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Milano torni ad essere culla del riformismo

Questo articolo è stato pubblicato in versione ridotta su “Il Giorno” del 17 luglio 2021.

Uno dei tratti caratteristici di Milano è la vocazione al riformismo, la capacità delle sue classi dirigenti e politiche di ripensare le istituzioni lavorando per migliorarle con pragmatismo e coraggio. Tale fenomeno è un dato di lungo periodo nella storia della città.

Si potrebbero citare numerosi esempi in proposito. Mi limito a portarne tre emblematici. Nel corso del Settecento in Lombardia i monarchi assoluti realizzarono incisive riforme nel campo dell’economia, del fisco, dell’amministrazione locale, dell’istruzione, della giustizia: furono rese possibili grazie all’impegno di funzionari austriaci, trentini, istriani, toscani, napoletani che operarono a Milano al servizio di sovrani come Maria Teresa e Giuseppe II che li impiegarono nei loro governi esclusivamente per la competenza ed esperienza che avevano dimostrato nei campi in cui si intendeva operare. Un contributo non trascurabile fu reso anche da giovani patrizi milanesi come Pietro Verri e Cesare Beccaria, che nutrivano simpatie per il governo riformatore degli Asburgo e condividevano l’esigenza di svecchiare le istituzioni dei loro padri giudicate inadeguate e barbare. I sovrani absburgici capirono che per reggere il confronto con gli Stati europei più potenti occorreva cambiare il vecchio sistema giuridico-amministrativo, risanare i bilanci pubblici, fare in modo che l’amministrazione fosse meno imbrigliata nella lentezza di procedure di cui non si capiva più il senso. Bisognava puntare unicamente al conseguimento degli obiettivi della monarchia, tra i quali vi era la cura della felicità dei sudditi mediante il buongoverno. Una lezione quanto mai attuale nell’Italia di oggi: mai come in questi anni si sente la necessità di riformare seriamente le istituzioni della repubblica perché possano reggere il confronto con quelle dei migliori Stati europei. Il fine ultimo è sempre lo stesso: per i sovrani illuminati dell’Europa germanica si chiamava Wohlfahrtsstaat (Stato del benessere) per la cura della felicità dei sudditi, oggi è il Welfare State, quel complesso di apparati pubblici tesi a garantire la salute e il bene comune.

Il secondo esempio di riformismo si lega al periodo tra il 1796 e il 1814, agli anni in cui Milano fu capitale di uno Stato cisalpino esteso a una parte rilevante del Nord Italia. A pochi mesi di distanza dall’ingresso del generale Bonaparte nella città del Duomo, l’Amministrazione generale della Lombardia organizzò una delle iniziative più importanti per il tema che qui interessa: si trattava di un concorso in cui decine di intellettuali, provenienti da ogni parte d’Italia, presentarono progetti per la formazione di un Stato italiano esteso a tutta la penisola nella soluzione federale o unitaria a seconda delle varie proposte. Il concorso era intitolato: “Quale dei governi liberi meglio convenga alla libertà d’Italia”. Quel concorso, vinto – com’è noto – dallo statistico ed intellettuale Melchiorre Gioia, si rivelò una delusione per i patrioti perché ben presto Bonaparte rivelò i suoi piani di dominio che cozzavano contro il progetto italiano di unire la penisola facendone una nazione in grado di reggere il confronto con la Francia. 

Il culmine di questa attività riformatrice si ebbe tuttavia nel periodo in cui Milano fu capitale della repubblica e del regno d’Italia napoleonico (1802-1814). Fu in quella stagione che tanti patrioti provenienti da ogni parte della penisola, che avevano combattuto generosamente per la libertà negli anni 1796-1800, vennero a Milano, abbandonarono l’impegno politico, lavorarono come probi funzionari negli uffici della macchina amministrativa voluta da Napoleone: Milano seppe assumere il ruolo di capitale di uno Stato moderno in cui operava una burocrazia efficiente, veloce nell’andamento delle operazioni, attenta al conseguimento dei risultati fissati dal governo, in dialogo costante con i suoi terminali periferici – prefetti e viceprefetti – allo scopo di migliorare l’efficacia dei suoi interventi.

Il terzo caso ci porta a un periodo più vicino a noi, agli anni Sessanta-Novanta del secolo scorso, quando Milano fu una delle città che più si distinsero nel campo del riformismo. Tra i vari centri di ricerca che allora operarono in tale ambito desidero ricordare in particolare modo la fondazione dell’Isap (Istituto per la Scienza dell’Amministrazione Pubblica), avvenuta grazie al sostegno del Comune e della Provincia di Milano nel 1959. Questo diede al Paese uno dei più avanzati centri di ricerca nel campo delle istituzioni politiche, i cui progetti di riforma erano in grado di competere con quelli elaborati dagli uffici legislativi del parlamento e dei ministeri. L’istituto, che ebbe quale primo direttore Feliciano Benvenuti e vicedirettore Gianfranco Miglio, si segnalò fin dall’inizio per l’originalità delle sue pubblicazioni afferenti alla storia dei poteri pubblici, alla loro tipologia, alla scienza dell’amministrazione. L’Isap è stata una fucina di studi in cui hanno lavorato storici e giuristi chiamati a collaborare esclusivamente per la loro professionalità. Si è operato con rigore, seguendo in molti casi il metodo avalutativo che il professor Miglio, riprendendo la memorabile lezione di Max Weber, non cessava di raccomandare agli allievi: la Wertfreiheit, il fermo distacco dello scienziato e dello storico dalle ideologie di qualsiasi colore. Purtroppo l’istituto ha interrotto da alcuni anni la sua attività per mancanza di fondi pubblici.

E’ importante che la prossima amministrazione torni a finanziare questo prestigioso ente di ricerca scientifica: la capitale morale potrà tornare a competere con Roma quale laboratorio di riforme politiche e amministrative. La Milano del futuro deve avere non solo le idee, ma anche gli strumenti per realizzare concretamente il buongoverno al servizio del Paese.

Idee per una riforma: la regione metropolitana lombarda

Questo articolo è stato pubblicato su “Il Giorno” del 15/4/2021

Da una ricerca curata da Mario Abis per il Centro Studi Grande Milano sulle condizioni in cui vivono gli abitanti della città metropolitana milanese è emerso come il 60% della popolazione ritiene fondamentale per la ripresa economica una costruzione adeguata dell’ente “Città metropolitana”. E’ evidente che fino ad oggi tale istituzione non ha funzionato: ha sollevato unicamente conflitti tra i municipi. Mai come in questi tempi si rende necessario un intervento legislativo teso a migliorare tale comparto amministrativo.

Nel programma della “Città a 15 minuti” il Sindaco Sala intende garantire nei quartieri migliori servizi pubblici a cittadini che, cessata la pandemia, continueranno in più occasioni a lavorare da casa. Perché questo piano non si riduca a una visione localistica, occorre però un intervento coraggioso: la divisione della città nei suoi antichi comuni. Questi, assieme ai municipi della Città metropolitana, a quelli della provincia di Monza-Brianza, a quelli legati a Milano ma inclusi nelle province di Novara, Varese, Como, Lecco, Pavia, Bergamo, Brescia, Lodi, Cremona, dovranno formare una grande Regione metropolitana. Il Presidente di questo nuovo ente, eletto direttamente dai sette milioni di cittadini che vi abitano, dovrebbe risiedere a Palazzo Marino e dividere con i Sindaci dei municipi l’amministrazione nel campo delle infrastrutture, dei trasporti, dell’urbanistica, dei parchi, della viabilità.

La grande Milano non potrà che essere una Regione amministrativa, al cui interno vi sia un fitto reticolo di comuni integrati nella nuova istituzione. Altrimenti la “Città a 15 minuti” rischia di essere un’idea grettamente municipalista, un po’ come quei milanesi che – come scriveva Ludovico di Breme a Federico Confalonieri in una lettera del 16 maggio 1814 – non sapevano guardare oltre “il borgo degli Ortolani”. 

La “demostocrazia” di Fantuzzi nella Milano ‘giacobina’

In questo periodo a dominare il dibattito politico è la riforma costituzionale su cui saremo chiamati ad esprimerci nel referendum del prossimo autunno.

In questa sede vorrei soffermarmi su un periodo cruciale per la storia di Milano in merito al tema delle riforme costituzionali. A ben vedere, i periodi importanti per la città di Ambrogio furono due: il primo risale all’arrivo in Lombardia, nella primavera del 1796, degli eserciti rivoluzionari francesi comandati dal generale Bonaparte e può esser fatto concludere nel luglio 1797, quando venne promulgata la Costituzione moderata cisalpina esemplata sulla carta francese dell’anno III (1795). Il secondo periodo può essere individuato negli anni compresi tra il 1801 e il 1814 quando, nella Milano napoleonica capitale di uno Stato unitario nell’Italia del Centro-Nord, alcuni tra i più eminenti intellettuali – da Vincenzo Cuoco a Gian Domenico Romagnosi – lavorarono a un modello di costituzione che fosse in grado di garantire l’efficienza amministrativa del governo in uno Stato di diritto fondato sul riconoscimento dei diritti civili. Tornerò in un altro articolo su questo secondo periodo.

truppe francesi a Milano 1796
Ingresso delle truppe francesi a Milano da Porta Romana nella primavera del 1796. Incisione a colori di J. Duplessis

Oggi vorrei soffermarmi brevemente sul primo periodo, quello che potremmo ricondurre al pensiero più avanzato del “giacobinismo italiano”. Tra il settembre del 1796 e il 1797, nella Milano liberata dalla dominazione austriaca, l’Amministrazione generale della Lombardia bandì un concorso intitolato “Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d’Italia”. Il concorso fu voluto probabilmente dal generale Bonaparte per capire quale fosse il pensiero dei patrioti italiani su temi quali la democrazia, la libertà repubblicana, la costituzione.

Furono presentati cinquantasette progetti costituzionali ove, in vista del crollo degli Stati d’antico regime, si proponevano molteplici assetti istituzionali per l’Italia. Quel concorso fu vinto com’è noto da Melchiorre Gioia, il quale auspicava la liberazione della penisola dal dominio straniero e la formazione di uno Stato nazionale unitario.

Altri progetti riflettevano un’impostazione federale. Riconosciuta l’esigenza di costituire un potere pubblico nazionale, era ritenuto opportuno tutelare le diversità storiche esistenti nella penisola oppure riconoscere gli Stati rivoluzionari che si erano costituiti nel frattempo sulle ceneri degli ex regimi. I lavori di quell’autentico laboratorio di storia costituzionale furono raccolti e studiati negli anni Sessanta del secolo scorso dallo storico Armando Saitta in due preziosi volumi intitolati: Alle origini del Risorgimento: i testi di un celebre concorso (Roma, Istituto Storico italiano per l’età moderna e contemporanea, 1964).

In questa sede desidero focalizzare l’attenzione sul progetto del patriota bellunese Giuseppe Fantuzzi. Un progetto poco conosciuto in cui l’autore , quantunque avesse proposto uno Stato nazionale mostrando la sua adesione per la soluzione unitaria, lasciava trasparire a chiare lettere la sua cultura federale e democratica radicale.

 

Vita di Giuseppe Fantuzzi

Chi era Giuseppe Fantuzzi? Nato a Belluno il 10 ottobre 1762, Fantuzzi aveva trascorso il periodo dell’adolescenza lavorando come trasportatore di pini e abeti lungo il corso del Piave. All’età di vent’anni lavorò a Venezia presso il dazio dei vitelli, un’attività di cui il padre era riuscito a procurarsi la gestione in monopolio grazie a una speciale concessione del governo veneziano.

Richiamato a Belluno, Fantuzzi si dedicò agli studi di storia e di fisica, formandosi sulle opere degli enciclopedisti francesi. La lettura di Rousseau fu decisiva – come si vedrà più avanti – per la sua formazione politica. Fece un lungo viaggio nell’Impero germanico e in Russia, lasciando trapelare nei suoi scritti un giudizio negativo sui governi assoluti. Tornato a Venezia, strinse amicizia con un principe polacco che accompagnò a Varsavia nel 1793. Difensore dell’indipendenza della Polonia, combatté nella battaglia di Praga a fianco dei patrioti polacchi contro i russi. Sconfitta la repubblica polacca, Fantuzzi riuscì a sfuggire all’arresto ricorrendo a un fortunato travestimento in panni femminili. Dopo aver soggiornato a Vienna, fece ritorno a Belluno. Sulla guerra combattuta in difesa del popolo polacco, conservò un ricordo assai vivo, sembrandogli quella esperienza un esempio concreto di lotta per la difesa della libertà. Scriveva al fratello Luigi:

Avreste veduto da per voi quai sforzi è obligato a fare un popolo per acquistare la sua libertà una volta che l’ha perduta: sforzi degni dell’uomo, ma purtroppo sovente inutili”.

Fu uomo d’azione, ardente soldato, amante della guerra. Non esitò a sostenere che “la musica del cannone” era la vera “musica dell’uomo”, non le “opere buffe e serie”.

Con la discesa in Italia del generale Bonaparte, si schierò in favore dei francesi contro il regime della Serenissima. Occorre tuttavia ricordare che, prima di partecipare attivamente agli eventi rivoluzionari, Fantuzzi aveva proposto al governo veneto un Piano di organizzazione militare informato ai principi democratici, piano che puntava a una riforma di Venezia che potesse renderla capace di fronteggiare l’invasione dei francesi. Fu la bocciatura di quel piano a farlo passare dalla parte del “nemico”. Sperava e si illudeva che i principi rivoluzionari potessero servire all’edificazione di uno Stato italiano indipendente dalla Francia, retto su basi rigorosamente democratiche. Assieme al fratello Luigi, Giuseppe si arruolò quindi nell’esercito francese.

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Il generale Bonaparte sul ponte di Arcole durante la Campagna d’Italia, dipinto di Antoine Jean Gros (1771-1835)

Tra l’estate del 1796 e i primi mesi del 1797 partecipò alle battaglie di Lonato, Castiglione, Caldiero, Arcole, rivestendo l’ufficio di capo battaglione della legione cisalpina. Fautore dell’indipendenza italiana, in una lettera scritta al generale Bonaparte tra il 6 e il 19 gennaio 1797 propose la formazione di un’armata italiana di cui facessero parte i patrioti più illuminati; armata che avrebbe dovuto scontrarsi contro le truppe veneziane ed austriache sottraendo la penisola alla “schiavitù dei tiranni”. Si illudeva che i francesi, una volta mutato l’assetto geo-politico dell’Italia, si sarebbero ritirati entro i confini del loro Stato. Nella citata lettera a Bonaparte, Fantuzzi non risparmiava giudizi severi verso la nazione italiana, giudicata “corrotta, ignorante e superstiziosa”.

A pochi mesi dal trattato di Campoformio, il patriota bellunese si impegnò per la salvaguardia dell’italianità del Veneto, proponendo la costituzione di un comitato centrale “con funzioni di governo provvisorio che rappresentasse legalmente e tutelasse gli interessi politici di tutta la regione veneta”. La sorte del Veneto era tuttavia segnata. Inutili i tentativi con cui Fantuzzi,  inviato a Campoformio in missione segreta, cercò di promuovere l’annessione della regione alla repubblica cisalpina.

Divenuto cittadino della repubblica il 24 gennaio 1798, rivestì nuovi incarichi nell’amministrazione civile. Dopo aver svolto a Parigi le funzioni di delegato per conto del Direttorio, fu nominato capo della seconda divisione del dipartimento della guerra. In tale veste compì due missioni – a Rimini e a Mantova – per reprimere l’ammutinamento di alcuni soldati, porre sotto controllo la contabilità militare, svolgere indagini nei confronti dei cittadini corrotti ed incapaci.

Il nuovo conflitto che oppose i francesi agli eserciti austro-russi nel 1799-1800 vide il Fantuzzi militare nell’esercito cisalpino in qualità di aiutante generale e poi di generale di brigata. Morì il 2 maggio 1800 durante l’assalto al forte “La Coronata” nello scontro di Novi Ligure.

 

Per un’Italia unita, democratica e federale: Il progetto “demostocratico” di Fantuzzi

Rousseau
Jean Jacques Rousseau (1712-1778)

Fantuzzi partecipò al concorso milanese con il suo Discorso filosofico politico sopra il quesito proposto dall’Amministrazione generale della Lombardia “Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d’Italia”. Si tratta di un opuscolo di 122 pagine presentato, come precisato nell’avvertenza, “il 15 dicembre 1796”. In omaggio al suo maestro di pensiero, Jean Jacques Rousseau, il  frontespizio riprendeva le parole con cui si apriva il primo capitolo del primo libro del Contratto Sociale: “L’homme est né libre, et partout il est dans les fers”: l’uomo è nato libero e ovunque è in catene. Un’ammirazione sconfinata, quella di Fantuzzi nei confronti del filosofo ginevrino; un’ammirazione che condivideva con quella di tanti patrioti italiani ardenti fautori dei valori democratico-rivoluzionari affermatisi in Francia negli anni del giacobinismo  (1792-94).  Scriveva Fantuzzi:

Nell’alto argomento, in cui inseparabile si trova la felicità d’una grande nazione, e forse quella dell’intiera umanità; rivolgo i miei prieghi, ed invoco in soccorso Te, mio maestro, mio duce, mio divino Rousseau! Tu che dall’alto impassibile miri le umane passioni, Tu degna presiedere le mie idee, dirigere la mia penna,  ed ispirar al mio cuore quel filantropico orgoglio, che ti rese quaggiù celebre, ed immortale!

Dopo aver effettuato una breve analisi sulle forme di Stato, Fantuzzi proponeva la fondazione in Italia di uno Stato unitario “demostocratico” (sic!). La sua vicinanza al pensiero costituzionale francese era limitata alla concezione radicale della sovranità popolare, che risiedeva a suo giudizio nel potere legislativo esercitato direttamente dal popolo mediante i “consigli primitivi della nazione”: si tratta di istituzioni appena accennate nel suo progetto che sembrano tuttavia simili alle “assemblee primarie” titolari del potere legislativo contenute nel memorabile Plan de constitution girondino del febbraio 1793. Per il resto, il suo progetto rifletteva un’impostazione originale che mostrava il tentativo di adeguare la riforma costituzionale al particolarismo dell’Italia.

Egli faceva risiedere il potere legislativo interamente nel popolo ma gli altri due poteri non erano che la divisione del potere esecutivo in “potere esecutivo esterno” e “potere esecutivo interno”. Nessuna parola sul “potere” giudiziario, evidentemente concepito – in un tipo di “Stato di diritto legislativo popolare” – come un ordine dello Stato, non già come un potere. Scriveva Fantuzzi:

Per Demostocrazia intendo la distinta divisione di tre poteri nel corpo politico e sono: potere legislativo e sovrano, potere esecutivo interno, potere esecutivo esterno. Il concorso di questi tre poteri ad un solo scopo formerà la garanzia dell’istituzione politica, e conserverà la nazione libera, ed indipendente.

Lo Stato italiano di Fantuzzi doveva essere unitario e indivisibile. Tuttavia, il suo modello di costituzione rifletteva una struttura federale nel criterio con cui si sarebbero formate le istituzioni repubblicane. L’Italia, “unica, sola, ed indivisibile” era articolata in dieci repubbliche che avrebbero coinciso in parte con gli Stati regionali esistenti alla fine del 1796 (era il caso della Repubblica Lombarda, di quella Alpina Piemontese), in parte con gli Stati che si sarebbero dovuti costituire sulle rovine degli Stati d’antico regime (sarebbe stato il caso della Repubblica Cispadana proclamata nel marzo 1797 o di quella Ligure la cui costituzione sarebbe stata approvata il 2 dicembre 1797).

L’Italia di Fantuzzi era quindi articolata in dieci Repubbliche. La Repubblica Alpina (capitale Torino), la Repubblica Liguriana (capitale Genova), la Repubblica Etrusca (capitale Firenze), la Repubblica Lombarda (Milano), la Repubblica Adriatica (Venezia), la Repubblica Bellica o cispadana (Bologna), la Repubblica Ausonica (Roma), la Repubblica Vesuviana (Napoli), la Repubblica Sillacarida (Palermo), la Repubblica Isorica (Cagliari). In ciascuna di queste dieci repubbliche avrebbe avuto sede un Senato titolare del potere esecutivo interno.

Fantuzzi sosteneva di ispirarsi, nella divisione del potere esecutivo tra governo centrale e governi territoriali, a Stati quali l’Inghilterra o l’antica Polonia. Nel caso polacco egli aveva avuto modo di osservare il funzionamento di quelle peculiari istituzioni nel viaggio che si è ricordato all’inizio. In realtà, nel proporre l’istituzione del Senato, egli lasciava trasparire un certo qual attaccamento – sia pure indiretto – al governo della Repubblica di San Marco, tutta informata al principio della collegialità degli organi costituzionali (a partire dal Maggior Consiglio).

I Senati di ciascuna Repubblica si sarebbero composti di 300 membri, 100 dei quali rinnovati mediante elezione popolare a cadenza annuale. Quali funzioni sarebbero spettate ai senatori? In cosa concerneva per Fantuzzi il potere esecutivo interno?

Il primo dovere dei Senatori consisteva nel vegliare sulla severa esecuzione delle leggi approvate dal Popolo sovrano. Avrebbero poi esercitato la sorveglianza su tutte le cariche dello stato, sia di quelle elette dai cittadini nei vari comuni e dipartimenti, sia di quelle burocratico-professionali appartenenti all’amministrazione attiva. Pari controlli sui tribunali civili, criminali, e di polizia eletti dal popolo.

Il Senato di ciascuna Repubblica avrebbe poi esercitato poteri di governo nelle materie attinenti al culto, all’educazione, alle forze terrestri e marittime dello stato, agli spettacoli pubblici, ai pubblici edifizi, agli archivi, alle biblioteche, all’agricoltura, alle arti, al commercio; avrebbe curato la riscossione dei tributi, l’amministrazione del tesoro, delle derrate, la “distribuzione dei terreni”. A questi uffici sarebbero stati nominati dai vari Senati gli “opportuni uffiziali e ministri”.

Con “distribuzione dei terreni” Fantuzzi si riferiva a un punto cruciale del suo progetto costituzionale: egli riteneva che ciascun cittadino della Repubblica Italiana, in quanto tale, avrebbe avuto in usufrutto un pezzo di terra la cui rendita gli potesse garantire una vita dignitosa. Tuttavia, in caso di violazione delle leggi, il cittadino avrebbe perso i diritti politici e con essi il diritto alla proprietà del terreno. In questo modo, secondo Fantuzzi, gli italiani non avrebbero avuto alcun interesse a violare la Costituzione mancando ai loro doveri di cittadini. Doveri considerevoli perché, come si è ricordato sopra, ad essi spettava il potere legislativo diretto secondo una concezione radicale della sovranità popolare di ascendenza giacobina.

I Senati avrebbero nominato inoltre funzionari periferici che potremmo avvicinare in parte ai prefetti o ai viceprefetti: questi avrebbero esercitato un controllo sulle amministrazioni comunali e sui tribunali civili, criminali per verificare l’esatta esecuzione delle leggi informando i Senati dell’ordine e dell’applicazione delle medesime.

I Senati avrebbero scelto gli ufficiali e comandanti delle forze armate di terra e di mare de’ loro rispettivi governi, fatta eccezione per il comandante generale, da scegliere solo in caso di guerra. La gestione politica delle forze armate sarebbe spettata tuttavia al governo centrale della Repubblica Italiana – chiamato da Fantuzzi “Consiglio dei Saggi”.  I Senati non avrebbero potuto trasmettere ordini alle forze armate senza una preventiva deliberazione del Consiglio dei Saggi, o per espresso loro comando.

L’operato dei Senati di ciascuna delle 10 Repubbliche sarebbe stato sottoposto al controllo del governo centrale. Qui invece traspariva la forma unitaria dello Stato da lui immaginato per l’Italia.

Si è detto che Fantuzzi, fedele a una concezione radicale della sovranità di matrice giacobina, riconosceva al popolo il potere legislativo diretto. In casi che richiedevano l’adozione di provvedimenti urgenti, egli faceva intervenire tuttavia gli organi di democrazia rappresentativa autorizzandoli ad emanare un tipo di leggi provvisorie che potremmo avvicinare ai nostri decreti legge. Difatti Fantuzzi conferiva ai Senati la possibilità di proporre al Consiglio dei Saggi progetti di legge per il benessere della nazione o per il bene particolare di una sua parte. Egli pensava a leggi che, approvate dalla maggioranza del governo centrale, sarebbero entrate in vigore nelle repubbliche i cui Senati ne avevano promosso l’attuazione. Definite leggi parziali, sarebbero rimaste in vigore per sei mesi, un tempo nel quale i “consigli primitivi del popolo” avrebbero dovuto procedere alla loro ratifica. In caso di bocciatura popolare, sarebbero state abrogate. Scriveva il patriotra bellunese:

I Senati hanno la facoltà d’indicare al Consiglio dei Saggi quelle leggi che la loro maturità stimasse le migliori per il bene della nazione in generale; e così pure proporre quelle che credessero utili e necessarie al bene parziale della loro repubblica. Se le leggi parziali porteranno con esse l’urgenza, e che siano approvate dalla maggiorità del Consiglio dei Saggi, porteranno il nome di leggi istantanee, e la loro esecuzione verrà demandata ai Senati che le avranno proposte. Il vigore di queste leggi che detta il bisogno del momento, non potrà essere che di sei mesi, nell’intervallo dei quali, dovranno essere presentate ai consigli primitivi del popolo. Essendo approvate verranno registrate nel codice con la distintiva di Legge parziale. Allora soltanto prenderanno il nome di leggi attive e permanenti. Verranno esse leggi demandate a tutt’i Senati della nazione perché conoscano, s’elle convenghino ancora al ben essere dei popoli che governano. Se queste leggi non venissero accettate dal popolo sovrano, passati li sei mesi non avranno più alcun vigore, come neppure effetti retroattivi.

Veniamo ora al governo centrale della Repubblica delineato da Fantuzzi. Ai Senati sarebbe spettata l’elezione dei membri del Consiglio dei Saggi. Il primo anno ogni Senato avrebbe eletto nel suo seno sei Saggi: dato che i Senati di ciascuna Repubblica sarebbero stati 10, il Consiglio dei Saggi sarebbe stato di 60 membri. Il principio del rinnovo parziale del collegio, assai diffuso nelle istituzioni europee tra fine Settecento e primo Ottocento, sarebbe stato alla base anche di questo collegio. Ogni semestre il Senato di ciascuna Repubblica avrebbe eletto un Saggio in sostituzione del membro cessato dalla carica. Il governo centrale era così formato, in base a un principio autenticamente federale, da membri dei governi territoriali. Scriveva Fantuzzi:

Tutti i senatori attivi dei rispettivi Senati hanno vocazione all’alto consiglio nazionale, e saranno dalle assemblee senatorie tutti egualmente nominati. Quei trenta che uniranno maggiori voci in loro favore, saranno i candidati per l’alto consiglio. Si rimanderanno nuovamente i candidati all’elezione, e quelli sei che riuniranno in loro favore la maggiorità al di là de’ due terzi delle voci, saranno dichiarati membri del Consiglio dei Saggi. Queste due elezioni non si potranno fare in un sol giorno, ma in due successivi.

Il Consiglio dei Saggi sarebbe stato permanente. Ogni Saggio sarebbe durato in carica al massimo tre anni. Nelle sedute del Consiglio, segrete, le decisioni sarebbero state prese a maggioranza. Il Presidente del Consiglio dei saggi, eletto ogni anno, avrebbe acquisito il titolo di Saggissimo. Quali funzioni avrebbe esercitato quello che Fantuzzi definiva come “potere esecutivo esterno”? Il Consiglio dei Saggi avrebbe mantenuto relazioni politiche con le potenze straniere; ad esso sarebbe spettato inviare e ricevere ambasciatori; fare trattati, concludere alleanze. Avrebbe avuto la direzione delle forze di terra e di mare con il potere di fare la guerra e la pace. La guerra sarebbe stata dichiarata nel solo caso in cui la nazione fosse stata attaccata o minacciata d’esserlo.

La natura federale dell’ordinamento delineato da Fantuzzi traspariva anche nella procedura ch’egli aveva previsto quando si fosse trattato di dichiarare guerra a un altro Stato. In tal caso il Consiglio dei Saggi avrebbe informato i dieci Senati con un messaggio segreto per chiedere l’autorizzazione delle 10 Repubbliche. Il Consiglio dei Saggi sarebbe stato autorizzato a dichiarare guerra solo con il consenso dei due terzi dei Senati (7 su 10).

Il Consiglio dei Saggi avrebbe controllato inoltre il corretto svolgimento delle sedute nei Senati di ciascuna Repubblica, esercitando un controllo di legittimità e di merito agendo come custode della “Costituzione demostocratica”. I Senati, come si è accennato, avrebbero vigilato sul buon ordine e sull’esatta esecuzione delle leggi.

Ho insistito in una rapida descrizione del progetto costituzionale di Fantuzzi perché esso si caratterizzava per l’originalità della sua impostazione. Tre i tratti peculiari.

In primo luogo una concezione radicale della sovranità popolare tipica del giacobinismo francese di ascendenza girondina fondato sul ruolo centrale delle Assemblee primarie (ognuna delle quali composta da alcune centinaia di cittadini) nell’esercizio del potere legislativo.

In secondo luogo, una struttura federale fondata sulla divisione del potere amministrativo e di governo tra i Senati territoriali e il Consiglio dei Saggi.

In terzo luogo, un’influenza legata alle istituzioni repubblicane europee d’antico regime che risaltava nel principio della maggioranza dei due terzi o addirittura superiore ai due terzi per l’elezione dei membri del governo centrale o per decisioni importanti come la dichiarazione di guerra soggetta al voto dei 10 Senati.