All’incontro tenuto oggi nella Sala Alessi di Palazzo Marino il sindaco Giuseppe Sala e l’assessore alla Partecipazione, Cittadinanza attiva e Open Data Lorenzo Lipparini hanno presentato il progetto di riapertura dei navigli milanesi, dando il via a una pubblica discussione sul modello del debat public francese: da oggi fino a settembre i cittadini potranno intervenire esprimendosi sul progetto con critiche, proposte, miglioramenti. Nei prossimi giorni saranno previsti sul tema incontri pubblici organizzati da un garante imparziale, il dottor Andrea Pillon.
Il calendario degli incontri è accessibile su un sito internet attivato dal Comune, ove i cittadini potranno iscriversi, intervenire ai dibattiti e caricare sulla piattaforma informatica documenti contenenti le loro proposte.
La necessità di coinvolgere la cittadinanza è dovuta all’effettiva complessità della riapertura nel suo insieme. Difatti la realizzazione di un canale lungo 7,7 chilometri in una parte della periferia nord (via Melchiorre Gioia) e in una zona importante del centro, determinerà l’avvio di lavori pubblici che recheranno disagi alla mobilità veicolare nella fase transitoria. D’altra parte occorre rilevare che l’utilizzo degli stessi cantieri della M4 in centro e l’apertura di pochi altri siti in periferia, consentirà di limitare il più possibile gli ostacoli alla mobilità.
Il piano prevede due fasi. La prima, che avrà inizio nei prossimi anni, prevede la posa di una tubazione sotterranea di 2 metri di diametro che garantirà la continuità idraulica lungo i 7,7 km del tracciato fino alla Darsena di Porta Ticinese: oltre a migliorare l’irrigazione dei campi nel parco agricolo Sud Milano, tale tubazione costituirà una infrastruttura per le nuove pompe di calore che sostituiranno le caldaie inquinanti . La riapertura viene così a sposarsi con l’obiettivo di ridurre l’inquinamento cittadino provocato dagli scarichi dei condomini. La tubazione fornirà inoltre l’acqua pulita della Martesana ai cinque tratti di naviglio che verranno aperti in questa prima fase, rendendo possibile in prospettiva il secondo step della riapertura integrale. I cinque tratti di canale che verranno riaperti nella prima fase sono i seguenti:
1) 820 metri in via Melchiorre Gioia da Cassina de’ Pomm a via Carissimi;
2) 240 metri nel primo tratto di via san Marco ove si trova l’antico tracciato del Naviglio con la storica Conca dell’Incoronata ricordata da Leonardo da Vinci nel Codice Atlantico.
3) 520 metri in via Francesco Sforza tra corso di Porta Vittoria e Corso di Porta Romana, in un’area ove si trovano l’Università degli Studi di Milano, il Giardino della Guastalla e l’Ospedale Policlinico.
4) 300 metri in via Molino delle Armi nel parco delle Basiliche tra le chiese San Lorenzo e Sant’Eustorgio;
5) 260 metri tra la Darsena e via Ronzoni mediante la ricostruzione e riattivazione della storica conca di Viarenna.
La seconda fase (entro 2030) riguarderà invece la riapertura totale dei restanti 5 km di canale in via Melchiorre Gioia, in via San Marco, via Fatebenefratelli, via Senato, via San Damiano, via Visconti di Modrone, via Francesco Sforza, via Santa Sofia, via Molino delle Armi, via De Amicis e via Conca del Naviglio.
Come ha ricordato il sindaco Sala, gli incontri pubblici hanno l’obiettivo di mostrare ai cittadini i pro e i contro della riapertura. Oltre ai lavori pubblici, verranno illustrati i costi dell’operazione e le modifiche che la realizzazione dei canali navigabili in centro determinerà nella viabilità se il progetto dovesse essere realizzato.
Sala ha tuttavia precisato che la gradualità delle operazioni (articolate in due fasi) permetterà di gestire la situazione senza eccessivi intralci per i cittadini. Inoltre le periferie non saranno penalizzate, ma al contrario valorizzate: ad esempio la riapertura della Martesana in via Melchiorre Gioia consentirà di superare la problematica realtà di quel quartiere (oggi invivibile) grazie a una infrastruttura ove acqua, verde e spazi per nuovi esercizi commerciali giocheranno un ruolo importante nel migliorare la vivibilità della zona.
“La riapertura dei navigli non è operazione nostalgica ma costituisce il riconoscimento del ruolo centrale che l’acqua ha sempre avuto nella storia di Milano” ha affermato il sindaco Sala, aggiungendo che le grandi città del mondo stanno investendo nelle reti di canali. “L’acqua è un elemento che, accanto al verde, la gente apprezza notevolmente come insegna il caso di Chicago”. D’altra parte, basta guardare ai casi di città quali Amsterdam, San Pietroburgo, Amburgo, Parigi, Londra, Vienna e Berlino per rendersene conto.
C’è però una seconda ragione che spiega l’importanza della riapertura dei navigli per Milano. La riattivazione dei canali in centro e in periferia si sposa bene con la politica ambientale che la città intende perseguire nei prossimi anni riducendo la distanza che, sul piano della qualità della vita, la separa ancora dalle metropoli più avanzate. “Tra dodici anni” – ha detto il sindaco – “Milano passerà da 51 macchine ogni 100 abitanti a 40 macchine come avviene nelle maggiori città europee”. La mobilità dei cittadini cambierà radicalmente: l’uso dell’automobile privata si ridurrà a vantaggio di un’ampia disponibilità di mezzi pubblici. La riapertura dei Navigli si inserisce coerentemente in tale visione ambientale: la M4 sarà aperta lungo la cerchia dei canali favorendo gli spostamenti veloci per ragioni di lavoro. Inoltre, la metropolitana estesa fino a Monza consentirà una forte riduzione del traffico automobilistico da Nord-Est. Il divieto dell’ingresso in città dei Diesel Euro 1,2,3, a partire dalla fine di gennaio 2019, ridurrà ulteriormente il numero di auto in città, come sta avvenendo nelle altre metropoli europee.
In alcune lettere scritte all’amico federalista Enrico Cernuschi tra il 1854 e il 1855, Carlo Cattaneo, che dopo il fallimento della rivoluzione del ’48 si era stabilito nella svizzera Castagnola per sfuggire agli arresti della polizia austriaca, si faceva promotore di un progetto assai ardito. Val la pena soffermarsi su questo tema perchè può aiutare a comprendere non solo l’originalità del pensiero di Cattaneo, ma anche il diverso modo di affrontare una questione attuale come il trasporto merci nell’area metropolitana milanese.
Così Cattaneo descriveva il delicato tema delle infrastrutture in Lombardia e nell’Italia del Nord in una lettera all’amico dell’ottobre 1854:
Il Lago Maggiore che tocca i tre territorj piemontese, svizzero e lombardo veneto ha la sua superficie a poco meno di 200 metri sopra il livello del mare. Dal lago le barche discendono per un tronco del fiume Ticino (lungo 26 chilometri) fino a Tornavento ov’entrano in un Canale (lungo 50 chilometri) pel quale discendono fino a Milano. Da Milano per altro Canale (lungo 33 chilometri) scendono a Pavia; quivi entrano nel basso Ticino (5 chilometri) e di là pel Po (104 chilometri) arrivano all’Adriatico. La discesa continua dal Lago Maggiore al mare somma a chilometri 251 e si può percorrere senza dispendio di forza motrice. La linea passa in vicinanza di molte buone città e attraversa tutte le linee ferrate dell’Alta Italia.
[I carteggi di Carlo Cattaneo, a cura di Margherita Cancarini Petroboni e Maria Chiara Fugazza, Serie I, vol.III, 1852-56, pag.182]
Il trasporto merci lungo i fiumi e i canali era quindi opportuno secondo Cattaneo – si tenga presente questo punto – perché avveniva “senza dispendio di forza motrice”.
Le merci che giungevano a Milano dal Nord Europa erano trasportate a quei tempi mediante la “forza motrice” degli animali da tiro (al cui nutrimento bisognava provvedere mediante l’acquisto di mangimi), delle prime locomotive (che occorreva alimentare con il carbone importato) oppure attraverso la via “gratuita” dell’acqua fluviale.
Oggi in Paesi dell’Europa settentrionale e centrale come ad esempio la Germania, la Francia, l’Olanda, l’Austria, l’Ungheria, la Repubblica Ceca, il trasporto di alcune tipologie di merci avviene ancora su chiatte: questi tipi d’imbarcazione attraversano non solo i grandi fiumi come il Reno, la Mosella, il Danubio, la Senna, ma anche i canali artificiali come ad esempio avviene in Olanda: penso ai legnami, alla calce, al cemento. L’Italia fa eccezione: da noi si ricorre in via pressoché esclusiva ai treni merci e al trasporto su gomma. Risultato: autostrade e strade piene di Tir e camion di ogni specie.
Ai tempi di Cattaneo la situazione in Lombardia – fatte ovviamente le distinzioni di tempo – era più vicina ai paesi del Nord Europa. Nella lettera a Cernuschi era fornita una descrizione assai indicativa del commercio tra Milano e i comuni lombardi da una parte e il Lago Maggiore dall’altra mediante le “vie d’acqua” lungo il Naviglio Grande e il Ticino. Cattaneo faceva previsioni ottimistiche su un incremento di questo tipo di trasporti:
Il Lago Maggiore somministra graniti, marmi, torba, carbone, legna da fuoco e costruzione. Il nuovo sviluppo della navigazione del Po potrà estendere il consumo dei graniti, dei marmi saccaroidi, e d’altre pietre cristalline in lastre e in ciottoli provenienti dalle Alpi, alle costruzioni e al selciato d’altre città, come Piacenza, Parma, Modena, Bologna, Ferrara etc. alle quali li Appennini non possono somministrare se non pietre calcari e arenarie assai deboli.
Veniamo però al progetto che Cattaneo presentò a Cernuschi. Esso era teso a risolvere un grave problema, assai sentito a quell’epoca: la navigazione contro corrente. Era relativamente facile trasportare le merci dai laghi verso Milano con la corrente favorevole. Il problema si poneva quando si faceva il percorso inverso. I milanesi avevano cercato di risolverlo facendo trainare le cobbie – così erano chiamate le barche vuote – da vecchi cavalli ai quali restavano pochi anni di vita. La lentezza del trasporto era però notevole. Quando scriveva Cattaneo – siamo verso la metà del XIX secolo: la ferrovia si stava imponendo come mezzo privilegiato sulle lunghe distanze – i tempi del trasporto su acqua in risalita erano sempre meno convenienti.
L’attenzione dell’economista lombardo era concentrata soprattutto nel tratto del Ticino tra Sesto Calende e Tornavento. Il Naviglio Grande, che dal XIII secolo porta l’acqua del fiume alla Darsena di Porta Ticinese, è il canale più facile da navigare perché la pendenza è tendenzialmente progressiva e non ha conche lungo il suo percorso. A quei tempi le operazioni di risalita delle barche avvenivano senza grandi difficoltà lungo il Naviglio. I problemi si ponevano dopo Tornavento. La corrente del Ticino diveniva fortissima. Cattaneo, nella lettera a Cernuschi più volte citata, spiegava il problema operando un raffronto tra il dislivello (la caduta) del Ticino tra Sesto Calende e Tornavento e quello del Danubio tra Vienna e il Mar Nero:
Il fiume [Ticino] in questo breve intervallo di 26 chilometri ha una caduta di metri 47. Per dare un’idea comparativa dell’intensità di questa caduta basti dire che la caduta del Danubio da Vienna al Mar Nero, sopra una lunghezza quasi cento volte maggiore, è di soli metri 133, ossia nemmeno il triplo. E nulladimeno la navigazione del Danubio è giudicata ancora difficile. Inoltre questa discesa di 47 metri è ripartita molto ineguabilmente formando undici Rapide, alcune delle quali ammontano al 6 per mille.
[I carteggi di Carlo Cattaneo…cit, pag.183]
Si era tentato di risolvere il problema caricando le merci su imbarcazioni più piccole in quel tratto di fiume, più adatte da manovrare per affrontare le rapide senza pericoli. Così commentava Cattaneo i dati del dazio milanese ove era segnato il numero delle barche arrivate in Darsena:
Consta dai registri della Dogana di questa capitale [Milano] che il numero annuo delle barche pervenute dal Lago Maggiore varia da 4 mila a 7 mila. Consta inoltre che codeste barche nell’intervallo tra Sesto Calende e Tornavento, ossia tra l’uscita del lago e l’ingresso del canale, non possono in molti mesi dell’anno scendere per le rapide del Ticino senza subire la necessità di alleggerirsi; e che a tal fine il carico si divide momentaneamente sopra due o tre barche, per riunirsi poi nuovamente in una sola barca all’ingresso del canale. Perloché il numero di 4 mila a 7 mila barche che figura alla dogana di Milano, rappresenta il movimento di 7 mila a 10 mila tra Sesto Calende e Tornavento. […]
Compiuta la discesa e deposto il carico, tutte le barche rimontano vuote il canale: 1) perché questo ha un corso assai rapido, dovendo esso portare una gran massa d’acqua ad uso della irrigazione; 2) perché non ha chiuse, essendo stato costruito tre secoli prima che nel Paese medesimo si facesse l’invenzione delle chiuse. Giunte le barche all’estremità superiore del Canale presso Tornavento, rimontano, parimenti vuote, il fiume Ticino fino al Lago Maggiore presso Sesto Calende.
Restava il grande problema della lentezza del trasporto merci non solo nelle fasi di risalita del fiume, ma anche in quelle della discesa perché, come ricordava Cattaneo, nel tratto di fiume tra Sesto Calende e Tornavento occorreva trasferire le merci su barche più piccole. Come rendere più veloci i commerci?
L’idea di Cattaneo si basava sull’utilizzo della ferrovia. Egli non pensava affatto a una linea ferroviaria da Milano a Sesto Calende. La sua proposta consisteva nell’utilizzare un tronco di strada ferrata che il governo austriaco aveva messo in vendita. Gli austriaci restavano i suoi nemici, ma quando si trattava di affari non si guardava in faccia nessuno. Il tratto di ferrovia messo in vendita dal governo interessava l’altopiano tra Sesto Calende e Tornavento. Le barche provenienti da Milano e dirette al Lago Maggiore, anziché risalire quel tratto impervio di fiume, sarebbero state sistemate su un “treno all’americana” e trasportate su un tratto di ferrovia a gestione privata fino a Sesto Calende. In tal modo non ci sarebbe stato alcun bisogno di caricare o scaricare le merci su imbarcazioni più piccole nel tratto delle rapide. Il risparmio di tempo era assicurato, soprattutto nella risalita. Scriveva a Cernuschi:
Da ciò nacque il pensiero di costruire sull’altipiano che domina le rapide del fiume un breve tronco di via ferrata all’Americana, ossia a semplice forza animale (Tram Road) con armamento leggero e con più commodo limite nelle pendenze. Su questa rotaia devono le barche vuote ritornare dalla estremità superiore del Canale Naviglio al Lago Maggiore, senza lottare coll’impeto del fiume…
Mentre la linea d’acqua colle sue tortuosità misura 26 chilometri, la linea ferrata sarebbe meno di 17. Il tempo della salita che ora varia da tre giorni a due settimane e anche più si ridurrebbe costantemente a 4 ore di marcia a piccolo passo.
A questo punto sorgono spontanee tre domande:
Perché Cattaneo pensò a una ferrovia leggera trainata da sola forza animale e non a un treno merci mosso da una locomotiva?
Per quale motivo Cattaneo non propose la costruzione di una linea ferroviaria diretta da Milano a Sesto Calende, magari limitata al trasporto merci?
Perché Cattaneo volle rendere partecipe di questa idea l’amico Cernuschi?
Procediamo con ordine. In effetti Cattaneo aveva preso in considerazione la possibilità di fare uso di una locomotiva: non riteneva tuttavia che fosse conveniente per le spese elevate di costruzione e di allestimento di officine specializzate. In questo sbagliava giacché il trasporto merci su rotaia mediante l’uso di locomotive alimentate a carbone si sarebbe affermato in modo sempre più marcato nella seconda metà dell’Ottocento. Occorre però considerare che il suo progetto si rivolgeva al finanziamento dei privati, il che lo portava ad evitare spese eccessive e a ricercare soluzioni economiche, alla portata di singoli finanziatori che non fossero lo Stato. Il che ci consente di rispondere alla terza domanda: vale a dire per quale ragione avesse scritto al suo vecchio amico e patriota federalista.
Cernuschi, emigrato in Francia dopo il fallimento dei moti del ’48 – ’49, stava percorrendo una luminosa carriera nel settore della finanza parigina. Nel giro di pochi anni era divenuto membro del consiglio di amministrazione del Credit Mobilier, una banca che era stata fondata nel 1852 dai fratelli Emile e Isaac Pereira. Cattaneo intendeva convincere l’amico a finanziare il suo progetto o a trovare persone disposte a farlo. Le sue attese andarono però deluse. Cernuschi chiarì che il Credit Mobilier era un istituto specializzato nella compravendita di titoli e azioni; non rientrava nei suoi compiti quello di farsi promotore di imprese industriali. E’ probabile tuttavia che Cernuschi, banchiere con un acuto senso degli affari, volesse evitare di esporsi in un’operazione i cui ritorni erano molto incerti. Occorre inoltre aggiungere che il Credit Mobilier non versava in buone acque: di lì a pochi anni, nel febbraio 1859, Cernuschi si sarebbe dimesso abbandonando la barca prima che affondasse. Il fallimento del Credit sarebbe arrivato nel 1867. Tutto questo spiega per quale motivo il piano di Cattaneo fosse destinato a restare sulla carta.
Eppure, in queste lettere, traspare la preferenza di Cattaneo per il trasporto via acqua, più conveniente perché consentiva di operare “senza dispendio di forza motrice”. I costi d’importazione del carbon fossile per l’utilizzo di una locomotiva rendevano nettamente migliori le vie d’acqua. In una lettera a Cernuschi del 17 maggio 1855 l’economista si esprimeva in questi termini:
I rapporti tra il Lago Maggiore e la pianura sono indistruttibili; la discesa di legname, carbone, torba, calce, marmo e granito non può non accrescersi al contatto di tante nuove linee navigabili e ferroviarie…La discesa per forza spontanea e gratuita d’acqua costerà eternamente meno di qualsiasi altro espediente, massime in paese privo di carbon fossile.
[I carteggi di Carlo Cattaneo…cit, pag.222. Le parole sono sottolineate da Cattaneo]
Qui Cattaneo riecheggiava il pensiero di Beccaria il quale, ottant’anni prima, nei suoi corsi di economia pubblica presso le Scuole Palatine di Milano, aveva toccato l’argomento in questi termini:
Rifletteremo…essere voce universale di tutti gli scrittori d’economia che i trasporti per acqua siano di gran lunga preferibili ai trasporti per terra. Calcolano essi il trasporto per acqua essere un quinto del trasporto per terra; vale a dire che una nazione che trasportasse quattro volte più lontano d’un’altra per acqua quelle stesse merci che la seconda deve portare una sol volta per terra, averebbe ciò nonnostante la preferenza.
[C. Beccaria, Elementi di economia pubblica in C. Beccaria, Scritti economici, vol.III della Edizione Nazionale delle Opere di Cesare Beccaria, Milano, Mediobanca 2014, pag.172].
In un articolo scritto a gennaio, intitolato Milano vetrina del Made in Italy, chiudevo con l’augurio che la città ambrosiana potesse divenire nel periodo di Expo 2015 il fiore all’occhiello della cultura e della creatività italiana. Oggi devo dire che siamo sulla buona strada. La metropoli sta diventando una città fervida d’iniziative in svariati ambiti, una metropoli in grado di affascinare tanti giovani. Milano è caratterizzata da un policentrismo che ne arricchisce sensibilmente l’offerta culturale. Ogni zona presenta tratti distintivi che si integrano nella trama cittadina come tessere di uno splendido mosaico.
La Fondazione Prada ha aperto al pubblico in zona Ripamonti, in quelli che erano un tempo i Corpi Santi di Porta Romana a due passi dal Vigentino: con le mostre di arte classica e arte contemporanea ha reso accessibili enormi spazi espositivi nella sede di una fabbrica di liquori risalente agli anni Dieci del secolo scorso. L’edificio è quello dell’antica distilleria SIS che produceva il famoso brandy Cavallino Rosso. Oggi il vasto stabile, con la sua torre industriale verniciata d’oro svettante in un panorama di aree dismesse, costituisce un punto di riferimento per tanti intellettuali e creativi: tutti desiderosi di aggiornarsi sulle sperimentazioni artistiche da cui trarre ispirazione nei campi del design, della fotografia, del marketing. Alla Fondazione Prada va il merito di aver consentito la riqualificazione di una vecchia area industriale, fino a pochi anni fa in stato di palese degrado.
Prendiamo un altro quartiere, nella parte opposta della città, zona Garibaldi-Repubblica: qui l’architettura dei grattacieli che svettano con soluzioni originali e avveniristiche, il ponte su via Melchiorre Gioia, il raffinato design delle piazza Gae Aulenti ed Alvar Aalto, i prati vicino alle vie Colombo e Galilei hanno completamente ridisegnato la zona corrispondente ai due quartieri situati fuori dai bastioni, negli antichi Corpi Santi di Porta Comasina e di Porta Nuova. Oggi il quartiere Garibaldi-Repubblica si pone tra le aree residenziali più esclusive della città, continuando – sia pure in modi profondamente diversi – quello stile aristocratico che il visitatore poteva toccare con mano nei secoli passati, in alcune contrade dei sestieri di Porta Nuova e di Porta Orientale. La torre del palazzo di Unicredit, la cui cuspide si eleva verso il cielo superando in altezza la Madonnina del Duomo, costituisce il simbolo della moderna city finanziaria, visibile a svariati chilometri di distanza.
Spostiamoci ancora a sud, questa volta in direzione sud-ovest. Troviamo la nuova Darsena, resa finalmente accessibile grazie a un’opera di recupero che, seppur oggetto di contestazioni, è stata certamente positiva: la sapiente valorizzazione dei navigli ha consentito l’apertura di uno spazio urbano ove l’acqua ha assunto un peso decisivo nel favorire l’attrazione turistica del quartiere, divenuto in poco tempo una delle zone più frequentate della città, meta di tanti giovani attratti dalla storica bellezza del luogo.
Ho citato tre quartieri che riflettono anime diverse della città, uniti da un senso di appartenenza alla comunità ambrosiana. La riqualificazione di tanti isolati cittadini è spia del cambiamento profondo di Milano cui mi riferivo all’inizio. A quale filosofia è ispirato questo “rinascimento milanese”? E’ un nuovo sentire, un senso di comunità che rende milanesi nella moda, nell’etica del lavoro, nella vita quotidiana alternativa, negli stili di vita più originali e creativi. Una città che sa essere un grande laboratorio del Made in Italy, aperta alle nuove frontiere dell’arte, della tecnologia, del design.
Il segreto di questo successo, che si spiega a monte con un profondo cambiamento di mentalità e di stili di vita, risiede a mio parere nella capacità di inventare il futuro recuperando in chiave nuova elementi storici dell’identità urbana. Penso alla Darsena, ma anche allo stesso progetto di riapertura dei navigli in centro città: i navigli, elementi secolari del paesaggio urbano milanese, caduti nell’oblio per gran parte del Novecento, vengono ora recuperati, reinventati per abbellire il paesaggio urbano a fini turistico culturali. Milano torna ad essere finalmente una città vivibile, a misura d’uomo.
Un tempo si diceva che a Milano non si passeggia ma si lavora. Questo è ancora vero ma non basta a descrivere la vita cittadina. Nella metropoli che si va costruendo passeggiare per le vie e le piazze della città non è più un privilegio di turisti e sfaccendati. I milanesi si stanno riappropriando di Milano perché sentono di amarla. Certo, la amano a modo loro, con stile dimesso, non ostentato, in linea con l’autentica anima ambrosiana. Basti pensare al successo dell’iniziativa (hashtag #Milanononsitocca), nella quale migliaia di milanesi – contro ogni aspettativa – sono scesi in strada a metà maggio, uniti dalla volontà di ripulire gli edifici e di manifestare contro i vandali che pochi giorni prima, durante una manifestazione, avevano devastato vetrine e macchine in una zona del centro.
Se questo è il clima che si respira oggi, non è difficile pensare che un giorno i milanesi, anziché fuggire dalla metropoli nel weekend per recarsi al lago o al mare, scelgano di passeggiare lungo i canali riaperti del centro cittadino, magari salendo su battelli turistici in tragitti panoramici che mettano in collegamento Milano e l’Adda, Milano e Pavia, Milano e il Ticino; oppure, come molti giovani stanno già facendo in Darsena, sedendo sulle rive dei canali o nei prati vicino ai moli per le imbarcazioni per trascorrere in compagnia alcune ore del fine settimana.
Sono stato anch’io tra i 70.000 visitatori che domenica scorsa hanno assistito alla riapertura della Darsena dopo anni di lavori. Il giudizio è nel complesso positivo. In un perodo difficile come quello attuale, la riqualificazione dell’area, decisa due anni fa dalla Giunta Pisapia, consente a Milano di presentarsi degnamente all’appuntamento di Expo.
Oggi i milanesi possono fruire di uno spazio tra i più pittoreschi della città, un bacino ripensato in chiave turistica con alcune novità di rilievo. Penso ad esempio al mercato coperto. Inoltre, vicino all’arco di Porta Ticinese, è stato aperto un breve tratto del Ticinello: i visitatori possono ammirare i tre antichi archetti in pietra che collegano il canale alla Darsena, oggi visibili grazie a un sapiente lavoro di recupero.
Anch’io non posso esimermi da alcune critiche. Discutibile è stata la scelta di non conservare il tratto dei bastioni confinante con la Darsena. Discutibile la copertura del ponte verso la storica Conca di Viarenna. Discutibile la scelta di autorizzare nel naviglio grande quei box galleggianti che, gestiti da negozianti e ristoratori, occupano quasi metà del canale compromettendo la visuale pittoresca della zona.
Come ho detto all’inizio, il mio giudizio è tuttavia positivo. Mi auguro che l’amministrazione comunale, nei prossimi anni, sappia proseguire nella valorizzazione sociale e culturale dei navigli milanesi.
Che rapporto ha la Darsena con Milano? Partiamo anzitutto dalla parola. Il lemma, risalente all’arabo dar as-sina’a entrò nella lingua italiana mediato dal genovese nel corso del XVI secolo. La parola ha assunto il significato di “fabbrica”, intesa come area interna di un porto ove si effettuano riparazioni di barche e hanno sede officine e bacini di carenaggio.
In effetti, se studiamo la storia di Milano, ci accorgiamo che la nostra Darsena rientra bene in questa definizione. Il laghetto di Sant’Eustorgio fu certamente un porto per la città – anche se porto sui generis, come vedremo – ma funse soprattutto da deposito di merci; merci che, giunte in città mediante le imbarcazioni provenienti dal Naviglio Grande e dal Naviglio Pavese, erano depositate nelle banchine e nei quartieri vicini.
Ricordo che la Darsena, come il quartiere di San Gottardo e i due navigli nel tratto urbano, erano compresi fino al 1873 nel Comune dei Corpi Santi.
La Darsena fu insomma un grande deposito di materie prime per l’industria cittadina: pensiamo alla sabbia o alla ghiaia per la costruzione delle case. Nell’Ottocento vi erano anche trasportate le forme di parmigiano che si producevano nelle cascine della bassa, in particolar modo a Fombio, un paese in provincia di Lodi che era compreso nel territorio del ducato di Parma e Piacenza. Ecco una possibile chiave di lettura per capire l’origine del “parmigiano”! ;))).
Cesare Cantù, nella Grande Illustrazione del Lombardo Veneto pubblicata verso la metà del XIX secolo, stimava in 300.000 le forme di parmigiano depositate nelle ricevitorie di finanza di Codogno, Lodi, Pavia e nel borgo di San Gottardo. Questo borgo era chiamato dai milanesi burg de’ furmagiatt in ragione delle innumerevoli casere, le tipiche case milanesi – molte tuttora esistenti – costruite tra corso San Gottardo e il naviglio pavese per collocarvi il cacio da invecchiare.
Dalla fine del Quattrocento, quando le acque del Naviglio Martesana vennero congiunte con quelle del Naviglio Grande grazie alla piena navigabilità della fossa interna in centro città, la Darsena divenne un vero e proprio porto cittadino. Il numero delle imbarcazioni crebbe a dismisura facendo dell’area un bacino equiparabile per volume di traffico ai principali porti della penisola. Le barche che solcavano i navigli appartenevano a diverse tipologie. Le “zeppate” o “ceppate” erano zattere di varia lunghezza che trasportavano per lo più legname. Discendevano il naviglio Martesana e, mediante il naviglio interno, raggiungevano la Darsena passando per la conca di Viarenna. C’erano poi i burchielli: quelli della Martesana erano lunghi 22 metri e larghi nel punto di maggiore ampiezza 4,65; quelli del Naviglio Grande, chiamati anche cagnoni, erano lunghi 23.50 metri, larghi 4,75.
La conca di Viarenna costituiva un punto di passaggio cruciale per le barche perché si trattava dell’unica via d’acqua per trasportare le merci nel Naviglio Interno verso la Martesana o, all’opposto, per portarle nella Darsena in direzione di Pavia o di Abbiategrasso. La conca era ceduta dallo Stato ai privati mediante contratti di affitto di durata pluriennale.
Diamo un’occhiata al contratto firmato il 18 dicembre 1815 dal funzionario di finanza Gioacchino Frigerio con il signor Giovanni Molinari. In base a questo documento, conservato nel fondo notarile dell’Archivio di Stato di Milano, sappiamo che il Molinari ricevette in affitto la Conca di Viarenna per “anni sei continui che avranno il loro principio nel giorno primo gennaio 1816 prossimo futuro e termineranno nel giorno 31 dicembre dell’anno 1821 mediante la prestazione annua di lire 1.100…da corrispondersi di trimestre in trimestre”. Nel contratto era allegata la tariffa che l’affittuario era autorizzato a riscuotere al passaggio delle barche per la conca di Viarenna. L’elenco ci dà un’idea del traffico di imbarcazioni nel primo Ottocento:
Per le Barche grosse, cioè di montagna, abbino da pagare soldi 10
Le Barche di Bereguardo [provenienti dal Naviglio di Bereguardo, tra Abbiategrasso e Pavia] mezzane ed altri luoghi quali siano della medesima grandezza abbino da pagare soldi 7 e mezzo
Li navetti ordinari hanno da pagare soldi 5
Li Burchielli pagheranno soldi 2 e denari 6
Le Zeppate intiere pagheranno soldi 15
Le Zeppate mezzane pagheranno soldi 10
Le mezze Zeppate pagheranno soldi 7 e denari 6
Le barche grosse erano probabilmente quelle provenienti dal Lago Maggiore o dal Lago di Como.
Nella seconda metà dell’Ottocento l’avvento della ferrovia portò a una drastica riduzione del traffico merci lungo i canali. Nel Novecento la Darsena fu notevolmente ridimensionata, anche se fino agli anni Cinquanta continuò a fungere da deposito di materie prime.
Una preziosa guida di Milano in lingua francese pubblicata dall’amministrazione comunale in occasione dell’Esposizione Internazionale del 1906, forniva un quadro indicativo della Darsena di Porta Ticinese. La navigazione milanese si era considerevolmente ridotta, anche a seguito della chiusura di alcuni canali avvenuta a fine Ottocento. Ricordo ad esempio la copertura del Naviglio di San Girolamo (lungo le attuali vie Carducci e parte di via De Amicis) nel 1894-95. Scriveva l’estensore della guida descrivendo la Darsena:
A 420 mètres de longueur sur une largeur qui varie de 28 à 68 mètres, avec une profondeur moyenne de mét. 1,20. Ce Bassin, creusé au pied des remparts, est actuellement le centre de ce qui reste de la navigation milanaise, puisqu’il recoit, outre les eaux du Grand Canal [Naviglio Grande], celles du Canal Intérieur [Naviglio Interno] alimentant l’écluse de la rue Arène [Conca di Viarenna nell’allora via Arena, oggi via Conca del Naviglio] et qu’il sert de prise au Canal de Pavie [Naviglio di Pavia] et donne origine à cette voie navigable qui, dans le conditions actuelle, réunit au Po le réseau des canaux milanais. C’est aussi dans ce bassin que vient se jeter la riviére Olona [il fiume Olona, oggi interrato], qui aux abords de Milan se trouve généralement asses pauvre, ses eaux étant dérivées pour les usages industriels mais dont les crues sont néamoins parfois assez importantes.
Traduzione
“Ha una lunghezza di 420 metri e una larghezza che varia tra i 28 e i 68 metri e una profondità media di 1,20 metri. Questo bacino, scavato ai piedi dei bastioni, è attualmente al centro di quel che restadella navigazione milanese perché riceve , oltre alle acque del Naviglio Grande, quelle del Naviglio Interno che alimentano la chiusa di via Arena [la Conca Viarenna, oggi in via Conca del Naviglio]; la Darsena serve per convogliare l’acqua nel naviglio pavese e dà origine a questa via navigabile che, nelle condizioni attuali, unisce al Po la rete dei canali milanesi. In questo bacino si getta anche il fiume Olona, che nella periferia di Milano è generalmente povero d’acqua servendo ad usi industriali. A volte i suoi allagamenti sono però notevoli”.
Il naviglio interno è un po’ come i fiumi carsici: si nascondono per chilometri sottoterra per riaffiorare nuovamente alla luce. Il canale, interrato nel 1929 durante il fascismo, scomparve per decenni dalla memoria dei milanesi. Per gran parte del Novecento di esso non rimase più traccia. Continuò a vivere nei ricordi dei vecchi, dei cultori di storia milanese e di qualche poeta. Chi l’avrebbe detto che sarebbe tornato a calcare le scene da protagonista? Da un decennio rivive nella mente dei milanesi. Oggi si discute addirittura di una sua parziale riapertura nelle vie del centro. Non si tratta di un’illusione come qualcuno ha scritto. Il progetto della riapertura del naviglio è un fatto concreto: elaborato dal Politecnico di Milano da gente seria e competente, è stato sottoposto alla giunta comunale per una stima dei costi e della sua fattibilità. Prevede la parziale riapertura del canale, le cui acque tornerebbero a scorrere lungo le vie Melchiorre Gioia, San Marco, Fatebenefratelli, Senato, Visconti di Modrone, Francesco Sforza, Santa Sofia, Molino delle Armi, De Amicis, via Conca del Naviglio fino alla Darsena di Porta Ticinese. Negli ultimi anni sono stati pubblicati diversi libri sull’argomento: ad esempio il bel volume di Empio Malara, Il Naviglio di Milano, (Hoepli, Milano 2008) ma anche quel gioiello di storia milanese che è il vecchio libro di Giacomo Carlo Bascapé, Il Naviglio di Milano ripubblicato dal Polifilo l’anno scorso.
Perché oggi si parla di riaprire il naviglio? Torniamo a quel 1929, quando il podestà Giuseppe Capitani d’Arzago ne decise la chiusura. Milano andava mutando radicalmente la sua fisionomia urbana. La città nuova, che i fascisti vollero lanciata verso il progresso dell’economia industriale, uscì trasformata dell’opera del piccone. Molte vie del centro furono oggetto di interventi radicali, che alterarono in molti punti l’originario impianto medievale. Pensiamo ad esempio a piazza Diaz, costruita mediante la demolizione dell’antico quartiere del Bottonuto; al superbo edificio della Stazione Centrale, al palazzo dell’Inps in piazza Missori: facciate che mostrano ancora oggi quale fosse la politica di quegli anni, tutta informata all’esaltazione della razza fascista.
La città del boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta ereditò in gran parte lo spirito di quella fascista: una metropoli forte, orgogliosa, in marcia verso il progresso. Nel dopoguerra fu tutto un costruire palazzi ove un tempo esistevano piccole chiese e vecchie cascine. Nel 1965 Adriano Celentano scriveva Il ragazzo della via Gluck pensando con nostalgia alla Milano circondata dai campi che andava sparendo sotto i colpi della speculazione edilizia. Come diceva Adriano? “Quella casa in mezzo al verde…dove sarà???”. S’innalzarono i primi grattacieli. I disastri e le miserie della guerra erano scomparsi. Arrivarono gli anni di gomma, delle prime automobili e motorini di massa: nella Milano del boom le porte erano aperte a chiunque aveva voglia d’intraprendere. Una città lanciata verso l’innovazione, tutta votata al culto del progresso.
In quella Milano il naviglio interno non poteva aver spazio. Chi aveva tempo per capirne il significato? Quale utilità poteva rivestire in una città ansiosa di costruire? Il naviglio interno era il testimone scomodo di una Milano scomparsa. Le sue acque maleodoranti a due passi dalla Madonnina, quelle su cui erano transitati i barconi carichi di merci e di passeggeri facevano parte di un passato da dimenticare. Un passato scomodo perché ricordava ai milanesi quali erano state le sofferenze e i sacrifici dei loro antenati; alcuni morti suicidi nei gorghi del naviglio che, come scriveva Manzoni in un epigramma, “gibigianando va“.
Nella vecchia Milano dei navigli lo sviluppo economico era stato lento ma progressivo. Era una città fatta di povertà e di tante miserie quotidiane: una Milano umile, percorsa da uno spirito di comunità in cui i nobili e i borghesi non vivevano su un altro mondo ma aiutavano i poveri, gli anziani, i malati, i meno fortunati impegnandosi assiduamente negli enti assistenziali e caritativi. Tutta un’altra realtà rispetto alla Milano del Novecento, sede dell’industria e del terziario, tutta immersa nel culto del lavoro per il lavoro, di un arricchimento che ha fatto perdere di vista lo spirito di umiltà e il culto delle tradizioni ambrosiane.
Eppure, per uno di quegli strani paradossi che ci riserva il divenire storico, lo spirito della Milano novecentesca sta svanendo, lasciando spazio a una mentalità diversa, più a misura d’uomo. La crisi economica ha costretto i milanesi a ripensare se stessi e il loro modo di vivere, anzi di sopravvivere ai colpi della recessione. Può stupire ma nella città di oggi si respira un’atmosfera più vicina alla piccola Milano di Manzoni e di Stendhal. Una Milano fatta di assistenza, di attenzione verso l’altro, di carità, di impegno concreto a sostegno degli ultimi.
Ieri, mentre passavo per una via non molto lontano dal centro, a pochi passi da Porta Romana, ho visto un giovane che pedalava su una strana bicicletta: la parte anteriore era costituita da una pedana su cui erano sistemati, legati assieme, alcuni pacchi e scatole di varia larghezza. Quindici anni fa vedevo anonimi furgoncini attraversare veloci la strada. Oggi vedo biciclette che trasportano merci. Forse sbaglierò ma credo che questi anni duri stiano cambiando la mentalità e gli stessi modi di vivere dei milanesi.
Ecco per quale motivo, nella nuova Milano che sta nascendo sulle rovine di quella novecentesca, la riapertura del naviglio interno potrebbe essere un’occasione unica: sarebbe il segno che la vera anima di Milano non è quella cinica, indifferente ed egoista del cumenda cui siamo stati abituati da certa vulgata nazionale, ma quella bonaria, altruista, laboriosa; quella – per intenderci – che, molti secoli fa, realizzò i navigli. La riapertura del canale in centro non consentirebbe soltanto di riattivare a fini turistici il collegamento delle acque della Martesana con quelle del Naviglio Grande. Ridonerebbe a Milano la sua identità originaria di città a misura d’uomo: città di lavoro ma anche città in cui condividere gli spazi in un ambiente vivibile, pittoresco, ricco di verde.
Carlo Cattaneo scrisse le celebri Notizie naturali e civili su la Lombardiain occasione del sesto congresso degli scienziati italiani che si tenne a Milano nel settembre 1844. Questo evento coinvolse – com’è noto – larga parte della società lombarda. Parallelamente all’attività di Cattaneo varrà la pena ricordare che furono compilati – a cura dello storico risorgimentale Cesare Cantù – i due volumi intitolati Milano e il suo territorio: vi furono pubblicati testi afferenti alla storia, alla religiosità, alla statistica, all’istruzione, alla sanità, alla vita sociale di Milano ad opera di eminenti personalità quali il prefetto della Biblioteca Ambrosiana, l’abate Bartolomeo Catena, Giuseppe Sacchi, il nobile Pompeo Litta (noto per le ricerche erudite che andava effettuando sulle famiglie nobili italiane), Giovanni Labus, il professor Achille Mauri e lo stesso Cantù.
Tra le carte mai pubblicate che Carlo Catttaneo scrisse per quell’evento ve ne sono alcune di notevole interesse. Il contenuto di questi documenti, rielaborato ed organicamente ultimato, avrebbe costituito con ogni probabilità una Guida di Milano per i visitatori che fossero giunti in città in occasione del congresso.
In questi manoscritti, che si trovano nell’archivio Cattaneo conservato presso le Civiche Raccolte Storiche del Museo del Risorgimento, la città era presa in esame da un punto di vista geo-economico e storico artistico.
Particolarmente interessanti le considerazioni introduttive, ove largo spazio era riservato alla descrizione geografica.
Il territorio su cui sorge Milano è un vasto rettangolo il cui lato settentrionale vien formato dalla catena dell’Alpi Leponzie e Retiche; l’occidentale dal Lago Maggiore e quindi dal Ticino; l’orientale dal Lago Lario (Como) e quindi dall’Adda, il meridionale dal Po. Questo territorio dirupato e orrido sotto l’Alpi, viene lentamente ad ingentilirsi in men erte montagne, poi in colline amenissime, quindi in pianure asciutte e vinifere, e finalmente in campi quasi immersi nell’acque che li fecondano.
A gradi 26,51 di longitudine 45,27,51 di latitudine, laddove il piano comincia a farsi umido ed irrigato, s’innalza Milano. Talché uscendo dalle porte rivolte a Mezzodì si ritrova tosto un meraviglioso intreccio di canali irrigatorj; mentre da settentrione a stento si trova un prato o un canale.
Seguivano importanti considerazioni sui canali navigabili che solcavano la città:
Lontana da ogni fiume navigabile Milano sarebbe male atta al commercio, qualora l’industria (operosità) degli abitatori non avesse condotto fino in città due canali navigabili l’uno tratto dall’Adda (il Naviglio Martesana), l’altro dal Ticino (il Naviglio Grande). Parte delle acque in tal modo raccolte va ad irrigare i terreni; parte forma un terzo canale che congiunge Milano con Pavia (il Naviglio Pavese) e apre, mercé del Po, una via all’Adriatico.
Il terreno è per natura e per arte (lavoro) fertilissimo. L’aria bastevolmente pura; se non che presso la città si risente della soverchia umidità della adjcenti campagne.
In margine Cattaneo formulava un giudizio significativo sulla mentalità pratica, sull’indole essenzialmente lavorativa dei milanesi, nati più per operare nella società che per ‘disquisire dei massimi sistemi’. Si riportano tali considerazioni, ove risultava evidente che la cultura milanese, per lo meno negli ultimi due secoli, era andata legandosi strettamente ai bisogni della società. Il castello inaccessibile di una “insetata verbosità” fine a se stessa, diffuso in molte città italiane, non apparteneva a Milano.
In confronto alle altre città d’Italia Milano ha minor numero di cruscanti, di puristi, di periodisti, di parolaj d’ogni razza e d’ogni partito. Qui le persone studiose si ingegnano di essere contemporanee del loro secolo e non s’affannano di ritardare, per quanto è lor possibile, i progressi dell’intellettuale perfezionamento ne’ loro concittadini distraendoli dallo studio delle cose a quello di una insetata verbosità.
Notevoli le notizie topografiche su Milano, che Cattaneo descriveva richiamandosi all’immagine dei due anelli che cingevano la città: il primo era costituito dal Naviglio Interno, che venne scavato dai milanesi al di fuori delle antiche mura medievali. Questo canale, chiuso tra gli anni Ottanta dell’Ottocento e il 1929/30, collegava il Naviglio Martesana (che scendeva da nord est) con i navigli grande e pavese (che percorrevano la bassa pianura in direzione sud-sud ovest).
Il secondo anello era invece formato dai bastioni spagnoli, i cui frammenti sono in parte tuttora visibili. Seguiva la descrizione delle Porte milanesi, alcune delle quali esistono ancora oggi. Ma lasciamo la parola a Cattaneo:
I bastioni esternamente e internamente il naviglio formano a Milano un doppio recinto quasi circolare. Il naviglio è una fossa scavata appiè delle antiche mura in occasione dell’assedio del Barbarossa ridotta ora a canal navigabile in cui immettonsi le acque de’ due navigli d’Adda e di Ticino. E nel suo giro comprende la città propriamente detta. I bastioni che si estendono più vastamente…furon fabbricati nel 1549 sotto Carlo V per ordine del governatore Ferrante Gonzaga, giusta l’architettura militare di quei tempi. Fra essi e il naviglio si comprendono i propriamente detti “borghi”. Al di fuori rasente i bastioni si aggira la testé compiuta strada di circonvallazione che offre molte miglia di ombroso passeggio. I bastioni vengono interrotti da undici porte. La Porta Tosa volta a oriente; alquanto verso Nord l’attigua Porta Orientale; e così via: a Nord Est la Nuova; a Nord la Comasina (Porta Garibaldi); a Nord Ovest la Tenaglia e il Portello (oggi Parco Sempione, dietro il Castello Sforzesco); ad Ovest la Vercellina; a Sud Ovest la Ticinese; a Sud la Lodovica e la Vigentina, a Sud Est la Romana.
L’Orientale, la Nuova, la Comasina, la Vercellina, la Ticinese, la Romana sono le principali. Anticamente davano il nome ai quartieri della città e scompartimento alle truppe civiche.
Nel centro di essa, ma alquanto verso oriente, sorge il Duomo; da cui quasi come raggi si dipartono i corsi che guidano a ciascuna Porta, tortuosi ed angusti nell’interno della città, ma spaziosi e diritti quanto più se ne dilungano. Essi prendono il nome dalle rispettive porte.
Sotto la data 2 agosto 1821 il canonico Luigi Mantovani riportava nel suo diario alcune notizie della Milano austriaca che potremmo ricondurre ai fatti di cronaca.
Un ‘famoso’ malvivente, conosciuto come “Piemontesino”, venne arrestato dai gendarmi nel “casotto” dell’Ospedale Maggiore. Il Mantovani si riferiva al “cassinotto” della Cà Granda, un edificio assai rustico che occupava una parte dell’attuale largo Richini, davanti all’Università Statale nel sestiere di Porta Romana. Il “cassinotto” venne demolito nel 1848 dagli insorti delle cinque giornate di Milano, che ne utilizzarono il materiale per costruire le barriccate.
Il secondo avvenimento della giornata riguardava l’annegamento di un giovane nelle acque del Naviglio nel sestiere di Porta Ticinese, il che mostra assai bene come le acque dei navigli fossero un tempo assai profonde.
La terza notizia era la più curiosa. Riguardava due fittabili che furono derubati da un ladro il quale poté agire ‘indisturbato’ grazie alla complicità di un oste. I fittabili erano imprenditori agricoli che gestivano proprietà terriere di dimensioni spesso notevoli. Nei territori della bassa pianura padana erano legati ai proprietari da un contratto di affitto di durata novennale. La gestione dei terreni con metodi imprenditoriali consentì ai fittabili di costituire autentiche aziende agricole dalle quali ricavare elevati margini di guadagno. Non stupisce che fossero presi di mira da ladri e malfattori.
“2 agosto 1821
Ieri mattina al così detto casotto vicino all’ospitale fu preso da travestiti giandarmi (sic!) un ladro detto il Piemontesino, che aveva sotto un abito assai pulito due pistole ed un coltello.
Ieri dopo pranzo alla Madonna fuori Porta Ticinese, di tre giovinotti che nuotavano nel Naviglio uno fu involto in un gorgo, e non si è potuto aiutare. Egli ha 20 anni ed è impiegato del governo.
Al mezzogiorno due fittabili, che in vista d’un birbante avevano venduto del frumento [qui il Mantovani intende dire che il birbante li vide mentre vendevano il frumento, NdR], entrarono in un bettolino per bevere (sic!) un boccale di vino. L’oste disse: “Per dargli del meglio vado a cavarlo”. Lo sparire dell’oste, e entrare un birbante fu un momento. Questi con pistola alla mano investì i due seduti fittabili, e non comparendo mai l’oste, dovettero dare al birbante alcuni scudi. Fu arrestato l’oste, perché creduto connivente, non essendo rinvenuto dalla cantina, se non dopo sparito il birbante”.
L. MANTOVANI, Diario politico ecclesiastico, a cura di Paola Zanoli, Roma, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, vol.V, pag. 265.