I successori di Ottone Visconti che esercitarono la signoria di Milano – e dei territori e città soggette progressivamente al loro dominio – continuarono a servirsi della vipera quale insegna di famiglia almeno fino ad Azzone Visconti (1302-1339). Sembra invece che sia da ricondurre ai successori di Azzone la modifica sostanziale dello stemma, ormai utilizzato nell’esercizio del potere pubblico: la vipera fu allungata, attorcigliata in più spire di cui la prima formava una “O” (atta a richiamare il primo Signore di Milano, il già citato arcivescovo Ottone), mentre la testa assunse le sembianze di un drago le cui fauci erano spalancate nell’atto di divorare un fanciullo colorato di rosso. Nella seconda metà del Trecento, questa immagine venne spesso associata a quella di un drago raffigurato anch’esso nell’atto di divorare un bambino. Questo traspare bene se esaminiamo alcune monete coniate dai Signori e Duchi di Milano nel Medioevo: in alcuni pezzi risalenti a Luchino e Giovanni Visconti (1339-1349), a Bernabò e Galeazzo II (1354-1378), a Bernabò fino al 1385, al duca Gian Galeazzo (1385-1402) fino all’ultimo esponente di casa Visconti, il duca Filippo Maria (1412-1447), la lunga biscia squamata con la testa di drago che ingoia un bambino è raffigurata all’interno di un più ampio disegno in cui è presente un drago crestato che ingoia a sua volta un fanciullo.
Credo che questa variazione dello stemma, così notevole in talune insegne e monete, rivelasse l’ambiziosa politica dei Visconti, i quali puntavano ad essere riconosciuti quali difensori della comunità, autentici “signori civilizzatori” in grado di proteggere i sudditi dalle calamità naturali.
Nel Medioevo l’immagine del drago rinviava a culti pagani assai diffusi in Europa; essa richiamava nell’immaginario popolare le forze misteriose della natura da cui era impossibile difendersi. Importante è ad esempio il racconto agiografico scritto da Venanzio Fortunato nel VI secolo d.C. riguardante San Marcello di Parigi e il drago. Lo storico Jacques Le Goff, in un bel saggio intitolato Cultura ecclesiastica e cultura folklorica nel Medioevo: San Marcello di Parigi e il drago (si veda il volume J. Le Goff, Tempo della chiesa e tempo del mercante. Saggi sul lavoro e la cultura nel Medioevo, Torino, Einaudi 2000, pp.209-255) ha mostrato come il drago pagano simboleggiasse in molti casi le calamità naturali. San Marcello – secondo un’agiografia risalente al VI secolo dopo Cristo – sarebbe riuscito a domare il drago consentendo a un quartiere della città (il faubourg Saint Marcel) di svilupparsi e di prosperare. La bonifica delle paludi avvenute durante il vescovato di San Marcello, viene descritta ricorrendo all’atto del drago ammansito, domato, cacciato.
In altri racconti dell’alto Medioevo il drago veniva addirittura ucciso da un eroe (spesso – anche qui – identificato con la figura di un “santo sauroctono”: San Giorgio, San Michele). Anche nel caso delle uccisioni dei draghi, spesso nella cultura folklorica europea l’episodio rinviava alle opere civili dell’uomo costruttore di città, dell’uomo bonificatore di paludi, dell’uomo civilizzatore che cerca di far fronte alle forze invisibili della natura: epidemie, inondazioni di fiumi o di laghi, pestilenze, calamità devastanti che causavano la morte di uomini, donne e bambini.
Credo che il drago visconteo possa rinviare in parte a questo sostrato pagano. Basti ricordare la diffusione del culto di San Giorgio, altro santo sauroctono uccisore di un drago, il cui mito è molto diffuso nel Nord Italia. I Visconti, conquistato il potere politico nel corso della prima metà del XIV secolo, potrebbero essersi presentati anch’essi quali eroi civilizzatori che difendono gli abitanti di una comunità contro le forze ostili della natura impersonate dal drago. Una spia che autorizza almeno a non escludere tale ipotesi è una leggenda popolare milanese, risalente probabilmente al XIV secolo, divulgata nel periodo visconteo, che ebbe una certa fortuna per tutto l’antico regime, fino ai primi del ‘700.
L’eroe è ovviamente un antenato dei Visconti, tale Uberto. Il mostro è descritto anche qui nelle sembianze di un drago che mieteva vittime.
La versione più antica di questo racconto sembrerebbe trovarsi nella Cronaca estravagante del frate domenicano Galvano Fiamma, vissuto nella prima metà del XIV secolo. Questi fu in stretto rapporto con i Visconti per i quali scrisse alcune opere sulla storia di Milano tese a celebrare il loro dominio. Nella Cronaca estravagante troviamo il racconto del drago. Ringrazio il professor Ambrogio Céngarle Parisi per avermelo indicato.
Ubertus uicecomes draconem, totam civitatem suo anelitu infitientem, homines et animalia deuorantem, per barbam areptum, securi mactavit.
[Un visconte Uberto afferrò per la barba un drago che appestava l’intera città col suo fiato e divorava uomini e animali, e l’ammazzò con la scure].
Traduzione del professor Céngarle Parisi da La Cronaca estravagante di Galvano Fiamma, a cura di Ambrogio Céngarle Parisi e Massimiliano David, Milano 2013, cap.103, paragrafo 4, pag.363].
La leggenda è ripresa e arricchita nel libro La nobiltà di Milano del religioso gesuato Paolo Morigia, pubblicato nel 1615. Anche in questo testo, il racconto è ambientato nella campagna al di fuori della Milano medievale, nei campi tra Porta Orientale e Porta Nuova non lontano dai Bastioni, ove oggi si trovano i Giardini Pubblici. La vicenda mitologica si svolge vicino alla Chiesa di San Dionigi – oggi non più esistente: qui San Barnaba, secondo la tradizione milanese, si sarebbe fermato a pregare prima di entrare a Milano per svolgere opera di evangelizzazione. Il drago svolge quindi la sua opera malefica in una zona cui i milanesi erano particolarmente legati per il culto di San Barnaba. Scriveva il Morigia:
Volendo ora favellare de gli huomini famosi in guerra di casa Visconte (per essere eglino in grandissimo numero) dirò solamente de i più famosi nell’arte della milizia: et il primo sarà Uberto dell’antica casa d’Angiera, dove è discesa casa Visconte. L’anno adunque 400 incirca, essendosi scoperto un gran Dracone che usciva a certe hore d’una cava vicina a S.Dionigio, e co’l pestifero e mortifero suo fiato infettò tutta quella parte della Città, di modo che morsero (sic!) alquante migliaia e tuttavia la Città si andava infettando; e non trovandosi rimedio a questo. Uberto dunque andò tutto armato contra al grande e pestifero Dracone con gran fortezza d’animo, e destrezza d’ingegno, e mosso dal suo naturale valore s’espose à pericolo della vita per la liberatione della sua patria. Onde l’uccise e con eterna sua gloria liberò la Città da cotal morbo, oltre che fece altre prodezze di gran valore
[P.Morigia, La Nobiltà di Milano, Libro IV, Cap. III, Milano, Giovanni Battista Bidelli 1615, ristampa anastatica Forni editore 1979, pp.311-312.].
Un secolo più tardi, il canonico Carlo Torre si servì della leggenda di Uberto Visconti e del drago per descrivere i borghi di Porta Nuova e Porta Orientale ove si trovava la chiesa di San Dionigi. Nell’opera del Torre, Il Ritratto di Milano, pubblicata nel 1714, troviamo scritto:
Questi è poi il sito in cui fu occiso da Uberto Visconte il Drago che co’ suoi fiati apportava a’ cittadini malefici danni, mentre distoltosi da profonda tana givasene per questi vicini contorni à procacciarsi il vitto, havendo voi a sapere che in quelle antiche età rendevasi tal sito disabitato, e selvaggio, innalzandosi assai discoste le Cittadine mura, quindi familiari i covaccioli (i covi) le fiere. Generoso era cotesto Uberto Cavaliere di nascita, Signore d’Angera…quindi postosi Uberto in pretensione di farsi mirare vittorioso, entrò in arringo e vinse il mostro dal cui felice successo ne trasse di valoroso memoria eterna ne’ posteri. Dichiarasi questo Uberto, d’essere della ramosa Pianta de’ Visconti il vero ceppo…
La fortuna di questa leggenda sembra trovare un riscontro nella coniazione delle monete del Ducato di Milano. Gli Sforza, succeduti ai Visconti, continuarono a servirsi dello stemma del drago che ingoia un bambino rappresentato assieme al biscione squamato che ingoia anch’esso un fanciullo.
Com’è noto, quest’ultimo stemma ebbe maggiore fortuna: dipinto in verde o in azzurro, inquartato con l’aquila dell’impero germanico, il biscione squamato con la testa dentata continuò ad essere utilizzato come insegna del ducato di Milano per tutto l’antico regime.