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La “seconda antenata di Expo”: l’Esposizione del 1906

Come anticipato nell’articolo precedente, dedico questo breve intervento a quella che possiamo considerare la seconda antenata di Expo: l’Esposizione Internazionale del 1906.

Qual era la situazione di Milano al principio del Novecento? In fondo, il periodo compreso tra l’Esposizione del 1881 e quella del 1906 fu caratterizzato da un profondo mutamento urbanistico; tale mutamento investì i quartieri del centro, abbandonati progressivamente dalle classi popolari per divenire spazi esclusivi ove operavano le maggiori istituzioni finanziarie e civili del paese. Inoltre, in questo periodo il centro divenne residenza di una ricca borghesia industriale che subentrò in molti casi alla nobiltà cittadina nella proprietà di palazzi prestigiosi a due passi dal Duomo.

Il mutamento più significativo investì però il complesso della popolazione milanese. Nel giro di quarant’anni la città raddoppiò gli abitanti: nel 1861 Milano contava 242.869 cittadini, nel 1901 erano divenuti 491.460. Nuovi quartieri sorsero a fine Ottocento. Intere zone vennero ridisegnate. In una città che andava lentamente trasformandosi nella metropoli moderna che noi conosciamo, l’Esposizione del 1906 ebbe un significato cruciale, collegandosi al tema del progresso nel campo dei trasporti. Non fu un caso se l’evento venne allestito in concomitanza con l’apertura del traforo del Sempione, avvenuta il primo giugno di quell’anno.

Esposizione 1906 ticketL’Esposizione, tenutasi dal 28 aprile all’11 novembre, si collega assai bene con Expo 2015 per il suo carattere internazionale: vi parteciparono 40 Paesi, i cui padiglioni vennero sistemati in due zone corrispondenti pressappoco all’attuale parco Sempione e all’ex piazza d’armi ove, a partire dal 1923, sarebbe stata costituita la Fiera. Una ferrovia sopraelevata consentiva il libero accesso dei visitatori alle due aree. Il sito si estendeva su una superficie di un milione di metri quadrati. I padiglioni furono 225. I visitatori raggiunsero la soglia dei 5 milioni e mezzo.

Se guardiamo al principio guida che ispirò gli organizzatori, ravvisiamo però una differenza rispetto all’Esposizione del 1881. Più che una rassegna dei prodotti più avanzati nel campo dell’industria, l’esposizione novecentesca rivelò un’attenzione alle ricadute sociali del moderno lavoro di fabbrica. Il benessere e la sicurezza dei lavoratori erano in quegli anni un tema centrale delle politiche condotte dai governi europei.

Galleria del Lavoro
Il Padiglione “Galleria del lavoro” all’Esposizione del 1906 da www.lombardiabeniculturali.it

Del tutto indicativo, a tal proposito, il padiglione “Galleria del Lavoro” ove era possibile assistere al “lavoro in azione”, come ricordavano i documenti dell’epoca. La condizione degli operai italiani era migliorata rispetto a fine Ottocento. Gli storici hanno dimostrato che tra il 1901 e il 1913 i salari erano cresciuti del 26%, mentre il reddito era aumentato del 17%. Un operaio specializzato poteva guadagnare fino a 5 lire giornaliere. In un giornale del 1912 si leggeva: “L’operaio moderno non è più quello di un tempo poiché ama le proprie comodità, non abita più in un tugurio indecente, veste più pulito, ha la bicicletta, compera il giornale”. Si trattava di una rivista pubblicata dall’associazione dei tipografi, che a quel tempo erano gli operai meglio pagati della città. La situazione descritta nel giornale era fin troppo ottimistica e non valeva certamente per la maggioranza dei lavoratori che versavano in estrema povertà. Come testimoniavano le inchieste della Società Umanitaria, gli operai non potevano contare su un’alimentazione adeguata ai ritmi di lavoro. Persone che lavoravano dieci ore al giorno mangiavano cibo carente di proteine e non potevano permettersi il consumo di carne.

Senatore Giovanni Silvestri festeggia vittoria alle Mille Miglia
Il Senatore Giovanni Silvestri (al centro)  festeggia con piloti e meccanici la vittoria della sua O.M. alla prima Mille Miglia del 1927

Tornando all’Esposizione del 1906, il contributo degli industriali milanesi fu notevole. Nel Comitato organizzativo troviamo ad esempio Giovanni Silvestri (1858-1940). Il padre aveva assunto un ruolo di primo piano alla Comi Grandoni e C, poi divenuta Miani e Silvestri. Giovanni proseguì l’attività paterna: presidente del Consiglio di amministrazione, rivestì tale carica anche negli anni successivi, quando l’azienda si trasformò nelle celebri “Officine Meccaniche” (O.M.) i cui stabilimenti, situati fuori Porta Vigentina, erano attivi nel comparto ferroviario producendo carrozze, vagoni, locomotive, rotaie. Inoltre la fabbrica O.M. si fece conoscere per aver realizzato i primi esemplari di automobile, un’attività che le avrebbe procurato una certa fama nei primi decenni del Novecento.

Ettore Ponti (1855-1919)
Ettore Ponti (1855-1919)

Un’altra personalità che fece di tutto per assicurare il successo all’Esposizione del 1906 fu il sindaco Ettore Ponti, figlio dell’industriale tessile Andrea, titolare del Canapificio e Linificio Nazionale. Uomo moderato, colto, di specchiata onestà, animato da un sentimento di sincero amore per la cittadinanza, Ponti preparò con cura l’evento lavorando attentamente alla disposizione dei padiglioni. Questo sindaco liberale va ricordato per tante altre opere a sostegno di Milano. A lui dobbiamo il primo piano regolatore elaborato in funzione di una metropoli quale Milano si avviava a divenire. Il sindaco fondò un ente per la costruzione delle case popolari affinché i tanti cittadini giunti a Milano per ragioni di lavoro potessero trovare una sistemazione nel territorio del comune; Ponti realizzò per primo la pavimentazione delle strade utilizzando il catrame per la copertura dei marciapiedi; costituì l’Azienda elettrica municipale (AEM) perché le case dei milanesi potessero essere illuminate in linea con gli standard più avanzati all’epoca. Introdusse i taxi a Milano, fondò la Biblioteca Civica. Nel corso di un ricevimento organizzato nella sua casa di via Bigli, il Ponti venne insignito del titolo di “marchese” dal re Vittorio Emanuele III, che volle in tal modo premiare l’impegno straordinario profuso dal sindaco nell’allestimento dell’Esposizione internazionale.

La prima ‘antenata’ di Expo 2015: l’Esposizione del 1881

Dal primo maggio al 21 ottobre 2015 si terrà a Milano l’Esposizione Universale dedicata al tema dell’alimentazione e della nutrizione. I paesi che prenderanno parte a questo evento avranno il compito di mostrare come intenderanno far fronte nei prossimi anni al problema dell’alimentazione mediante una gestione del territorio che sia sostenibile per le generazioni future. L’area in cui avrà luogo l’esposizione, larga 1,1 milioni di metri quadrati, si trova a Nord di Milano. E’ prevista un’affluenza di venti milioni di visitatori.

La struttura del sito dell’esposizione riflette l’antica conformazione delle città romane. La via più lunga, il Decumano, si sviluppa in direzione est-ovest per una lunghezza pari a un chilometro e mezzo: attorno ad essa si troveranno i padiglioni dei 130 Paesi che parteciperanno ad Expo. Nelle intenzioni dei promotori, tale asse viario dovrebbe congiungere idealmente il luogo della produzione di cibo (la campagna) con quello della sua consumazione (la città). Sul Cardo, che ha una lunghezza di 350 metri in direzione Nord-Sud, saranno disposti invece i padiglioni del paese ospitante: l’Italia. A nord sorgeranno strutture tese a rappresentare i diversi territori della penisola, a sud si troveranno le aziende del Made in Italy, che hanno saputo rispondere al tema dell’alimentazione e della sostenibilità assicurando ai loro prodotti livelli di eccellenza.

Non è la prima volta che Milano è sede di una Esposizione, anche se questa volta si tratta di un evento allestito per così dire alle porte della città. Il Comune ambrosiano ha vissuto in passato due esposizioni che hanno segnato profondamente la sua storia e che possono ragionevolmente essere avvicinate ad Expo 2015.

In questo post accennerò all’Esposizione Industriale del 1881 perché si lega assai bene al tema delle imprese Made in Italy.  Per ragioni di spazio, dedicherò invece a un altro intervento il tema dell’Esposizione Internazionale del 1906….quindi per dirla all’inglese…stay tuned!!! 

Diversamente da Expo, l’Esposizione del 1881 era ristretta all’Italia. Finanziata dalla Camera di Commercio di Milano, essa mostrò ai cittadini quali fossero i progressi dell’industria nazionale a vent’anni dall’Unità. Un milione e mezzo di visitatori accorsero all’Esposizione, i cui padiglioni furono allestiti nei giardini di Porta Venezia, nell’attuale via Marina e nella villa reale di via Palestro. Ho detto che si trattava di un’iniziativa a carattere nazionale. Essa coinvolse un numero cospicuo di imprese milanesi e lombarde, la cui presenza sul totale degli espositori era pari al 40%.

Notevole per quell’epoca il livello tecnologico raggiunto dai grandi cotonifici: la Cantoni (420 telai), la Crespi (200) e la ditta dei fratelli Borghi (300) mostrarono i progressi nell’integrazione tra filatura e tessitura in una struttura che aveva interamente meccanizzato le fasi di produzione. Inoltre si facevano notare aziende che, quantunque avessero dimensioni più contenute, lasciavano intuire già in quegli anni i futuri sviluppi di eccellenza: i Legler di Ponte San Pietro, i Krumm di Carate Brianza, i Caprotti di Ponte Albiate, i Turati e i Dell’Acqua di Milano che avevano stabilimenti a Busto Arsizio e a Legnano.

Ma a colpire i visitatori furono soprattutto i padiglioni del settore meccanico, ove per la prima volta facevano bella figura macchinari Made in Italy. Tra le aziende presenti c’era ad esempio la Cerimedo (che di lì a poco avrebbe dato i natali alla Breda) specializzata nella produzione di motrici per tram; la Grondona attiva nel comparto delle carrozze e vagoni ferroviari; la Krumm e C. di Legnano che nel dicembre di quell’anno avrebbe mutato la denominazione in Franco Tosi: attiva nella produzione di macchine tessili, tale azienda si andava specializzando nelle motrici e nelle caldaie a vapore.

Il livello tecnologico conseguito dall’industria nazionale dovette colpire notevolmente il milione e mezzo di visitatori accorsi a Milano dal 6 maggio al primo novembre del 1881. Anche gli stranieri non fecero mancare la loro presenza, incuriositi da una iniziativa che consentiva loro di toccare con mano il progresso dell’industria italiana. Un giornalista tedesco del “Berliner Tageblatt”, giunto a Milano per assistere all’evento, non poté trattenere l’entusiasmo per la buona riuscita dell’Esposizione. Nella sezione Mailander Austellungsbriefe scrisse:

“Se Cavour vedesse oggi Milano egli si darebbe una di quelle storiche fregatine di mano che indicavano qualche successo italiano, e direbbe: l’Italia che fu chiamata per lungo tempo terra dei morti, oggi mostra che è il paese dei vivi. L’Esposizione è un’opera imponente, compiuta dall’orgoglio coraggioso e dall’audace spirito d’iniziativa dei cittadini milanesi. Essi possono anche questa volta dire, francamente, che la loro città ha diritto di chiamarsi la capitale morale d’Italia”.

Due associazioni d’élite nella Milano della Restaurazione

Nell’articolo precedente abbiamo visto come nella Milano di fine Ottocento il fenomeno delle associazioni avesse assunto una dimensione ragguardevole grazie alla libertà di riunione garantita dallo Statuto Albertino. Abbiamo anche notato come quelle associazioni fossero in larga parte una realtà borghese o piccolo borghese.

Ingresso di Francesco I nel 1825 da Porta Orientale
Ingresso dell’imperatore d’Austria Francesco I da Porta Orientale, 1825. Fonte: Wikipedia.

La situazione era completamente diversa nella Milano della Restaurazione, quando la città a partire dal maggio 1814 tornò sotto il dominio dell’impero asburgico. Non dobbiamo pensare che l’Austria avesse soffocato d’improvviso lo spirito associativo lombardo. Esso giaceva in uno stato di “mortale languore” già negli anni della repubblica italiana e del regno d’Italia napoleonico (1802-1814) quando lo Stato, retto su una Costituzione autoritaria, aveva sottoposto a rigida tutela il mondo delle società. Difatti, il decreto 130 emanato il 27 dicembre 1802 dal ministro dell’interno vincolava all’autorizzazione del governo qualsiasi tipo di associazione: ottenere il permesso non era semplice giacché occorreva trasmettere allo Stato “il piano dell’associazione colla specificazione degli oggetti e regolamenti rispettivi”. Il decreto stabiliva poi che un “delegato di polizia” avrebbe avuto accesso alle riunioni affinché le autorità potessero sorvegliare l’attività del sodalizio. Ho citato il decreto del 1802 perché esso regolò il mondo delle associazioni milanesi sostanzialmente fino all’Unità d’Italia. L’Austria non apportò cambiamenti. Si limitò a confermare il dettato della normativa esistente. Nulla di cui stupirci: l’impero asburgico era una monarchia il cui regime autoritario era pari a quello napoleonico, sia pure mitigato da alcuni istituti di autogoverno comunale e di rappresentanza corporativa che il Sovrano aveva graziosamente concesso al Lombardo Veneto.

Ma quante erano le associazioni nella Milano della Restaurazione, negli anni immediatamente seguenti alla caduta di Napoleone (1815-1821)? Assai poche. Basterebbero le dita di una mano per contarle tutte. Esse interessavano una ristretta élite composta di aristocratici e di personalità appartenenti all’alta borghesia cittadina. Ci soffermeremo sulle due più importanti, il Casino dei Nobili e la Società del Giardino.

Palazzo Talenti Fiorenza in via Verdi 6
Palazzo Talenti Fiorenza in via Verdi 6  da www.lombardiabeniculturali.it

Il Casino dei Nobili si trovava nel palazzo Talenti Fiorenza nella contrada di San Giuseppe al civico 1602 (oggi via Verdi 6), a due passi dal Teatro alla Scala. Sorto nel 1800, il sodalizio nasceva per riunire la nobiltà in un luogo esclusivo di ricreazione. Il che lascerebbe presupporre che l’unica condizione per farvi parte fosse la nobiltà di sangue. In realtà le cose non stavano esattamente così. Difatti per accedervi occorreva disporre dell’Hofzutritt, vale a dire dell’accesso alla corte imperiale. Non tutti i nobili potevano godere di questo privilegio. V’era poi un altro requisito: le persone di sangue blu dovevano disporre di un notevole patrimonio per pagare le quote associative, piuttosto alte. Se il richiedente non era in grado di pagare, non era ammesso. Si trattava di un criterio censitario che, a ben vedere, non aveva nulla da spartire con le logiche corporative della società d’ancien régime: logiche in base alle quali un individuo non contava per la sua ricchezza o per la capacità di produrre beni materiali, ma godeva dei diritti legati alla funzione che il suo ceto di appartenenza rivestiva nella società. La Rivoluzione francese aveva segnato il crollo di quel mondo e, nonostante le apparenze, i nobili che avevano aderito al Casino mostrarono di accettare il nuovo principio della società civile a matrice individualistica. Dando vita a questa società sul modello della società per azioni, essi accolsero la logica – tutta borghese – del diritto a godere di un servizio per il quale una persona, agendo di sua libera iniziativa, aveva scelto di pagare versando una quota in denaro.

Palazzo Spinola, Sala d'Oro
Palazzo Spinola in via San Paolo 10, Sala d’Oro.

Diversamente dai nobili, il cui casino si era eclissato già negli anni Cinquanta dell’Ottocento, la Società del Giardino esiste ancora oggi. Si tratta del sodalizio più antico di Milano, la cui fondazione risale agli anni Ottanta del XVIII secolo. A farne parte erano i più alti esponenti della borghesia del commercio e delle professioni. Nel periodo che ci interessa esso attraversava una stagione di splendore: l’acquisto nel 1818 del palazzo Spinola in contrada San Paolo al civico 935 (oggi via San Paolo 10) conferì alla Società del Giardino una certa fama. Vi si tenevano riunioni culturali, ma anche concerti alla presenza di star dell’epoca quali Giuseppina Grassini e Giuditta Pasta. Anche in questo caso si trattava però di una società d’élite. Ce lo indicano le elevate quote di associazione.

In una città popolata da 120.000 abitanti, il fenomeno associativo riguardava alcune centinaia di persone, pari allo 0,5% dei milanesi. Qualcuno potrebbe chiedersi cosa spingesse questi ricchi esponenti del notabilato a riunirsi in tali società. Era così importante ritrovarsi in un locale per giocare a biliardo, fumare sigari, assistere a lezioni di cultura, ascoltare la voce di cantanti famose oppure questi tranquilli sodalizi nascondevano una finalità politica? La domanda non è affatto fuori luogo perché in Inghilterra e in Germania molte associazioni di questo tipo preoccupavano le autorità per le attività cospirative che vi si conducevano.

Tranquilli: nulla di cui preoccuparsi per i sodalizi milanesi, sorti – sembrerebbe di poter dire – con il solo obiettivo di passare il tempo in allegria. Ce lo assicura un funzionario della polizia austriaca, Anton Raab,in una relazione al governatore della Lombardia Franz Saurau risalente al 1817:

“I casini italiani sono cose diverse dai circoli tedeschi o inglesi, che sono in realtà riunioni politiche, pericolose e tumultuose. In Italia non è d’uso ricevere in casa la sera in grande stile, né esiste una socialità familiare allargata. Per questo vengono istituiti i casini; per divertirsi la sera senza vincoli. Nei casini si scherza, si gioca, talvolta si fuma, e ci si intrattiene come meglio si crede. I casini sono luoghi d’espressione della voglia di scherzare, così tipica del carattere degli italiani”.

La Società Svizzera: astro dell’associazionismo milanese di fine ‘800

Negli anni Ottanta del XIX secolo Milano vide il fiorire di molte associazioni attive nel campo della cultura, dello sport, della scienza. Questo fenomeno fu dovuto sostanzialmente a due ragioni. La prima si legava alla libertà di associazione garantita dall’articolo 32 dello Statuto Albertino, la Costituzione del Regno d’Italia sabaudo estesa alla Lombardia nel 1859: esso riconosceva il diritto di riunione in luoghi chiusi anche se questo era vincolato alla preventiva autorizzazione del governo. I milanesi poterono disporre in tal modo di un margine di libertà che trent’anni prima, sotto il dominio austriaco, sarebbe stato inimmaginabile.

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Apertura della ferrovia del San Gottardo (23 maggio 1882) da “Centotrentanni della Società Svizzera di Milano”, a cura di Renata Broggini, Jean Pierre Hardegger, Marino Viganò, Hoepli-Seb editrice 2013

L’aumento del fenomeno associativo era dovuto in secondo luogo al proliferare di una classe piccolo borghese bisognosa di spazi in cui condividere i propri hobby. A ben vedere, la formazione di società di questo tipo non riguardava solo i milanesi ma anche i tanti stranieri che, stabiliti a Milano per ragioni di lavoro, desideravano ritrovarsi nel tempo libero e condividere l’amore per la patria lontana. La Società Svizzera di Milano costituiva a tal proposito un caso emblematico. Fondata il 15 dicembre 1883, riuniva al suo interno le associazioni elvetiche esistenti in città. La data di nascita non fu casuale: il sodalizio nasceva infatti per aiutare i cittadini della Confederazione che, in seguito all’apertura della linea ferroviaria del San Gottardo (1882), giungevano numerosi a Milano dai cantoni di lingua tedesca in cerca di lavoro.

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Il volume pubblicato dalla Società Svizzera di Milano

L’anno scorso la Società Svizzera ha pubblicato un bel volume per festeggiare i 130 anni della sua attività. Il libro, Centotrentanni della Società Svizzera di Milano 1883-2013 (curato da Renata Broggini, Jean Pierre Hardegger e Marino Viganò, Hoepli-Seb Editrice 2013) prende in esame la storia del sodalizio mediante il ricorso ai preziosi documenti conservati dalla Società.

Ulrico Hoepli
Ulrico Hoepli

Tra i primi soci troviamo i nomi di tante personalità che diedero lustro a Milano. E’ il caso soprattutto di Ulrico Hoepli, presidente della Società Svizzera dal 1886 al 1889, fondatore della celebre libreria oggi in piazzale Meda. Originario del villaggio di Tuttwill (nel cantone di Turgovia), giunse a Milano all’età di 23 anni. Fissata la prima attività nel campo editoriale in Galleria De Cristoforis, Hoepli divenne famoso per aver fondato l’omonima casa editrice che pubblicò una fortunata serie di manuali nei più svariati campi delle scienze e delle arti.

Fu Hoepli a trovare i primi locali alla Società Svizzera: quattro stanze prese in affitto in via Silvio Pellico 6 con vista su piazza del Duomo. Qui il sodalizio tenne le riunioni dal 1886 al 1914, quando l’aumento dei soci rese necessario l’acquisto di una casa in via Disciplini 11, nel sestiere di Porta Ticinese. Il trasferimento nel nuovo stabile fu però contrastato. Oggi via Disciplini è una tranquilla strada del centro la cui importanza si collega al suo tracciato peculiare: assieme alla parallela via Cornaggia, essa infatti mostra tuttora alcuni ruderi delle antiche mura romane. La situazione era ben diversa nei primi anni del Novecento: l’isolato faceva discutere perché di fronte all’edificio acquistato dalla Società Svizzera si trovava una casa di tolleranza la cui fama non era certo legata a iniziative nel campo dello sport o della cultura. La decisione di trasferirsi in quella via provocò quindi un certo disaccordo tra i membri del sodalizio, sollevando polemiche che culminarono nell’abbandono di 30 soci. La Società Svizzera seppe tuttavia guadagnarsi nel tempo la simpatia dei milanesi, dando vita a tante iniziative che contribuirono a migliorare le condizioni dell’isolato.

La bandiera del "Mannerchor", 1887 da "Centrotrentanni della Società Svizzera di Milano"
La bandiera del “Mannerchor”, 1887 da “Centrotrentanni della Società Svizzera di Milano”

Negli anni Venti e Trenta la Società Svizzera era formata dalle Sezioni più antiche: il gruppo dello Schweizer Gesangverein (esistente dal 1869) riuniva i cultori dei canti patriottici immersi nell’atmosfera romantica di Friedrich Schiller e Wilhelm Tell. Gli appassionati del gioco dei birilli o Kegelspiel (dal 1875) contribuirono a far conoscere ai milanesi uno sport tipico della Svizzera che può essere considerato – nonostante alcune differenze nel regolamento di gioco – l’antenato del bowling britannico. V’era poi la Sezione Ginnasti (1874) che riuniva giovani sportivi legati in amicizia con la milanese “Forza e Coraggio”. La sezione Tiratori (1889) consentì di mantenere vivo a Milano l’amore per un altro sport di origine svizzera. Nel 1914 venne costituita la Sezione Signore su iniziativa di Sophie Vonwiller: nata poco dopo lo scoppio della Grande Guerra, questa sezione procurò il vestiario ai soldati in partenza per il fronte.

La Società Svizzera ebbe sede in via Disciplini fino alla seconda guerra mondiale, quando i bombardamenti spinsero il sodalizio a cercare un altro edificio. Nel 1951, grazie al sostegno della Confederazione, venne inaugurata la parte bassa dell’attuale sede in piazza Cavour. Si tratta di un complesso imponente, costruito dagli architetti Armin Meili di Zurigo (1892-1981) e Giovanni Romano (1905-1990) per ospitare le istituzioni elvetiche: oltre alla Società Svizzera, vi hanno sede oggi il Consolato generale, la Camera di Commercio e l’Ufficio nazionale svizzero del turismo. Nel 1952 venne ultimata la torre tra piazza Cavour e via del Vecchio Politecnico: un edificio di 20 piani, alto 78 metri, che costituiva a quell’epoca il più alto grattacielo di Milano.

Padre Gemelli e le finalità dell’Università Cattolica

Riprendiamo la storia dei chiostri di Sant’Ambrogio. Cominciamo da una data precisa: il 30 ottobre 1932. In quel giorno l’antico monastero divenne sede dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. In realtà, l’ateneo esisteva già da alcuni anni: la data di nascita risale al 7 dicembre 1921.

Padre Gemelli, Olgiati, Necchi
Monsignor Francesco Olgiati, padre Agostino Gemelli, Ludovico Necchi in una foto del 1919. Foto Masha Sirago

La fondazione dell’Università Cattolica fu dovuta all’incrollabile forza di volontà del francescano Agostino Gemelli (al secolo Edoardo, 1878-1959). Un vivace gruppo di intellettuali cattolici lo aiutò nella realizzazione di questa impresa: monsignor Francesco Olgiati, Armida Barelli, Ludovico Necchi, il conte Ernesto Lombardo.

Padre Agostino Gemelli in una foto dei primi anni del Novecento. Da http://stelleincielofratellosolesorellaluna.blogspot.it/2013/05/padre-agostino-gemelli-ofm-fondatore.html
Padre Agostino Gemelli in una foto dei primi anni del Novecento. Da http://stelleincielofratellosolesorellaluna.blogspot.it/2013/05/padre-agostino-gemelli-ofm-fondatore.html

I chiostri di Sant’Ambrogio erano familiari da tempo al fondatore. Qui Edoardo aveva passato una parte della giovinezza. Nel 1902, appena laureato in medicina, vi trascorse il periodo del servizio militare con l’incarico di curare i soldati rimasti gravemente feriti. In quei cortili Gemelli, che si era allontanato dalla pratica religiosa fin dagli anni del liceo, sentì rinascere la fede grazie ad alcuni amici e all’incontro con i francescani dediti alla cura dei malati. L’anno dopo giunse – improvvisa – la vocazione religiosa: Edoardo entrò nell’ordine di San Francesco alla fine del 1903 nonostante la forte contrarietà dei genitori, i quali non esitarono a sostenere una campagna giornalistica per evitare che il figlio entrasse in convento.

Torniamo all’Università Cattolica. Quali furono le ragioni che spinsero padre Gemelli e i suoi collaboratori a fondarla nel 1921? Possiamo affermare anzitutto che la situazione dei cattolici italiani non era allora particolarmente critica. Le riserve della classe politica nazionale nei loro confronti erano cadute in gran parte: durante la prima guerra mondiale i cattolici si erano dimostrati leali servitori dello Stato; nel dopoguerra  don Luigi Sturzo fondò un partito cattolico che aveva consentito alle masse una larga partecipazione alla vita politica dopo anni di distacco. Deputati cattolici erano addirittura al governo del Paese. La fondazione dell’Università Cattolica costituiva in fondo il coronamento di un percorso di avvicinamento all’alta cultura scientifica – nazionale e internazionale – che era stato assai lungo e tormentato.

Godefroid Kurth (1847-1916). Photo Institut Jules-Destrée (Droits SOFAM)
Godefroid Kurth (1847-1916). Photo Institut Jules-Destrée (Droits SOFAM)

Vent’anni prima, negli ultimi anni dell’Ottocento i cattolici italiani godevano in Europa di un credito assai limitato nel campo degli studi. Alcuni intellettuali, essi stessi cattolici, li consideravano addirittura una massa di ignoranti. Al congresso internazionale degli scienziati cattolici tenuto a Friburgo tra il 16 e il 20 agosto 1897, lo storico belga Godefroid Kurth rivolse critiche spietate. A chi proponeva di scegliere Roma per la riunione degli scienziati da tenersi l’anno successivo egli rispose: “Il nostro è un congresso scientifico. Ora io vi domando: ci vien forse da Roma e dall’Italia la luce scientifica? Dove sono le sue alte scuole, i suoi istituti, le sue pubblicazioni?”.  L’analisi del Kurth fotografava in modo impietoso lo stato della cultura cattolica italiana alla fine dell’Ottocento ma era ancora valida per certi versi nel primo ventennio del Novecento.

Si capisce quindi come l’Università Cattolica fosse stata fondata al fine di sanare la mancanza di cultura scientifica nei cattolici italiani. Non fu un caso se l’ateneo venne stabilito a Milano, città più aperta al progresso e alla modernità rispetto a Roma. Le prime facoltà furono Filosofia e Scienze sociali. Come ricordava padre Gemelli in un discorso degli ultimi anni, le finalità dell’ateneo alle sue origini erano due:

Padre Gemelli
Padre Agostino Gemelli da http://www.studisemeriani.it/archives/3228.

“Nacque la nostra Università con questo duplice programma: innanzitutto preparare all’Italia giovani cattolici in guisa che essi potessero diventare attivi membri della comunità sociale; in secondo luogo, ma non come compito secondario bensì principale, elaborare le dottrine alle quali questi giovani debbono richiamarsi nella loro azione; difatti ciò di cui il mondo ha bisogno sono soprattutto le idee”.  Egli fornì agli studenti una preparazione scientifica informata ai severi standard delle università belghe e tedesche. L’Università Cattolica doveva essere la prova che in Italia scienza e fede non erano inconciliabili.

La Rinascente: morte e resurrezione di un negozio storico

Facciamo un giro in piazza del Duomo. Lo spazio a sinistra della cattedrale era conosciuto un tempo come “gli scalini del Duomo” perché fino agli anni trenta dell’Ottocento le gradinate si trovavano unicamente sul lato nord della chiesa e sulla parte antistante alla facciata.

Se si prosegue a sinistra  è possibile raggiungere il palazzo monumentale della Rinascente, il prestigioso emporio della moda che va sempre più somigliando al londinese Harrods o alle parigine Galeries Lafayette.  Potremmo dire che la storia della Rinascente è stata un continuo altalenarsi di alti e bassi, di crisi ed inattese resurrezioni.

Ferdinando Bocconi (1836-1908)
Ferdinando Bocconi (1836-1908)

La data di nascita risale al 1889, quando i fratelli Ferdinando e Luigi Bocconi costruirono un negozio di abiti per la borghesia milanese in un’area in via Santa Radegonda, una traversa di corso Vittorio Emanuele. Il negozio era intitolato “Alle città d’Italia” ma non era certamente il primo gestito dai due fratelli. I Bocconi erano conosciuti da tempo nel settore commerciale. Originari di Lodi, iniziarono a lavorare a Milano vendendo abiti nelle bancarelle di piazza Sant’Ambrogio. Fecero fortuna in tempi relativamente brevi. Nel 1877 li troviamo già nei pressi della Galleria Vittorio Emanuele, in via Tommaso Grossi: qui costruirono il primo magazzino di stoffe e generi di arredo in un edificio che in precedenza era stato sede dell’Hotel Confortable: lo battezzarono “Aux villes d’Italie”.

Ad alcuni può sembrar strano che i fratelli Bocconi fossero ricorsi al francese per intitolare il loro primo negozio di dimensioni ragguardevoli. In realtà la scelta era a dir poco ambiziosa: essi intendevano rivolgersi a una clientela completamene diversa rispetto ai milanesi che bazzicavano per le bancarelle di Sant’Ambrogio. Il francese era lingua internazionale nell’Europa dell’Ottocento, un po’ come l’inglese ai giorni d’oggi.  Eppure, a ben vedere, il francese lasciava trasparire qualcosa di più sottile. Indicava quale fosse il modello cui i fratelli Bocconi ispirarono la loro attività: era stato infatti il francese Aristide Boucicaut (1810-1877) ad aprire a Parigi una prima catena di grandi magazzini. Ma il francese era fatto soprattutto per piacere ai ricchi italiani cosmopoliti.

In un catalogo dell’8 dicembre 1879 preparato dai Bocconi per le vendite a corrispondenza era possibile rendersi conto del vasto assortimento di articoli, a partire dai giocattoli per bambini:

auz ville d'italie“Nulla di più grandioso e più ricco dell’assortimento dei balocchi e delle chincaglie…tutto  quel ben di Dio che la più fervida fantasia di un ragazzino può sognare e che le grandiose fabbriche della Germania, della Francia e della Svizzera in questo genere a sollazzo dell’infanzia umana creano, si trova in gran copia in questa speciale Esposizione. D’altra parte non mancano gli oggetti utili, e tra questi talune confezioni speciali e tagli di abiti per signora, e molti altri articoli d’uso di vera eccezionale convenienza”.

I magazzini Aux Ville d'italie in via Tommaso Grossi (1879)
I magazzini Aux Villes d’Italie in via Tommaso Grossi (1879)

Ai nazionalisti italiani il francese faceva però storcere il naso. Fu così che nel 1880 i Bocconi furono indotti a cambiar nome al negozio, ribattezzandolo “Alle città d’Italia”. I magazzini Bocconi davano lavoro in quegli anni a trecento impiegati divisi in 31 sezioni quante erano le tipologie di merci. Nell’azienda e nello stabilimento di produzione delle stoffe prestavano servizio circa 2000 persone, senza contare le succursali di Torino, Genova, Trieste e Roma. Fu in questo quadro, quando la crescita degli affari divenne esponenziale, che i Bocconi fecero costruire nel 1889 la nuova sede in via Santa Radegonda. Oltre ai reparti delle stoffe e abiti confezionati, i clienti potevano accedere a quelli di biancheria, merceria, giocattoli, mobili e arredamento, profumeria.

Al volgere del nuovo secolo si avvicinò la prima crisi. Alla morte di Ferdinando Bocconi, il figlio Ettore guidò la ditta trovandosi presto in difficoltà per la mancanza di adeguate competenze. Inoltre, i problemi nella gestione di un’impresa le cui dimensioni si erano fatte ormai considerevoli si accrebbero nella crisi in cui versò l’Italia durante la prima guerra mondiale.

Senatore Borletti (1880-1939)
Senatore Borletti (1880-1939)

Arrivò però la ripresa. Su consenso dei Bocconi venne progettata e realizzata la fusione della ditta con i “Magazzini Vittoria”. Il regista di tale operazione fu Senatore Borletti: industriale brillante e creativo, specializzato nel settore tessile, aveva fondato nel 1917 una ditta di orologi che le necessità della guerra avevano  convertito a fabbrica di spolette per proiettili. Arricchitosi enormemente grazie alle commesse belliche, il Borletti poté acquistare senza difficoltà i Magazzini Bocconi: il 27 settembre 1917 fondò “la Rinascente” il cui nome fu un’idea di Gabriele D’Annunzio. Il vate sentenziò dalle vette poetiche della sua ispirazione: “La Rinascente: l’Italia nova impressa in ogni foggia”. Si trattava ora di un vero e proprio centro commerciale. Il 7 dicembre 1918 i grandi magazzini riaprirono in corso Vittorio Emanuele.

Rinascente liberty
Il palazzo della Rinascente dell’architetto Giovanni Giachi

Ecco però la seconda crisi, questa volta imprevista: il 25 dicembre di quello stesso anno, in pieno Natale, l’edificio venne distrutto da un incendio. Borletti tuttavia, per nulla piegato da quel duro colpo della sorte, finanziò prontamente la ricostruzione affidando i lavori all’architetto Giovanni Giachi. Il 23 marzo 1921 la Rinascente riaprì le porte in uno stupendo edificio che conferiva alla zona una solenne atmosfera di eleganza e decoro urbano.

I bombardamenti del 1943 segnarono la terza crisi cui seguì per così dire la terza “resurrezione”: quella – si spera per noi milanesi – definitiva. Il 4 dicembre 1950 la Rinascente tornava a rivivere nel palazzo a portici imponenti disegnato dall’architetto Ferdinando Reggiori.

Oggi alla Rinascente respiri un’aria un po’ diversa da quella delle origini.  Trovi tanti turisti, donne d’affari, giovani e meno giovani che vanno a caccia di abiti, prodotti di design, articoli di alta moda. C’è anche chi ne approfitta per acquistare  prodotti culinari: basta prendere l’ascensore per arrivare velocemente all’ultimo piano ove trovi i grandi marchi della ristorazione “made in Italy”: penso ad Obikà o a De Santis.

Lo Stradone e i chiostri di Sant’Ambrogio nel sestiere di Porta Vercellina

Lo "Stradone di Sant'Ambrogio" quale appare oggi dopo i lavori urbanistici.
Lo “Stradone di Sant’Ambrogio” quale appare oggi dopo i lavori urbanistici.

Guardando la basilica di Sant’Ambrogio, costeggiando l’attigua piazza sulla sinistra si accede all’ampio viale che corre parallelo all’antico naviglio di San Girolamo (oggi via Carducci). Quel viale era conosciuto come Stradone di Sant’Ambrogio. Oggi, dopo i lavori urbanistici che hanno interessato l’isolato per molti anni, è divenuto finalmente una piacevole area pedonale intervallata da spazi verdi fino alla Caserma Garibaldi. A quel punto il viale, dopo aver costeggiato i giardini e le case della basilica ambrosiana, piega a gomito sulla destra per terminare in Largo Gemelli.

La strada è percorsa in prevalenza dagli studenti della vicina Università Cattolica. L’ateneo ha sede proprio lì, in quei magnifici chiostri dietro la basilica di Sant’Ambrogio che facevano parte anticamente di un convento abitato dai monaci benedettini dal 789 d.C. fino alla fine del Quattrocento. I canonici, vale a dire i chierici addetti al servizio in chiesa, abitavano invece nelle case vicine all’altra area della basilica. I rapporti tra i monaci e i canonici furono a dir poco complessi, segnati da rivalità che nel Medioevo erano assai diffuse tra corporazioni gelose dei loro diritti particolari.

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La basilica di Sant’Ambrogio e la Caserma San Francesco. Litografia ottocentesca a cura di Giuseppe Elena e Pietro Bertotti.

Vi siete mai chiesti per quale motivo la basilica di Sant’Ambrogio ha due campanili? Semplice: perché i canonici, stanchi di suonare le campane con i monaci del vicino convento, convinsero l’arcivescovo Anselmo V della Pusterla, nel 1128, a costruire a spese del Comune un secondo campanile sul lato opposto della facciata. E pazienza se per completare i lavori fu necessario abbattere il fianco sinistro della chiesa: per i canonici era più importante salire sul “loro” campanile. Chissà quante risate si saranno fatte i monaci quando guardavano i loro vicini dall’alto del “loro” campanile!

I benedettini risero meno quando alla fine del Quattrocento, accusati di cattivi costumi, furono costretti a sloggiare. I chiostri di Sant’Ambrogio furono affidati in commenda al cardinale Ascanio Sforza: uomo colto e raffinato, fratello del duca Ludovico il Moro, l’abate Ascanio affidò la ristrutturazione di quegli edifici religiosi all’architetto Donato Bramante, al cui stile dobbiamo la linea sublime dei capitelli a due ordini, nonché le raffinate logge in pietra e in cotto. Il cardinale assegnò questi spazi ai cistercensi di Chiaravalle, che vi abitarono fino all’arrivo degli eserciti francesi del generale Bonaparte: l’edificio, ora demaniale, divenne un ospedale militare. A tale uso continuò ad essere destinato fino agli inizi degli anni Trenta quando vi fu trasferita l’Università Cattolica. Questa però è un’altra storia che vi racconterò in un altro post….

 

La Cà Granda nel Sestiere di Porta Romana

 

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L’Ospedale Maggiore in una foto del primo Novecento.

 L’Università degli Studi è un altro dei luoghi simbolo di Milano. In realtà nell’immobile aveva sede un tempo uno dei più importanti ospedali europei, noto ai milanesi come la Cà Granda. D’altra parte all’osservatore attento non sfuggirà che il quartiere di Porta Romana conserva tuttora la sua impronta socio assistenziale nei molteplici padiglioni  del Policlinico di via Francesco Sforza, a pochi passi dall’Università.

La costruzione della Cà Granda si deve al duca Francesco Sforza e alla moglie Bianca Maria Visconti, i quali vollero fondare un grande ospedale che si prendesse cura dei malati, in particolar modo i poveri sparsi nelle città e nelle campagne dello Stato lombardo. Il duca donò all’ospedale alcune case nel quartiere di Porta Romana: le fece risistemare e abbellire dall’architetto fiorentino Antonio Averulino detto “il Filarete” e, ricorrendo ai fondi degli altri ospedali della città e della diocesi, fece in modo che la nuova istituzione fosse provvista di adeguate risorse. Insomma, decisamente altra cosa rispetto al modo con cui viene gestita nei tempi attuali la sanità italiana. L’Ospedale Maggiore (che è l’altro nome con cui i milanesi erano soliti riferirsi alla Cà Granda) sorgeva entro le mura medievali, vicino al naviglio interno che, scorrendo praticamente al di sotto di quelle opere di fortificazione, costituiva allora una formidabile via di comunicazione. Sulle sue acque transitavano i grandi barconi carichi di merci, derrate e materiali da costruzione che poi i barcaioli lasciavano nelle ‘sciostre’, le aree di sosta che, poste a ridosso del naviglio, servivano quali magazzini.

Portone d’ingresso alla Cà Granda sul naviglio interno in una foto del primo Novecento

 

A questo punto si riesce forse a capire per quale motivo Francesco Sforza avesse deciso di donare all’ospedale quelle case poste proprio a ridosso del naviglio. Il complesso sanitario sorgeva infatti in una posizione strategica: situato all’interno delle mura medievali, l’edificio non solo si trovava nel centro cittadino ma, posto in prossimità del naviglio e vicinissimo al contado circostante, era in collegamento diretto con i paesi circostanti. L’utilizzo del naviglio quale via di comunicazione consentiva ai milanesi di rifornire continuamente l’ospedale con viveri e medicinali provenienti spesso dalle campagne.

Verso la metà del Seicento, l’edificio venne ampliato grazie agli interventi dell’architetto Francesco Maria Richini: il grande chiostro interno e la chiesa dell’Annunciata diedero all’ospedale una veste grandiosa ma al contempo misurata; un’atmosfera solenne corretta da quell’austera chiesetta posta a ridosso del naviglio.

Ma come riuscì a prosperare l’Ospedale Maggiore nella sua lunga vita al servizio della comunità? Potrà stupire in una città di cui si lamenta quasi sempre l’eccessivo consumismo ed egoismo, ma la grandezza dell’Ospedale Maggiore nei suoi cinque secoli di storia fu resa possibile dal profondo senso di carità della nobiltà ambrosiana, che non mancò di impiegare le sue risorse in favore dei poveri.

Cattaneo e la guida di Milano che non vide mai la luce

Carlo Cattaneo scrisse le celebri Notizie naturali e civili su la Lombardiain occasione del sesto congresso degli scienziati italiani che si tenne a Milano nel settembre 1844. Questo evento coinvolse – com’è noto – larga parte della società lombarda. Parallelamente all’attività di Cattaneo varrà la pena ricordare che furono compilati – a cura dello storico risorgimentale Cesare Cantù – i due volumi intitolati Milano e il suo territorio: vi furono pubblicati testi afferenti alla storia, alla religiosità, alla statistica, all’istruzione, alla sanità, alla vita sociale di Milano ad  opera di eminenti personalità quali il prefetto della Biblioteca Ambrosiana, l’abate Bartolomeo Catena, Giuseppe Sacchi, il nobile Pompeo Litta (noto per le ricerche erudite che andava effettuando sulle famiglie nobili italiane), Giovanni Labus, il professor Achille Mauri e lo stesso Cantù.
Tra le carte mai pubblicate che Carlo Catttaneo scrisse per quell’evento ve ne sono alcune di notevole interesse. Il contenuto di questi documenti, rielaborato ed organicamente ultimato, avrebbe costituito con ogni probabilità una Guida di Milano per i visitatori che fossero giunti in città in occasione del congresso.
In questi manoscritti, che si trovano nell’archivio Cattaneo conservato presso le Civiche Raccolte Storiche del Museo del Risorgimento, la città era presa in esame da un punto di vista geo-economico e storico artistico. 

Particolarmente interessanti le considerazioni introduttive, ove largo spazio era riservato alla descrizione geografica.

Il territorio su cui sorge Milano è un vasto rettangolo il cui lato settentrionale vien formato dalla catena dell’Alpi Leponzie e Retiche; l’occidentale dal Lago Maggiore e quindi dal Ticino; l’orientale dal Lago Lario (Como) e quindi dall’Adda, il meridionale dal Po. Questo territorio dirupato e orrido sotto l’Alpi, viene lentamente ad ingentilirsi in men erte montagne, poi in colline amenissime, quindi in pianure asciutte e vinifere, e finalmente in campi quasi immersi nell’acque che li fecondano.

A gradi 26,51 di longitudine 45,27,51 di latitudine, laddove il piano comincia a farsi umido ed irrigato, s’innalza Milano. Talché uscendo dalle porte rivolte a Mezzodì si ritrova tosto un meraviglioso intreccio di canali irrigatorj; mentre da settentrione a stento si trova un prato o un canale.

Seguivano importanti considerazioni sui canali navigabili che solcavano la città:

Lontana da ogni fiume navigabile Milano sarebbe male atta al commercio, qualora l’industria (operosità) degli abitatori non avesse condotto fino in città due canali navigabili l’uno tratto dall’Adda (il Naviglio Martesana), l’altro dal Ticino (il Naviglio Grande). Parte delle acque in tal modo raccolte va ad irrigare i terreni; parte forma un terzo canale che congiunge Milano con Pavia (il Naviglio Pavese) e apre, mercé del Po, una via all’Adriatico.

Il terreno è per natura e per arte (lavoro) fertilissimo. L’aria bastevolmente pura; se non che presso la città si risente della soverchia umidità della adjcenti campagne.

In margine Cattaneo formulava un giudizio significativo sulla mentalità pratica, sull’indole essenzialmente lavorativa dei milanesi, nati più per operare nella società che per ‘disquisire dei massimi sistemi’. Si riportano tali considerazioni, ove risultava evidente che la cultura milanese, per lo meno negli ultimi due secoli, era andata legandosi strettamente ai bisogni della società. Il castello inaccessibile di una “insetata verbosità” fine a se stessa, diffuso in molte città italiane, non apparteneva a Milano.
In confronto alle altre città d’Italia Milano ha minor numero di cruscanti, di puristi, di periodisti, di parolaj d’ogni razza e d’ogni partito. Qui le persone studiose si ingegnano di essere contemporanee del loro secolo e non s’affannano di ritardare, per quanto è lor possibile, i progressi dell’intellettuale perfezionamento ne’ loro concittadini distraendoli dallo studio delle cose a quello di una insetata verbosità.
Notevoli le notizie topografiche su Milano, che Cattaneo descriveva richiamandosi all’immagine dei due anelli che cingevano la città: il primo era costituito dal Naviglio Interno, che venne scavato dai milanesi al di fuori delle antiche mura medievali. Questo canale, chiuso tra gli anni Ottanta dell’Ottocento e il 1929/30, collegava il Naviglio Martesana (che scendeva da nord est) con i navigli grande e pavese (che percorrevano la bassa pianura in direzione sud-sud ovest). 

Il secondo anello era invece formato dai bastioni spagnoli, i cui frammenti sono in parte tuttora visibili. Seguiva la descrizione delle Porte milanesi, alcune delle quali esistono ancora oggi. Ma lasciamo la parola a Cattaneo:

I bastioni esternamente e internamente il naviglio formano a Milano un doppio recinto quasi circolare. Il naviglio è una fossa scavata appiè delle antiche mura in occasione dell’assedio del Barbarossa ridotta ora a canal navigabile in cui immettonsi le acque de’ due navigli d’Adda e di Ticino. E nel suo giro comprende la città propriamente detta. I bastioni che si estendono più vastamente…furon fabbricati nel 1549 sotto Carlo V per ordine del governatore Ferrante Gonzaga, giusta l’architettura militare di quei tempi. Fra essi e il naviglio si comprendono i propriamente detti “borghi”. Al di fuori rasente i bastioni si aggira la testé compiuta strada di circonvallazione che offre molte miglia di ombroso passeggio. I bastioni vengono interrotti da undici porte. La Porta Tosa volta a oriente; alquanto verso Nord l’attigua Porta Orientale; e così via: a Nord Est la Nuova; a Nord la Comasina (Porta Garibaldi); a Nord Ovest la Tenaglia e il Portello (oggi Parco Sempione, dietro il Castello Sforzesco); ad Ovest la Vercellina; a Sud Ovest la Ticinese; a Sud la Lodovica e la Vigentina, a Sud Est la Romana.

L’Orientale, la Nuova, la Comasina, la Vercellina, la Ticinese, la Romana sono le principali. Anticamente davano il nome ai quartieri della città e scompartimento alle truppe civiche.
Nel centro di essa, ma alquanto verso oriente, sorge il Duomo; da cui quasi come raggi si dipartono i corsi che guidano a ciascuna Porta, tortuosi ed angusti nell’interno della città, ma spaziosi e diritti quanto più se ne dilungano. Essi prendono il nome dalle rispettive porte.

Due idee per sposare Sport e Cultura: MilanoAnticheMura e MilanoSestieri

Ogni anno la Stramilano chiama a raccolta tanti appassionati dello sport. Nata come iniziativa per corridori esperti desiderosi di cimentarsi in una mezza maratona (21 km), con il passare del tempo la Stramilano ha accresciuto il numero delle sue iniziative. Com’è noto, oltre alla mezza maratona da 21 chilometri, vengono allestite anche le corse di 10 e di 5 km. L’evento è divenuto ormai una vera e propria istituzione, una tradizione cittadina. 

 
La Stramilano da 10 chilometri è la più amata dai milanesi perché la lunghezza del percorso consente la partecipazione di persone che non praticano lo sport a livello agonistico. Non è per caso se questa corsa è chiamata oggi “Stramilano dei 50.000”. I corridori in partenza da piazza Duomo, dopo aver attraversato corso Vittorio Emanuele e corso Venezia, svoltano a destra per attraversare gran parte dell’antico tracciato dei Bastioni spagnoli. Non si può dire infatti che i podisti percorrano l’intero perimetro delle mura spagnole: i bastioni di Porta Volta e di Porta Nuova non sono compresi nel giro.

 
Da qui mi son venute due idee che vorrei rivolgere agli assessori allo Sport e alla Cultura del Comune di Milano. Non so quanto siano fattibili ma credo opportuno renderle pubbliche nella speranza che possano suscitare un proficuo dibattito sul tema.
 
La prima idea riguarda una Stramilano agonistica da 21 km lungo il tracciato delle antiche mura milanesi: bastioni spagnoli, mura medievali e mura romane.  La gara, che potrebbe chiamarsi “Milan old walls” o “Milano antiche mura” dovrebbe interessare all’incirca i tre tracciati delle cinte murarie.

I corridori partirebbero dall’Arena Civica per affrontare un percorso ad anelli concentrici. 
 
Il primo anello coprirebbe l’intero tracciato dei bastioni spagnoli: 

via Legnano, Bastioni di Porta Volta, viale Francesco Crispi, Bastioni di Porta Nuova, viale Monte Santo, Viale Città di Fiume, Bastioni di Porta Venezia, viale Luigi Majno, Viale Bianca Maria, viale Regina Margherita, viale Emilio Caldara, viale Beatrice d’Este, viale Gabriele D’Annunzio, viale Papiniano, viale di Porta Vercellina, piazza Conciliazione, via Giovanni Boccaccio fino a piazzale Cadorna.
 
Il secondo anello passerebbe lungo il tracciato delle antiche mura medievali e del vecchio naviglio cittadino la cui parziale riapertura ci auguriamo possibile nei prossimi anni: 

via Carducci, via De Amicis, via Molino delle Armi, via Santa Sofia, via Francesco Sforza, via Visconti di Modrone, via Senato, via Fatebenefratelli, via Pontaccio, via Tivoli. 

Passando per un tratto del foro Bonaparte, i corridori della “Milano antiche mura” giungerebbero infine in piazza Cairoli per percorrere l’ultimo anello, quello più piccolo coincidente in via tendenziale con il tracciato delle antiche mura romane di epoca massimianea: 

via Cusani, via dell’Orso, via Monte di Pietà, via Monte Napoleone, piazza San Babila, via Durini, largo Augusto, via Larga, piazza Velasca, corso di Porta Romana, via Maddalena, corso Italia, via Disciplini, via San Vito, Carrobbio, via del Torchio, via Circo, via Cappuccio, via Luini, corso Magenta, via San Giovanni sul Muro. 

Al traguardo, in piazza Duomo, i partecipanti arriverebbero passando per via Dante, Piazza Cordusio e via Mercanti. 
 
Credo che tale iniziativa possa essere non solo una sfida sportiva, ma anche un evento teso a rendere percepibile al vasto pubblico una parte importante della storia milanese. Anche in questo caso, si potrebbe pensare a una “Milano Antiche Mura” ridotta a 12-13 chilometri lungo il tracciato dei bastioni spagnoli: bastioni da correre integralmente, non in parte come avviene nella Stramilano di oggi!
 

La seconda idea è una gara di corsa a metà strada tra la corsa veloce e la corsa di resistenza. Limitata ai primi sei atleti che abbiano vinto la “Stramilano Antiche Mura”, tale iniziativa si svolgerebbe in sei percorsi (di una lunghezza tra 1.65 e 2 chilometri) lungo i viali e i corsi che si trovano al centro dei Sestieri Milanesi: gli antichi quartieri cittadini che traevano la loro denominazione dalle antiche porte urbane (Porta Orientale, Porta Romana, Porta Ticinese, Porta Vercellina, Porta Comasina, Porta Nuova). Anche questa iniziativa consentirebbe a mio parere un prezioso recupero della cultura milanese valorizzando la storia cittadina. La gara sarebbe vinta dall’atleta che avesse totalizzato il minor tempo di percorrenza lungo i sei tracciati. Ogni percorso avrebbe inizio da una porta o piazza lungo la cinta dei Bastioni. Il traguardo sarebbe fissato invece in piazza dei Mercanti, antico cuore di Milano, il punto ove convergevano i sei assi stradali di ciascun quartiere.   

Corsa nel Sestiere  di Porta Orientale: Porta Venezia, corso Venezia, piazza San Babila, corso Vittorio Emanuele, piazza Duomo, via Mercanti, piazza dei Mercanti.


Corsa nel Sestiere di Porta Romana: piazza Medaglie d’Oro, corso di Porta Romana, piazza Missori, via Mazzini, piazza Duomo, via Mercanti, piazza dei Mercanti.


Corsa nel Sestiere di Porta Ticinese: piazza 24 Maggio, corso di Porta Ticinese, via Torino, via Orefici, passaggio degli Osii, piazza dei Mercanti.


Corsa nel Sestiere di Porta Vercellina: piazza Baracca, corso Magenta, via Meravigli, piazza Cordusio, via Orefici, passaggio delle Scuole Palatine, piazza dei Mercanti.


Corsa nel Sestiere di Porta Comasina: piazza 25 aprile, corso Garibaldi, via Mercato, via Ponte Vetero, via Broletto, piazza Cordusio, via dei Mercanti, piazza dei Mercanti.


Corsa nel Sestiere di Porta Nuova: piazzale Principessa Clotilde, corso di Porta Nuova, via Fatebenefratelli, via Manzoni, via Santa Margherita, passaggio di Santa Margherita, piazza dei Mercanti.


Cosa ne pensate?