Il rapporto tra politica e amministrazione è sempre stato complesso nella storia delle istituzioni. II problema cruciale è tuttora quello di assicurare il buongoverno conciliando l’intervento pubblico con le istanze di rinnovamento che provengono dalla società. Oggi, quando si parla di buongoverno al livello del Comune, della Regione o dello Stato, si fa riferimento a una classe politica che sia in grado di dialogare con le diverse anime della comunità, facendo una sintesi che abbia come fine ultimo il bene comune. Il guaio è che gli interessi di partito e l’insorgere della lotta politica finiscono spesso con il minare alle fondamenta la coerenza dei migliori programmi amministrativi. Programmi la cui attuazione può essere assicurata solo dalla continuità di una classe politica e amministrativa che sia allenata nella corretta gestione delle funzioni pubbliche. La buona amministrazione non è di destra né di sinistra. E’ semplicemente buona amministrazione. Accecati dai bagliori della lotta politica, noi spesso ci dimentichiamo questa palese realtà.
Non si tratta di una cosa nuova. Nella Milano medievale la lotta tra fazioni, ancor più dura e radicale, minò alle fondamenta la costituzione pluralistica del Comune quale si era formata nei secoli successivi all’eclissi del potere vescovile. Per risolvere questa drammatica situazione, il 30 dicembre 1214 il podestà di Milano, il bolognese Uberto da Vialta, emanò alcune disposizioni tese a regolare il governo della città, funestata a quei tempi dalle feroci discordie tra la nobiltà e i ceti popolari. Il suo fu un gesto generoso perché il governo del Comune, affidato per tradizione ai consoli in cui si rispecchiavano le diverse anime della comunità, era passato sotto la sua autorità. L’instabilità politica aveva spinto i cittadini a chiamare un tecnico forestiero, un giureconsulto incaricato di governare assumendo l’ufficio di “podestà” a tempo limitato.
Eppure il podestà Uberto si sforzò di riportare la pace a Milano ricostituendo a grandi linee quel modello di governo misto, diviso tra nobiltà e “corporazioni di mestiere” che, basato sull’istituto consolare, aveva consentito per lungo tempo l’esercizio pacifico delle funzioni pubbliche. Egli riteneva che solo in tal modo fosse possibile conciliare gli interessi dei nobili con quelli dei ceti produttivi: abituandoli al governo condiviso, all’assunzione comune di posti chiave nell’amministrazione cittadina per il bene della comunità. Tali disposizioni stabilirono che il governo fosse formato dai rappresentanti dei quattro ceti milanesi: in prima linea c’erano i capitani e i valvassori, appartenenti alla grande e alla piccola nobiltà. Gli altri ceti erano formati dalla Motta e dalla Credenza di Sant’Ambrogio. Alla prima appartenevano i mercanti, ma anche le famiglie della nobiltà minore che, abbandonata la funzione militare del ceto di origine, si erano arricchite con il commercio. La Credenza di Sant’Ambrogio era composta per converso dai proprietari di botteghe specializzate nell’arte manifatturiera.
Il buon funzionamento di qualsiasi governo pluralistico è l’esistenza di un forte senso civico, di uno spirito di comunità dinanzi al quale gli interessi di parte siano messi in secondo piano. Nella Milano del Duecento questo senso civico non esisteva più.
L’opposizione tra nobiltà e ceti produttivi fu sociale e culturale prima ancora che politica. I nobili fondavano la loro identità nella professione militare: in battaglia erano loro a rischiare la pelle. In seguito alla nascita del Comune anche i ceti popolari furono chiamati ad armarsi e a partire per la guerra. L’arte militare continuò però ad essere materia di spettanza essenzialmente nobiliare. Il nobile viveva con le rendite dei suoi feudi, da cui ricavava le risorse per partire in guerra portandosi dietro i cavalli e i servitori. L’esercizio del mestiere delle armi era un dovere del suo ceto. Per questa ragione i nobili, i bellatores secondo il diritto medievale, godevano di diritti corporativi, come ad esempio i poteri signorili di giustizia nei loro feudi. Un altro dovere del nobile, oltre ad affrontare il nemico in battaglia, era di essere cortese, buono con i deboli, generoso.
I mercanti e i maestri artigiani, che si erano arricchiti nei secoli precedenti, erano animati da valori diversi. Anzitutto vedevano nel lavoro un mezzo di promozione sociale. I mercanti della Motta si specializzarono in una ricchezza che non era immobiliare, bensì mobiliare, finanziaria. Furono loro a gestire i commerci, a far decollare l’economia tessendo i rapporti con i mercanti del Nord Europa, ma anche con quelli delle repubbliche di Genova e di Venezia.
Tra la fine del XII e i primi anni del XIII secolo i ceti popolari divennero talmente forti da costituire una seria minaccia per l’egemonia nobiliare. I rapporti si fecero tesi. Certo, in queste lotte, era la nobiltà a prevalere, non foss’altro che per la sua esperienza nell’uso delle armi. Tuttavia, nella prima metà del XIII secolo, il popolo degli artigiani e dei mercanti mostrò in più occasioni la sua forza ed ebbe la meglio sui nobili.
Ce lo ricorda Pietro Verri nella celebre Storia di Milano quando riporta un episodio tratto dall’opera del cronista medievale Galvano Fiamma [P. Verri, Storia di Milano, a cura di Renato Pasta, Volume IV della Edizione Nazionale delle Opere di Pietro Verri, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2009, pag.224]. Si trattava di una lite per debiti insorta tra il nobile Landriani e il cittadino Guglielmo da Salvo residente nel sestiere di Porta Vercellina. Ad essere nel torto era il nobile, che si era indebitato per una somma cospicua che non intendeva restituire. Dal momento che il creditore faceva pressioni per essere pagato, il Landriani decise di “tagliare la testa al toro”. Invitò il cittadino di Porta Vercellina nella sua villa di Marnate, nel contado del Seprio. Fattolo entrare, lo uccise senza esitazioni. Alcuni conoscenti di Gugliemo, che erano stati informati del suo viaggio a Marnate, non avendo più ricevuto notizie, si recarono nel contado del Seprio. Giunti nella villa del nobile, fatti alcuni scavi nel terreno, trovarono il cadavere. Il corpo fu portato a Milano perché i cittadini fossero consapevoli del crimine efferato commesso dal nobile. Il popolo reagì bruciando le case dei Landriani. Il Fiamma sostiene che tale delitto fu all’origine di una delle tante espulsioni dei nobili da Milano. Non sappiamo quanto fosse vera questa vicenda, dal momento che mancano riscontri nelle altre fonti documentarie. Essa tuttavia ci dà un’idea abbastanza chiara del clima di tensione che si respirava in una città divisa dalle lotte politiche di fazione. Ci mostra anche il grado di maturità politica cui era giunto il popolo milanese.
Fu per sanare in via definitiva tali discordie che il podestà Uberto da Vialta emanò le celebri disposizioni che abbiamo citato all’inizio. In sostanza, gli affari della giustizia e del governo cittadino dovevano essere gestiti assieme dai rappresentanti dei quattro ceti. Pochi anni dopo, gli ordinamenti milanesi del 1241 sancirono che il Consiglio Generale di Milano – il Consiglio degli 800 organo del Comune chiamato ad intervenire nelle materie più importanti – fosse composto per metà da rappresentanti dei Capitani e Valvalssori e per metà da delegati della Motta e della Credenza. Inoltre, ciascuno dei quattro ceti era chiamato a designare una quota di consoli che formavano il governo della città di Milano. Tali disposizioni non bastarono tuttavia a sanare le discordie. La lotta tra fazioni si riaccese e finì con il segnare la vittoria definitiva del governo monocratico: dapprima nella persona del Podestà forestiero chiamato a governare la città a tempo limitato, quindi nell’istituzione autoritaria della Signoria (prima nella famiglia dei Torriani, poi in quella dei Visconti).
Le disposizioni di Uberto da Vialta e quelle dei suoi successori nella Milano della prima metà del Ducento meritano tuttavia di essere ricordate come un tipo emblematico di governo medievale: il governo misto composto dalla nobiltà e dalle “gilde o corporazioni del lavoro” teso a far convergere gli interessi di parte per la promozione del bene comune. Una soluzione che si affermò con maggior fortuna in molte città della Svizzera e dell’Impero germanico tra Medioevo ed Età Moderna. Basti pensare a Zurigo, Basilea, Sciaffusa, Spira, Friburgo, Ulma, Vienna.