L’imminente apertura di Expo ha rimesso al centro dell’attenzione un tema cruciale nella difesa del Made in Italy: la contraffazione. Sono troppi i prodotti contraffatti, venduti sul mercato a prezzi assai più bassi rispetto agli originali. L’elenco degli articoli interessati è sterminato: dall’olio ai pomodori cinesi venduti come italiani. A produrli sono organizzazioni criminali che spesso hanno sede all’estero. L’Italia purtroppo è uno dei paesi europei più colpiti dal fenomeno.
Confessiamolo: quante volte abbiamo acquistato un prodotto alimentare spinti unicamente dalla sua convenienza, senza controllare la provenienza e le “informazioni nutrizionali”? Il guaio è che questi prodotti, che sembrano fatti apposta per attirare la nostra attenzione, son fatti spesso con sostanze dannose per la salute. Oggi la contraffazione colpisce i più svariati settori del Made in Italy, dall’agroalimentare alla moda. Un fenomeno allarmante se consideriamo che si tratta di un mercato che vale quasi 7 miliardi di euro all’anno.
Il tema è stato al centro dell’interessante convegno organizzato lunedì dal Centro Studi Anticontraffazione presso la Camera di Commercio di Milano alla presenza di un vasto parterre composto da esperti del ramo, rappresentanti del mondo imprenditoriale, membri della guardia di finanza e della polizia di Stato. Ai lavori è intervenuta l’onorevole Susanna Cenni, capogruppo Pd in materia anticontraffazione.
Dai lavori è emerso lo scarso impegno mostrato finora dallo Stato nel disciplinare questa materia. La legge delega 67/2014, cui è seguito da parte del governo uno schema di decreto legislativo risalente al primo novembre scorso, ha compreso la contraffazione all’interno dei reati perseguibili con pene fino a cinque anni per la tenuità dell’offesa. Il principio della non punibilità per la tenuità del fatto rischia di imporsi in via definitiva nella giurisprudenza, mettendo la contraffazione sullo stesso piano di un reato quale ad esempio il maltrattamento di animali. Occorre invece aggravare le pene perché – come ha ricordato Daniela Mainini presidente del Centro Studi Anticontraffazione e grande esperta della materia – “il principio della lieve entità non può far parte dei reati anticontraffazione”.
E’ stato inoltre lamentato il ritardo degli organi legislativi (Parlamento e Governo) nel preparare quella legge speciale su Expo al cui interno le norme anticontraffazione non potranno che rivestire un’importanza cruciale. La questione è prioritaria se si considera che molti paesi (dalla Cina ad alcuni Stati americani) non conoscono una tutela giuridica sull’autenticità dei prodotti paragonabile a quella esistente da noi in relazione ai marchi DOP o DOCG.
L’aumento delle imitazioni del Made in Italy è sotto gli occhi di tutti: ha fatto scuola il caso del falso Grana Padano presentato da un’azienda della Lettonia alla fiera di Parigi. L’Italia è il paese più colpito dalla contraffazione agroalimentare. Questo tuttavia – come ha sottolineato il professor Cesare Galli, uno dei maggiori specialisti nella difesa della proprietà industriale – è dipeso dal fatto che lo Stato ha concentrato finora le sue energie nella disciplina del mercato interno, mettendo in secondo piano la tutela dei nostri prodotti nei mercati internazionali.
Su questi temi è intervenuta anche l’attrice Tiziana Di Masi, che da anni lavora per rendere consapevoli i cittadini sui danni che la contraffazione reca non solo all’economia italiana ma anche alla salute. Lo spettacolo Tutto quello che sto per dirvi è falso, interpretato dall’attrice con grande abilità narrativa, sta riscuotendo un grande successo nei teatri italiani.
In questi anni, in seguito alle difficoltà legate alla crisi economica, il tema del lavoro è divenuto centrale nelle politiche europee. Il rilancio dell’occupazione è fondamentale ma siamo sicuri che la ricchezza di un paese dipenda unicamente dal lavoro? L’economista meridionale Antonio Genovesi, nelle Lezioni di economia civile, riteneva che la ricchezza di un paese fosse sempre da porre in relazione alla somma delle “fatiche”. Secondo Genovesi il lavoro che un governo avrebbe fatto bene ad incoraggiare doveva essere quello che dava una rendita in base alle richieste del mercato. Scriveva l’economista napoletano:
“La ragione di tal principio è di per se chiara: imperciocché è manifesto, che le ricchezze di una Nazione sieno sempre in ragion della somma delle fatiche. Di qui segue, che quanto è minore il numero degli uomini che non rendono, tanto essendo maggiore quello di coloro che rendono, maggiore ancora debba essere la somma delle fatiche e conseguentemente maggiori le rendite della Nazione. E per contrario, quanto è maggiore il numero di quei che non rendono, tanto è minore la somma delle fatiche; e perciò delle rendite così private come pubbliche” (A. Genovesi, Lezioni di commercio, Venezia 1769, pp.165-166).
Per Genovesi occorreva ridurre tutte le classi che non rendevano a partire dai dotti i quali, a suo giudizio, non producevano con il loro lavoro una rendita immediata. Si trattava di una posizione per nulla isolata se pensiamo che Adam Smith, pochi anni dopo, avrebbe affermato addirittura che le classi dotte “non producono valore veruno”.
Genovesi aveva visto giusto quando affermava che il lavoro fosse importante nel favorire la ricchezza delle nazioni. Eppure, a ben vedere, non è una condizione sufficiente. Altrimenti non si spiega la differenza tra i paesi economicamente avanzati che continuano a produrre ricchezza nonostante alti tassi di disoccupazione e, viceversa, paesi in via di sviluppo ove il lavoro non aiuta i cittadini ad uscire dalla povertà. Teniamo presente che in questi paesi gli stipendi sono inferiori ai due dollari giornalieri. Il lavoro in sé quindi non basta a rendere ricca una Nazione.
Il grande intellettuale e storico milanese Carlo Cattaneo fu uno dei primi a capire il nesso che lega la qualità del lavoro alla ricchezza di un paese. A rendere ricca una nazione non basta la somma delle fatiche. Occorrono per Cattaneo due altre condizioni: la prima riguarda la presenza nel tessuto sociale del maggior numero di persone capaci di avere “un’intelligenza creativa”, quell’intelligenza che rende possibili le scoperte scientifiche e le invenzioni tecnologiche. La seconda condizione è la libertà d’impresa: questa consente di passare dalla teoria alla pratica, di realizzare i prodotti più avanzati. In altre parole, di dare libero sfogo alla volontà individuale.
Veniamo alla prima condizione: l’intelligenza creativa. Le scuole e l’università contribuiscono certamente a stimolarla. Oggi però non bastano. Esse devono cambiare e devono farlo in profondità. Non possono basarsi su un sapere prettamente nozionistico. In fondo, i maggiori inventori non furono uomini colti e neppure eruditi. Cattaneo ci dice che da quando l’uomo comparve sulla terra – ben prima quindi che esistessero le scuole e le università – il progresso è dipeso dalle menti acute, rapide nel conoscere, nello sfruttare i risultati di una scoperta per inventare una tecnica o un oggetto che fosse in grado di rispondere meglio e prima di altri ai bisogni della comunità.
In un saggio memorabile pubblicato sulla rivista “Il Politecnico” nel 1861 intitolato Del pensiero come principio di economia pubblica, Cattaneo scriveva:
“non fu il più dotto pensatore del suo secolo che raccolse nei selvaggi prati dell’Asia il primo grano di frumento e lo ripose entro terra col proposito di vederlo ripullulare; né quello che saltò per primo sul dorso di un cavallo; o si trovò d’aver indurato col foco la sottoposta argilla…tutte le invenzioni furono atti d’intelligenza scaturiti in menti sagacissime dall’immediata osservazione dei singoli fatti e non da deduzione scientifica”.
Va bene Gabriele. Bello questo discorso sulle invenzioni. Ma alla fine come può l’Italia tornare a crescere?
Riprendendo il pensiero di Cattaneo, la soluzione risiede a mio parere nel connubio tra libertà e istituzioni. Alle istituzioni – pubbliche e private – spetta il compito di istituire scuole che sappiano formare i ragazzi stimolando le menti alla conoscenza produttiva, a una conoscenza che non sia mera erudizione. Cattaneo ci dice che la trasmissione dei saperi in campo umanistico e scientifico deve essere costantemente piegata ai bisogni di una società in perenne trasformazione. Tradotto nel mondo di oggi. Le nostre scuole, per essere produttive, dovrebbero essere finanziate da imprese che riscuotono un successo mondiale nella produzione e nella vendita dei prodotti Made in Italy. In questo modo i giovani imparano a lavorare, ad innovare nei campi in cui le imprese italiane hanno raggiunto livelli di eccellenza senza perdere tempo.
In fondo, si tratterebbe di recuperare il modello d’insegnamento tipico della Società d’incoraggiamento di arti e mestieri – l’istituto lombardo di cui Cattaneo fu segretario generale per alcuni anni – ove i giovani non solo assistevano alle lezioni dei professori, ma imparavano un mestiere secondo le tecniche più avanzate per la società di allora. Solo in questo modo i giovani, formati in una scuola che sappia fondere in modo armonico il sapere umanistico con quello scientifico, possono liberare la loro creatività contribuendo a rafforzare il successo del Made in Italy nel mondo.
Le maggiori scoperte scientifiche – ci ricorda Cattaneo – sono avvenute non già perché una persona fosse più colta di un’altra. La persona di successo è quella che ha saputo mettere a frutto il suo patrimonio di conoscenze selezionando i dati culturali che gli servivano per realizzare il progetto vincente.
Steve Jobs non era una cima nel campo degli studi. Difatti non terminò l’università. Perché ha fatto fortuna? Perché è diventato ricco? Il merito di Jobs fu di aver realizzato un personal computer dotato di una grafica che per la prima volta era assai più bella e sviluppata rispetto agli altri pc. I caratteri del Mac erano avanti anni luce rispetto agli altri calcolatori. Questo – ci direbbe Cattaneo – fu l’atto dell’intelligenza di Jobs. Come fu reso possibile questo atto d’intelligenza? La ragione sta tutta nella cultura cognitiva di Jobs. Fu la frequentazione di un corso di calligrafia a suscitargli l’amore per i caratteri ben disegnati. Nel celebre discorso tenuto ai neolaureati dell’Università di Stanford nel 2005, l’inventore del Mac disse:
“Il Reed College a quel tempo offriva probabilmente i migliori corsi di calligrafia del paese…ho imparato dei caratteri serif e sans serif, a come variare la spaziatura tra differenti combinazioni di lettere, e che cosa rende la migliore tipografia così grande. Era bellissimo, antico e così artisticamente delicato che la scienza non avrebbe potuto ‘catturarlo’, e trovavo ciò affascinante. Nulla di tutto questo sembrava avere speranza di applicazione pratica nella mia vita, ma dieci anni dopo, quando stavamo progettando il primo computer Machintosh, mi tornò utile. Progettammo così il Mac: era il primo computer dalla bella tipografia. Se non avessi abbandonato gli studi, il Mac non avrebbe avuto multipli caratteri e font spazialmente proporzionate”.
Jobs non ci dice nulla sugli insegnanti che ebbe a quel corso di calligrafia ma è evidente che se un pessimo docente avesse tenuto le lezioni, la passione di Jobs per la bellezza dei caratteri non sarebbe germinata così facilmente.
Ma veniamo al secondo termine del connubio: libertà. Cattaneo ci ricorda che le società più ricche sono quelle in cui i poteri pubblici riconoscono ed incoraggiano la libera iniziativa dei cittadini abbassando la tassazione sul lavoro. Le imposte troppo alte infatti, “accrescendo li attriti che stancano l’industria, rallentano la pubblica prosperità in quanto essa scaturisce dalla volontà”.
Se pensiamo alle imprese italiane che resistono alla crisi e continuano ad eccellere nel design, nella moda, nell’alimentazione, la lezione da trarre potrebbe essere questa: solo libertà d’impresa e una scuola piegata all’innovazione ci consentiranno di riprendere a volare e a volare alto. Questi i due compiti che spettano al governo: liberare le imprese dai lacci della burocrazia e dal peso della tassazione; investire nella ricerca e nella formazione scientifica riformando in profondità le istituzioni scolastiche e universitarie.
Nei prossimi mesi a Milano accorreranno tanti stranieri per visitare Expo 2015, la grande Esposizione internazionale dedicata al tema dell’alimentazione. Quali saranno le loro mete? In quali ristoranti andranno? Quali locali attireranno la loro curiosità? Soprattutto: quale impressione avranno dei milanesi e più in generale degli italiani con cui entreranno in contatto negli alberghi, nei negozi, nelle piazze, nei ristoranti della nostra città? Non sono domande scontate perché dal modo con cui i milanesi sapranno accogliere i visitatori dipenderà il successo dell’iniziativa.
In fondo la partita di Milano con Expo non si gioca sul terreno della cultura, della storia o del paesaggio. Milano offre molto in questo campo, a partire dal Duomo. Eppure, pensateci bene: non è questo il suo punto di forza. Ci sono tante città italiane che hanno molto di più. Pensate a Firenze, a Roma, a Venezia, a Napoli, a Palermo: vogliamo forse paragonare il Colosseo, i Musei Vaticani o piazza di Spagna alle Colonne di San Lorenzo, alla Pinacoteca di Brera o all’Arco della Pace? E gli Uffizi sono forse avvicinabili alle Gallerie d’Italia, la prestigiosa collezione di dipinti resa accessibile al pubblico da Intesa San Paolo in tre palazzi storici milanesi? I navigli possono forse reggere il confronto con i canali di Venezia? Un tempo sì, quando Milano con il suo naviglio in centro era il luogo di confluenza tra le acque dell’Adda e quelle del Ticino portate dal naviglio martesana e dal naviglio grande. Oggi non più.
Ue Gabriele!! Come puoi svilire in questo modo la tua città?
Non sto svilendo Milano. Noi milanesi possiamo batterci ancora per rendere la città più attraente sotto il profilo paesaggistico. I progetti non mancano. Al momento la situazione è però quella che ho accennato sopra. Che fare allora? Dove stanno i punti di forza di Milano?
Vinceremo la partita se saremo capaci di attirare il pubblico su un binario diverso rispetto a quello storico culturale. Il binario dell’arte e della cultura è importante ma non può essere l’unico. Il segreto del successo risiede anche nell’innovazione, nella capacità di progettare il futuro con creatività. Questo discorso – come accennavo sopra – vale per l’Italia nel suo complesso. In altre parole: il binario dell’identità storica potrà avere un senso solo se sapremo “appaiarlo” al binario dell’innovazione.
Il punto di forza di Milano risiede precisamente in questo: nella sua capacità di innovare, di aprirsi al mondo. E’ la città in cui l’atmosfera internazionale è per così dire vivificata dalle concrete esigenze del lavoro. Qui operano i maggiori marchi della moda. Qui il design trova il suo habitat naturale: il salone del mobile, che si tiene in primavera, attira ogni anno migliaia di visitatori che chiedono di essere aggiornati sulle novità più importanti nel campo dell’arredamento.
Milano, diversamente da Firenze, Roma, Venezia, deve guadagnarsi i turisti con il sudore della fronte. Non può affidarsi soltanto alla rendita del patrimonio artistico e culturale. Certo, la città ha monumenti e musei ma sono pochi e non all’altezza di una città d’arte. Perché venire a Milano allora? Perché qui l’ingegno degli italiani si esprime al massimo grado: tanti giovani aprono locali, inventano nuovi spazi, tentano con coraggio la strada del successo nei campi più svariati.
Nelle vie di Milano i turisti scoprono locali che presentano al massimo grado l’arte italiana in cucina. Michelangelo diceva: “La scultura la si ha nella mente prima che nelle mani”. La cucina italiana presenta una filosofia simile. E’ creativa perché sono i cuochi italiani a renderla tale. E’ varia: la cucina piemontese, lombarda, emiliana, romagnola, veneta, toscana, romana, napoletana, siciliana, sarda hanno ciascuna una nota inconfondibile. Ognuna ha i suoi piatti, i suoi vini particolari. A Milano hanno sede tanti locali e ristoranti gestiti da imprenditori del gusto che non sono milanesi ma trovano qui il luogo ideale per farsi conoscere. Molti hanno successo perché offrono una cucina di qualità che mostra un filo diretto con il territorio da cui provengono.
I piatti italiani sono davvero la sintesi del Made in Italy perché vengono preparati con creativa semplicità. Gli stranieri, in particolar modo gli anglosassoni, hanno sempre apprezzato il largo spazio che nella cucina del Belpaese è riservato agli erbaggi. Non è per caso se nel vocabolario americano e inglese sono tuttora citati i nomi originari di “broccoli” o “zucchini”.
Con Expo Milano sarà la vetrina del Made in Italy. E’ l’Italia come dovrebbe essere: aperta al progresso senza perdere la sua identità. Immaginazione e Tradizione: questi i binari che renderanno ancora possibile il successo del Made in Italy nella cucina, nella moda, nel design.