I nostri giornali son pieni di notizie relative ad omicidi. Il “Foglio” di Giuliano Ferrara, nell’edizione del lunedì, riserva addirittura un’intera colonna ai fatti di cronaca nera, descritti con la stessa cura per il macabro dettaglio che Alfred Hitchcock impiegò nel making del memorabile “Psycho”.
Gli uomini hanno sempre ammazzato per qualche ragione, tolti ovviamente i malati di mente che una ragione presumono di averla ma la capiscono solo loro.
Nella Milano del Settecento gli omicidi per furto erano probabilmente assai diffusi. Altrimenti stentiamo a capire quale altro movente avesse spinto un chierico, Antonio Didino, ad uccidere un anziano religioso di 86 anni, l’ex abate Felice Fedeli. Un delitto particolarmente efferato che suscitò sconcerto per il luogo in cui avvenne e per lo stato della vittima.
Teatro dell’omicidio fu una cella del “venerando monastero” di Santa Maria della Passione nel sestiere di Porta Orientale, oggi sede del conservatorio musicale Giuseppe Verdi. In quei chiostri, a partire dalla fine del XV secolo, vivevano i canonici regolari lateranensi di Sant’Agostino, un ordine religioso cui si doveva la costruzione della chiesa e dell’abbazia.
Veniamo ai fatti. Il 22 maggio 1745 il Fedeli, che era stato abate nel monastero della Passione, venne ucciso nella sua cella con venti coltellate di cui quattro mortali. L’assassino doveva conoscere assai bene la vittima perché, in caso contrario, non sarebbe entrato nella stanza ove compì l’omicidio.
Il cronista milanese Giambattista Borrani ci ha lasciato nel suo diario un prezioso resoconto di questa vicenda. Nella Milano del primo Settecento, ancora legata ai valori religiosi della riforma cattolica tridentina, esso aveva destato particolare scalpore:
“…nello stesso giorno seguì un caso veramente orribile. Entrò nel Venerando Monastero di Santa Maria della Passione dei Canonici Regolari Lateranensi una persona incognita in abito chericale, chiedendo conto del Reverendissimo Padre Abbate Felice Fedeli, altre volte Abbate di quel Monastero, che era nell’età d’anni 86, doppo d’avergli parlato entrò in sua cella insieme con esso lui; e poi uscì dalla Porta del Monastero mangiando alcuni confetti, dicendo essergli stati donati dal detto Padre Abbate. Ma entrando poi alcuni Religiosi nella Cella lo trovaron morto sul pavimento, medianti 20 ferite con coltello di punta acuta, 4 delle quali mortali. Un tal sacrilego, proditorio, ed atroce omicidio commosse la Città tutta”.
[Diario di Giambattista Borrani, anno 1745, Biblioteca Ambrosiana, Fondo Sussidio n.6]
Partì la caccia all’assassino. Il portinaio del monastero, che aveva visto il misterioso malvivente, aiutò le autorità a perlustrare le vie cittadine. Tali sforzi non furono vani. Ben presto il portinaio riconobbe infatti l’omicida davanti a un negozio nella contrada dei Visconti. Si trattava per l’appunto di Antonio Didino, figlio di un falegname specializzato in sgabelli di legno (i famosi scagn milanesi).
Varrà la pena ricordare che la contrada dei Visconti, scomparsa negli anni Sessanta del XIX secolo in seguito all’ingrandimento di piazza del Duomo, si trovava all’incirca nella zona di piazza Diaz, tra le attuali vie Rastrelli e Baracchini: essa collegava l’antica via Dogana (anch’essa distrutta in seguito al citato ampliamento della piazza) con la contrada del Pesce (oggi via Paolo da Cannobio).
Quando il portinaio riconobbe l’assassino, il gendarme cercò di arrestarlo ma il chierico riuscì a fuggire. Il cronista Borrani ci racconta che il Didino si rifugiò in casa dei familiari, che abitavano nella contrada di Santa Margherita. Stando alla nostra fonte, gli amici e i parenti del chierico, appreso quanto era avvenuto, gli suggerirono di consegnarsi all’autorità vescovile per dimostrare l’infondatezza della accuse. Il Didino seguì il consiglio ma dovette ben presto pentirsi della scelta: in seguito ad alcune contraddizioni contenute nella deposizione al giudice ecclesiastico, posto sotto i tormenti della tortura, fu costretto a confessare il delitto:
Annotava il Borrani il 16 dicembre:
“Si passò poi a fare gli esami e per certe contradizioni nelle risposte si formò sospetto di sua complicità; quindi con evidenti prove convinto, e costretto dai tormenti confessò il delitto, cioè che nel detto giorno 22 maggio rubbò al Padre Abbate Fedeli una Cappa, ed altre cose del valore di filippi 23.10; che fece perquisizione per rubbargli altri denari; e che commise il barbaro omicidio con 20 ferite, repplicandogli due colpi con peggiore sevizia doppo caduto quasi morto sul pavimento”.
Il processo terminò in dicembre: la sentenza stabilì la colpevolezza del Didino che, dopo essere stato privato degli ordini religiosi, veniva consegnato dall’arcivescovo al braccio secolare (vale a dire alle autorità dello Stato di Milano).
Il 16 dicembre arrivò la sentenza del Senato, la suprema magistratura giuridico amministrativa dello Stato. Il Didino fu condannato “ad essere condotto il dì 18 [due giorni dopo quindi] sovra Carro allo Stradone che conduce al Monastero della Passione con tre colpi di tenaglia rovente sulle spalle ed ivi appiccato sovra una Forca più alta della solita”.
L’instabilità politica seguita al repentino mutamento di regime nello Stato di Milano sembrò tuttavia portare fortuna all’ex chierico. Dal 1740 il ducato di Milano, dominio degli Asburgo di Vienna, era infatti coinvolto nella guerra di successione austriaca: com’è noto, il conflitto scoppiò perché i sovrani di Prussia, Spagna, Francia, Baviera e Sassonia non avevano riconosciuto la successione al trono imperiale della giovane Maria Teresa di Asburgo.
L’intervento dell’Inghilterra, la progressiva divisione degli avversari, l’alleanza con il re di Sardegna Carlo Emanuele III e l’aiuto dei fedeli sudditi della “nazione ungherese” furono però decisivi nel salvare i domini di casa d’Austria da una disgregazione che sembrava inevitabile. Maria Teresa ne uscì vittoriosa: la giovane imperatrice firmò la pace di Aquisgrana il 18 novembre 1748 ma dovette rinunciare alla ricca regione della Slesia, passata definitivamente alla Prussia di Federico II. Inoltre il ducato di Milano, che aveva già subito rilevanti amputazioni a vantaggio del Piemonte, fu ulteriormente ridotto in seguito alla cessione a Carlo Emanuele III dell’Alto Novarese, di Vigevano e del territorio di Voghera.
Negli anni della guerra Milano venne conquistata dalle truppe nemiche. L’esercito gallo ispano entrò in città il 16 dicembre 1745, nello stesso giorno in cui il Senato pubblicava la citata sentenza di condanna capitale nei confronti del Didino. Per circa tre mesi, dalla fine di dicembre alla metà di marzo del 1746, la città del Duomo fu quindi governata dal re di Spagna Filippo V di Borbone.
Tornando all’omicidio avvenuto nei chiostri della Passione, il nuovo Sovrano era intenzionato a confermare la condanna capitale ma una ristretta cerchia di persone, animate da sentimenti di filantropia, chiese alle autorità di salvare la vita al condannato. Spiccava in questo gruppo la nobildonna Clelia Borromeo, che dimostrò di avere a cuore la difesa dei diritti umani anticipando di quasi vent’anni i celebri illuministi milanesi Cesare Beccaria e Pietro Verri.
Il re di Spagna, nonostante fosse personalmente favorevole alla pena di morte, accolse l’appello della Borromeo, che godeva di enorme credito a Milano. Non sarà fuori luogo ricordare in proposito che il suo salotto culturale, l’Academia Cloelia Vigilantium, frequentato da illustri studiosi di fama europea, contribuì grandemente al progresso delle scienze e delle lettere.
La sentenza capitale fu quindi abolita e la condanna fu tramutata in carcere a vita.
Scriveva il Borrani:
“Nel detto giorno 18 [dicembre], in cui doveva eseguirsi la giustizia col detto chierico Didino, considerando l’Eccellentissimo Senato che la condanna era seguita nella mattina del giorno 16 sotto il governo della nostra sovrana Maria Teresa, e che essendo qui giunte nel dopo pranso dello stesso giorno le Truppe della Spagna, non potevasi eseguire la sentenza senza l’approvazione del Real Principe, commandò che la sentenza fosse sospesa; onde il povero condannato fu trattenuto ancora in Conforteria sin tanto che qui arrivasse il detto Real Principe”.
“A 20 fu esposto al Real Principe il detto caso del Chierico Didino, colla sentenza già pronunziata dal Senato, ma poi prorogata, e nello stesso tempo fu pregato a render giocondo il suo arrivo coll’accordare la grazia della vita al povero condannato, ma egli vedendo essere stato troppo barbaro il fatto non volle acconsentire, onde nel dì 21 doveva essere eseguita la sentenza”.
“Ma repplicatesi nel dì 21 le preghiere, particolarmente di Monsignor Gallarati vescovo di Lodi e della Signora Contessa D. Clelia Borromea, si arrese il Principe ad accordare la grazia della vita, colla pena però di prigionia perpetua; onde doppo di esser stato il povero chierico trattenuto in Conforteria quasi 6 giorni, fu levato dalla medesima, e condannato al perpetuo carcere”.
Sembrava che il Didino fosse destinato a trascorrere il resto della vita nelle regie carceri che si trovavano nel palazzo del capitano di giustizia in Porta Orientale. Oggi l’edificio, che si affaccia su piazza Fontana, è sede della polizia municipale.
Il destino riservava tuttavia una fine ben diversa all’ex chierico milanese.
Il 16 marzo 1746 gli austriaci tornarono in possesso del ducato di Milano. Alcuni mesi dopo la sentenza di condanna a morte fu resa esecutiva. Il piccolo gruppo di personalità che avevano chiesto di risparmiare la vita al condannato era pressoché scomparso. La Borromeo, appartenente a quella parte della nobiltà che si era maggiormente compromessa per aver collaborato con il cessato regime spagnolo, dovette fuggire da Milano e stabilirsi nella repubblica di San Marco.
Nulla più si opponeva all’esecuzione della condanna a morte del Didino. Maria Teresa confermò rigorosamente la sentenza del Senato. Il primo settembre l’ex chierico, dopo essere stato orrendamente torturato come era prassi per i rei di omicidio appartenenti al popolo, fu impiccato sopra un carro posto a pochi metri dal luogo ove era avvenuto il truce omicidio.
Un gran numero di cittadini aveva assistito all’evento, mosso da un sentimento di palese soddisfazione per l’esecuzione della condanna. Come sembravano lasciar trasparire le annotazioni del Borrani, la sentenza del Senato costituiva, nella percezione popolare, il segno della giustizia divina. Il motto “Senatus iudicat tamquam Deus”, con cui si era soliti definire l’attività del Senato, lungi dall’essere un’astratta formula giuridica, riassumeva assai bene le fede dei milanesi nell’operato della suprema istituzione del ducato.
Lasciamo per l’ultima volta la parola al Borrani:
“A 1 [settembre] fu giustiziato il Cherico Antonio Didino …siccome però le grazie fatte dai Spagnuoli nel tempo dell’occupazione di questo Stato furon dichiarate invalide…così l’eccellentissimo Senato per ordine particolare della Corte di Vienna esaminò di nuovo la causa del detto Didino, e a 30 dello scorso mese decise exequendam esse primam sententiam. Onde fu posto di nuovo in Conforteria, e nel detto giorno 1 fu condotto sovra Carro con 3 colpi di tenaglia allo Stradone della Passione, ed ivi sovra d’una forca più alta della solita fu impiccato”.
“Il concorso di persone d’ogni condizione, e sesso in quelle contrade, che dalle carceri conducono al detto Stradone fu indicibile, ammirando tutti la Divina Providenza, e le cose dalla medesima disposte per voler punito un sì grave delitto”.
Meno di vent’anni dopo il giovane Pietro Verri, pronunciando un audace discorso dinanzi al sodalizio dell’accademia dei Pugni, avrebbe mosso le prime serrate critiche alla giurisprudenza del Senato:
“Oh gran Senato che non giudica come i Senati, bensì come Dio, Senatus judicat tamquam Deus, cioè tamquam Deus non dando mai ragione delle proprie sentenze; poiché se desse ragione gliene resterebbe tanto meno per lui e non è mai soverchia la ragione in un Tribunale di Giustizia; judicat tamquam Deus ad imitazione dei giudizii di Dio col fuoco, coll’acqua, col duello e coi dadi, quali come c’insegnano le storia chiamavansi pure Judicia Dei”.
[P. Verri, Orazione panegirica sulla Giurisprudenza milanese, 1763]
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