Il libro di Empio Malara, I paesaggi dei Promessi Sposi. Le bellezze della Grande Milano svelate da Alessandro Manzoni (Chimera Editrice, Milano 2014) costituisce uno studio di grande interesse. L’analisi dei capitoli del romanzo relativi al paesaggio e alla natura è accompagnata da una verifica puntuale degli stessi luoghi quali si presentavano nel primo Seicento (il periodo in cui è ambientata la storia del romanzo) e nel primo Ottocento (gli anni della stesura). Paesaggi e luoghi che Malara prende in esame con l’occhio dello studioso contemporaneo il quale sa individuare con disincanto le trasformazioni urbanistiche che hanno alterato in profondità l’ambiente caro a Manzoni.
Lo studio, i cui testi sono scritti in versione bilingue (italiano e inglese), si caratterizza per un vasto apparato iconografico che aiuta il lettore ad orientarsi tra i passi del romanzo che riguardano ambientazioni quali laghi, fiumi, navigli, chiese, città come Monza e Milano. A ben vedere, si tratta di una vera e propria analisi del paesaggio – urbano e rurale – che ha quale tema centrale la Grande Milano, quell’area metropolitana in cui i cittadini vivono e lavorano entrando a diretto contatto con la natura del luogo mediante le sue infrastrutture.
A proposito del famoso incipit, quel ramo del lago di Como…Malara riconosce in Manzoni la veste di geografo-storico nella descrizione dell’ambiente e del paesaggio, quasi ad anticipare la lezione dello storico francese Fernand Braudel. La navigazione del lago costituì per secoli l’unico modo di raggiungere la sponda orientale ove si trova Lecco, piccolo paese il cui impianto urbanistico venne completamente sconvolto nel Novecento dall’espansione immobiliare. Eppure, come Malara fa notare argutamente, già negli anni in cui Manzoni scriveva la prima stesura del romanzo (1821-24), il governo lombardo andava costruendo la strada che, mediante una lunga serie di gallerie, avrebbe consentito di lì a pochi anni di raggiungere il piccolo comune senza passare per il lago. Fu l’inizio di una lunga serie di opere pubbliche, anche ferroviarie, che segnarono il declino irreversibile della navigazione merci e passeggeri lungo l’Adda.
Eppure, ancora nella prima metà dell’Ottocento, la navigazione sui primi battelli a vapore in un paesaggio che restava in larga parte silvestre, dominato dalle catene dei monti e da una vegetazione rigogliosa, costituiva una risorsa culturale di immenso valore, tale da fare innamorare scrittori e poeti europei. Le barche che solcavano le acque del lago furono chiamate “Lucie” in omaggio al Manzoni: erano costituite da uno scafo piatto e da una struttura sormontata da tre cerchi di legno. Fu una di queste, nella mente di Manzoni, a traghettare Renzo, Agnese e Lucia dalla riva orientale a quella occidentale nella fuga dal paese in subbuglio nella notte degli imbrogli. Il passo del romanzo che Malara prende in esame descrive assai bene la natura del lago, la sua superficie quasi piatta, il cui ondeggiare è appena tradito dal riflesso tremolante della luna sulle acque. C’è poi l’attività del barcaiolo: i remi calati ripetutamente nell’acqua con moto lento e cadenzato son tratteggiati da Manzoni in un quadro narrativo in cui troviamo una raffigurazione memorabile del paesaggio lacustre, tutta giocata sul silenzio dei protagonisti e sui lievi rumori delle acque che si frangono nel lido e nei piloni del molo, rumori sui quali domina il tonfo dei remi:
Essi s’avviarono zitti zitti alla riva ch’era stata loro indicata; videro il battello pronto, e data e barattata la parola, c’entrarono. Il barcaiolo, puntando un remo alla proda, se ne staccò; afferrato poi l’altro remo, e vogando a due braccia, prese il largo, verso la spiaggia opposta. Non tirava un alito di vento; il lago giaceva liscio e piano, e sarebbe parso immobile, se non fosse stato il tremolare e l’ondeggiar leggero della luna, che vi si specchiava da mezzo il cielo. S’udiva soltanto il fiotto morto e lento frangersi sulle ghiaie del lido, il gorgoglio più lontano dell’acqua rotta tra le pile del ponte, e il tonfo misurato di que’ due remi, che tagliavano la superficie azzurra del lago, uscivano a un colpo grondanti, e si rituffavano.
[A. Manzoni, I Promessi Sposi, Milano, Meridiani Mondadori 2002, Vol.II, Tomo II, pag.162]
Un’altra imbarcazione, come Malara non manca di rilevare, era costituita dai combaj, barche assai più grandi che alla poppa non avevano il timone, ma erano governate da un lungo remo (chiamato pala in dialetto milanese) che consentiva ai barcaioli di superare le diverse pendenze tra il fiume Adda e il Naviglio Martesana: il tragitto di queste imbarcazioni poteva spingersi sino a Milano, ove raggiungevano la Darsena di Porta Ticinese attraverso quel canale interno che portando le acque della Martesana in centro città era conosciuto dai milanesi come “il Naviglio”.
A Milano Malara dedica ben quattro capitoli dei dieci in cui si articola il suo studio sul paesaggio manzoniano. La città quale si presentava all’epoca del dominio spagnolo e nel periodo austriaco non mutò granché della sua struttura urbanistica, rimasta all’incirca quella di epoca medievale.
Gli interventi radicali sarebbero intervenuti a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Eppure, già nel 1857, quando la Lombardia si trovava ancora sotto il dominio austriaco, fu realizzato un progetto che fu il primo attacco al patrimonio storico artistico e storico culturale della città manzoniana. Esso collegava la stazione ferroviaria di piazza della Repubblica con le linee verso Magenta mediante la costruzione di un lungo ponte ad arcate all’interno del Lazzaretto; tale intervento finì per compromettere l’esistenza di un edificio risalente alla fine del Quattrocento. Pochi anni dopo la morte di Manzoni, l’immobile, venduto alla Banca di Credito Italiano, fu demolito per costruire un quartiere residenziale senza alcun rispetto per il paesaggio circostante. Si trattò, come nota Malara, del “primo episodio di speculazione edilizia dopo l’Unità d’Italia”. Oggi, per chi si aggiri nel vasto quadrilatero compreso entro le vie Vittorio Veneto, Buenos Aires, San Gregorio e Lazzaretto, non resta che visitare la piccola chiesa di San Carlo, la cappella del Lazzaretto in cui Manzoni ambientò gli ultimi capitoli del romanzo. Oggi, al di là del tempio e di un piccolo frammento di porticato del Lazzaretto miracolosamente conservato all’interno dello stabile in via San Gregorio 5, non è più possibile avere una percezione fisica dell’antico edificio quattrocentesco il cui stile architettonico riprendeva la forme dell’Ospedale Maggiore.
Malara ricostruisce il tragitto di Renzo a Milano. Individua l’antica conformazione del paesaggio urbano articolato, a partire dalla metà del Cinquecento, in due zone: la prima – dominata in gran parte da orti, conventi e campi tra la Cerchia dei Bastioni e il Naviglio – era attraversata dai corsi principali; la seconda, contraddistinta dal fitto reticolo di vie e piazze nella parte di città all’interno del canale, costituiva invece il cuore della Milano medievale che, inglobata l’antica urbe romana, aveva i suoi cuori pulsanti nel Duomo e nella Piazza dei Tribunali.
Merita infine di essere ricordato il capitolo dedicato al “canale detto Il Naviglio”, una vera e propria infrastruttura per il trasporto merci e passeggeri che, attraversando il centro cittadino, mise in collegamento per più di quattro secoli il Naviglio Martesana con la Darsena di Porta Ticinese facendo di Milano una città porto, punto di arrivo delle imbarcazioni provenienti dal Lago Maggiore (via Naviglio Grande) e dal Lago di Como. Manzoni era nato in una casa che si affacciava sulla riva esterna del Naviglio, tuttora esistente nel sestiere di Porta Orientale, in via Visconti di Modrone al civico 16. Un giorno, forse nel corso di una passeggiata lungo il Naviglio di San Gerolamo (oggi via Carducci), trasse l’ispirazione per due versi memorabili ove seppe descrivere il singolare riflesso della luce del sole nell’onda opaca del naviglio: del sole il puro raggio/ rotto dall’onda impura, /sulle vetuste mura /gibigianando va. Le mura “vetuste” erano quelle medievali racchiuse dal canale, costruite nel XII secolo e rinforzate nel XIV secolo da Azzone Visconti. Con il termine “gibigianna” il dialetto milanese indicava il riflesso del sole su superfici lucide o chiare come l’acqua, gli specchi e i vetri. “Gibigianando va” è una locuzione onomatopeica che consente quasi di percepire il riverbero sfuggente della luce sulle acque scure del naviglio. Uno spaccato di paesaggio milanese che ispirò pittori e vedutisti.
Bellissima passeggiata tra le vie e i canali di una Milano che non c’è più!