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ASL 2021: studi su Milano napoleonica e sulla città universitaria del primo ‘900

Il volume pubblicato dalla Società Storica Lombarda è dedicato alle istituzioni culturali e scientifiche che fiorirono in città nei primi anni del secolo scorso; la seconda sezione centrata sul bicentenario napoleonico e portiano.

L’Archivio Storico Lombardo 2021 (Milano, Scalpendi Editore, 415p). presenta contributi di notevole interesse nel campo degli studi storici. La prima sezione del libro è dedicata alla Milano degli anni Venti del Novecento, la seconda al bicentenario dalla morte di Napoleone e del poeta milanese Carlo Porta (1821-2021). In questa sede ci si soffermerà brevemente su queste parti, anche se occorre precisare che le altre sezioni del volume presentano saggi di notevole originalità, come ad esempio quello di Marino Viganò su Varese negli anni tormentati della dominazione francese del ducato di Milano (1499-1512; 1515-1521) oppure il contributo di Elisa Occhipinti sulle Tracce di Lombardia nella Divina Commedia ove è preso in esame il concetto medievale di Lombardia in Dante. 

Nella prima sezione dell’Annale 2021 i contributi prendono in esame le istituzioni universitarie e culturali esistenti nella Milano dei primi anni del XX secolo, una città interessata all’epoca da un profondo cambiamento nella sua struttura urbanistica. L’aumento demografico della popolazione, che superava largamente il mezzo milione di abitanti nel 1911 (600.612 cittadini) costrinse l’amministrazione a superare il vecchio piano regolatore Beruto sostituendolo a partire dal 1912 con quello Masera-Pavia: il nuovo piano creò le condizioni per l’imponente trasformazione del comune urbano. Varrà la pena ricordare in proposito la sostituzione dei viali alberati lungo il tracciato dei Bastioni, che furono demoliti per costruire nuove arterie stradali. 

Come mette in evidenza Adele Buratti Mazzotta nel saggio di introduzione alla prima sezione, il piano Masera-Pavia, nell’allargare ulteriormente la struttura urbanistica ad anelli concentrici fino a comprendere nuove aree dell’antico contado, intese rispondere all’accresciuta attività industriale della città; esso intese pure far fronte alla richiesta di nuove abitazioni dovuta all’aumento demografico che si è sopra ricordato. Fu in questa Milano in tumultuoso sviluppo urbanistico che si costruirono le prime case, rese effettive ad opera dell’Istituto Autonomo Case Popolari (fondato nel 1908) sotto la guida energica dell’architetto Giovanni Broglio.

In questa Milano rinnovata sorsero istituzioni universitarie e culturali destinate ad arricchire la vita sociale della città. Occorre ricordare in primo luogo il Politecnico, il cui edificio venne costruito nell’area un tempo agricola delle Cascine Doppie tra il 1915 e il 1927. Un’altra importante novità, come messo in evidenza nel saggio di Lorenzo Ornaghi, fu la fondazione nel 1921 dell’Università Cattolica per volontà di padre Agostino Gemelli e di un gruppo di cattolici italiani particolarmente sensibili al progresso della scienza e della cultura. La prima sede si trovava in via Sant’Agnese 2, poi trasferita nei chiostri bramanteschi dell’ex Ospedale Militare di Sant’Ambrogio negli anni Trenta. Padre Gemelli volle che i giovani cattolici italiani ricevessero una formazione rigorosa, informata ai più aggiornati metodi didattici allora esistenti, sul modello di atenei quali l’università di Lovanio o di Berlino: l’obiettivo era la costituzione di una classe dirigente cattolica culturalmente attrezzata per favorire la rinascita cristiana nell’Italia del primo Dopoguerra. 

Agli anni Venti del Novecento risale anche la fondazione dell’Università degli Studi di Milano: fu in seguito alla riforma Gentile che fu possibile costituire nel capoluogo lombardo un ateneo pubblico in grado di competere con quello antico e prestigioso di Pavia. Nel 1924 l’Università degli Studi con sede negli antichi chiostri dell’Ospedale Maggiore in via Festa del Perdono si aggiunse quindi alla Cattolica nel panorama delle istituzioni accademiche milanesi, articolata nelle facoltà di Medicina e Chirurgia, di Lettera e Filosofia, di Giurisprudenza, di Scienze fisiche, matematiche e sperimentali. 

Di notevole interesse per la qualità e l’originalità dei saggi è anche la seconda sezione dell’Annale dedicata come si è accennato al bicentenario napoleonico. Carlo Capra si sofferma sulle numerose pubblicazioni dedicate al tema negli ultimi due anni, prova di un rinnovato interesse per il periodo napoleonico. Di immediata lettura è ad esempio il libro di Andrea Merlotti e Paola Bianchi, Andare per l’Italia di Napoleone (Il Mulino, Bologna 2021)ove sono presi in esame i luoghi della penisola di più stretta relazione con la famiglia Bonaparte, con una penetrante analisi delle dimore e monumenti napoleonici i cui ambienti rivestirono un ruolo importante non solo nell’Italia del Risorgimento, ma anche nell’Italia liberale e negli anni del regime fascista. 

Un altro studio interessante è quello di Vittorio Criscuolo dedicato all’esilio di Sant’Elena e in particolar modo alla formazione del culto romantico di Napoleone (Ei fu. La morte di Napoleone, Bologna, Il Mulino 2021); sulla base delle memorie scritte negli ultimi anni della sua vita, Bonaparte volle essere ricordato come erede della Rivoluzione, promotore delle scienze e delle arti, combattente e difensore della libertà dei popoli. Un’immagine distante anni luce dall’effettivo stile di governo e dalla natura dei regimi autoritari ch’egli instaurò in Europa negli anni in cui il suo potere raggiunse l’apogeo; un’immagine ch’egli tuttavia riuscì a trasmettere con successo a tanti patrioti romantici che nel culto della sua memoria, nel ricordo delle gesta militari e delle esperienze fondamentali che pure furono possibili nel campo della cultura, delle arti, delle scienze nelle monarchie amministrative napoleoniche, trovarono ispirazione per immaginare un nuovo ordine costituzionale da opporre all’Europa conservatrice uscita dal Congresso di Vienna. 

Un altro saggio di notevole interesse è il contributo di storia demografica di Emanuele Pagano che, sulla base dello studio sistematico degli atti di matrimonio firmati dai nubendi davanti all’ufficiale di stato civile negli anni 1807, 1808 e 1809, ha preso in esame il tema dell’immigrazione, dei mestieri e delle professioni nella Milano capitale del regno italico: la modernità delle istituzioni napoleoniche con le novità portate in tanti ambiti della vita civile non intaccarono fenomeni di lunga durata come le scelte matrimoniali che coinvolsero famiglie che appartenevano nella stragrande maggioranza dei casi alla stessa classe sociale; relativamente alla mobilità del mercato del lavoro, Milano si confermava città di immigrazione di tanti lavoratori i cui territori di provenienza restavano però in gran parte quelli legati a Milano per la vicinanza geografica o per i tradizionali legami storico-culturali risalenti allo Stato di Milano di antico regime.

Occorre inoltre ricordare il saggio di Gian Marco Gaspari che si sofferma sull’ode in morte di Napoleone scritta da Pietro Custodi, ex funzionario del ministero delle finanze italico, celebre economista del primo Ottocento: la poesia, composta poco tempo dopo il celebre Cinque Maggio, è interessante perché, originata anch’essa dalla notizia della scomparsa dell’Empereur, rivela ideali e giudizi nei confronti di Napoleone notevolmente diversi da quelli di Manzoni. Se questi – come noto – rinviava ai posteri un giudizio complessivo sulle sue imprese, Custodi nei suoi versi non perdonò a Bonaparte di aver tradito gli ideali di libertà instaurando regimi autoritari le cui strutture amministrative servirono ai vincitori per rendere ancor più schiave le popolazioni conquistate.

Il 2021 è stato anche il bicentenario della morte del poeta milanese Carlo Porta. Nel saggio che chiude questa seconda sezione sui due bicentenari, Renato Marchi si è soffermato sullo studio del Giovanni Maria Visconti, opera che il Porta scrisse con Tommaso Grossi per uno spettacolo che si sarebbe dovuto tenere al Teatro della Canobbiana nel Carnevale del 1818. L’argomento, tratto dalla storia medievale di Milano, verteva sulle malefatte del duca Giovanni Maria Visconti: questi, assunto il governo del Ducato nel 1402 alla morte del padre Gian Galeazzo, venne assassinato nel 1412 nella chiesa di San Gottardo per una congiura di palazzo. L’opera teatrale, in stile tragicomico, mescola elementi di storia e di finzione, contiene parti in milanese e parti in italiano. Marchi ricostruisce le origini di questo lavoro, da cui risalta lo stile romantico di Grossi e Porta in un periodo storico caratterizzato dalla nota querelle tra classici e romantici. L’opera, scritta di getto in soli quindici giorni, non potè essere rappresentata a teatro per l’intervento di una censura austriaca in quegli anni particolarmente attiva. Varrà la pena ricordare in proposito la coeva chiusura del Conciliatore, la rivista cui collaborarono gli esponenti più illustri della Milano romantica.

Tre proposte per Milano

Questo articolo è stato pubblicato in versione ridotta su “Il Giorno”, 27/06/2021

Gli obiettivi ambiziosi che Milano dovrà raggiungere nei prossimi anni sono quelli con cui si confrontano le città più avanzate del pianeta riunite in C40 Cities: oltre alla riduzione dell’inquinamento da combustibili fossili, la formazione di spazi urbani in cui siano garantiti standard elevati di vivibilità e di cura per l’ambiente. In realtà, una delle sfide maggiori per le metropoli di tutto il mondo continuerà ad essere la riduzione del traffico automobilistico. 

In via generale la prossima amministrazione dovrà intervenire con maggior forza su tre fronti. Anzitutto occorre aumentare la rete delle metropolitane. Bene il prolungamento della M5 verso Monza e della M1 verso Baggio; ci sono però aree della città (come la zona sud verso Noverasco o Ponte Lambro) che non sono servite bene. Si riprenda il progetto della M6.

Il secondo fronte riguarda la formazione di vere e proprie autostrade per le biciclette che colleghino in modo organico le periferie con il centro. E’ vero che si sono realizzate piste ciclabili di rilievo come in corso Venezia, in corso Buenos Aires o in viale Monza. Serve tuttavia una rete organica di percorsi che offra ai cittadini il mezzo per raggiungere il centro in sicurezza, lungo tracciati che tutelino la salute degli utenti limitandone la diretta esposizione agli scarichi di camion e automobili. Oggi questo non avviene. Se vogliamo che Milano sia davvero una città degna di stare sullo stesso piano di metropoli quali Amburgo, Copenhagen, Parigi e Berlino, serve una rete ciclabile sicura, pulita, in grado di essere utilizzata da tutti i cittadini metropolitani. Ad Heidelberg questo già avviene, ma il caso di Berlino è ancor più importante, non foss’altro perché si tratta di una metropoli che per dimensioni è paragonabile a Milano. Nella capitale tedesca è in fase di concreta realizzazione “InfraVelo”, una vera e propria rete di piste ciclabili attrezzate con apposita segnaletica e stazioni di deposito per le bici. Come ha affermato la senatrice tedesca responsabile per l’ambiente, il traffico e la difesa del clima, Regine Günther: “Der Aufbau einer sehr guten Radinfrastruktur ist eine der zentralen Aufgaben in den kommenden Jahren. Denn je besser die Radwege, desto mehr Menschen steigen aufs Fahrrad um. So wird Berlin sauberer, sicherer und klimafreundlicher“. (Traduzione. La creazione di una buona infrastruttura per biciclette sarà uno dei compiti centrali nei prossimi anni. Tanto migliori saranno le piste ciclabili, quanto più persone passeranno ad usare le biciclette. Così Berlino diventerà più pulita, sicura e amica del clima”). Milano dovrà essere all’altezza di questa grande trasformazione urbanistica, se vorrà competere ad armi pari con le metropoli europee.

Il terzo intervento investe il tema del risparmio nel consumo energetico degli edifici: molto deve essere fatto, soprattutto per i vecchi fabbricati. Varrà la pena ricordare a tal proposito che la città di Heidelberg negli ultimi dieci anni ha ridotto del 50% i consumi di energia in edifici datati (scuole e altri stabili). 

Idee per una riforma: la regione metropolitana lombarda

Questo articolo è stato pubblicato su “Il Giorno” del 15/4/2021

Da una ricerca curata da Mario Abis per il Centro Studi Grande Milano sulle condizioni in cui vivono gli abitanti della città metropolitana milanese è emerso come il 60% della popolazione ritiene fondamentale per la ripresa economica una costruzione adeguata dell’ente “Città metropolitana”. E’ evidente che fino ad oggi tale istituzione non ha funzionato: ha sollevato unicamente conflitti tra i municipi. Mai come in questi tempi si rende necessario un intervento legislativo teso a migliorare tale comparto amministrativo.

Nel programma della “Città a 15 minuti” il Sindaco Sala intende garantire nei quartieri migliori servizi pubblici a cittadini che, cessata la pandemia, continueranno in più occasioni a lavorare da casa. Perché questo piano non si riduca a una visione localistica, occorre però un intervento coraggioso: la divisione della città nei suoi antichi comuni. Questi, assieme ai municipi della Città metropolitana, a quelli della provincia di Monza-Brianza, a quelli legati a Milano ma inclusi nelle province di Novara, Varese, Como, Lecco, Pavia, Bergamo, Brescia, Lodi, Cremona, dovranno formare una grande Regione metropolitana. Il Presidente di questo nuovo ente, eletto direttamente dai sette milioni di cittadini che vi abitano, dovrebbe risiedere a Palazzo Marino e dividere con i Sindaci dei municipi l’amministrazione nel campo delle infrastrutture, dei trasporti, dell’urbanistica, dei parchi, della viabilità.

La grande Milano non potrà che essere una Regione amministrativa, al cui interno vi sia un fitto reticolo di comuni integrati nella nuova istituzione. Altrimenti la “Città a 15 minuti” rischia di essere un’idea grettamente municipalista, un po’ come quei milanesi che – come scriveva Ludovico di Breme a Federico Confalonieri in una lettera del 16 maggio 1814 – non sapevano guardare oltre “il borgo degli Ortolani”. 

La natura nel cuore di Milano: le sfide della forestazione urbana

Uno degli elementi che stanno contribuendo a mutare in profondità le fisionomia urbanistica di Milano è la progressiva espansione delle aree destinate a parchi, giardini, spazi verdi. 

La pandemia, lungi dall’interrompere questo processo,  ha finito con l’accelerarlo. E’ altamente probabile che nei prossimi anni le aree urbane acquisiranno i caratteri di “città-foreste”, in cui la presenza di alberi e spazi verdi finirà per essere un elemento fondamentale nel panorama urbanistico. Le aree metropolitane sono in poderosa espansione: si calcola che entro il 2050 all’incirca sei miliardi di persone vivranno al loro interno, a fronte di una popolazione complessiva pari a nove miliardi (dati ONU). La realizzazione di maggiori spazi per il verde contribuirà a contrastare l’aumento delle temperature, mantenendo le città più fresche e vivibili. Si capisce quindi come i sindaci delle maggiori metropoli del pianeta si stiano attrezzando per gestire questo cambiamento epocale con politiche che siano in grado di salvaguardare l’ambiente. 

Rientra in questa accresciuta sensibilità per la riduzione dell’inquinamento la costruzione di edifici in cui il verde dei giardini e dei parchi è divenuto un elemento fondamentale nella loro costituzione. A Milano un caso emblematico è il famoso Bosco Verticale realizzato dallo Studio Boeri nel 2014. Si tratta di due eleganti palazzi residenziali che ospitano più di 900 tipologie di alberi per un totale di 15.000 piante in uno spazio di 20.000 metri quadrati.

Il Bosco Verticale. Studio Boeri, 2014.

Occorre inoltre ricordare che in via Serio è in corso ad opera della società Covivio la costruzione di Vitae, un edificio pronto per il 2022: nel palazzo, ove verranno stabiliti gli uffici di ricerca oncologica e molecolare, sarà realizzata una vigna le cui piante saranno costantemente presenti nel percorso dei visitatori, accompagnandoli per così dire fino al tetto, a 200 metri di altezza. Anche qui la filosofia che ha ispirato l’architetto, Carlo Ratti, si lega perfettamente alle politiche ecologiche di “forestazione urbana” sopra richiamate: l’obiettivo, come ha dichiarato Ratti, è “riportare la natura nel cuore delle nostre città”; un traguardo, in quella zona a pochi metri dalla Fondazione Prada, destinato ad essere raggiunto in pochi anni: com’è noto, la stessa Covivio, Prada Holding e Coima si sono aggiudicati pochi mesi fa i lavori per la valorizzazione dell’ex scalo di Porta Romana ove verrà realizzato il villaggio olimpico e un parco di quasi 100.000 metri quadrati. 

E’ opportuno chiedersi se questa attenzione per gli spazi verdi possa contare su precedenti storici. Nella Milano medievale e moderna era del tutto assente quell’attenzione ecologica che è dominante nelle nostre società: vale a dire l’idea per cui gli alberi, i parchi e più in generale gli spazi verdi siano elementi del paesaggio da curare attentamente in politiche ambientali di riduzione dell’inquinamento e di contrasto agli effetti del riscaldamento climatico. 

Nella Milano di antico regime – e tale sarebbe rimasta fino alla metà dell’Ottocento – la città era divisa in due parti. Da un lato il centro cittadino fittamente urbanizzato compreso entro il tracciato delle antiche mura medievali, al di qua del Naviglio interno; dall’altro le “periferie”, denominati “borghi” in base alle porte di riferimento, che si estendevano fino ai Bastioni, ove il paesaggio era in larghissima parte agricolo, limitato a pochi palazzi patrizi con giardini, chiese o conventi lungo i principali assi viari. 

Nel corso del XVIII secolo la città fu interessata tuttavia da una profonda opera di rinnovamento edilizio che interessò non solo le autorità pubbliche (gli Asburgo di Vienna) ma anche i privati – nobili e redditieri – che ingrandirono le loro case rifacendone le facciate, ristrutturando i giardini allo stile italiano o inglese. 

Il conte Giacomo Sannazzari abitava in un elegante palazzo in piazza San Fedele che nella numerazione asburgica introdotta all’epoca dell’imperatore Giuseppe II corrispondeva  al civico 1912. Il Sannazzari fu un raffinato collezionista di opere d’arte e di libri antichi. Occorre ricordare in proposito che nella sua abitazione non solo si trovava il celebre dipinto Lo Sposalizio di Raffaello ma era conservato pure un prezioso manoscritto della Divina Commedia risalente al 1321.

Il conte Giacomo Sannazzari in un ritratto di Paolo Borroni (1805).

Alla sua morte, avvenuta nel 1804, l’immobile passò in eredità all’Ospedale Maggiore di Milano, che lo ebbe tuttavia per poco tempo. Con decreto del 4 luglio 1805, in tre concisi articoli, Napoleone ordinò che il palazzo di piazza San Fedele fosse ceduto allo Stato italico. In cambio della cessione dell’immobile, all’Ospedale Maggiore furono assegnati alcuni terreni a livello le cui rendite furono tali da eguagliare il valore della casa. Perché Napoleone volle che lo Stato entrasse in possesso di quell’elegante casa nel centro della città? Il decreto stabiliva che l’immobile dovesse servire di “abitazione al Ministro delle Finanze”. Da quell’anno il palazzo divenne proprietà del demanio italico e al suo interno, oltre ad esservi alcuni uffici della finanza, abitò il ministro Giuseppe Prina, uno dei funzionari più brillanti e probi dell’amministrazione italica. 

Nell’archivio dell’Ospedale Maggiore di Milano, nel faldone che comprende i documenti dell’eredità Sannazzari, si trova una preziosa perizia eseguita dai delegati Gaetano Faroni per il ministro delle finanze e Pietro Castelli per l’Ospedale Maggiore. Vi sono descritti in dettaglio i locali e gli arredi del palazzo di San Fedele. All’epoca le case da nobile erano articolate in tre ambienti: un cortile interno consentiva l’accesso ai locali al pianterreno generalmente riservati alle scuderie e ai depositi per le carrozze; il primo piano – definito piano nobile – era riservato alla famiglia proprietaria dell’edificio, mentre al secondo piano viveva la servitù. 

Molti si chiederanno che relazione abbia tutto questo con le aree verdi milanesi. Se si consulta la perizia, tra le stanze e arredi descritti al secondo piano si legge questa curiosa annotazione: “18. Terrazza ad uso di Giardino alla Genovese”. Che cosa significa questa espressione? Nel Dizionario di cognizioni utili alla studiosa gioventù pubblicato nel 1864 questi giardini erano definiti “spaziosi, digradati a terrazzi”, diffusi nelle città europee. Nel caso in esame si trattava del celebre giardino pensile che il conte Sannazzari aveva ricavato in una parte del tetto. Le memorie di quegli anni ricordano come il suo palazzo fosse divenuto famoso per quel giardino, al quale si accedeva salendo le scale che dal primo piano portavano ai locali della servitù. Si trattava certamente di uno spazio esclusivo ricavato sul tetto di un’elegante casa da nobile che il Prina trovò praticamente intatto. Esso non fu destinato però a lunga vita: il 20 aprile 1814, nel corso della rivolta popolare contro il governo napoleonico che sarebbe costata la vita al ministro Prina, il palazzo al civico 1912 venne completamente distrutto. 

Quel giardino pensile, che tanto aveva affascinato i visitatori nella Milano settecentesca e napoleonica, può essere ritenuto con buone ragioni uno dei primi tentativi con cui in Europa si cercò di realizzare un’ambiente domestico in cui le piante e le varie specie arboree fossero tutelate e valorizzate.

Una sfida da vincere: il buongoverno della città

Il rapporto tra politica e amministrazione è sempre stato complesso nella storia delle istituzioni. II problema cruciale è tuttora quello di assicurare il buongoverno conciliando l’intervento pubblico con le istanze di rinnovamento che provengono dalla società. Oggi, quando si parla di buongoverno al livello del Comune, della Regione o dello Stato, si fa riferimento a una classe politica che sia in grado di dialogare con le diverse anime della comunità, facendo una sintesi che abbia come fine ultimo il bene comune. Il guaio è che gli interessi di partito e l’insorgere della lotta politica finiscono spesso con il minare alle fondamenta la coerenza dei migliori programmi amministrativi. Programmi la cui attuazione può essere assicurata solo dalla continuità di una classe politica e amministrativa che sia allenata nella corretta gestione delle funzioni pubbliche. La buona amministrazione non è di destra né di sinistra. E’ semplicemente buona amministrazione. Accecati dai bagliori della lotta politica, noi spesso ci dimentichiamo questa palese realtà.

Non si tratta di una cosa nuova. Nella Milano medievale la lotta tra fazioni, ancor più dura e radicale, minò alle fondamenta la costituzione pluralistica del Comune quale si era formata nei secoli successivi all’eclissi del potere vescovile. Per risolvere questa drammatica situazione, il 30 dicembre 1214 il podestà di Milano, il bolognese Uberto da Vialta, emanò alcune disposizioni tese a regolare il governo della città, funestata a quei tempi dalle feroci discordie tra la nobiltà e i ceti popolari. Il suo fu un gesto generoso perché il governo del Comune, affidato per tradizione ai consoli in cui si rispecchiavano le diverse anime della comunità, era passato sotto la sua autorità. L’instabilità politica aveva spinto i cittadini a chiamare un tecnico forestiero, un giureconsulto incaricato di governare assumendo l’ufficio di “podestà” a tempo limitato.

Eppure il podestà Uberto si sforzò di riportare la pace a Milano ricostituendo a grandi linee quel modello di governo misto, diviso tra nobiltà e “corporazioni di mestiere” che, basato sull’istituto consolare, aveva consentito per lungo tempo l’esercizio pacifico delle funzioni pubbliche. Egli riteneva che solo in tal modo fosse possibile conciliare gli interessi dei nobili con quelli dei ceti produttivi: abituandoli al governo condiviso, all’assunzione comune di posti chiave nell’amministrazione cittadina per il bene della comunità. Tali disposizioni stabilirono che il governo fosse formato dai rappresentanti dei quattro ceti milanesi: in prima linea c’erano i capitani e i valvassori, appartenenti alla grande e alla piccola nobiltà. Gli altri ceti erano formati dalla Motta e dalla Credenza di Sant’Ambrogio. Alla prima appartenevano i mercanti, ma anche le famiglie della nobiltà minore che, abbandonata la funzione militare del ceto di origine, si erano arricchite con il commercio. La Credenza di Sant’Ambrogio era composta per converso dai proprietari di botteghe specializzate nell’arte manifatturiera.

Il buon funzionamento di qualsiasi governo pluralistico è l’esistenza di un forte senso civico, di uno spirito di comunità dinanzi al quale gli interessi di parte siano messi in secondo piano. Nella Milano del Duecento questo senso civico non esisteva più.

L’opposizione tra nobiltà e ceti produttivi fu sociale e culturale prima ancora che politica. I nobili fondavano la loro identità nella professione militare: in battaglia erano loro a rischiare la pelle. In seguito alla nascita del Comune anche i ceti popolari furono chiamati ad armarsi e a partire per la guerra. L’arte militare continuò però ad essere materia di spettanza essenzialmente nobiliare. Il nobile viveva con le rendite dei suoi feudi, da cui ricavava le risorse per partire in guerra portandosi dietro i cavalli e i servitori. L’esercizio del mestiere delle armi era un dovere del suo ceto. Per questa ragione i nobili, i bellatores secondo il diritto medievale, godevano di diritti corporativi, come ad esempio i poteri signorili di giustizia nei loro feudi. Un altro dovere del nobile, oltre ad affrontare il nemico in battaglia, era di essere cortese, buono con i deboli, generoso.

I mercanti e i maestri artigiani, che si erano arricchiti nei secoli precedenti, erano animati da valori diversi. Anzitutto vedevano nel lavoro un mezzo di promozione sociale. I mercanti della Motta si specializzarono in una ricchezza che non era immobiliare, bensì mobiliare, finanziaria. Furono loro a gestire i commerci, a far decollare l’economia tessendo i rapporti con i mercanti del Nord Europa, ma anche con quelli delle repubbliche di Genova e di Venezia.

Tra la fine del XII e i primi anni del XIII secolo i ceti popolari divennero talmente forti da costituire una seria minaccia per l’egemonia nobiliare. I rapporti si fecero tesi. Certo, in queste lotte, era la nobiltà a prevalere, non foss’altro che per la sua esperienza nell’uso delle armi. Tuttavia, nella prima metà del XIII secolo, il popolo degli artigiani e dei mercanti mostrò in più occasioni la sua forza ed ebbe la meglio sui nobili.

Ce lo ricorda Pietro Verri nella celebre Storia di Milano quando riporta un episodio tratto dall’opera del cronista medievale Galvano Fiamma [P. Verri, Storia di Milano, a cura di Renato Pasta, Volume IV della Edizione Nazionale delle Opere di Pietro Verri, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2009, pag.224]. Si trattava di una lite per debiti insorta tra il nobile Landriani e il cittadino Guglielmo da Salvo residente nel sestiere di Porta Vercellina. Ad essere nel torto era il nobile, che si era indebitato per una somma cospicua che non intendeva restituire. Dal momento che il creditore faceva pressioni per essere pagato, il Landriani decise di “tagliare la testa al toro”. Invitò il cittadino di Porta Vercellina nella sua villa di Marnate, nel contado del Seprio. Fattolo entrare, lo uccise senza esitazioni. Alcuni conoscenti di Gugliemo, che erano stati informati del suo viaggio a Marnate, non avendo più ricevuto notizie, si recarono nel contado del Seprio. Giunti nella villa del nobile, fatti alcuni scavi nel terreno, trovarono il cadavere. Il corpo fu portato a Milano perché i cittadini fossero consapevoli del crimine efferato commesso dal nobile. Il popolo reagì bruciando le case dei Landriani. Il Fiamma sostiene che tale delitto fu all’origine di una delle tante espulsioni dei nobili da Milano. Non sappiamo quanto fosse vera questa vicenda, dal momento che mancano riscontri nelle altre fonti documentarie. Essa tuttavia ci dà un’idea abbastanza chiara del clima di tensione che si respirava in una città divisa dalle lotte politiche di fazione. Ci mostra anche il grado di maturità politica cui era giunto il popolo milanese.

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Palazzo della Ragione, sede del Consiglio in epoca medievale, in una incisione settecentesca di Marc’Antonio Dal Re. L’edificio fu costruito nel 1233

Fu per sanare in via definitiva tali discordie che il podestà Uberto da Vialta emanò le celebri disposizioni che abbiamo citato all’inizio. In sostanza, gli affari della giustizia e del governo cittadino dovevano essere gestiti assieme dai rappresentanti dei quattro ceti. Pochi anni dopo, gli ordinamenti milanesi del 1241 sancirono che il Consiglio Generale di Milano – il Consiglio degli 800 organo del Comune chiamato ad intervenire nelle materie più importanti – fosse composto per metà da rappresentanti dei Capitani e Valvalssori e per metà da delegati della Motta e della Credenza. Inoltre, ciascuno dei quattro ceti era chiamato a designare una quota di consoli che formavano il governo della città di Milano. Tali disposizioni non bastarono tuttavia a sanare le discordie. La lotta tra fazioni si riaccese e finì con il segnare la vittoria definitiva del governo monocratico: dapprima nella persona del Podestà forestiero chiamato a governare la città a tempo limitato, quindi nell’istituzione autoritaria della Signoria (prima nella famiglia dei Torriani, poi in quella dei Visconti).

Le disposizioni di Uberto da Vialta e quelle dei suoi successori nella Milano della prima metà del Ducento meritano tuttavia di essere ricordate come un tipo emblematico di governo medievale: il governo misto composto dalla nobiltà e dalle “gilde o corporazioni del lavoro” teso a far convergere gli interessi di parte per la promozione del bene comune. Una soluzione che si affermò con maggior fortuna in molte città della Svizzera e dell’Impero germanico tra Medioevo ed Età Moderna. Basti pensare a Zurigo, Basilea, Sciaffusa, Spira, Friburgo, Ulma, Vienna.

Dalle tenebre alla luce: l’illuminazione pubblica

L’illuminazione pubblica è un servizio che rientra nella normalità di qualsiasi paese ad economia avanzata. Non è così nelle società povere. Non fu così in età medievale e per buona parte dell’età moderna quando il calar della notte spingeva i cittadini a rinchiudersi in casa per evitare di essere derubati o assaliti.

A Milano l’illuminazione notturna fu introdotta per la prima volta nel 1784, quando l’imperatore Giuseppe II decise di finanziare tale servizio con i fondi ricavati dai proventi del gioco del lotto e dalla tassazione sugli edifici.

Lampadee
Addetto all’accensione delle lanterne pubbliche. Incisione del primo Ottocento.

La visibilità risultava tuttavia scarsa perché la luce che proveniva dai lampioni era troppo debole, limitata a pochi metri di distanza. La situazione non mutò nel periodo napoleonico. Milano, pur essendo elevata al rango di capitale dello Stato italico, continuò a subire disagi. Il servizio d’illuminazione notturna, gestito direttamente dal Comune, mostrava gravi carenze. In una lettera al prefetto dell’Olona del 15 dicembre 1812, il ministro dell’interno rimarcava il pessimo servizio gestito dagli impiegati del Comune:

Intorno alla pubblica illuminazione notturna di questa capitale due principali inconvenienti si rimarcano…cioè la poca esattezza nella sua esecuzione, e quindi la negligenza di quelli, che sono incaricati d’accendere i fanali; secondo il cattivo sistema di non accendere le lampade nelle notti e nelle ore in cui dovrebbe risplendere la luna, il di cui raggio ci è impedito quando l’aria è nuvolosa, versando così sovente in tenebre le contrade della città.

(Il ministro dell’interno Luigi Vaccari al prefetto dell’Olona Gaudenzio Maria Caccia di Romentino, 15 dicembre 1812 pubblicata in E. Pagano, Il Comune di Milano in età napoleonica, Milano, Vita e Pensiero, 2002, pag.190).

Occorreva una luce più forte che, oltre ad assicurare un migliore decoro pubblico, fosse in grado di garantire la mobilità dei cittadini anche di notte. Negli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento, furono compiuti alcuni tentativi in questa direzione.

Carlo Cattaneo
Carlo Cattaneo (1801-1869)

Giovanni Battista Brambilla (nato nel 1803), titolare di una banca col fratello Pietro denominata “Brambilla & Compagno”, socio di un’azienda milanese specializzata in seta e spedizioni, in una lettera  del 23 marzo 1837 alla delegazione provinciale sosteneva di voler fornire un’illuminazione a gas derivante da combustibili fossili. Carlo Cattaneo fu incaricato da Brambilla di scrivere alcune lettere su questo tema. Il tratto innovativo del progetto consisteva nell’abbandono degli oli combustibili (olio di oliva e olio di noce) e nell’utilizzo dei combustibili fossili da cui trarre il gas con cui alimentare le lampade. Scriveva Cattaneo alla delegazione provinciale:

La Ditta…di questa Regia Città a termini della Sovrana Patente 31 marzo 1832 notifica colla presente un suo progetto di miglioramento che consiste nell’applicare alla illuminazione generale pubblica e privata di questa Regia Città il gas estratto dai combustibili fossili della Monarchia (mediante la costruzione di vasti serbatoi collocati all’aperto e forniti di gazometro e degli opportuni meccanismi di sicurezza praticati in Inghilterra e nel Belgio) il che deve alleviare la spesa giornaliera dei pubblici stabilimenti e delle famiglie e produrre un vantaggio allo Stato in preferenza all’uso delle materie oliacee…

(I Carteggi di Carlo Cattaneo, a cura di Maria Chiara Fugazza e Margherita Cancarini Petroboni, Serie I, volume I, Firenze-Bellinzona, Le Monnier – Casagrande, 2001, pp.80-81).

Il progetto di Brambilla parve avere esito positivo: il 19 maggio l’imperatore Ferdinando gli concesse il privilegio di gestire il servizio in via esclusiva per un tempo di 15 anni. Seguì la fondazione di una società che avrebbe operato a Milano e a Trieste. Nell’atto di costituzione, risalente al 10 gennaio 1838, figurano un negoziante di Lione, Jacques Joseph Rast, tre architetti civili sempre di Lione (i fratelli Jules e Prospère Renaux e Jean Bonnin), i fratelli Giuseppe, Pietro e Giovanni Battista Brambilla.  Il ruolo di Cattaneo può sembrare marginale in questa vicenda. In realtà, pochi giorni dopo, egli stesso si aggiunse come socio alla società fondata dal Brambilla, mostrando di credere nel progetto.

Il banchiere si mise all’opera per assicurare ai milanesi un’adeguata illuminazione pubblica. Il privilegio del governo non era però sufficiente. Occorreva l’autorizzazione del Comune, rappresentato in questa vicenda dalla Congregazione municipale. In una lettera scritta da Cattaneo il 20 gennaio 1838 per convincere le autorità locali, si assicurava: “la luce che tramanderà continuamente la fiamma del Gas illuminante sarà almeno una mezza volta più vivace e potente del miglior fanale possibile ad olio; di maniera che si potrà facilmente leggere alla distanza di venti metri” (I Carteggi di Carlo Cattaneo…cit., pag.109).

Rassicurazioni che non bastarono a convincere la Congregazione municipale, alla quale pervenne in quel medesimo periodo una proposta alternativa da parte dell’ingegnere francese Jules Achille Guillard. Questi promise di garantire l’illuminazione pubblica a gas mediante un metodo di gran lunga più efficiente, già sperimentato con successo a Grenoble e in un quartiere di Lione.  Si trattava del metodo Selligue. Consisteva nell’utilizzo dei cosiddetti “schisti bituminosi”, un tipo di roccia facilmente sfaldabile che a contatto con l’acqua provocava una reazione chimica da cui era possibile ottenere gas idrogeno.

La Congregazione municipale formò una commissione per capire quale dei due metodi fosse da preferire e di conseguenza a quale società fosse opportuno dare l’appalto: se a quella del Brambilla o a quella del Guillard. Furono condotti in città due esperimenti d’illuminazione compiuti l’uno con il metodo Selligue, l’altro con il metodo di estrazione del gas dal carbone fossile. Il primo ebbe luogo nei pressi del Teatro dei Filodrammatici, l’altro al Dazio di Porta Orientale, non molto distante dai giardini pubblici di Porta Venezia. Un curioso articolo apparso sulla Biblioteca Italiana, nel numero di luglio-settembre 1838, così descriveva gli esperimenti:

Due società egualmente rispettabili si sono presentate a contendersi l’onore ed il guadagno di quest’impresa. Assistite e l’una e l’altra da valenti artefici hanno entrambe dato un saggio del loro diverso sistema d’illuminazione, l’una al teatro de’ Filo-drammatici, l’altra alla birreria vicina al dazio di porta Orientale. Distinguendo le società dal sito ove ebbero luogo gli esperimenti, diremo che per quanto comunemente si disse, e per quanto si è potuto arguire dagli effetti dell’esterna illuminazione, sembra che la Società del teatro abbia seguito il nuovo processo di Selligue estraendo il gas dalla decomposizione dell’acqua, combinata coll’idrogeno prodotto da materie oleose, e si sa che la Società della Birreria ha adoperato in parte il carbon fossile delle miniere di Saint-Etienne, ed in parte la lignite indigena del Vicentino, servendosi egualmente per combustibile di lignite nostra….l’una e l’altra società hanno dimostrato come l’arte d’illuminare a gas è in oggi portata ad un grado tale di perfezione da potere senza esitanza applicarla ai bisogni nostri.

La commissione optò alla fine per il metodo Selligue. Il contratto con la società Guillard venne firmato nel giugno 1843. Costruita la fabbrica fuori Porta Lodovica nei corpi Santi di Porta Romana (ove oggi si trova la Centrale del Latte), Guillard curò la graduale posa dei tubi al di sotto delle vie. Il 31 luglio 1845 i milanesi del centro poterono assistere alla nuova illuminazione. Dicevano finalmente addio alla “incomoda e pericolosa oscurità” in cui erano rimasti avviluppati per secoli.

Un ruolo da difendere: Milano “capitale morale”

Il presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, Raffaele Cantone, ha tessuto un elogio di Milano, tornata ad essere “capitale morale”. Ieri, nel ricevere a Palazzo Marino il Sigillo ufficiale della città ambrosiana, un atto con cui il sindaco Pisapia ha voluto esprimere la riconoscenza dei milanesi per l’ottimo lavoro svolto da Cantone nel controllo di legalità degli appalti su Expo, il magistrato napoletano ha riconosciuto che Milano è esempio di buona amministrazione diversamente da Roma, ove in questi anni si sono rivelate assai più difficili le azioni di contrasto alla corruzione. Ha detto Cantone: “Milano si riappropria del ruolo di capitale morale d’Italia in un momento in cui la capitale reale non sta dimostrando di avere gli anticorpi morali di cui ha bisogno e che tutti ci auguriamo recuperi”.

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“Raffaele Cantone 2014” di veDro – L”Italia del futuro – Flickr.com. Con licenza CC BY 2.0 tramite Wikimedia Commons

Quello di Cantone non è soltanto l’apprezzamento per l’operato della giunta Pisapia. E’ qualcosa di più. Il magistrato napoletano ha ricordato che il successo di Expo è stato possibile grazie a una “sinergia tra istituzioni”, una collaborazione fattiva tra prefettura, Comune e Autorità nazionale anticorruzione che ha consentito di contrastare in modo efficace il crimine organizzato e l’infiltrazione delle mafie nelle gare di appalto.

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Letizia Moratti, sindaco di Milano dal 2006 al 2011

Le affermazioni di Cantone si prestano ad alcune riflessioni. Anzitutto è difficile negare che Milano stia attraversando una stagione di splendore. Cantone certifica una realtà che è nei fatti. Expo 2015 ha dato una spinta notevole al decollo della città ambrosiana. Bisogna però riconoscere che il merito è tanto dell’ex sindaco Moratti quanto di Pisapia. La Moratti ebbe un ruolo fondamentale nel fare in modo che Milano  fosse scelta quale sede di Expo 2015. L’ex sindaco non ha mai goduto di particolare simpatia presso i milanesi ma questo è un merito che è giusto riconoscerle. Alla giunta Pisapia va riconosciuto invece di aver collaborato con le altre istituzioni per il buon andamento di Expo, garantendo piena trasparenza nelle questioni che erano di sua competenza.

Pisapia ha però fatto molto di più. Ha consentito a Milano di vivere un secondo Rinascimento. Se la metropoli è tornata ad essere capitale morale, vetrina del Made in Italy, città turistica in grado di stare alla pari con Venezia, Firenze e Roma, questo è anche merito dell’attuale amministrazione. Ho scritto “anche” perché la caratteristica del “modello Milano”, come ha ben notato Cantone, risiede nella sinergia concreta tra istituzioni pubbliche e private per un’amministrazione che sia al servizio dei cittadini. Come recita un antico adagio milanese, specchio del pragmatismo ambrosiano: Milan dis, e Milan fa. “Milano dice e Milano fa”.

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Giuliano Pisapia, sindaco di Milano

Sarebbe quindi fuorviante ridurre l’operato della giunta Pisapia alla salvaguardia della legalità e alla lotta alle mafie. Milano è migliorata per numerosi interventi di riqualificazione urbana che ne hanno mutato il volto e ne stanno tuttora modificando i caratteri. La riapertura della Darsena, tornata ad essere il porto dei milanesi, costituisce il simbolo di un nuovo modo di vivere la città nel suo rapporto con l’acqua. Il potenziamento della rete di mezzi pubblici di superficie, l’apertura della linea 5 della metropolitana, i lavori della M4, la costruzione di nuove piste ciclabili e il sostegno imponente ai mezzi di mobilità dolce (biciclette e auto elettriche) hanno segnato un netto miglioramento nella qualità della vita. Questi sono pochi esempi che aiutano però a spiegare per quale motivo Milano sia divenuta sorprendentemente una méta turistica tra le più ricercate a livello mondiale. Ci auguriamo che la prossima giunta continui questo lavoro, accogliendo progetti innovativi che si pongano in continuità con l’operato dell’attuale amministrazione. Non mancheranno prove impegnative in tal senso: penso al riuso dello spazio di Expo affinché si eviti a tutti i costi che l’area diventi una “cattedrale nel deserto” (sono parole di Cantone).

La seconda riflessione verte sul concetto di “capitale morale”. Da fine Ottocento fino a Tangentopoli, Milano è stata il simbolo della buona amministrazione in opposizione alla corruzione della classe politica romana.  Quello della “capitale morale” fu un vero e proprio mito, creato ad arte dalla classe dirigente milanese per esprimere la sua avversione all’operato del governo Crispi tra il 1894 e il 1896. Un mito svanito un secolo dopo, quando le inchieste di Mani Pulite dimostrarono che la corruzione aveva contagiato pezzi importanti della classe politica e della classe industriale milanese.

Oggi sembra di essere tornati alle antiche contrapposizioni. Le pessime condizioni in cui versa l’amministrazione romana hanno finito con il far risaltare i meriti del “modello Milano”. La città ambrosiana è tornata ad essere la locomotiva d’Italia, il luogo in cui si anticipano fenomeni politici e sociali destinati ad imporsi nel quadro nazionale. Scriveva Gaetano Salvemini nel 1899: “Quel che oggi pensa Milano, domani lo penserà l’Italia”: la natura di Milano dall’Unità in avanti è sempre stata quella della città modello per l’Italia.

Il culto per l’amministrazione locale risalente alla dominazione austriaca, la sensibilità verso i problemi sociali, l’intervento concreto per risolvere i problemi della cittadinanza, una religione del lavoro praticata con semplicità, austerità, dedizione e riservatezza sono ingredienti tipici dell’anima milanese meritevoli di essere conservati per il bene della città.

La Mela conquista Milano e Apollo se ne va…

La notizia è rimbalzata sui siti d’informazione come una pallina impazzita. Apple ha acquistato i sotterranei del cinema Apollo in piazza Liberty. Aprirà un grande Store sul modello di quello newyorkese e lo farà a due passi dal Duomo. Gli ingressi saranno due. Uno dalla piazza, ove i visitatori entreranno in un parallelepipedo di cristallo al cui interno ampie scalinate porteranno agli spazi inferiori. L’altro accesso sarà da Galleria De Cristoforis. Il nome non tragga in inganno. Non si tratta affatto della memorabile galleria ottocentesca, demolita negli anni Trenta del secolo scorso. E’ un piccolo passaggio coperto che collega piazza Liberty con corso Vittorio Emanuele. Un passaggio che tutti gli amanti del cinema Apollo conoscono fin troppo bene.

Tra un anno sorgerà il grande Store della Apple; il cinema chiuderà nei prossimi mesi. Possiamo dire che un altro pezzettino di storia milanese se ne va. Il cinema aprì alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, nei sotterranei della piazza. Disponeva di 1230 posti, il biglietto costava 800 lire. Bei tempi dell’altro mondo – direte voi – quando andare al cinema era consentito a (quasi) tutti.

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L’ingresso del cinema Apollo in Galleria De Cristoforis 2

Anche a me è capitato di fermarmi all’Apollo per vedere qualche film. Vi confesso però che non riesco a ricordare nulla di particolarmente attraente in quello spazio sotterraneo. Sarà perché l’ultima volta che ci andai – due o tre anni fa  – vidi un mediocre film storico. Ricordo che era ambientato ai tempi della Repubblica Democratica Tedesca: il regista tentò, con scarso successo, di ispirarsi al capolavoro di Florian Henckel von Donnersmarck, Le Vite degli Altri (2007).

Ma torniamo alla zona di piazza Liberty. Alla notizia dell’acquisto di Apple ci sono stati alcuni milanesi che hanno espresso preoccupazione per la chiusura di uno spazio storico della città. Non condivido i lamenti di chi rimpiange i tempi andati. In fondo, nella storia di Milano il cinema ha contato poco. Bene ha fatto Apple ad acquistarne gli spazi.

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Addobbi floreali in Corso Vittorio Emanuele in occasione di una festa nel maggio 1889. In fondo, sulla destra vicino al Duomo, il palazzo Tarsis

Fino a pochi anni fa questa zona presentava due anime. Da una parte alcuni edifici storici assicuravano e assicurano tuttora un certo decoro pubblico. Palazzo Tarsis all’incrocio di via San Paolo con corso Vittorio Emanuele, costruito dall’architetto Luigi Clerichetti tra il 1836 e il 1838, costituisce una delle ultime manifestazioni del neoclassico milanese. Se passate per il corso all’altezza di via San Paolo, alzate la testa: vedrete dieci statue deliziose appoggiate all’attico del palazzo. L’altro immobile che da secoli ha rivestito un ruolo importante nel contrassegnare l’identità della via è palazzo Spinola al civico 10: costruito tra il 1580 e il 1597 dalla famiglia genovese degli Spinola, fu acquistato nel 1818 dalla Società del Giardino che vi ha tuttora sede. Questo antico sodalizio fu costituito alla fine del Settecento dalla borghesia milanese. Se vuoi saperne di più, clicca qui.

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Piazza Liberty in una foto degli anni Cinquanta del Novecento. Nell’edificio sulla sinistra al civico 8 ha sede il consolato austriaco.

L’altra anima dell’isolato, che a mio giudizio non meritava particolare attenzione fino a poco tempo fa, è quella di piazza Liberty ove sorgerà il Mega Store della Apple. Vi si affacciano alcuni edifici risalenti agli anni Cinquanta del secolo scorso, le cui forme costituiscono un vago ricordo dello stile floreale. E’ il caso dello stabile al civico 8, attualmente sede del consolato austriaco, costruito dagli architetti Giovanni e Lorenzo Muzio tra il 1956 e il 1963. Al pianterreno, all’angolo con via San Paolo, vi si aprono le eleganti vetrine della Nespresso. Sull’altro lato si trovano alcuni negozi di abbigliamento sotto una serie di portici che continuano in corso Vittorio Emanuele.

La zona aveva per converso un aspetto radicalmente diverso ai primi anni del Novecento, quando gli architetti Angelo Cattaneo e Angelo Santamaria costruirono di fronte a palazzo Tarsis un edificio in stile Art Nouveau che ospitava un caffè, un teatro e un albergo denominati Trianon. Si trattava di un luogo particolarmente amato dai milanesi, che frequentavano assidui il teatro e il caffé. Tra i clienti più famosi ricordiamo Filippo Tommaso Marinetti e un giovane Benito Mussolini. I bombardamenti della seconda guerra mondiale non risparmiarono lo stabile. Nacque così piazza Liberty in ricordo di quel che era stato il Trianon. La nuova piazza non fu in grado tuttavia di richiamare l’attenzione del pubblico come un tempo aveva saputo fare il celebre caffè.

Negli ultimi tempi il Comune ha saputo risistemare la zona innalzando il decoro urbano: alcuni dehors in vetro conferiscono una certa veste di eleganza all’ambiente circostante. Nei prossimi mesi Apple costruirà la sua porta di cristallo conferendo a piazza Liberty una veste certamente più esclusiva ed attraente rispetto a quella odierna.