Come veniva istruito un processo nella Milano d’antico regime, nel Cinque o nel Seicento? Noi oggi siamo legati a una concezione per la quale nel processo non si fa altro che applicare la legge secondo un codice di norme definito, emanato dallo Stato di diritto. Nell’Europa dell’antico regime – vale a dire nel periodo storico anteriore alla rivoluzione francese e all’età delle codificazioni – il sistema era profondamente diverso. Nello Stato di Milano tra il XVI e il XVIII secolo la giustizia era per lo più una prassi, una pratica quotidiana compiuta dai giudici che non solo informavano le sentenze in base alle norme secolari del diritto comune, del diritto ducale e municipale, ma si fondavano anche sulla communis opinio, vale a dire sulle sentenze dei giudici che in passato si erano espressi su casi analoghi.
Non vi erano sostanziali differenze tra il processo istruito dai tribunali ecclesiastici e quello dei tribunali secolari. In fondo, il sistema di giustizia dei poteri laici aveva molte affinità con quello ecclesiastico istruito secondo il diritto canonico. Il processo era di tipo inquisitorio, in gran parte scritto e non consentiva all’imputato la scelta di un difensore che potesse bilanciare efficacemente l’accusa come avviene oggi. Ettore Dezza – che ha studiato un caso importante di giustizia ecclesiastica milanese: il celebre processo contro la monaca di Monza istruito tra il 1607 e il 1609 – ha rilevato come la giustizia penale fosse amministrata nel ducato di Milano da un apposito tribunale presieduto da un vicario criminale appositamente delegato dall’arcivescovo. Il vicario era un giurista, laureato in utroque iure (in diritto canonico e diritto comune). Questo giudice non operava da solo. Era coadiuvato da una squadra composta dall’avvocato fiscale, da alcuni attuari e cancellieri. L’avvocato fiscale era incaricato di tutelare gli interessi del fisco qualora la sentenza arcivescovile avesse stabilito una pena come ad esempio la confisca dei beni. Il vero protagonista era però il vicario criminale: era lui che istruiva il processo a carico dell’imputato. Prima di emanare la sentenza, conferiva con l’arcivescovo per il necessario via libera alla pubblicazione della condanna o dell’assoluzione.
Un altro interessante elemento di diversità era costituito dalla funzione delle carceri. Diversamente dalle nostre società, ove le prigioni sono luoghi ove si sconta la pena, le carceri a quei tempi detenevano una funzione che potremmo definire “preventiva”: vi erano rinchiusi gli imputati per evitare che sfuggissero dalle “mani” della giustizia. Se togliamo le condanne a morte, le pene erano di natura corporale o pecuniaria. Nel primo caso era prevista la galera, intesa nel senso originario del termine, vale a dire di “condanna a remare nelle galee”: il condannato, consegnato alle autorità della repubblica di San Marco o della repubblica di Genova, era impiegato ai lavori forzati da scontarsi per un certo numero di anni a bordo delle navi appartenenti alle flotte di questi Stati.
Nello Stato di Milano di antico regime i conflitti di competenza erano molto diffusi per la molteplicità delle istituzioni religiose e secolari che potevano intervenire in casi che rientravano nel loro ambito giurisdizionale. I tribunali dell’arcivescovo, soprattutto all’epoca di San Carlo Borromeo ma anche nel corso del Seicento, entrarono spesso in conflitto con le istituzioni del ducato di Milano: dal Senato alle altre magistrature secolari. Ulteriori conflitti insorgevano tra il tribunale dell’inquisizione romana, i tribunali dell’arcivescovo o il già citato Senato in casi speciali quali il possesso di libri proibiti o gli atti di stregoneria.
Un altro caso interessante di giurisdizione ecclesiastica è quello che ho preso in esame nel mio libro, G. Coltorti, Via Filodrammatici prima di Mediobanca, Scalpendi Editore, Milano 2015. Donna Giustina Riva venne uccisa il 27 dicembre 1657 dal marito, il colonnello don Filippo Leyzaldi per ragioni di adulterio. Si trattava di un caso di uxoricidio abbastanza comune all’epoca, per il quale la normativa municipale, riconosciuta dal Senato di Milano, stabiliva l’assoluzione dei mariti in caso di flagrante adulterio. Qui è interessante notare come il tribunale incaricato di istruire il processo fu la curia ambrosiana perché don Leyzaldi era membro dell’ordine religioso militare di San Giacomo (San Jago) della Spada. In base a un criterio che potremmo definire ratione personam, il colonnello spagnolo fu giudicato in prima istanza in base alla sua appartenenza a un ordine religioso. A Milano l’autorità che esercitava la funzione di giudice per l’ordine di San Giacomo era l’arcivescovo Alfonso Litta.
Il vicario criminale Giuseppe Rastelli, con sentenza risalente al 1658, stabilì l’assoluzione del colonnello spagnolo ma i familiari dell’uccisa non si arresero. La sorellastra di Giustina, Fulvia Anolfi e il padre di questa, il senatore Francesco Perpetuo, fecero ricorso. Si appellarono non già al Senato di Milano ma a un tribunale spagnolo, al Sacro Consiglio del Re delle Spagne, la cui sentenza nei confronti dell’uxoricida, spiccata quattro anni dopo, fu di condanna pecuniaria e di esilio dallo Stato di Milano.
Ci troviamo quindi di fronte a due tipi di processo: il primo, quello arcivescovile, di natura per così dire ecclesiastica, istruito nei modi che si sono ricordati; il secondo di natura “secolare”, anche se il carattere confessionale della monarchia spagnola rinviava certamente al sovrano asburgico quale supremo capo dell’ordine spagnolo di San Jago, un ordine che era di tipo sia religioso che militare.
Se desideri approfondire questa vicenda, puoi trovare alcuni spunti interessanti nel mio libro. Buona lettura 🙂