John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973) non è stato solo il grande romanziere fantasy de Il Signore degli Anelli e Lo Hobbit che molti di noi conoscono. E’ stato un brillante professore di storia, esperto di letteratura medievale inglese.
A molti potrà sembrare il profilo di uno studioso immerso negli studi, lontano dalla realtà. Nulla di più sbagliato. Tolkien seguì attentamente gli eventi del suo tempo. Partecipò alla prima guerra mondiale prendendo parte nel marzo 1916 alla sanguinosa battaglia sul fronte della Somme come ufficiale segnalatore nell’esercito britannico.
Nel primo dopoguerra fu professore ad Oxford di Lingua e Letteratura anglosassone ma l’attività accademica non gli impedì di assistere con preoccupazione ai gravi eventi economici e politici che si susseguirono negli anni Venti e Trenta del secolo scorso.
Nel periodo natalizio Tolkien era solito spedire ai suoi nipoti lunghe lettere di auguri calandosi nei panni di Babbo Natale.
Per farti gli auguri di Natale ho scelto il passo di una lettera spedita dal professore inglese il 23 dicembre 1931. Due anni dopo il crollo di Wall Street, quando la crisi economica si era estesa ormai all’Europa gettando nella povertà milioni di persone, Babbo Natale scrisse ai bambini Tolkien:
“Cliff House, North Pole
My dear children,
I hope you will like the little things I have sent you. You seem to be most interested in railways just now, so I am sending you mostly things of that sort. I send as much love as ever, in fact more. We have both, the old Polar Bear and I, enjoyed having so many nice letters from you and your pets.
If you think we have not read them you are wrong, but if you find that not many of the things you asked for have come, not perhaps quite as many as sometimes, remember that this Christmas all over the world there are a terrible number of poor and starving people. I (and also my green brother) have had to do some collecting of food and clothes and toys too for the children whose fathers and mothers and friends cannot give them anything, sometimes not even dinner.
I know yours won’t forget you. So, my dears, I hope you will be happy this Christmas do not quarrel, you will have some good games with your railway all together.
Don’t forget old Father Christmas when you light your tree”.
Nelle difficili condizioni economiche in cui versa l’Europa – in particolare l’Italia – credo che questa lettera ci consente di comprendere lo spirito di quei tempi, purtroppo non molto diversi da quelli attuali.
Facciamo un giro in piazza del Duomo. Lo spazio a sinistra della cattedrale era conosciuto un tempo come “gli scalini del Duomo” perché fino agli anni trenta dell’Ottocento le gradinate si trovavano unicamente sul lato nord della chiesa e sulla parte antistante alla facciata.
Se si prosegue a sinistra è possibile raggiungere il palazzo monumentale della Rinascente, il prestigioso emporio della moda che va sempre più somigliando al londinese Harrods o alle parigine Galeries Lafayette. Potremmo dire che la storia della Rinascente è stata un continuo altalenarsi di alti e bassi, di crisi ed inattese resurrezioni.
La data di nascita risale al 1889, quando i fratelli Ferdinando e Luigi Bocconi costruirono un negozio di abiti per la borghesia milanese in un’area in via Santa Radegonda, una traversa di corso Vittorio Emanuele. Il negozio era intitolato “Alle città d’Italia” ma non era certamente il primo gestito dai due fratelli. I Bocconi erano conosciuti da tempo nel settore commerciale. Originari di Lodi, iniziarono a lavorare a Milano vendendo abiti nelle bancarelle di piazza Sant’Ambrogio. Fecero fortuna in tempi relativamente brevi. Nel 1877 li troviamo già nei pressi della Galleria Vittorio Emanuele, in via Tommaso Grossi: qui costruirono il primo magazzino di stoffe e generi di arredo in un edificio che in precedenza era stato sede dell’Hotel Confortable: lo battezzarono “Aux villes d’Italie”.
Ad alcuni può sembrar strano che i fratelli Bocconi fossero ricorsi al francese per intitolare il loro primo negozio di dimensioni ragguardevoli. In realtà la scelta era a dir poco ambiziosa: essi intendevano rivolgersi a una clientela completamene diversa rispetto ai milanesi che bazzicavano per le bancarelle di Sant’Ambrogio. Il francese era lingua internazionale nell’Europa dell’Ottocento, un po’ come l’inglese ai giorni d’oggi. Eppure, a ben vedere, il francese lasciava trasparire qualcosa di più sottile. Indicava quale fosse il modello cui i fratelli Bocconi ispirarono la loro attività: era stato infatti il francese Aristide Boucicaut (1810-1877) ad aprire a Parigi una prima catena di grandi magazzini. Ma il francese era fatto soprattutto per piacere ai ricchi italiani cosmopoliti.
In un catalogo dell’8 dicembre 1879 preparato dai Bocconi per le vendite a corrispondenza era possibile rendersi conto del vasto assortimento di articoli, a partire dai giocattoli per bambini:
“Nulla di più grandioso e più ricco dell’assortimento dei balocchi e delle chincaglie…tutto quel ben di Dio che la più fervida fantasia di un ragazzino può sognare e che le grandiose fabbriche della Germania, della Francia e della Svizzera in questo genere a sollazzo dell’infanzia umana creano, si trova in gran copia in questa speciale Esposizione. D’altra parte non mancano gli oggetti utili, e tra questi talune confezioni speciali e tagli di abiti per signora, e molti altri articoli d’uso di vera eccezionale convenienza”.
Ai nazionalisti italiani il francese faceva però storcere il naso. Fu così che nel 1880 i Bocconi furono indotti a cambiar nome al negozio, ribattezzandolo “Alle città d’Italia”. I magazzini Bocconi davano lavoro in quegli anni a trecento impiegati divisi in 31 sezioni quante erano le tipologie di merci. Nell’azienda e nello stabilimento di produzione delle stoffe prestavano servizio circa 2000 persone, senza contare le succursali di Torino, Genova, Trieste e Roma. Fu in questo quadro, quando la crescita degli affari divenne esponenziale, che i Bocconi fecero costruire nel 1889 la nuova sede in via Santa Radegonda. Oltre ai reparti delle stoffe e abiti confezionati, i clienti potevano accedere a quelli di biancheria, merceria, giocattoli, mobili e arredamento, profumeria.
Al volgere del nuovo secolo si avvicinò la prima crisi. Alla morte di Ferdinando Bocconi, il figlio Ettore guidò la ditta trovandosi presto in difficoltà per la mancanza di adeguate competenze. Inoltre, i problemi nella gestione di un’impresa le cui dimensioni si erano fatte ormai considerevoli si accrebbero nella crisi in cui versò l’Italia durante la prima guerra mondiale.
Arrivò però la ripresa. Su consenso dei Bocconi venne progettata e realizzata la fusione della ditta con i “Magazzini Vittoria”. Il regista di tale operazione fu Senatore Borletti: industriale brillante e creativo, specializzato nel settore tessile, aveva fondato nel 1917 una ditta di orologi che le necessità della guerra avevano convertito a fabbrica di spolette per proiettili. Arricchitosi enormemente grazie alle commesse belliche, il Borletti poté acquistare senza difficoltà i Magazzini Bocconi: il 27 settembre 1917 fondò “la Rinascente” il cui nome fu un’idea di Gabriele D’Annunzio. Il vate sentenziò dalle vette poetiche della sua ispirazione: “La Rinascente: l’Italia nova impressa in ogni foggia”. Si trattava ora di un vero e proprio centro commerciale. Il 7 dicembre 1918 i grandi magazzini riaprirono in corso Vittorio Emanuele.
Ecco però la seconda crisi, questa volta imprevista: il 25 dicembre di quello stesso anno, in pieno Natale, l’edificio venne distrutto da un incendio. Borletti tuttavia, per nulla piegato da quel duro colpo della sorte, finanziò prontamente la ricostruzione affidando i lavori all’architetto Giovanni Giachi. Il 23 marzo 1921 la Rinascente riaprì le porte in uno stupendo edificio che conferiva alla zona una solenne atmosfera di eleganza e decoro urbano.
I bombardamenti del 1943 segnarono la terza crisi cui seguì per così dire la terza “resurrezione”: quella – si spera per noi milanesi – definitiva. Il 4 dicembre 1950 la Rinascente tornava a rivivere nel palazzo a portici imponenti disegnato dall’architetto Ferdinando Reggiori.
Oggi alla Rinascente respiri un’aria un po’ diversa da quella delle origini. Trovi tanti turisti, donne d’affari, giovani e meno giovani che vanno a caccia di abiti, prodotti di design, articoli di alta moda. C’è anche chi ne approfitta per acquistare prodotti culinari: basta prendere l’ascensore per arrivare velocemente all’ultimo piano ove trovi i grandi marchi della ristorazione “made in Italy”: penso ad Obikà o a De Santis.
E’ assai probabile che non fossero in molti i milanesi dei secoli passati che andavano alla messa di mezzanotte. La funzione religiosa veniva celebrata in poche chiese del centro: il Duomo, San Fedele, l’antica (oggi scomparsa) Santa Maria Segreta.
Nella basilica di Sant’Angelo, un tempo sussidiaria di San Marco nel sestiere di Porta Nuova, venivano addirittura distribuiti bigliettini d’invito per evitare che la chiesa fosse frequentata unicamente da compagnie chiassose di nottambuli, il che la dice lunga sulla scarsa partecipazione dei milanesi alla messa di mezzanotte.
Non dobbiamo pensare tuttavia che si trattasse di scarsa devozione. Occorre tener presente che un tempo gli edifici di culto non venivano riscaldati. Risultava quindi difficile ai milanesi uscire di casa per assistere alla messa immersi nel freddo. I membri delle classi abbienti entravano in chiesa ben coperti da cappotti o pellicce. I meno fortunati assistevano probabilmente alla celebrazione con lo stesso spirito di chi, entrato in un frigidaire, non vede l’ora di uscirne per tornarsene al calduccio in casa propria.
C’erano poi le allegre brigate di amici che, terminata la messa di mezzanotte, si recavano dal Nava in via Bocchetto o dal Bouthou in contrada dei Due Muri (via oggi scomparsa, si trovava pressappoco tra via Mengoni e piazza del Duomo): erano alcuni dei pochi locali che restavano aperti fino a notte fonda. I fedeli, usciti dalle chiese intirizziti dal freddo, non esitavano ad entrare in queste botteghe per ordinare cioccolate calde o quella che è passata alla storia con il nome di “barbaiada”: una bevanda fatta con caffé e cacao che l’impresario teatrale Domenico Barbaja, giunto a Milano nel 1826 dopo aver lavorato per un certo tempo a Napoli, aveva contribuito a far conoscere ai milanesi.
Più complessa la situazione nelle famiglie più ricche. Se le padrone assistevano alla messa di mezzanotte, le domestiche eran costrette a rinunciarvi, impegnate com’erano nella preparazione del pranzo natalizio. La servitù si accontentava della benedizione impartita dai preti. I cuochi preparavano i ravioli fin dal giorno della vigilia, ovviamente sorvegliati dalle padrone di casa che non esitavano a rimproverarli con inviti più o meno cortesi a metterci meno sale, più salsiccia, poco pepe…..
E il panettone? Non si pensi che la sua forma fosse quella di oggi, simile a una sfera o a un cilindro. Il panettone era semisferico e questo spiega molto bene l’origine del complimento che i corteggiatori un po’ disinibiti rivolgevano alle signore mentre ammiravano il loro fondoschiena: “Che bel panetton!”.
Nella Milano ottocentesca il vero panettone era sfornato dal Baj, un pasticciere il cui negozio si trovava sotto la Madonnina, in piazza del Duomo all’angolo di via Santa Radegonda. I panettoni che avanzavano erano ceduti a poco prezzo ai “fregujatt”, i “venditori di briciole” che provvedevano a rivenderli raffermi nei borghi o alle fiere. Perché non tutti avevano la possibilità di mangiare il panettone fresco, appena sfornato.
Auguro agli affezionati lettori di questo blog un sereno Natale.