Riapre il Lirico sulle orme di un illustre passato

Il Comune di Milano ha affidato la gestione del Teatro Lirico alla società olandese Stage enterteinment Srl per un periodo di 12 anni. Il teatro, rimasto chiuso dal 1999, dovrebbe riaprire nei primi mesi del 2018. La società olandese ha messo a punto un nutrito piano di iniziative. La programmazione degli spettacoli sarà affidata a diversi direttori a seconda dei tipi di iniziative messe in campo: Renato Pozzetto si occuperà della parte relativa alla comicità e al cabaret, mentre J-Ax curerà gli eventi di musica leggera per giovani. Gli eventi di musica classica e di musica lirica saranno affidati a Roberto Favaro, vicedirettore di Brera. I concerti Jazz  ad Enrico Intra, mentre Chris Baldock si occuperà degli spettacoli legati alla danza.

Il Teatro Lirico risorgerà quindi a nuova vita dopo quasi vent’anni di chiusura al pubblico. Ci auguriamo che esso saprà restituire al quartiere di via Larga quell’anima culturale che si era venuta definendo nel corso dei secoli in modo del tutto originale.

Difatti, se ci soffermassimo su questo tema inforcando le lenti della storia, rimarremmo colpiti nel constatare che l’isolato compreso tra via Larga e via Rastrelli ebbe un ruolo di assoluto rilievo nella società milanese tra antico regime ed età moderna. Le istituzioni culturali e ricreative che vi operarono nel corso dei secoli diedero al quartiere tre anime: una prima di tipo educativo-formativo, una seconda di tipo melodrammatico operistico di livello quasi paragonabile al Teatro alla Scala, una terza infine legata a un sfera più circoscritta nei contenuti, spesso bando di prova per realizzazioni sceniche destinate in alcuni casi a far discutere, in altri ad incidere in profondità nel panorama culturale italiano.

Qui però occorre chiarirsi subito perché l’edificio che vediamo oggi non corrisponde a quello antico del Teatro della Cannobiana. A ben vedere, neppure via Rastrelli, che costeggia un lato dell’edificio, corrisponde a quella di un tempo: questa strada, che oggi collega via Larga con Piazza Diaz, aveva inizio anticamente da un piccolo incrocio con via Cappellari, a pochi metri dall’antica piazza del Duomo medievale che era assai più piccola dell’attuale. Da quell’incrocio era possibile avere una veduta assai suggestiva della cattedrale. Via Rastrelli costeggiava quindi il Palazzo Ducale – divenuto in epoca napoleonica il Palazzo Reale – e terminava all’incrocio tra le attuali vie Pecorari a sinistra e Paolo da Cannobio a destra, che in antico regime corrispondevano all’incirca alla contrada delle Ore e alla contrada del Pesce. Fu in una casa situata in fondo a questa via, in contrada delle Ore, che furono trasferite nella seconda metà del Cinquecento le Scuole Cannobiane.

Proposta seicentesca di riassetto delle Scuole Cannobiane

L’umanista Paolo da Cannobio (1513-1556) con testamento del 1553 (e codicillo del 1554) aveva assegnato all’Ospedale Maggiore un cospicuo lascito per la costruzione di due scuole di etica e di logica. Aperte nel 1557 in piazza Sant’Ambrogio, furono traslocate nel 1564 in via delle Ore. Quindici anni dopo, l’Ospedale Maggiore decise di installare in quello spazio anche le scuole – fondate da Tommaso Piatti nel 1503 – che si trovavano in via Soncino Merati (via oggi scomparsa, copriva all’incirca il primo tratto dell’attuale corso Matteotti, collegando via San Pietro all’Orto con via San Paolo nel sestiere di Porta Orientale). La gestione in capo alla Cà Granda durò fino al 1671, quando le spese dell’istituto, superando le rendite del lascito Cannobio, impedirono ai membri dell’amministrazione ospedaliera di proseguire nell’attività educativa. La gestione delle Scuole Cannobiane passò al Collegio dei Nobili dottori che finanziò la ricostruzione dell’edificio, ampliato fino ad incorporare una proprietà confinante con via Larga. Alle scuole si accedeva da un piccolo passaggio all’inizio di via delle Ore, passaggio che permetteva agli scolari di accedere alla sala principale, sormontata da una cupola a forma ottagonale-tonda. Le scuole continuarono a svolgere le loro funzioni fino alla fine degli anni Sessanta del Settecento quando il governo asburgico, messo a punto il piano di studi del 1769-70, decise di incorporarle nelle Scuole Palatine di Piazza dei Mercanti. Poco dopo, in seguito alla soppressione dei Gesuiti nel 1773, le scuole secolari milanesi furono concentrate nel Palazzo di Brera che, per volontà dell’imperatrice Maria Teresa, divenne il nuovo “campus” milanese gestito dallo Stato, con finanziamenti adeguati all’alta formazione culturale e scientifica. L’edificio delle Scuole Cannobiane, adibito a magazzino, era destinato a scomparire nel periodo napoleonico, quando gli isolati compresi tra quella parte di via delle Ore (oggi via Pecorari) e via Larga , furono demoliti per costruire l’ala meridionale del Palazzo Reale secondo i disegni dell’architetto Tazzini.

Veniamo alla seconda vita del quartiere. Agli ultimi anni del riformismo teresiano risale la fondazione del Teatro della Cannobiana e della via omonima che fu costruita in prosecuzione di via Rastrelli verso via Larga. Il teatro, costruito negli stessi anni del Teatro alla Scala, era più piccolo rispetto a quest’ultimo. L’edificio presentava tuttavia dimensioni notevoli nel panorama dei teatri cittadini. Nelle intenzioni delle autorità asburgiche, la Cannobiana avrebbe dovuto rivestire un ruolo importante nella vita culturale cittadina. Non a caso esso fu conosciuto dai milanesi come “picciol Teatro”, mentre il “Teatro grande” era ovviamente quello della Scala. I due teatri furono pensati entrambi quali poli d’eccellenza della vita culturale e artistica. Giuseppe Piermarini fu scelto per dirigere la costruzione di entrambi gli edifici. Inoltre, non diversamente da quanto era avvenuto nel giorno di apertura del Teatro alla Scala nell’agosto 1778, anche per l’inaugurazione del Teatro della Cannobiana, avvenuta nel luglio 1779, fu scelta un’opera di Antonio Salieri, La Fiera di Venezia su libretto di Boccherini. Quanto a dimensioni, se la Scala poteva contenere 3600 spettatori, la Cannobiana ne ospitava 2300. La platea era composta da 14 file di sedie (in tutto 450).

Il Teatro alla Cannobiana (o Canobbiana) da “I Teatri di Milano”, particolare da L. Cherbuin dis. ed inc., prima metà XIX secolo

Nei primi anni di attività, la Cannobiana rivestì quindi un’importanza quasi pari a quella del Teatro alla Scala nell’allestimento degli spettacoli. D’altra parte, quanto al pubblico, essa fu frequentata non solo dalla ricca borghesia ma anche dalle più importanti famiglie del patriziato milanese. Avveniva spesso che i nobili disponessero di due palchi: uno al Grande Teatro, l’altro al Picciol Teatro. Del tutto indicativo, in proposito, il caso dei Visconti Ajmi che ho preso in esame nel mio libro Via Filodrammatici prima di Mediobanca (Milano, Scalpendi Editore 2015): questo casato risultava proprietario a fine ‘700 del palchetto N.17 in terza fila alla sinistra nel Teatro alla Scala e del palchetto n.1 in terza fila alla destra nel Teatro della Cannobiana. Nel periodo rivoluzionario, il “Picciol Teatro” divenne un punto di ritrovo per i patrioti lombardi. Vi si tennero tragedie di Alfieri e di Salfi che inneggiavano alla virtù repubblicana. Nel 1798 i patrioti cisalpini lo scelsero per rogare solennemente (presente il notaio Zamperini) l’atto di sovranità del popolo, verosimilmente in opposizione alle ingerenze francesi che avvenivano in quei mesi negli affari di politica interna della Repubblica Cisalpina. Sotto il Regno d’Italia napoleonico e il Regno Lombardo Veneto austriaco, la Cannobiana ritornò al suo antico splendore. Varrà la pena ricordare a tal proposito che Gaetano Donizetti scrisse le scene dell’Elisir d’amore affinché fossero tenute in questo teatro, il che avvenne nella “prima” del 12 maggio 1832. Il calendario era diviso in due stagioni: nel carnevale venivano allestite le commedie, mentre in estate le opere in musica e i balli.

Come avveniva alla Scala, anche qui gli spettacoli non erano certo l’unica attività del teatro: il gioco d’azzardo nei ridotti, la preparazione di piatti e pietanze che potessero soddisfare il palato degli avventori, finivano con il distrarre il pubblico dalla rappresentazione dell’opera. Celebri le lamentele di Berlioz in occasione di una serata trascorsa alla Cannobiana, ove i pasti rumorosi a base di costolette e minestroni lo avevano distratto per il rumore delle stoviglie.

Restaurato nel 1844, il “picciol Teatro” declinò in modo irreversibile nella seconda metà dell’Ottocento, quando passò in gestione dallo Stato al Comune di Milano. La progressiva carenza di fondi segnò la fine di quella stagione memorabile che era iniziata assieme al Teatro alla Scala. L’introduzione dell’illuminazione elettrica non aiutò a risollevare una situazione che restava precaria; parve al contrario portare sfortuna: il prefetto Basile, richiamandosi all’incendio del Ring-Theater di Vienna avvenuto l’8 dicembre 1881 che aveva causato numerosi morti, ebbe buon gioco nel decretare la chiusura della Cannobiana alcuni anni dopo. Nel 1889, a pochi mesi dalla cessazione dell’attività, il poeta Ferdinando Fontana scrisse questi versi malinconici in dialetto milanese:

In via Larga sul canton

Che va dent in del volton

Gh’è ona veggia carampana

Che se ciamma Cannobiana,

Ma che l’è de quj veggett

Fa d’on stamp tanto perfett

Che conserva l’allegria

Anca a vess in agonia…

 

Interno del Teatro Lirico dopo i lavori di ristrutturazione compiuti da Antonio Cassi Ramelli nel 1938.

La seconda vita dell’isolato tra via Larga e via Rastrelli si era chiusa definitivamente ma un’altra se ne aprì in breve tempo. L’editore Sonzogno, le cui pubblicazioni erano in concorrenza con quelle della casa editrice Ricordi, acquistò dal Comune l’edificio ormai in rovina: la sua idea era di formare un nuovo polo teatrale che potesse favorire la sua attività di editore in campo musicale come i Ricordi avevano saputo fare rispondendo abilmente alle richieste di compositori, maestri e impresari del Teatro alla Scala. L’immobile fu ristrutturato in via radicale su disegno dell’architetto Sfondrini. Il 24 settembre 1894 l’edificio fu aperto al pubblico come nuovo Teatro Lirico Internazionale.

Benito Mussolini al Teatro Lirico il 16 dicembre 1944

Diversamente dal Teatro alla Scala, che rimase il tempio dell’opera, il Lirico non raggiunse i livelli di eccellenza cui mirava Sonzogno. Esso si segnalò tuttavia per l’originalità degli spettacoli e assurse ben presto a una certa fama nel panorama della vita artistica milanese. Tra le prime più importanti, si ricordano la Fedora di Umberto Giordano tenuta nel 1898 che lanciò la carriera del celebre tenore Enrico Caruso, nonché La figlia di Iorio di Gabriele d’Annunzio (1904). Un’altra serata memorabile fu quella che si svolse al Lirico il 15 febbraio 1910, quando i Futuristi presentarono al pubblico il loro celebre Manifesto destinato a suscitare scalpore nella società del tempo. L’interno fu devastato da due incendi: un primo nel 1938, un secondo nel 1943. Nonostante tali incidenti, il teatro, ricostruito e ampliato dall’architetto Cassi Ramelli (1905-1980), seppe svolgere una certa attività anche sotto il regime fascista e perfino in tempo di guerra: il 16 dicembre 1944 Mussolini scelse il Lirico per tenere il suo ultimo discorso ai milanesi.

Veniamo infine agli anni del Dopoguerra e del boom economico, durante i quali il Lirico svolse un ruolo importante quale centro culturale milanese, anche se non tornò certamente ai fasti dei primi anni del secolo. Wanda Osiris vi tenne i suoi spettacoli eccentrici e piumati. Verso la metà degli anni Sessanta il Lirico presentava al pubblico un calendario di spettacoli del tutto avvicinabili a quelli del Piccolo Teatro di Giorgio Strehler. Negli anni di piombo, in una Milano immersa nel dramma del terrorismo e della contestazione, suscitò grande impressione la presentazione al Lirico in prima mondiale, il 4 aprile 1975, dello spettacolo Al gran sole carico d’amore, opera di Luigi Nono con la regia di Jurij Ljubimov: vi furono rappresentate le grandi rivoluzioni operaie – dalla Comune parigina alle rivolte nell’Italia del 1943 – alle quali si aggiungeva un richiamo alla guerra in Vietnam.

Il biscione squamato e il drago di San Dionigi

I successori di Ottone Visconti che esercitarono la signoria di Milano – e dei territori e città soggette progressivamente  al loro dominio – continuarono a servirsi della vipera quale insegna di famiglia almeno fino ad Azzone Visconti (1302-1339). Sembra invece che sia da ricondurre ai successori di Azzone la modifica sostanziale dello stemma, ormai utilizzato nell’esercizio del potere pubblico: la vipera fu allungata, attorcigliata in più spire di cui la prima formava una “O” (atta a richiamare il primo Signore di Milano, il già citato arcivescovo Ottone), mentre la testa assunse le sembianze di un drago le cui fauci erano spalancate nell’atto di divorare un fanciullo colorato di rosso. Nella seconda metà del Trecento, questa immagine venne spesso associata a quella di un drago raffigurato anch’esso nell’atto di divorare un bambino. Questo traspare bene se esaminiamo alcune monete coniate dai Signori e Duchi di Milano nel Medioevo: in alcuni pezzi risalenti a Luchino e Giovanni Visconti (1339-1349), a Bernabò e Galeazzo II (1354-1378), a Bernabò fino al 1385, al duca Gian Galeazzo (1385-1402) fino all’ultimo esponente di casa Visconti, il duca Filippo Maria (1412-1447), la lunga biscia squamata con la testa di drago che ingoia un bambino è raffigurata all’interno di un più ampio disegno in cui è presente un drago crestato che ingoia a sua volta un fanciullo.

Pegione, moneta in argento coniata sotto la Signoria di Bernabò Visconti. Diritto: Elmo con cimiero ornato da drago crestato con fanciullo nelle fauci. Rovescio: Serpente visconteo con fanciullo nelle fauci.

Credo che questa variazione dello stemma, così notevole in talune insegne e monete, rivelasse l’ambiziosa politica dei Visconti, i quali puntavano ad essere riconosciuti quali difensori della comunità, autentici “signori civilizzatori” in grado di proteggere i sudditi dalle calamità naturali.

Nel Medioevo l’immagine del drago rinviava a culti pagani assai diffusi in Europa; essa richiamava nell’immaginario popolare le forze misteriose della natura da cui era impossibile difendersi. Importante è ad esempio il racconto agiografico scritto da Venanzio Fortunato nel VI secolo d.C. riguardante San Marcello di Parigi e il drago. Lo storico Jacques Le Goff, in un bel saggio intitolato Cultura ecclesiastica e cultura folklorica nel Medioevo: San Marcello di Parigi e il drago (si veda il volume J. Le Goff, Tempo della chiesa e tempo del mercante. Saggi sul lavoro e la cultura nel Medioevo, Torino, Einaudi 2000, pp.209-255) ha mostrato come il drago pagano simboleggiasse in molti casi le calamità naturali. San Marcello – secondo un’agiografia risalente al VI secolo dopo Cristo – sarebbe riuscito a domare il drago consentendo a un quartiere della città (il faubourg Saint Marcel) di svilupparsi e di prosperare. La bonifica delle paludi avvenute durante il vescovato di San Marcello, viene descritta ricorrendo all’atto del drago ammansito, domato, cacciato.

In altri racconti dell’alto Medioevo il drago veniva addirittura ucciso da un eroe (spesso – anche qui – identificato con la figura di un “santo sauroctono”: San Giorgio, San Michele). Anche nel caso delle uccisioni dei draghi, spesso nella cultura folklorica europea l’episodio rinviava alle opere civili dell’uomo costruttore di città, dell’uomo bonificatore di paludi, dell’uomo civilizzatore che cerca di far fronte alle forze invisibili della natura: epidemie, inondazioni di fiumi o di laghi, pestilenze, calamità devastanti che causavano la morte di uomini, donne e bambini.

Credo che il drago visconteo possa rinviare in parte a questo sostrato pagano. Basti ricordare la diffusione del culto di San Giorgio, altro santo sauroctono uccisore di un drago, il cui mito è molto diffuso nel Nord Italia. I Visconti, conquistato il potere politico nel corso della prima metà del XIV secolo, potrebbero essersi presentati anch’essi quali eroi civilizzatori che difendono gli abitanti di una comunità contro le forze ostili della natura impersonate dal drago. Una spia che autorizza almeno a non escludere tale ipotesi è una leggenda popolare milanese, risalente probabilmente al XIV secolo, divulgata nel periodo visconteo, che ebbe una certa fortuna per tutto l’antico regime, fino ai primi del ‘700.

Fiorino coniato sotto la signoria di Bernabò e Galeazzo II Visconti. Diritto: Scudetto con biscione visconteo sormontato da elmo e cimiero ornato da drago piumato con fanciullo nelle fauci. Rovescio: Scudetto con biscione visconteo sormontato da elmo e cimiero ornato da drago crestato con fanciullo nelle fauci.

L’eroe è ovviamente un antenato dei Visconti, tale Uberto. Il mostro è descritto anche qui nelle sembianze di un drago che mieteva vittime.

La versione più antica di questo racconto sembrerebbe trovarsi nella Cronaca estravagante del frate domenicano Galvano Fiamma, vissuto nella prima metà del XIV secolo. Questi fu in stretto rapporto con i Visconti per i quali scrisse alcune opere sulla storia di Milano tese a celebrare il loro dominio. Nella Cronaca estravagante troviamo il racconto del drago. Ringrazio il professor Ambrogio Céngarle Parisi per avermelo indicato.

Ubertus uicecomes draconem, totam civitatem suo anelitu infitientem, homines et animalia deuorantem, per barbam areptum, securi mactavit.

[Un visconte Uberto afferrò per la barba un drago che appestava l’intera città col suo fiato e divorava uomini e animali, e l’ammazzò con la scure].

Traduzione del professor Céngarle Parisi da La Cronaca estravagante di Galvano Fiamma, a cura di Ambrogio Céngarle Parisi e Massimiliano David, Milano 2013, cap.103, paragrafo 4, pag.363].

La leggenda è ripresa e arricchita nel libro La nobiltà di Milano del religioso gesuato Paolo Morigia, pubblicato nel 1615. Anche in questo testo, il racconto è ambientato nella campagna al di fuori della Milano medievale, nei campi tra Porta Orientale e Porta Nuova non lontano dai Bastioni, ove oggi si trovano i Giardini Pubblici. La vicenda mitologica si svolge vicino alla Chiesa di San Dionigi – oggi non più esistente: qui San Barnaba, secondo la tradizione milanese, si sarebbe fermato a pregare prima di entrare a Milano per svolgere opera di evangelizzazione. Il drago svolge quindi la sua opera malefica in una zona cui i milanesi erano particolarmente legati per il culto di San Barnaba. Scriveva il Morigia:

Volendo ora favellare de gli huomini famosi in guerra di casa Visconte (per essere eglino in grandissimo numero) dirò solamente de i più famosi nell’arte della milizia: et il primo sarà Uberto dell’antica casa d’Angiera, dove è discesa casa Visconte. L’anno adunque 400 incirca, essendosi scoperto un gran Dracone che usciva a certe hore d’una cava vicina a S.Dionigio, e co’l pestifero e mortifero suo fiato infettò tutta quella parte della Città, di modo che morsero (sic!) alquante migliaia e tuttavia la Città si andava infettando; e non trovandosi rimedio a questo. Uberto dunque andò tutto armato contra al grande e pestifero Dracone con gran fortezza d’animo, e destrezza d’ingegno, e mosso dal suo naturale valore s’espose à pericolo della vita per la liberatione della sua patria. Onde l’uccise e con eterna sua gloria liberò la Città da cotal morbo, oltre che fece altre prodezze di gran valore

[P.Morigia, La Nobiltà di Milano, Libro IV, Cap. III, Milano, Giovanni Battista Bidelli 1615, ristampa anastatica Forni editore 1979, pp.311-312.].

Un secolo più tardi, il canonico Carlo Torre si servì della leggenda di Uberto Visconti e del drago per descrivere i borghi di Porta Nuova e Porta Orientale ove si trovava la chiesa di San Dionigi. Nell’opera del Torre, Il Ritratto di Milano, pubblicata nel 1714, troviamo scritto:

Questi è poi il sito in cui fu occiso da Uberto Visconte il Drago che co’ suoi fiati apportava a’ cittadini malefici danni, mentre distoltosi da profonda tana givasene per questi vicini contorni à procacciarsi il vitto, havendo voi a sapere che in quelle antiche età rendevasi tal sito disabitato, e selvaggio, innalzandosi assai discoste le Cittadine mura, quindi familiari i covaccioli (i covi) le fiere. Generoso era cotesto Uberto Cavaliere di nascita, Signore d’Angera…quindi postosi Uberto in pretensione di farsi mirare vittorioso, entrò in arringo e vinse il mostro dal cui felice successo ne trasse di valoroso memoria eterna ne’ posteri. Dichiarasi questo Uberto, d’essere della ramosa Pianta de’ Visconti il vero ceppo…

Ducato coniato sotto il ducato di Galeazzo Maria Sforza. Nel rovescio, scudetto con il serpente sormontato da elmo coronato e da cimiero ornato da drago crestato.

La fortuna di questa leggenda sembra trovare un riscontro nella coniazione delle monete del Ducato di Milano. Gli Sforza, succeduti ai Visconti, continuarono a servirsi dello stemma del drago che ingoia un bambino rappresentato assieme al biscione squamato che ingoia anch’esso un fanciullo.

Com’è noto, quest’ultimo stemma ebbe maggiore fortuna: dipinto in verde o in azzurro, inquartato con l’aquila dell’impero germanico, il biscione squamato con la testa dentata continuò ad essere utilizzato come insegna del ducato di Milano per tutto l’antico regime.

Alle origini della vipera milanese

Se chiedessimo a un milanese quale sia l’insegna di Milano, in larga parte dei casi avremmo come risposta la croce rossa su fondo argenteo. Risposta ovvia, non foss’altro perché si tratta dell’attuale stemma del Comune di Milano. La croce rossa è insegna antica che risale al Medioevo, quando i Milanesi la issarono sul Carroccio nel corso delle battaglie dei Comuni italici contro l’Impero in opposizione alla croce bianca su fondo rosso propria dell’imperatore germanico e dei Comuni che lo sostenevano.

Eppure, a ben vedere, quella risposta sarebbe scorretta perché la croce rossa non fu certo l’unico stemma dei Milanesi. C’è anche la famosa “vipera, che il Melanese accampa” come scriveva Dante nella Commedia nei primissimi anni del Trecento. Più di due secoli dopo Torquato Tasso, nella Gerusalemme liberata, sarebbe tornato sull’argomento in un passo famoso riferendosi a “Il forte Otton, che conquistò lo scudo/In cui dall’angue esce il fanciullo ignudo”: Ottone Visconti, figlio del visconte di Milano Ariprando, nel corso della crociata in Terra Santa avrebbe sconfitto in duello il saraceno Voluce riportando in patria lo stemma del guerriero sconfitto: una vipera che divora un uomo. Un racconto di cui si servì abilmente la famiglia Visconti già nel Duecento per spiegare l’utilizzo dell’insegna della vipera.

Oggi è quindi molto facile pensare che la vipera sia lo stemma gentilizio della famiglia Visconti e nulla di più. Tale casato nobiliare, quando s’impadronì stabilmente del Comune milanese nel primo Trecento, avrebbe imposto la vipera quale insegna della città. In realtà, questa spiegazione non convince del tutto.

La vipera era uno stemma milanese già molto tempo prima della Prima Crociata cui partecipò il leggendario Ottone nel 1099. Basta andare nella chiesa di Sant’Ambrogio, dove su una colonna di marmo è posto un serpente di bronzo risalente ai primissimi anni dell’XI secolo. Lo portò Arnolfo, arcivescovo di Milano, nel 1002, quando fece ritorno in città da un’ambasceria a Costantinopoli (odierna Istanbul) che era tesa a procurare all’imperatore germanico Ottone III una sposa di nobili origini “romane”. Scriveva Pietro Verri nella Storia di Milano pubblicata nel 1783:

A quest’ambasciata, sostenuta dal nostro Arcivescovo Arnolfo, siamo debitori del famoso serpente di bronzo, che tuttavia resta collocato sopra di una colonna in Sant’Ambrogio. Non è cosa nuova nei Monarchi di premiare e ricompensare con donativi, il valore de’ quali non pregiudichi l’erario. Il serpente di bronzo fu donato dal tesoro di Costantinopoli, facendo credere al buon Arcivescovo che fosse il medesimo che Mosé innalzò nel deserto; e con questa bella antichità fu rimeritato della enorme spesa che fece.

[P. Verri, Storia di Milano, capo IV, Edizioni Nazionale delle Opere di Pietro Verri, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2009, pag.87]

Lo storico di Milano Ettore Verga e, dopo di lui, il medievista Gian Piero Bognetti concordarono nel ritenere fondata la tesi che il serpente – totem molto diffuso presso i longobardi arimanni –  fosse stato adottato quale insegna milanese tra l’alto Medioevo e il basso Medioevo. E’ probabile che i guerrieri ambrosiani inviati nella crociata in Terra Santa, memori della serpe di bronzo conservata in Sant’Ambrogio, avessero decisero di adottarlo quale stemma rifacendosi al serpente miracoloso di Mosé. La vipera divenne quindi verosimilmente uno stemma milanese ben prima che fosse adottata come insegna dai primi Visconti.

La validità di questa ipotesi si collega alla cerimonia dell’investitura civile seguita alla fine del Duecento dal Comune di Milano nei confronti dei Visconti. Lo storico Francesco Novati, quando scoprì nella Biblioteca Nazionale di Madrid la celebre cronaca De Magnalibus urbis Mediolani (Le Meraviglie di Milano) scritta dal frate Bonvesin de la Riva, ricavò da quel testo elementi più che sufficienti per ritenere infondata l’origine esclusivamente gentilizia dello stemma della biscia. Scriveva Bonvesin nel 1288:

Anche ad un discendente della nobilissima stirpe dei Visconti, che appaia il più degno, il comune offre un vessillo, su cui è dipinta in azzurro una biscia che trangugia un Saraceno rosso: questo vessillo si porta davanti a ogni altro e il nostro esercito non si accampa mai in qualche luogo, se prima non ha visto la biscia collocata su qualche albero.

[Bonvesin de la Riva, De Magnalibus urbis Mediolani, Milano, Bompiani 1992, edizione a cura di Maria Corti, traduzione di Giuseppe Pontiggia, pag.155].

Commentando questo passo, così scriveva il Novati nel 1898: “Intorno all’origine di siffatta usanza, la quale apre la via a sospettare che l’insegna della vipera fosse in antico propria del comune di Milano, e non già, come sostiene la volgarissima tradizione, della famiglia Visconti che doveva renderla famosa, non è qui il caso d’istruire ricerche”.

Quando Bonvesin de la Riva scrisse la sua opera famosa, da undici anni il potere civile e il potere ecclesiastico erano uniti nella persona dell’arcivescovo Ottone Visconti (1207-1295). Difatti, com’è noto, nel 1277 il nobile prelato era riuscito ad entrare trionfalmente in città in seguito al fortunato colpo di Desio ove i Torriani – gli storici nemici della sua famiglia che reggevano il governo di Milano – erano stati fatalmente sorpresi in un’imboscata notturna.

Ottone, com’è noto, fu il primo dei tredici Visconti ad assumere il governo di Milano. Il suo stemma non corrispondeva tuttavia alle insegne dei Visconti diffuse tra Tre e Quattrocento, quelle che furono proprie dello Stato di Milano almeno fino alla fine dell’ancien régime: mi riferisco alla lunga serpe squamata con la testa di drago, raffigurata in verde o in azzurro, che ingolla un bimbo colorato di rosso. Uno stemma, questo, su cui mi soffermerò in un altro articolo.

Lo stemma di Ottone e dei suoi antenati era diverso. Lo si vede bene in una scultura in marmo che lo storico milanese Giorgio Giulini, verso la metà del Settecento, vide nel palazzo arcivescovile di Legnano fatto costruire dal nobile milanese. Non so se questa piccola pietra di marmo esista ancora. La figura è riportata nell’opera monumentale del Giulini, Le Memorie di Milano nei secoli bassi. Riporto una fotografia parziale riportata nel quarto volume della ristampa anastatica dell’edizione Colombo del 1854 pubblicata nel 1974 dalla casa editrice Cisalpino Goliardica (pag.763). Vi compare una vipera, assai più corta e grossa di quella famosa raffigurata dai Visconti e dagli Sforza, ritratta nell’atto di mangiare un uomo che regge nella mano destra una freccia e nella sinistra un tondo raffigurante il frammento del volto di una persona.

Lo stemma di Ottone Visconti nel palazzo arcivescovile di Legnano. Imaggine tratta dalle Memorie di Milano nei secoli bassi del conte Giorgio Giulini

In realtà, i Visconti avevano scelto la vipera quale loro stemma ben prima di Ottone Visconti. E’ sempre lo storico Giorgio Giulini a ricordarci quanto riportato dal cronista Tristano Calco in una delle sue opere. Questi, vissuto tra la seconda metà del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento, raccontò che quando venne dissotterrato il cadavere di Ardengo Visconti, abate del monastero di Sant’Ambrogio nella prima metà del XIII secolo, fu trovato accanto allo scheletro un pastorale ornato con vipere di avorio. Una prova ulteriore che già nel Duecento i Visconti si erano serviti della vipera milanese per fregiare il loro stemma.