal colonnello libico non contribuiscono a gettare acqua sul fuoco. Esse sembrano mostrare addirittura un certo atteggiamento sprezzante nei confronti dell’Occidente. Gheddafi ha chiesto all’Unione europea cinque miliardi di euro in cambio della sua opera di contrasto all’immigrazione clandestina. In caso contrario, ha detto senza mezzi termini il raìs “l’Europa potrebbe diventare Africa, potrebbe diventare nera”.

Qualunque uomo di Stato in visita in un paese straniero si guarderebbe dal rilasciare simili dichiarazioni. Il guaio è che il soggiorno italiano di Gheddafi, lungi dal presentare i caratteri di un viaggio diplomatico, assomiglia terribilmente alla gita spensierata di un turista spaccone in un paese dove tutto gli è concesso. Berlusconi ha grandi responsabilità nell’aver consentito che i rapporti tra Italia e Libia venissero portati fino a questo punto. La tutela dei nostri interessi economici è certamente importante, ma non può venire anteposta al dovere di rappresentare uno Stato europeo come l’Italia.