Questo articolo è stato pubblicato su “Il Giorno” del 15/4/2021
Da una ricerca curata da Mario Abis per il Centro Studi Grande Milano sulle condizioni in cui vivono gli abitanti della città metropolitana milanese è emerso come il 60% della popolazione ritiene fondamentale per la ripresa economica una costruzione adeguata dell’ente “Città metropolitana”. E’ evidente che fino ad oggi tale istituzione non ha funzionato: ha sollevato unicamente conflitti tra i municipi. Mai come in questi tempi si rende necessario un intervento legislativo teso a migliorare tale comparto amministrativo.
Nel programma della “Città a 15 minuti” il Sindaco Sala intende garantire nei quartieri migliori servizi pubblici a cittadini che, cessata la pandemia, continueranno in più occasioni a lavorare da casa. Perché questo piano non si riduca a una visione localistica, occorre però un intervento coraggioso: la divisione della città nei suoi antichi comuni. Questi, assieme ai municipi della Città metropolitana, a quelli della provincia di Monza-Brianza, a quelli legati a Milano ma inclusi nelle province di Novara, Varese, Como, Lecco, Pavia, Bergamo, Brescia, Lodi, Cremona, dovranno formare una grande Regione metropolitana. Il Presidente di questo nuovo ente, eletto direttamente dai sette milioni di cittadini che vi abitano, dovrebbe risiedere a Palazzo Marino e dividere con i Sindaci dei municipi l’amministrazione nel campo delle infrastrutture, dei trasporti, dell’urbanistica, dei parchi, della viabilità.
La grande Milano non potrà che essere una Regione amministrativa, al cui interno vi sia un fitto reticolo di comuni integrati nella nuova istituzione. Altrimenti la “Città a 15 minuti” rischia di essere un’idea grettamente municipalista, un po’ come quei milanesi che – come scriveva Ludovico di Breme a Federico Confalonieri in una lettera del 16 maggio 1814 – non sapevano guardare oltre “il borgo degli Ortolani”.
Un libro ripercorre la storia della città ambrosiana dalle origini fino ai tempi presenti, individuandone i tratti peculiari e le costanti nel tempo.
Negli ultimi anni la formula “modello Milano” viene costantemente ripetuta da politici, esponenti della classe dirigente e da imprenditori per descrivere un tipo di convivenza civile – quella milanese – che mette al centro la solidarietà e l’operosità dei suoi membri, i quali lavorano al servizio della comunità facendo ciascuno la sua parte. E’ un termine spesso abusato, che trova però un suo fondamento storico: nel corso dei secoli, dalla tarda antichità al Medioevo, dall’Età Moderna ad oggi, la città di Ambrogio ha saputo crescere e progredire grazie alla capacità dei milanesi di rispondere concretamente alle sfide dei tempi: le fratture e le violente divisioni interne – che pure vi furono tra le diverse comunità e famiglie – vennero di volta in volta ricomposte in nome del bene comune. In particolar modo a partire dal Medioevo, la società milanese nelle sue articolazioni cetuali riuscì a intessere con i reggitori del potere un dialogo costruttivo per la tutela dei suoi interessi economici e politici.
Questa caratteristica di lungo periodo nella storia di Milano è al centro del bel libro The Milan’s heart. Identity and history of a European metropolis (Scalpendi Editore, Milano 2019, 207 p.): si tratta della nuova edizione in inglese, corredata da un elegante apparato di immagini, di un volume curato dal professor Danilo Zardin nel 2012 avente per titolo Il Cuore di Milano. Identità e storia di una “capitale morale” (Rizzoli editore). Vi sono raccolti saggi di storici che hanno posto al centro della loro analisi scientifica il ruolo di Milano nella civiltà europea e i tratti distintivi della sua costituzione interna.
Quali sono gli elementi di lunga durata che caratterizzano il senso di appartenenza alla comunità milanese? In primo luogo, il civismo e una operosa solidarietà, la capacità di accettare il diverso raccogliendo le sfide dei tempi per un modello innovativo di convivenza. Questo avvenne ad esempio nella Milano capitale dell’Impero Romano d’Occidente, quando nel 313 d.C. l’imperatore Costantino vi pubblicò il celebre editto di tolleranza che consentiva ai cattolici di praticare liberamente il loro culto non diversamente da quanto i Romani avevano permesso fino a quel momento alle altre confessioni religiose. Nasce qui la prima forma di quel “modello Milano” cui si è fatto cenno poco sopra, esempio di convivenza tra diversi che si rispettano, vivono e lavorano nell’obbedienza alle leggi.
Un secondo tratto distintivo di Milano risiede nel suo spirito riformatore, nella capacità di aprirsi al nuovo, di adattare le istituzioni e le politiche di governo ai bisogni della società. Un caso per certi versi emblematico è costituito dal riformismo settecentesco che svecchiò l’amministrazione del Ducato di Milano avvicinandola a quella di uno Stato moderno. In effetti, come ha dimostrato Carlo Capra, in Lombardia le riforme absburgiche furono portate avanti per volontà dei governanti austriaci (l’imperatrice Maria Teresa di Asburgo, l’imperatore Giuseppe II) e videro l’attivo coinvolgimento di funzionari provenienti da altri territori della monarchia (basti pensare al cancelliere di Stato, il viennese di origini morave Anton Wenzel von Kaunitz Rittberg, al trentino Carlo Giuseppe di Firmian, all’istriano Gian Rinaldo Carli, al toscano Pompeo Neri); non va tuttavia sottovalutato il contributo di un patriziato milanese aperto al nuovo, tra i cui esponenti più noti val la pena ricordare Cesare Beccaria e Pietro Verri: dapprima quali intellettuali attivi nel celebre periodico “Il Caffè”, poi nel ruolo di funzionari pubblici al servizio della monarchia austriaca, essi parteciparono attivamente all’attuazione delle riforme illuminate nei campi della giustizia, dell’economia, dell’agricoltura, del commercio. Le riforme del Settecento illuminato in Lombardia (ricordiamo ad esempio quella sull’autoamministrazione delle comunità locali del 1755 o del catasto particellare del 1760), costituirono il primo stadio di un rinnovamento istituzionale che toccherà il vertice negli anni della Repubblica Italiana e del Regno italico (1802-1814), quando il governo napoleonico avrebbe contribuito in modo decisivo a rinnovare le strutture della società. Le riforme absburgiche e napoleoniche fecero di Milano un vero e proprio laboratorio della modernità e questo nonostante le resistenze conservatrici che pure vi furono.
Un altro esempio di riformismo autenticamente milanese riguarda il governo della chiesa ambrosiana. Esso è costituito dall’azione incisiva dell’arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo, il quale negli anni del suo ministero al vertice della curia milanese (1564-1584) fece della diocesi un territorio all’avanguardia nell’applicazione rigorosa dei canoni della Riforma Cattolica fissati dal Concilio di Trento. Il riformismo borromaico si radicò in profondità: le articolazioni cetuali della società milanese furono informate allo spirito di una devotio vissuta con appassionato fervore. Il coinvolgimento del fitto tessuto delle confraternite laicali, la fondazione di seminari e collegi per la formazione del clero, le Scuole della Dottrina Cristiana per l’educazione dei giovani, la pubblicazione di opuscoli e libri in italiano per aiutare i laici ad affrontare le difficoltà della vita orientando le opere allo spirito cristiano, furono interventi che segnarono profondamente l’identità milanese. A tal proposito, facendo stampare in italiano catechismi, testi contenenti istruzioni morali, libri spirituali e pedagogici per ciascun ordine o categoria della società (militari, padri e madri di famiglia, capi di bottega), il Borromeo diede un contributo di primo piano alla diffusione dell’alfabetismo in Lombardia già alla fine del XVI secolo. Questo riformismo ambrosiano venne continuato, con accenti e strategie diverse, dal nipote Federico Borromeo (arcivescovo dal 1595 al 1631) e dal successore di questi, il cardinale Cesare Monti (1631-1650). Come ha messo in evidenza il professor Danilo Zardin nel saggio Da Carlo a Federico Borromeo: alle origini di una nuova identità “ambrosiana” (nella edizione inglese From Carlo to Federico Borromeo: at the Origins of a new “ambrosian identity”, pp.95-102), alla battagliera opera di San Carlo per un riforma della società che lo portò a scontrarsi in più occasioni con le istituzioni civili del Ducato di Milano, i due presuli sostituirono una più prudente azione pastorale che puntò soprattutto a rafforzare le istituzioni culturali nella diocesi per una discreta ma non meno profonda formazione degli spiriti: basti pensare alla Biblioteca Ambrosiana aperta dal cardinal Federico nel 1609 per chiunque avesse desiderato leggere ed istruirsi.
Purtroppo non è possibile soffermarsi sui tanti temi che sono affrontati in questo libro. Avviandomi alla conclusione, credo che un terzo tratto distintivo di Milano risieda nella sua natura internazionale, nell’apertura al mondo, al diverso. La città ambrosiana è infatti una metropoli profondamente europea per stili di vita, costumi, economia, cultura. Credo che la naturale disposizione a vivere e operare entrando in stretta relazione con ambienti internazionali vada ricercata – come notò acutamente Giorgio Rumi in un interessante saggio del 1993 (G. Rumi, Milano e l’Europa in AA.VV., Ottocento romantico e civile. Studi in memoria di Ettore Passerin d’Entrèves. Milano, Vita e Pensiero 1993, pp.343-350) – nei secoli in cui il Ducato di Milano venne incorporato entro la sfera di governo di poteri pubblici plurinazionali: la monarchia absburgica spagnola dalla metà del XVI secolo al 1706, i domini degli Asburgo di Vienna dal 1706 al 1796. In questi vasti imperi, composti da territori con tradizioni giuridico amministrative assai diverse, i milanesi riuscirono per secoli a tutelare i loro interessi economici e politici grazie alla distanza che li separava dai centri di potere entro il cui dominio pure si trovavano. Persa l’indipendenza politica nel 1499, il Ducato di Milano ebbe riconosciute dai Francesi , dagli Asburgo di Spagna e per buona parte del Settecento anche dagli Asburgo di Vienna le sue storiche autonomie giuridico-amministrative risalenti al periodo visconteo-sforzesco. I milanesi dovettero però accettare la sovranità di monarchi le cui corti si trovavano oltralpe, assai distanti dall’Italia cisalpina. Eppure non sembra azzardato ritenere che la natura internazionale di Milano – già presente nell’Età antica e nel Medioevo – si sia rafforzata ancor più in questo periodo, quando i milanesi furono obbligati a confrontarsi con burocrazie europee (spagnola prima, austriaca poi) in un dialogo costruttivo con i sovrani absburgici: questo permise loro di intervenire negli organi consiliari (a Madrid come a Vienna), che garantivano la rappresentanza dei diversi territori al centro della monarchia. Di qui un’apertura costante al diverso e un’attitudine a confrontarsi con politiche pubbliche che superavano la sfera regionale, poste com’erano in una dimensione internazionale.