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Fini e la svolta di Mirabello

Il discorso che Gianfranco Fini ha tenuto nella cittadina ferrarese di Mirabello ha il sapore di una sfida lanciata a Silvio Berlusconi e a Umberto Bossi. Certo, Fini si è guardato bene dall’attaccare frontalmente il governo, denunciando tout court la politica seguita dal centro destra. Ma è facile intravedere, nella studiata moderazione delle sue parole, un attacco esplicito ai partiti che hanno vinto le elezioni del 2008.
Il Popolo della Libertà e la Lega Nord vengono accusati di aver perseguito troppo spesso, nell’azione del governo, interessi particolari di territori o di categorie di cittadini a danno di altre. Fini ha criticato i provvedimenti di contenimento della spesa pubblica portati avanti dal governo, puntando l’indice contro i tagli ai fondi per la polizia, alle risorse per la pubblica istruzione, lasciandosi andare a una serie di critiche che neppure l’opposizione ha saputo fare in questi anni con pari intensità. Sulla riforma del processo breve, il presidente della Camera ha difeso la Magistratura affermando che “il garantismo non può essere mai considerato una sorte di immunità permanente”. Evidente il riferimento ai progetti del governo sul “processo breve” o alla polemica insorta alcuni mesi fa sul disegno di legge relativo alle intercettazioni.
Insomma, il suo è stato un discorso da vero leader politico, il che finisce per rendere assai poco credibile il ruolo di terzietà e di garanzia richiesto dall’ufficio di presidente della Camera. Oggi Berlusconi, dopo l’accordo preso ieri al vertice di Arcore con Umberto Bossi, salirà al Colle per chiedere al presidente della Repubblica di convincere Fini a dimettersi dall’incarico che attualmente ricopre. Una richiesta che i finiani hanno buon gioco a definire irricevibile, visto che in questa Costituzione parlamentare il Capo dello Stato, quale garante dell’ordinamento repubblicano, non può arrogarsi il compito di dimettere il presidente di un’assemblea parlamentare o fare pressioni perché questi lasci l’incarico.        
A Mirabello Fini ha denunciato l’assenza nel Popolo della Libertà di uno spazio per una sana dialettica tra le varie correnti, sostenendo che la politica – nel senso etimologico del termine – dovrebbe tendere costantemente alla promozione del bene della comunità (dal greco antico: polis, città, comunità). Fini ha ragione nel contestare al Pdl una gestione scarsamente rispettosa nei confronti di chi la pensa diversamente da Berlusconi. Ma un partito ove la linea del Capo riscuote il consenso del 90% dei seguaci attivi, avrebbe dovuto fargli capire che la discussione di idee alternative a quelle della stragrande maggioranza viene a cessare una volta che la linea da seguire sia stata decisa. Rilasciando continue dichiarazioni in polemica con Berlusconi, Fini sembra aver rubato il mestiere all’opposizione. Berlusconi e Bossi hanno buone ragioni per chiedere le dimissioni al presidente della Camera, ma sbagliano a fare pressioni sul Capo dello Stato perché la Costituzione vigente non prevede che il presidente della Repubblica possa svolgere il compito ch’essi vorrebbero attribuirgli.
Prendendo in esame con il metodo della scienza politica quanto sta avvenendo nel centrodestra,  non Fini, ma  il Cavaliere sembra esser rimasto coerente  alla  s u a   politica, il che può sembrare un paradosso ma è difficilmente contestabile. Berlusconi ha ottenuto un notevole sostegno popolare nel corso di questi quindici anni: assieme alla Lega, rappresenta la promessa di un cambiamento radicale dell’ordinamento costituzionale in netta rottura con i tradizionali equilibri della cosiddetta Prima Repubblica. La riforma della Carta in senso federale e presidenziale costituisce la chiave di volta dell’accordo tra Berlusconi e Bossi. 
In questi ultimi anni, Fini ha dimostrato invece di credere nella validità dei principi cardine su cui si regge la Costituzione parlamentare. Egli si è posto in tal modo sulla stessa linea d’onda del centro sinistra. Credo che il  partito che si accinge a fondare non avrà molta fortuna, e questo per la sua affinità con il Partito democratico, con l’Udc di Casini, con il movimento di Rutelli. 
Le leggi della politica, diceva Max Weber, non si fondano sui dubbi e sui compromessi, bensì sulle certezze e sulla fedeltà del leader ai valori guida del movimento. Gianfranco Fini, criticando pubblicamente una parte rilevante dei provvedimenti del governo, non solo ha tradito la funzione di terzietà che dovrebbe spettare al presidente della Camera, ma ha finito per smontare i valori guida su cui si regge l’operato del governo. In tal modo, egli si è fatto portatore di  valori   a l t e r n a t i v i  ed  o p p o s t i  a quelli di Berlusconi e della Lega, seguendo una politica che non può essere accettata in alcun modo dai suoi (ex) compagni di coalizione.
E’ facile immaginare che nei prossimi mesi i gruppi parlamentari di Futuro e Libertà, costituiti per iniziativa di Fini, avranno due obiettivi. Annientare il Pdl berlusconiano e fermare la Lega. Una strategia condivisa ovviamente dall’Udc, da  Rutelli, dal Partito democratico e dall’Italia dei Valori: tutti uniti nel fermare ogni ipotesi di cambiamento radicale dell’ordinamento costituzionale.
Ma il presidente della Camera intende fare molto di più. Egli vuole salvare l’Italia così com’è,  “una e indivisibile”, opponendosi ad ogni riforma in senso autenticamente federale. Difatti a Mirabello non sono mancati attacchi nei confronti del programma della Lega. “Solo un ignorante di storia e geografia può credere all’esistenza della Padania” ha detto il presidente della Camera, aggiungendo che uno Stato regionale indipendente non potrebbe reggere in alcun modo una crisi economica come quella appena passata. “Se la crisi ha provato duramente un colosso come la Germania, figuriamoci cosa sarebbe accaduto se ci fosse stata una Padania indipendente” ha detto Fini. Sull’attendibilità di quest’analisi è lecito nutrire qualche dubbio. Seguendo il suo ragionamento, gli Stati piccoli non avrebbero alcuna chance nel mondo globale. Se le cose stessero realmente in questi termini, paesi come la Repubblica Ceca, la Slovenia, l’Austria, il Belgio, l’Olanda o i paesi scandinavi  – tutti con  popolazioni al di sotto dei 20 milioni di abitanti – non dovrebbero esistere. Invece non solo esistono,  ma sono anche ben governati e amministrati come dimostrano le statistiche del World Economic Forum.
Ma, tornando al tema Padania, credo siano opportune alcune precisazioni. Relativamente alle nozioni geografiche, basta aprire il manuale di Geografia economica e sociale di Angelo Mariani, edito da Hoepli or son precisamente cent’anni, nel 1910, per trovare notizie particolarmente “scomode” per quanti negano l’esistenza di una Padania geografica: il concetto geoeconomico di Padania viene infatti preso in esame mettendo in luce i suoi elementi di diversità dall’Appenninia. Non basta. Quasi settant’anni dopo, il geografo Jean Gottmann, in un saggio pubblicato nel 1978 nel volume curato da Calogero Muscarà (Megalopoli mediterranea,  Milano, Franco Angeli 1978) confermò la prospettiva di una megalopoli padana. Insomma, solo i geografi influenzati dai valori dello Stato nazionale italiano hanno negato negli ultimi mesi  l’esistenza geografica della Padania.
Relativamente alla storia, Fini ha ragione nel sostenere che uno Stato esteso a tutto il Nord Italia non è mai esistito. Ma non si può sapere cosa avverrà nei prossimi anni. In fondo, chi avrebbe mai immaginato, nell’Europa della Restaurazione, che gran parte della penisola italiana sarebbe stata unificata in soli due anni da un piccolo Stato regionale come il Piemonte dei Savoia? Eppure fu quel che accadde, principalmente grazie all’opera di un politico spregiudicato come il conte di Cavour. Allo stesso modo, non vedo come si possa escludere che l’Italia torni ad essere nei prossimi anni un’espressione geografica, una penisola articolata in più Stati come la Scandinavia. 

Bozzetti satirici da frammenti di storia/1

Il generale Napoleone Bonaparte al Direttorio francese, Milano, 26 agosto 1796

“Gl’inglesi hanno persuaso il Re di Napoli, ch’egli è qualche cosa. Io lo convincerò ch’egli è nulla. Se persiste contro i patti dell’armistizio a mettersi in armi , io giuro in faccia all’Europa di marciare contro i suoi sognati settantamila uomini con seimila granatieri, quattromila cavalli e cinquanta pezzi di artiglieria”.

Il cavaliere Silvio Berlusconi al Direttorio leghista, Lesa, 25 agosto 2010:

“I delusi del Pd, Francesco Rutelli e l’Udc di Pier Ferdinando Casini hanno persuaso Gianfranco Fini ch’egli è qualche cosa. Io lo convincerò del contrario. Se persiste a volermi attaccare contro ogni patto di desistenza e pacificazione, io giuro dinanzi al mondo di Arcore di marciare contro i suoi sognati sgherri di Futuro e Libertà con seimila articoli di Vittorio Feltri, con quattromila tigri del fido Roberto Calderoli e con i pezzi di artiglieria messi a disposizione dall’agguerrita Daniela Santanché”.

Berlusconi e i cattolici spaccati in due…

L’editorialista di Famiglia Cristiana, Beppe Del Colle, sostiene in un articolo dal titolo “Il cavaliere dimezzato” che l’ingresso in politica del Cavaliere avrebbe provocato una grave spaccatura tra gli elettori cattolici (ex democristiani): “La discesa in campo di Berlusconi ha avuto come risultato quello che nessun politico nel mezzo secolo precedente aveva mai sperato: di spaccare in due il voto cattolico (o, per meglio dire, il voto democristiano)”.

Non sono d’accordo. Negli anni immediatamente precedenti alla discesa in campo di Berlusconi, il mutamento di segno politico nell’elettorato cattolico si era già verificato in tutta la sua estensione. Basti ricordare che la Lega Nord, nelle elezioni politiche del 1992, raggiunse per la prima volta la soglia dell’8,6 per cento, guadagnando percentuali bulgare in province che per decenni erano state rigorosamente ‘bianche’.

La crisi del cattolicesimo politico, che negli anni della cosiddetta Prima Repubblica si sostanziò (a mio giudizio assai mediocremente) nella Democrazia Cristiana, fu dovuta quindi ad altre ragioni. Senza dubbio la modesta levatura della classe politica che fu a capo del partito negli anni Ottanta. Già nel 1981 Giuseppe Lazzati, uno dei maggiori uomini di cultura, rettore dell’Università Cattolica dal 1969 al 1983, avvertì i politici democristiani che occorreva recuperare il filo diretto con la gente. Non fu ascoltato. Il partito continuò a dilaniarsi in lotte di potere interne, in una politica di palazzo lontana dai bisogni della società. Quando arrivò la tempesta di Tangentopoli la Democrazia Cristiana, che già perdeva acqua da tutte le parti, naufragò miseramente tra l’indifferenza generale.

Non è quindi colpa di Berlusconi se i cattolici sono oggi divisi, privi di una guida politica che sia in grado di rappresentarli degnamente. E’ colpa invece dei democristiani, i quali mostrarono di non avere una cultura politica adeguata, che fosse realmente al servizio dei valori cattolici.