Di recente ho avuto l’onore di incontrare Francesco Gnecchi Ruscone nella sua casa milanese vicino all’Università degli Studi. Abbiamo preso un aperitivo a base di gin e tonic, un rito conviviale che fa parte della sua ospitalità. Dall’alto dei suoi novant’anni Gnecchi mostra ancora la classe ineguagliata dell’architetto e dell’antico partigiano. Una vita, la sua, spesa al servizio dei valori della libertà e della democrazia. Chiamato alle armi dal governo nazifascista della Repubblica di Salò, Gnecchi mi racconta che disertò arruolandosi tra i partigiani, per i quali svolse attività di spionaggio. Il 25 aprile entrò a Milano. “Non feci in tempo a vedere il cadavere di Mussolini appeso a piazzale Loreto. Lo vidi quando era sul marciapiede”, mi dice impassibile. Non è però sullo Gnecchi combattente partigiano che intendo soffermarmi in questa sede. Desidero invece dedicare alcune riflessioni sulla feconda professione di architetto che lo ha impegnato per quasi mezzo secolo.
Il suo libro Storie di architettura, in cui Gnecchi ripercorre gli anni della sua professione ricordando esperienze e lezioni di vita apprese da grandi personalità del Novecento, è un bel volume che anche un lettore non specialista, estraneo alla storia dell’architettura, può leggere con piacere.
Nel corso del nostro aperitivo, gli chiedo se le case da lui progettate siano riconducibili a uno stile architettonico. Mi risponde di no. Il suo stile è assolutamente originale. Mi dice: “Ho sempre progettato un edificio perché servisse in primo luogo alle esigenze dei miei committenti. Gli uomini sono più importanti delle pietre”.
Allievo di Ernesto Rogers, nel 1949, poco dopo la laurea, Gnecchi fu incaricato da Franco Albini e Lodovico Belgiojoso di collaborare all’allestimento del Congresso Internazionale di Architettura Moderna nella città di Bergamo. Un compito che seppe assolvere degnamente e che gli offrì la straordinaria opportunità di conoscere alcuni tra i più importanti architetti del Novecento: ricordo qui Le Corbusier (1887-1965) e Wells Coats (1895-1958). Con quest’ultimo, strinse un vero e proprio rapporto di amicizia che influenzò notevolmente il suo modo di lavorare. Scrive Gnecchi a proposito delle lezioni di vita apprese alla scuola di Wells:
Da lui ho imparato molto, non tanto sull’architettura o sulla navigazione a vela quanto sullo spirito e sul modo di progettare: sempre guardando in avanti senza pregiudizi, senza schemi precostituiti, sempre pronti a cestinare senza rimpianti un’ipotesi che non ha retto alla prova sul campo; certo più una lezione di vita che di scienza applicata, ma una lezione che consiglio a tutti.
[FRANCESCO GNECCHI RUSCONE, Storie di architettura, Milano, Brioschi 2015, pag.50.]
Negli anni Cinquanta Gnecchi aprì uno studio di architettura con Giovanna Pericoli, detta “Giogiò” dedicandosi ai primi lavori come libero professionista. Risale a quel periodo la sistemazione e l’arredamento di un’agenzia della Banca Commerciale Italiana in via Farini e la sala riunioni del Senato Accademico nell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Immagino che i docenti dell’ateneo di Largo Gemelli abbiano ben presenti le “poltroncine in noce massiccio e panno rosso, pesanti ma solide”, così le definisce Gnecchi Ruscone nel suo libro.
Nel 1956 l’architetto milanese aprì un suo studio in via Passione 4, ove esercitò la professione di architetto fino al 1999. In quell’ambiente, coadiuvato da una squadra di fedeli dipendenti e colleghi, lavorò con passione elaborando progetti la cui realizzazione ha segnato la storia dell’architettura milanese ed europea.
Tra i progetti che mi preme ricordare per la loro attualità è ad esempio quello, risalente al 1960, riguardante il quartiere storico delle Cinque Vie in centro città: al restauro urbanistico avrebbe dovuto accompagnarsi l’introduzione dell’area pedonale nel quartiere per togliere alla zona il traffico automobilistico.
Il progetto, al quale Gnecchi lavorò con alcuni colleghi del Politecnico, fu esposto alla Triennale: l’idea in realtà era di bloccare la “Racchetta”, uno stradone – proposto da architetti tanto spregiudicati quanto ostili alla tutela dell’antico patrimonio urbanistico di Milano – che avrebbe collegato corso Venezia con corso Magenta sventrando il centro storico com’era già avvenuto con la realizzazione di corso Europa e via Albricci fino a piazza Missori. Fortunatamente lo stradone non fu mai realizzato. In fondo, a quel pugno di architetti coraggiosi (di cui Gnecchi fu magna pars) ostili alla Racchetta, dobbiamo la conservazione di quartieri storici quali piazza Sant’Alessandro, via Zebedia, via San Maurilio o via Borromei. Il quartiere delle Cinque Vie attende però un restauro complessivo ed è tuttora attraversato da un eccessivo traffico automobilistico. Forse quel progetto del 1960 può essere ancora utile alla prossima giunta comunale per un restauro del quartiere 5Vie tornato in questi anni ad essere luogo centrale degli eventi culturali nel campo della moda e del design.
Tra gli edifici milanesi costruiti da Francesco Gnecchi Ruscone desidero ricordare infine il bel palazzo in viale Elvezia, all’angolo tra l’Arena Civica e via Canonica. I lavori, condotti tra il 1958-72 assieme all’architetto Eugenio Gentili Tedeschi, hanno portato all’edificazione di un edificio alto otto piani, che mostra tuttora la sua eleganza allo sguardo degli appassionati di architettura.