Capire chi siamo: online una Enciclopedia storica

Un’interessante iniziativa avviata dalla Società Storica Lombarda riguarda la compilazione della Enciclopedia delle famiglie lombarde: si tratta di una piattaforma informatica, già in parte accessibile in rete, i cui contenuti saranno accresciuti nei prossimi mesi. L’obiettivo – come ha ricordato Ottavio De Carli in un incontro organizzato il 22 novembre presso l’Archivio di Stato di Milano – è di mettere a disposizione del pubblico uno strumento di conoscenza storica rivolto non solo a specialisti, ma anche a persone appassionate di storia locale che desiderano disporre su Internet di una piattaforma d’immediata consultazione come avviene con Wikipedia; per quanto concerne la qualità dei contenuti disponibili, il modello sarà invece quello delle garzantine: il lavoro è gestito da una commissione scientifica di storici e specialisti: ricordo il direttore Stefano Levati (Università degli Studi di Milano), il coordinatore Ottavio De Carli, Fabrizio Alemani, Saverio Almini, Paolo Galimberti, Gabriele Medolago e Giovanni Necchi della Silva.

L’opera insisterà su un’area territoriale – la Lombardia – di dimensioni regionali o addirittura macroregionali a seconda del significato che si vorrà dare a questo termine: gli storici hanno infatti dimostrato che il nome “Lombardia” non si riferisce soltanto alla Regione attuale, la cui formazione risale alla fine del Settecento e ai primi anni dell’Ottocento. Occorre tener presente anche la “Lombardia storica”, l’antica area geografica ricordata da Montesquieu, estesa alla pianura padana centro-occidentale, comprendente parte del Piemonte, del Veneto e dell’Emilia Romagna. D’altra parte, non sarà fuori luogo ricordare che lo stesso Ducato di Milano in Età Moderna fu esteso fino ai primi del Settecento a territori che oggi fanno parte della Regione Piemonte: è il caso dell’alto e basso novarese, dell’alessandrino o del tortonese.

L’Enciclopedia è dedicata allo studio delle famiglie lombarde dal Medioevo all’età moderna e contemporanea. Ad essere analizzati, sulla base dei documenti conservati negli archivi pubblici e privati, saranno gli stili di vita, le abitudini, i ruoli politico istituzionali rivestiti dalle persone oggetto d’indagine.

Una parte importante di questo lavoro riguarderà le famiglie nobili, il cui studio consentirà di comprendere meglio la società d’antico regime focalizzando l’attenzione sulla vita del tempo, sulle relazioni e sul ruolo pubblico dei matrimoni tra famiglie di pari rango; matrimoni che portavano spesso all’accrescimento del patrimonio immobiliare e finanziario del casato.

Federico Confalonieri
Federico Confalonieri (1785-1846)

La storia delle famiglie nobili lombarde consentirà inoltre di cogliere – meglio di quanto si sia fatto finora – il significato di comportamenti e di istituzioni assai diffuse nell’Europa d’ancien régime; situazioni difficilmente comprensibili al giorno d’oggi nelle loro dinamiche interne. Del tutto emblematica, a tal proposito, la figura del “cavalier servente”. Come ha rilevato lo storico Roberto Bizzocchi nell’incontro citato sopra, un esame del carteggio tra il conte Federico Confalonieri e la moglie Teresa Casati, risalente ai primi anni dell’Ottocento, ha consentito di cogliere la crisi del “matrimonio a tre” tipico della società settecentesca; un matrimonio in cui la figura del “cavalier servente”, scelto dal marito affinché la moglie potesse frequentare i salotti culturali al di fuori delle mura domestiche, svolgeva un ruolo importante. L’amore di Teresa per il marito, evidente nelle lettere che gli scriveva, lasciava trasparire una sfera di affetti già compresa nell’amore romantico di coppia formatosi nel XIX secolo. A Federico, assente da Milano, impegnato in un viaggio politico-diplomatico in Francia e in Gran Bretagna, Teresa scriveva affermando di non voler frequentare i teatri milanesi assieme agli accompagnatori che lui stesso le aveva scelto per la vita in società. La donna sentiva fortemente la mancanza del marito, il che lasciava trasparire un forte legame sentimentale tra i due, un affetto di coppia che tendeva ad essere meno presente nella società aristocratica del Settecento.

Per capire la distanza di un tale legame di natura già romantica rispetto ai formali rapporti di coppia dell’antico regime è utile ricordare il ben più saldo “matrimonio a tre” che caratterizzò la relazione settecentesca tra Laura Cotta, il marito Antonio Greppi e il cavalier servente Stefano Lottinger scelto dal marito per accompagnare la donna in società. Diversamente dai Casati e dai Confalonieri, Greppi apparteneva a una famiglia borghese originaria della bergamasca specializzata nel commercio all’ingrosso di lana e tessuti. L’ascesa sociale della famiglia avvenne a metà Settecento, quando Antonio ricevette dal ministro plenipotenziario della Lombardia austriaca, Gian Luca Pallavicini, l’incarico di gestire con altri soci l’appalto di riscossione delle tasse per conto del governo (la Ferma generale). Arricchitosi considerevolmente grazie all’impegno profuso in questa attività, il Greppi si trasferì a Milano ove acquistò una casa in via Sant’Antonio (sestiere di Porta Romana) che fece ristrutturare e ingrandire perché acquisisse i caratteri di una residenza elegante e fastosa. Negli anni Settanta, grazie ai servigi prestati all’imperatrice Maria Teresa, ottenne la nobilitazione della sua famiglia. Dal matrimonio con Laura Cotta aveva avuto sei figli maschi.

Le lettere della donna al marito, impegnato in alcuni viaggi all’estero, mostravano il rapporto d’interesse e di socialità mondana che la univa al Lottinger, importante funzionario asburgico di origine lorenese che ricoprì uffici di rilievo nella Lombardia austriaca: consigliere del Supremo Consiglio di Economia, membro della Giunta interina incaricata di amministrare le finanze, membro della Camera dei conti, dal 1780 al 1796 fu intendente generale di finanza nella Lombardia austriaca. La frequentazione con il Lottinger consentiva alla nobildonna di avere notizie aggiornate sulla politica del governo asburgico nel settore delle finanze; una messe d’informazioni assai utile al marito per il ruolo che questi, assieme ad altri soci, aveva rivestito per molti anni (dal 1750 al 1770) nella gestione della Ferma e per l’ufficio di consigliere nella Camera dei Conti dal 1770 al 1779.

Un’altra riflessione importante sulla storia delle famiglie lombarde nei secoli dell’Età Medievale e Moderna investe la sfera dei sentimenti tra genitori e figli. L’elevata mortalità infantile unita all’alto tasso di natalità rendeva tenue il legame di affetto dei padri verso i piccoli; un sentimento che tendeva a privilegiare per lo più i maschi primogeniti, sui quali si appuntavano i progetti di discendenza e di trasmissione patrimoniale del casato. Non stupisce a tal proposito, come fa notare ancora Bizzocchi, che nel diario compilato da un nobile lucchese (appartenente alla famiglia Bracci Cambini) la notazione più struggente sia quella riguardante la morte di un figlio di pochi anni, mentre la scomparsa della sorellina sia ricordata in modo quasi anonimo.

L’Enciclopedia sarà anche dedicata allo studio di famiglie borghesi che, soprattutto negli ultimi secoli dell’Età Moderna, hanno contribuito alla crescita culturale ed economica della società lombarda. Le carte conservate negli archivi riguardano non solo uomini, ma anche donne che hanno reso grande Milano in campi di grande attualità quali la moda, il design, l’architettura. Come ha sottolineato la storica Maria Canella, l’opera di valorizzazione di queste “carte politecniche” consentirà di dare voce “a persone che la storiografia ha trascurato finora”.

Un altro terreno d’indagine sarà dedicato alla storia di famiglie i cui membri si distinsero nell’atletica agonistica tra Otto e Novecento.

L’Enciclopedia della Famiglie Lombarde è liberamente accessibile a questo indirizzo.

La Grande Milano dei Promessi Sposi

Il libro di Empio Malara, I paesaggi dei Promessi Sposi. Le bellezze della Grande Milano svelate da Alessandro Manzoni (Chimera Editrice, Milano 2014) costituisce uno studio di grande interesse. L’analisi dei capitoli del romanzo relativi al paesaggio e alla natura è accompagnata da una verifica puntuale degli stessi luoghi quali si presentavano nel primo Seicento (il periodo in cui è ambientata la storia del romanzo) e nel primo Ottocento (gli anni della stesura). Paesaggi e luoghi che Malara prende in esame con l’occhio dello studioso contemporaneo il quale sa individuare con disincanto le trasformazioni urbanistiche che hanno alterato in profondità l’ambiente caro a Manzoni.

Lo studio, i cui testi sono scritti in versione bilingue (italiano e inglese), si caratterizza per un vasto apparato iconografico che aiuta il lettore ad orientarsi tra i passi del romanzo che riguardano ambientazioni quali laghi, fiumi, navigli, chiese, città come Monza e Milano. A ben vedere, si tratta di una vera e propria analisi del paesaggio – urbano e rurale – che ha quale tema centrale la Grande Milano, quell’area metropolitana in cui i cittadini vivono e lavorano entrando a diretto contatto con la natura del luogo mediante le sue infrastrutture.

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Empio Malara

A proposito del famoso incipit, quel ramo del lago di Como…Malara riconosce in Manzoni la veste di geografo-storico nella descrizione dell’ambiente e del paesaggio, quasi ad anticipare la lezione dello storico francese Fernand Braudel. La navigazione del lago costituì per secoli l’unico modo di raggiungere la sponda orientale ove si trova Lecco, piccolo paese il cui impianto urbanistico venne completamente sconvolto nel Novecento dall’espansione immobiliare. Eppure, come Malara fa notare argutamente, già negli anni in cui Manzoni scriveva la prima stesura del romanzo (1821-24), il governo lombardo andava costruendo la strada che, mediante una lunga serie di gallerie, avrebbe consentito di lì a pochi anni di raggiungere il piccolo comune senza passare per il lago. Fu l’inizio di una lunga serie di opere pubbliche, anche ferroviarie, che segnarono il declino irreversibile della navigazione merci e passeggeri lungo l’Adda.

Eppure, ancora nella prima metà dell’Ottocento, la navigazione sui primi battelli a vapore in un paesaggio che restava in larga parte silvestre, dominato dalle catene dei monti e da una vegetazione rigogliosa, costituiva una risorsa culturale di immenso valore, tale da fare innamorare scrittori e poeti europei. Le barche che solcavano le acque del lago furono chiamate “Lucie” in omaggio al Manzoni: erano costituite da uno scafo piatto e da una struttura sormontata da tre cerchi di legno. Fu una di queste, nella mente di Manzoni, a traghettare Renzo, Agnese e Lucia dalla riva orientale a quella occidentale nella fuga dal paese in subbuglio nella notte degli imbrogli. Il passo del romanzo che Malara prende in esame descrive assai bene la natura del lago, la sua superficie quasi piatta, il cui ondeggiare è appena tradito dal riflesso tremolante della luna sulle acque. C’è poi l’attività del barcaiolo: i remi calati ripetutamente nell’acqua con moto lento e cadenzato son tratteggiati da Manzoni in un quadro narrativo in cui troviamo una raffigurazione memorabile del paesaggio lacustre, tutta giocata sul silenzio dei protagonisti e sui lievi rumori delle acque che si frangono nel lido e nei piloni del molo, rumori sui quali domina il tonfo dei remi:

Essi s’avviarono zitti zitti alla riva ch’era stata loro indicata; videro il battello pronto, e data e barattata la parola, c’entrarono. Il barcaiolo, puntando un remo alla proda, se ne staccò; afferrato poi l’altro remo, e vogando a due braccia, prese il largo, verso la spiaggia opposta. Non tirava un alito di vento; il lago giaceva liscio e piano, e sarebbe parso immobile, se non fosse stato il tremolare e l’ondeggiar leggero della luna, che vi si specchiava da mezzo il cielo. S’udiva soltanto il fiotto morto e lento frangersi sulle ghiaie del lido, il gorgoglio più lontano dell’acqua rotta tra le pile del ponte, e il tonfo misurato di que’ due remi, che tagliavano la superficie azzurra del lago, uscivano a un colpo grondanti, e si rituffavano.

[A. Manzoni, I Promessi Sposi, Milano, Meridiani Mondadori 2002, Vol.II, Tomo II, pag.162]

Un’altra imbarcazione, come Malara non manca di rilevare, era costituita dai combaj, barche assai più grandi che alla poppa non avevano il timone, ma erano governate da un lungo remo (chiamato pala in dialetto milanese) che consentiva ai barcaioli di superare le diverse pendenze tra il fiume Adda e il Naviglio Martesana: il tragitto di queste imbarcazioni poteva spingersi sino a Milano, ove raggiungevano la Darsena di Porta Ticinese attraverso quel canale interno che portando le acque della Martesana in centro città era conosciuto dai milanesi come “il Naviglio”.

A Milano Malara dedica ben quattro capitoli dei dieci in cui si articola il suo studio sul paesaggio manzoniano. La città quale si presentava all’epoca del dominio spagnolo e nel periodo austriaco non mutò granché della sua struttura urbanistica, rimasta all’incirca quella di epoca medievale.

Gli interventi radicali sarebbero intervenuti a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Eppure, già nel 1857, quando la Lombardia si trovava ancora sotto il dominio austriaco, fu realizzato un progetto che fu il primo attacco al patrimonio storico artistico e storico culturale della città manzoniana. Esso collegava la stazione ferroviaria di piazza della Repubblica con le linee verso Magenta mediante la costruzione di un lungo ponte ad arcate all’interno del Lazzaretto; tale intervento finì per compromettere l’esistenza di un edificio risalente alla fine del Quattrocento. Pochi anni dopo la morte di Manzoni, l’immobile, venduto alla Banca di Credito Italiano, fu demolito per costruire un quartiere residenziale senza alcun rispetto per il paesaggio circostante. Si trattò, come nota Malara, del “primo episodio di speculazione edilizia dopo l’Unità d’Italia”. Oggi, per chi si aggiri nel vasto quadrilatero compreso entro le vie Vittorio Veneto, Buenos Aires, San Gregorio e Lazzaretto, non resta che visitare la piccola chiesa di San Carlo, la cappella del Lazzaretto in cui Manzoni ambientò gli ultimi capitoli del romanzo. Oggi, al di là del tempio e di un piccolo frammento di porticato del Lazzaretto miracolosamente conservato all’interno dello stabile in via San Gregorio 5, non è più possibile avere una percezione fisica dell’antico edificio quattrocentesco il cui stile architettonico riprendeva la forme dell’Ospedale Maggiore.

Malara ricostruisce il tragitto di Renzo a Milano. Individua l’antica conformazione del paesaggio urbano articolato, a partire dalla metà del Cinquecento, in due zone: la prima – dominata in gran parte da orti, conventi e campi tra la Cerchia dei Bastioni e il Naviglio – era attraversata dai corsi principali; la seconda, contraddistinta dal fitto reticolo di vie e piazze nella parte di città all’interno del canale, costituiva invece il cuore della Milano medievale che, inglobata l’antica urbe romana, aveva i suoi cuori pulsanti nel Duomo e nella Piazza dei Tribunali.

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Il canale detto il Naviglio nel punto in cui aveva inizio in via Fatebenefratelli, tra il ponte di San Marco e il ponte Marcellino. Riceveva le sue acque dalla Martesana che scorreva lungo via San Marco.

Merita infine di essere ricordato il capitolo dedicato al “canale detto Il Naviglio”, una vera e propria infrastruttura per il trasporto merci e passeggeri che, attraversando il centro cittadino, mise in collegamento per più di quattro secoli il Naviglio Martesana con la Darsena di Porta Ticinese facendo di Milano una città porto, punto di arrivo delle imbarcazioni provenienti dal Lago Maggiore (via Naviglio Grande) e dal Lago di Como. Manzoni era nato in una casa che si affacciava sulla riva esterna del Naviglio, tuttora esistente nel sestiere di Porta Orientale, in via Visconti di Modrone al civico 16. Un giorno, forse nel corso di una passeggiata lungo il Naviglio di San Gerolamo (oggi via Carducci), trasse l’ispirazione per due versi memorabili ove seppe descrivere il singolare riflesso della luce del sole nell’onda opaca del naviglio: del sole il puro raggio/ rotto dall’onda impura, /sulle vetuste mura /gibigianando va. Le mura “vetuste” erano quelle medievali racchiuse dal canale, costruite nel XII secolo e rinforzate nel XIV secolo da Azzone Visconti. Con il termine “gibigianna” il dialetto milanese indicava il riflesso del sole su superfici lucide o chiare come l’acqua, gli specchi e i vetri. “Gibigianando va” è una locuzione onomatopeica che consente quasi di percepire il riverbero sfuggente della luce sulle acque scure del naviglio. Uno spaccato di paesaggio milanese che ispirò pittori e vedutisti.

I cicisbei nella Milano del ‘700

In un passo dell’ode Il Mattino, all’interno della nota critica alla vita oziosa del nobile signore, Giuseppe Parini prendeva in esame il vincolo del matrimonio, osteggiato dal ricco rampollo cui è rivolta la satira del poeta. Seguiva, poche righe più avanti, un chiaro riferimento all’istituzione tipicamente settecentesca del cicisbeismo, vale a dire alla pratica con cui le donne della nobiltà italiana erano solite frequentare i salotti culturali accompagnate da un uomo cui erano legate da sentimenti di affetto e – in alcuni casi – di amore.

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Giuseppe Parini (1729-1799)

Assai pensasti a te medesimo: or volgi

Le tue cure per poco ad altro obbietto

Non indegno di te. Sai che compagna,

con cui divider possa il lungo peso

di quest’inerte vita, il ciel destina

Al giovane signore. Impallidisci?

No, non parlo di nozze: antiquo e vieto

Dottor sarei, se così folle io dessi

A te consiglio. Di tant’altre doti

Tu non orni così lo spirto e i membri

Perché in mezzo alla tuo nobil carriera

Sospender debbi ’l corso, e fuora uscendo

Di cotesto a ragion detto Bel Mondo,

Intra i severi di famiglia padri

Relegato ti giacci, a un nodo avvinto

Di giorno in giorno più penoso e fatto

Stallone ignobil della razza umana. […]

Pera dunque chi a te nozze consiglia,

Ma non però senza compagna andrai,

Che fia giovane dama e d’altrui sposa;

Poiché si vuole inviolabil rito

Del Bel Mondo onde tu se’ cittadino.

 

[Hai pensato molto a te stesso: ora concentra un poco la tua attenzione ad un altro tema degno di te. Tu sai il cielo assegna al giovin signore una compagna con cui possa dividere questa vita inoperosa. Impallidisci? No, non parlo di matrimonio: sarei un poeta vecchio e inutile se dessi a te un consiglio così folle. Il tuo spirito e le tue membra non sono così provviste di tante doti perché tu debba sospendere a metà il corso della tua carriera nobile e, lasciando quel che a ragione si dice “bel mondo”, tu finisca relegato tra i severi padri di famiglia, avvinto a un nodo che ogni giorno diviene più penoso, ridotto a stallone ignobile della razza umana. […] Muoia dunque chi a te consiglia il matrimonio, ma non per questo andrai senza compagna, la quale sarà una giovane donna e maritata con un altro uomo; perché così vuole il rito inviolabile del bel mondo di cui sei cittadino].

 [G. Parini, Il Mattino in G. Parini, Poesie, a cura di Guido Mazzoni, Istituto Editoriale Italiano, Classici Italiani Novissima Biblioteca diretta da Ferdinando Martini, Milano, s.d., pp.38-39].

Il quadro della società milanese settecentesca che Parini tratteggiava in questi versi era assai diffuso tra la nobiltà. Occorre ricordare che nei secoli precedenti, tra il Cinquecento e il Seicento, la vita sociale della donna si era svolta per lo più all’interno delle mura domestiche, in una condizione di completa sottomissione al marito. La nobildonna si trovava al suo fianco nei momenti per così dire istituzionali della famiglia, ad esempio nelle riunioni dei casati nobiliari con i quali si era imparentati: pochi momenti di apparizione “in pubblico” in un’esistenza che si svolgeva entro le spesse mura del palazzo nobiliare.

Alla fine del Seicento e nel corso del Settecento la moda francese imposta dalla vita di corte di Versailles si diffuse progressivamente in Europa, il che contribuì a mutare la condizione della donna nobile cui fu consentita una maggiore libertà di movimento. Le conversazioni nei salotti culturali, spesso tenuti dalle nobildonne nei palazzi ove vivevano, contribuirono a una certa emancipazione. Varrà la pena ricordare, a tal proposito, il celebre salotto milanese della contessa Clelia Borromeo del Grillo che si tenne nella prima metà del Settecento nel palazzo Borromeo di via Rugabella.

Il permanere di logiche tradizionali in base alle quali i matrimoni erano combinati dalle famiglie nobili in base ad interessi cetuali, patrimoniali e finanziari senza alcuna importanza alle inclinazioni delle persone, finì con il favorire, nell’Italia del Settecento, l’instaurarsi di legami affettivi esterni al vincolo coniugale, legami stretti dalle nobildonne con uomini di pari ceto spesso con il consenso dei mariti. Si trattava in fondo di una forma di compensazione nella sfera degli affetti per una donna che veniva spesso unita a un marito assai più anziano, sprovvisto di bellezza fisica e di doti intellettuali.

E’ opportuno chiedersi per quale motivo il fenomeno del cicisbeismo fosse più diffuso in Italia e meno in Francia, nei principati e città del Sacro Romano Impero Germanico e più in generale dell’Europa del Nord. Credo che la risposta sia da ricercare nella maggiore libertà di movimento consentita alla donna europea del Settecento, mentre in Italia si sentì l’esigenza di controllare le sue uscite in pubblico accompagnandola ad un uomo che potesse garantire la sua onorabilità e sicurezza. Nelle città italiane il potere delle famiglie patrizie, radicato nelle istituzioni degli antichi Stati, contava ancora molto, tanto nelle repubbliche quanto nei regni informati alla vita di corte dei sovrani illuminati.

A Milano credo che il fenomeno riguardasse in molti casi i cadetti dell’aristocrazia: questi, non potendo fruire delle pingui rendite patrimoniali riservate al primogenito, educati alle lettere e alle armi più che al lavoro per l’appartenenza all’ordine nobiliare, dovevano accontentarsi di una piccola rendita che era però insufficiente a mantenere una famiglia. Di qui la vita celibe di modesti redditieri, allietata dall’affetto che li legava alle dame di pari ceto in forza del ruolo di cicisbei o di cavalier serventi che accettavano di ricoprire.

Per molti si trattava di una condizione sicuramente preferibile rispetto a quella degli altri cadetti economicamente meno fortunati: alcuni di questi nobili erano costretti ad entrare nell’ordine ecclesiastico rinunciando al mondo secolare per vivere nel celibato religioso, protetti dalla sicurezza economica che conferiva loro il beneficio. Altri invece si arruolavano nell’esercito dedicandosi – com’era tradizione – a una carriera militare che, nel Settecento, li costringeva a lunghe campagne lontano dalla patria di origine.

Cesare Beccaria, nelle Lezioni di economia pubblica tenute nelle Scuole Palatine di Milano dal 1769 al 1773, non esitò ad esprimere tutta la sua avversione per questi celibi: essi erano colpevoli di assumere comportamenti libertini e di mancare ai doveri della procreazione legati alla formazione e al mantenimento della famiglia. Le sue critiche erano mosse all’utilizzo infruttuoso delle piccole rendite di posizione, ristrette al puro e semplice mantenimento del nobile, non impiegate ai fini della ricchezza e della prosperità della nazione. Non faceva un’esplicita menzione dei cicisbei ma non era difficile capire a quali persone si riferisse quando condannava il celibato dei nobili. L’illuminista lombardo mostrava invece un profondo rispetto per il celibato religioso e la dura vita dei soldati.

Cesare Beccaria (1738-1794)
Cesare Beccaria (1738-1794)

Se questo stato (il celibato) si diffonde di troppo, egli diventa piuttosto apparente che reale; le facili e tenebrose risorse del libertinaggio compensano una privazione, e la natura si rivendica, ma a carico altrui, e senza raccoglierne alcun frutto. Non parlo di quel sacro celibato che nelle più auguste funzioni della religione si occupa; non parlo di quello che lontano dal tumulto seducente della frequenza si conserva, incontaminato, fra gli appartati ritiri d’una mesta solitudine; ma parlo di quello che, usurpando la considerazione dovuta al vero celibato religioso, grandeggia nella società soltanto per la scelta calcolatrice d’interesse, non per intima superiore spinta di motivi sovraumani. Dico che in questo caso il celibato o è religioso affatto, e le distinzioni mondane e i premi sociali sono alieni del tutto dal suo scopo, o è secolare e realmente profano, e allora dovrebbe cedere in tutte le occasioni alla classe perpetuatrice [la famiglia unita in matrimonio finalizzata alla procreazione NdR]. […]

Oltre a ciò è necessario che questo stato perpetuatore del genere umano [la famiglia] sia…sopra ogn’altro onorato. Perché abbandonarlo totalmente ai sentimenti della natura o alla calcolatrice indagine dell’interesse, mentre taluni, senza i gravi e più sublimi motivi, per un volubile entusiasmo o per una libertina avversione ad ogni legame, osano sottrarre una serie di generazioni che aspettano di respirar aura vitale dagli oscuri recessi dell’insensibilità ed inazione, carpiscono le distinzioni le più lusinghiere, mentre dovrebbono sovente a quella oscurità condannarsi, cui condannano una numerosa posterità?

[C. Beccaria, Elementi di economia pubblica in ID., Scritti economici, vol.III dell’Edizione Nazionale delle Opere di Cesare Beccaria, Milano, Mediobanca 2014, pp.139-140]