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La cucina milanese nel Medioevo: tempo del cibo e tempo dei pasti

Limitare la fame nel mondo è obiettivo centrale di Expo, ben sintetizzato dallo slogan “nutrire il pianeta, energia per la vita”.

Nella storia europea la fame è sempre stata un terribile spettro da cui fuggire ricorrendo ad ogni mezzo. Uno sguardo al Medioevo milanese ci consente alcune riflessioni significative in tema di cucina e alimentazione.

fame carestieNel Medioevo il mangiare era influenzato sostanzialmente da due tempi. Il primo è il tempo della natura. Alcuni cibi erano ricavati da materie prime che si potevano ottenere solo in alcuni mesi dell’anno: sappiamo bene che ogni stagione ha i suoi frutti tipici. Eppure, a ben guardare, c’inganneremmo se pensassimo che gli uomini medievali vivessero unicamente in base ai ritmi della natura, come certa vulgata vorrebbe farci credere. Dobbiamo considerare un secondo tempo, il tempo artificiale dell’uomo garantito dalle tecniche di conservazione dei cibi. Certo, anche gli antichi avevano imparato qualcosa al riguardo. Aristotele raccomandava ad esempio di coprire le mele con l’argilla per farle durare più a lungo. Tuttavia, mai come nel Medioevo l’uomo europeo riuscì ad ingegnarsi per sconfiggere il duro ritmo delle stagioni che costringeva molte famiglie a morire di fame. “O tu che reggi ogni cosa, perché succede che le stagioni non siano sempre uguali a se stesse, distinte solo da quattro numeri?” implora Merlino in un testo di Goffredo di Monmouth risalente al XII secolo. Segno che davvero il mutare delle stagioni costituiva una grande incognita per l’uomo medievale, esposto in tutta la sua fragilità all’incertezza del futuro.

L’uomo riuscì a vincere questa battaglia grazie alla capacità di prevedere il mutamento del tempo. Di qui la necessità di conservare i cibi perché la carestia era dietro l’angolo e, come recitava un antico proverbio milanese: Calastria preveduda, l’è mezza preveduda: carestia prevista, è per metà evitata.

Se riprendiamo due termini citati in un documento toscano del IX secolo dopo Cristo, possiamo quindi concludere che il Medioevo era articolato in un tempus de glande (tempo di ghiande) – in cui si raccoglievano i frutti della vegetazione arborea – e un tempus de laride (tempo di lardo) che non era collegato solo all’allevamento del maiale e alla consumazione della carne, ma anche al tempo in cui si metteva da parte tutto quel che si poteva conservare.

Quali furono le tecniche di conservazione più usate? Anzitutto il ricorso al sale, che non solo rendeva più gustosi i cibi ma, prosciugandoli, li rendeva secchi, più durevoli nel tempo. Ad essere messi sotto sale furono cibi quali la carne, il pesce, le verdure. Era poi diffusa l’essiccazione del pesce al sole o mediante il fumo. Altre tecniche si affermarono ricorrendo all’olio, all’aceto, al miele e allo zucchero. Quest’ultimo fece tuttavia la sua comparsa alla fine del Medioevo e solo nelle mense signorili europee.  Per restare ancora alla conservazione degli alimenti, un’altra tecnica era la fermentazione, che rese possibile sfruttare a vantaggio dell’uomo un processo tutto naturale come la putrefazione. La fermentazione, assieme alla salatura, venne impiegata in prodotti quali salami, formaggi, prosciutti.  Un caso emblematico era costituito a tal proposito da un genere di verdure, i crauti, tuttora diffusi nell’Europa germanica: erano ottenuti mediante un processo di fermentazione acida.

cucinaUn altro strumento per “addomesticare” il tempo consisteva nel diversificare la coltivazione delle piante. Carlo Magno, nel capitolare De villis, invitava a piantare nelle aziende regie “meli di diverso genere, peri di diverso genere, prugni di diverso genere…” affinché si potesse procedere a una raccolta differenziata nel tempo. Dei sette tipi di mele citate nel documento, sei erano definiti “serbevoli”, conservabili, mentre le “primitiva” potevano essere mangiate subito.

Alcuni frutti ricchi di calorie si mangiavano tutto l’anno e, nel duro inverno, servivano addirittura da ripieno. Era il caso delle noci, che a Milano erano mangiate alla fine di ogni pasto. Bonvesin de la Riva ci fornisce altre preziose informazioni al riguardo nel suo De Magnalibus urbis Mediolani, vero e proprio spot pubblicitario della città ambrosiana nel XIII secolo. Sappiamo così che i milanesi amavano triturare le noci, impastarle con uova, cacio e pepe “unde carnes inde iemali tempore impleantur” (tradotto: affinché potessero costituire un ripieno per le carni nella stagione invernale. Libro IV, paragrafo III).

Nel caso dei cereali – base dell’alimentazione contadina – la tecnica era sempre quella di differenziare le colture, un po’ come facciamo oggi quando investiamo in banca diversificando il nostro portafoglio per limitare il rischio e spalmare nel tempo i frutti dei capitali investiti. I contadini coltivavano segale, miglio, avena, spelta, orzo, frumento perché sapevano che i tempi di crescita propri di ciascuna pianta costituivano un altro mezzo efficace per far fronte all’incertezza del domani.

carniSe dal tempo dei cibi passiamo al tempo della cucina, ci accorgiamo che quest’ultimo era assai più lungo rispetto al nostro perché comprendeva fasi di lavoro oggi inesistenti: ad esempio la pestatura dei cereali, il taglio e la macellazione della carne. La lunghezza e la complessità nella preparazione dei cibi non era tipica soltanto delle cucine signorili. Era una costante della società contadina. Il bollito fu per secoli un tipo di alimentazione tipico dei ceti popolari, mentre l’arrosto – ottenuto con l’utilizzo di griglie o spiedi – era prerogativa delle mense signorili. In quest’ultimo caso ad essere cotte erano le carni giovani degli animali uccisi nelle battute di caccia: attività, quest’ultima, riservata alla nobiltà guerriera del Medioevo (i bellatores), prerogativa di questo ceto ancora nell’antico regime. La carne giovane costituiva la base dell’alimentazione del clero regolare in ricche abbazie come ad esempio, per restare a Milano, quella di Sant’Ambrogio. Da un documento del 1148 sappiamo ad esempio che, nel corso delle innumerevoli liti insorte tra i canonici e i monaci di Sant’Ambrogio, il prevosto pretese dall’abate un pranzo in occasione della festa di San Satiro (17 settembre) composto da svariati tipi di carne: polli freddi e carni di porco fredde, poi polli ripieni e carni di porco pepate, infine polli arrosto, lombetti e porcellini ripieni.

minestraGli animali vecchi, consunti dal tempo e dalla fatica del lavoro agreste, erano destinati invece alle mense popolari: le carni erano bollite in calderoni rimestati dalle donne; spesso venivano messe in pezzi nella minestra, La menestra l’è la biava de l’omm: la minestra è la biada dell’uomo, recitava un altro proverbio milanese. Segno che tale alimento era la base dell’alimentazione contadina.

Le cotture lunghe furono caratteristiche della cucina medievale. La pasta era cotta fin quasi a spappolarsi, un’usanza che si conserva tuttora nelle cucine dei paesi nordici ove è possibile rintracciare molti segni degli antichi usi culinari. La pasta al dente è un’invenzione tutta moderna e italiana.

Veniamo ora al tempo dei pasti. Quante volte si mangiava e quando? Anche qui gli usi erano diversi. Il pranzo cadeva in tarda mattinata, mentre la cena al tramonto del sole: tempi che erano in linea con i ritmi della civiltà contadina. E’ possibile che i nostri antenati mangiassero qualcosa di mattina ma è poco probabile che ricorressero a cibi dolci come pane e marmellata. Una chiave di lettura può esserci offerta dalla cucina germanica, che mantiene molte usanze medievali. La mattina si ricorreva probabilmente a piccole porzioni di cibi presenti nei pasti ordinari: salumi, formaggi, prosciutti, carni.

La durata dei pasti era senza dubbio un segno di status. I pranzi signorili potevano durare ore se non addirittura giorni interi. Se vuoi saperne di più sulla cucina medievale a Milano, clicca qui.

La strana cucina nella Milano ‘ancien régime’

L’Italia è famosa per i suoi piatti prelibati. Oggi però non voglio darti consigli sui ristoranti che fanno tendenza a Milano. Se vuoi sapere quali sono i locali in cui si mangia bene, ti consiglio di iscriverti alla mia newsletter.  Puoi trovare informazioni utili al riguardo.

In questo articolo desidero affrontare un tema afferente alla storia dell’alimentazione. Come si mangiava a Milano nel Medioevo o nel Sei-Settecento? Partiamo dalla nostra cucina: oggi si tende a separare i sapori sia nei singoli piatti che nelle portate dei pasti. Per noi un piatto deve essere dolce o salato. Questa usanza si affermò in Francia tra Sei e Settecento e si diffuse in Occidente nel XIX secolo. Nel Medioevo invece si tendeva a mischiare i sapori. I cibi erano cucinati in un miscuglio artificiale che faceva sentire nel palato un gusto completamente diverso rispetto al nostro. Perché si mischiava il dolce con il salato, il dolce con il piccante? Secondo i costumi di quei tempi, si riteneva opportuno che le pietanze contenessero il maggior numero di sapori per essere adeguatamente nutrizionali. Il gusto per l’agrodolce, ottenuto mediante l’immissione dello zucchero negli agrumi, era tipico del Medioevo.

Oggi in Europa son rimaste le tracce di quella concezione culinaria. Lo riscontriamo nella cucina dell’Europa del Nord o in alcuni paesi dell’Europa dell’Est: se ordiniamo un piatto di carne o di pesce, ci accorgiamo che viene guarnito con confetture di mirtilli o marmellate di pere. Questo tipo di cucina medievale durò molto tempo a Milano. In alcune zone del Nord Italia esso è tuttora diffuso: si pensi ad esempio in Lombardia all’uso di accompagnare le carni con la mostarda. In origine la mostarda era una salsa in cui il piccante delle spezie era unito al sapore dolce dello zucchero.

Un altro dato su cui riflettere. Contrariamente a quel che si può pensare, la cucina medievale era molto povera di grassi. Le salse, cui si faceva largo ricorso, erano ottenute mischiando componenti acidi: vino, aceto, succhi di agrumi o di uva acerba erano usati in composti fatti di molliche di pane, fegato, mandorle, noci, tuorli d’uova. Insomma, se con la macchina del tempo fossimo “teletrasportati” nella Milano del Seicento, magari nel banchetto allestito da una nobile famiglia, non aspettiamoci di trovare salse grasse come la maionese, la besciamella e tutti quei composti che, diffusi lentamente nel corso del Settecento, si affermarono in Europa tra Otto e Novecento.

Un’altra differenza rispetto alla nostra cucina risiedeva nel tipo di portate che venivano servite. Noi oggi presentiamo in ordinata successione le stesse portate a tutti i commensali. Questa usanza, conosciuta come “servizio alla russa”, si affermò in Europa solo nella seconda metà dell’Ottocento. Prima l’uso era ancora quello – di origine medievale – di servire i piatti per così dire “in contemporanea”: toccava ai commensali scegliere i cibi che preferivano. Un po’ come si usa oggi in Cina, in Giappone o nei buffet, anche se a quel tempo non esisteva certo quella concezione “egalitaria” per cui l’accesso ai cibi è aperto a tutti i partecipanti.

Allora esistevano varie tipologie di piatti ed ogni persona mangiava le pietanze previste per il suo ceto di appartenenza. La nobiltà ad esempio consumava quasi sempre carne o pesce, ma lo faceva spesso in modo esagerato perché era un segno di status. Nel XV secolo Malatesta Baglioni, capitano generale dei fanti della repubblica veneta, offrì a Crema due pranzi faraonici che si protrassero per tre giorni: il primo era composto di 1438 vivande, tra le quali colpiscono piatti che oggi ci sembrano a dir poco artificiali: ad esempio il pollo cotto nello zucchero e bagnato nell’acqua di rose; il secondo, a base di pesce, presentava ‘solo’ 650 piatti assortiti nelle più ricche variazioni. Un vero supplizio per i convitati!! I ceti popolari ricorrevano ai legumi o ripiegavano su piatti quali la luganiga (carne tritata di maiale, condita con sale, sostanze vegetali aromatiche e inserita dentro le intestina di agnello) o la cervellata (composto di scarti porcini o di rognoni di manzo tritati, salati e misti con cacio lodigiano).

Nella seconda metà del Quattrocento era molto conosciuto in Europa il ricettario di Bartolomeo Sacchi detto “il Platina” (il soprannome latino indicava il paese di origine: Piadena nel cremonese): il De honesta voluptate et valetudine. Eppure, a ben vedere,  il contenuto di questo testo non era farina del sacco del Platina. Il ricco elenco di ricette riprendeva l’opera del maestro Martino de Rossi, un esperto di cucina originario della val di Blenio, territorio che a quell’epoca era parte integrante del ducato di Milano. Martino viaggiò nei vari Stati italiani: fu al servizio della corte milanese di Francesco Sforza, cucinò a Roma per i pontefici, ritornò a Milano per deliziare il palato del suo nuovo datore di lavoro: il condottiero milanese Gian Giacomo Trivulzio il cui palazzo, oggi scomparso, era in via Rugabella, nel sestiere di Porta Romana.

Il libro di Martino, De arte coquinaria è una fonte preziosa perché le sue ricette, diffuse alla fine del Medioevo, continuarono ad essere praticate nella cucina italiana fino al Seicento e al primo Settecento. In fondo, può essere considerato l’antenato dei manuali gastronomici italiani. La pasta era presentata per la prima volta come un piatto a sé stante; comparivano nuovi elementi destinati ad avere larga fortuna: ad esempio la polpetta e la frittella. Inoltre faceva la sua prima apparizione la melanzana.