Johann Kaspar Goethe (1710-1782), giurista, uomo di lettere, appassionato bibliofilo e collezionista di opere d’arte, è ricordato per essere il padre del famoso poeta Johann Wolfgang. Anticipando il figlio di quarant’anni, anche Johann Kaspar visitò l’Italia. Fece un breve soggiorno a Milano ai primi di agosto del 1740. Gli appunti riguardanti i suoi viaggi vennero pubblicati in Italia con il titolo Viaggio in Italia nel 1932. Si tratta di un’opera pressoché introvabile nelle librerie. Andrebbe ristampata, non foss’altro che per le preziose riflessioni sui costumi e sugli stili di vita delle popolazioni negli Stati italiani preunitari.
Lo scrittore tedesco forniva un ritratto significativo su Milano. Nelle pagine dedicate alla città del Duomo, in un italiano un po’ rude come poteva essere quello appreso da un tedesco dei primi decenni del Settecento, Johann Kaspar descriveva le principali chiese cittadine quali Sant’Ambrogio, Sant’Eustorgio, San Lorenzo. Del Duomo riconosceva la mole grandiosa anche se a quel tempo la facciata era incompiuta. In realtà, le sue riflessioni meritano di essere commentate e riportate per almeno due ragioni. Anzitutto perché forniva alcune interessanti descrizioni sullo stato della città. Ad esempio rilevava stupito come nei palazzi ci fossero “finestre di carta” mettendo in evidenza come tale realtà fosse del tutto inadeguata per una città importante come Milano, che era a quei tempi – non va dimenticato – capitale di uno Stato nel Nord Italia particolarmente importante sia da un punto di vista economico che geopolitico. Varrà la pena ricordare che l’uso dei vetri nelle abitazioni domestiche si imporrà molto lentamente in età moderna, affermandosi su scala generale solo nel corso del XIX secolo. Johann Kaspar ricordava inoltre come fosse diffusa la convinzione che le donne milanesi fossero particolarmente belle. A suo giudizio il grado di libertà di cui disponeva il gentil sesso sotto la Madonnina era assai maggiore rispetto a quanto avveniva in altri Stati italiani come il Regno di Napoli o la Repubblica di Venezia. Unico difetto delle milanesi risiedeva nella parlata: la pronuncia, l’inflessione della lingua meneghina “è peccato che non sia uguale allo spirito di cui sono dotate”.
Scriveva il padre di Goethe nei suoi appunti di viaggio:
“E’ vero che le sue strade [di Milano, Ndr] sono storte e strette e le case, come anche i palazzi provveduti di finestre di carta, il che fa un cattivo aspetto in una gran città, la cui grandezza va fino a dieci miglia italiane di circuito; oltre che è popolatissima, contenendo più di 30.000 anime (in realtà la popolazione doveva attestarsi in quegli anni sulle 80-100.000 persone), tra le quali il sesso donnesco circa l’esteriore vien stimato il più bello di tutte le altre, poiché, giusta il calcolo d’uno molto intendente in questa materia e buon aritmetico, vi debbono essere cinque belle contro una brutta, calcolo ch’io né voglio né posso sottoscrivere. Gli abitanti in genere, per le differenti viste degli Spagnoli, Francesi e Tedeschi, hanno acquistato differenti maniere di vivere. Non v’è in uso quella soggezione delle donne, e non sono così rigorosamente osservate ed accompagnate dai cicisbei, e le ragazze restano nelle case paterne, sinché siano maritate, senza rinchiuderle tra le mura d’un oscuro chiostro, come fanno principalmente i gelosi Veneziani o Napoletani. Insomma, donne e zitelle godono gran libertà, ed è peccato che la loro pronunzia non sia uguale allo spirito con cui sono dotate”.
La seconda ragione per la quale gli appunti di Johann Kaspar meritano di essere ricordati verte a mio parere su alcune descrizioni di vita quotidiana milanese che oggi stenteremmo a credere proprie di questa terra. A cogliere l’attenzione del nostro visitatore erano le truci esecuzioni capitali. Comminate dai tribunali dello Stato potevano essere confermate in ultima istanza dal Senato, la suprema istituzione giuridico amministrativa del ducato composta, come ricordava Johann Kaspar: “di un presidente e venti dottori nobili, tutti indipendenti dal governo generale”.
Tali sentenze, decise dai giudici d’ancien régime, da un lato si uniformavano alla comunis opinio, dall’altro potevano dipendere dal potere equitativo del giudice. Esse si informavano in particolar modo alle consuetudini secolari vigenti nello Stato, consuetudini che affondavano le loro radici nelle antiche normative locali: le Novae Constitutiones del 1541, gli Statuti del Comune, il diritto romano. L’impiccagione di due delinquenti viene descritta all’interno di una lugubre cerimonia i cui effetti teatrali dovevano colpire nel profondo la folla. Lo scrittore tedesco ricordava la confraternita della carità in San Giovanni alle Case Rotte (la chiesa si trovava nella via omonima, a pochi metri di distanza da palazzo Marino), una corporazione composta in larga parte di nobili la cui funzione consisteva nell’accompagnare i condannati sul patibolo fornendo un supporto religioso e provvedendo, al termine dell’esecuzione, alla loro sepoltura nel cimitero della chiesa.
Scriveva Johann Kaspar:
“Vidi ieri impiccare due birbi. Vi furono osservate tante solennità e circostanze che altrove non si usano. La confraternita della carità, che consiste di nobili ed altri cittadini, si radunava innanzi la prigione coll’abito del loro ordine che copre tutto il corpo, eccetto gli occhi, avendo in una mano una candela accesa, nell’altra una corona di stupenda grandezza. Messi in ordine, camminano a paio a paio, col crocifisso nel fronte, ed i loro servitori a canto [sic!], poi segue il delinquente, condotto tra un padre francescano ed uno della confraternita, che porge la mano al condannato vacillante, per pura carità; dietro di questo viene il boia”. “In tal guisa, con urli, canzoni e preghiere s’avvicinano verso la forca, per questa volta dirizzata in piazza del Duomo [normalmente le impiccaggioni avvenivano in piazza Vetra, NdR]. Quando i malefici furono giunti, si confessarono, e poi in su la scala tirati; dall’altra parte ascende uno de’ confrati [confratelli], a cui tocca, mostrando a quell’infelice il crocifisso, sino che il boia lo getta abbasso, tenendo due corde lunghe; l’una lo soffoca l’altra [sarebbe usata] se quella si rompesse; sospeso così in aria, il boia gli salta sul collo in cui resta, ballando sinché quell’infelice è morto, poi l’abbandona. Indi uno della confraternita monta in su battendo [tagliando] le corde, intanto che gli altri in terra l’aiutano, i quali insieme mettono il corpo levato dalla forca in una cassa, portandolo al cimitero della chiesa di San Giovanni delle Case Rotte; ed ivi vien seppellito. In quanto alle corde, servite a questo uso, vengono abbruciate, per non essere impiegate a qualche stragaria [sic!]. Non ho lasciato in questa relazione pur la minima circostanza, per essere molto differente dal nostro paese”. Evidentemente le esecuzioni a Francoforte avevano una dinamica assai più semplice e spedita.
Il turista tedesco concludeva le sue notazioni con un curioso appunto sulle persone che frequentavano piazza del Duomo. Qui si soffermava sui cicisbei – gentiluomini addetti all’accompagnamento delle dame – nonché sulla moda curiosa dei preti e dei padri di famiglia. A tal proposito, annotava stupito come fossero soliti portare in pubblico gli occhiali sul naso, usanza che in Germania era inconcepibile. A Milano invece questi uomini potevano farlo perché: “la moda li libera dalle risa”. Varrà la pena ricordare che la piazza del Duomo, nella Milano del Settecento, aveva un’estensione assai più ristretta dell’attuale. Ma diamo la parola, per l’ultima volta, al nostro turista: