Una sfida da non perdere: il recupero degli scali Fs

Il recupero degli ex scali merci è al centro del dibattito tra maggioranza e opposizione in Consiglio Comunale da diversi anni. Il primo accordo di programma con Ferrovie dello Stato (FS) venne realizzato dalla giunta Moratti nel 2009: esso prevedeva un alto indice di edificabilità che avrebbe reso gli ex Scali delle aree fittamente urbanizzate con pochi spazi verdi. Su una superficie complessiva di 1.200.000 metri quadrati, l’area edificabile sarebbe stata pari a 822.000 metri quadrati. Per fortuna quel progetto non fu realizzato.

Negli anni della giunta Pisapia, la vice sindaca De Cesaris riprese in mano il dossier sugli ex scali merci in via di dismissione: nuovi incontri con i vertici di FS consentirono al Comune di pervenire a un accordo di programma nettamente migliore. Oltre a prevedere un indice di spazi riservati al verde pari al 53%, il nuovo accordo riduceva l’edificabilità a 676.578 metri quadrati, il che consentiva di mettere in sicurezza il parco agricolo Sud Milano scongiurando nuove cementificazioni. Ciononostante questo tema fu occasione di aspri dibattiti in seno alla stessa maggioranza di centro sinistra. Alla fine il Consiglio Comunale respinse la delibera che avrebbe dato il via libera all’accordo di programma messo a punto dalla vicesindaca De Cesaris. Risultato: due amministrazioni di colore diverso, centrodestra e centrosinistra, non son riuscite a pervenire a una soluzione su un tema di cui si discute ormai da un decennio.

In queste settimane si è tornati a parlare degli scali ferroviari in numerosi incontri pubblici che hanno riscosso un notevole interesse tra i cittadini. Gli scali ferroviari sono un’infrastruttura nevralgica, che sarà fondamentale per i milanesi e per quanti, spostandosi nell’area metropolitana, avranno bisogno di una rete di trasporti sempre più capillare.

Lunedì il Sindaco Beppe Sala ha esortato la maggioranza a sostenere compatta il lavoro della giunta affinché l’assessore all’urbanistica, Pierfrancesco Maran, possa disporre entro l’estate 2017 di un mandato forte del Consiglio Comunale; un mandato che gli consenta di trattare un nuovo accordo di programma con Ferrovie dello Stato che preveda ulteriori miglioramenti rispetto al piano della ex vicesindaca De Cesaris.

mappa__scali-jpgGli ex scali merci sono sette: le aree Greco/Breda (superficie totale 73.536 metri quadrati), Lambrate (70.187 metri quadrati), Scalo Romana (216.614 metri quadrati), Rogoredo, Porta Genova (89.137 metri quadrati), San Cristoforo (158.276 metri quadrati), Farini (618.733 metri quadrati).

Il loro recupero consentirà di attivare una nuova linea di superficie che sarà a metà strada tra un tram e una metropolitana. La realizzazione di nuove fermate (Milano Tibaldi, Milano Stephenson), il recupero di quelle negli scali di Porta Romana, San Cristoforo, Greco Pirelli, Romolo e Rogoredo avverrà mediante la loro connessione con il Passante ferroviario. La nuova linea renderà possibile il collegamento degli scali con le linee di superficie e le metropolitane con tempi di attesa, nelle aree del Passante, che si conta di ridurre a 3 minuti e 45 secondi dai 6 attuali.

D’altra parte, la conversione delle aree dismesse in zone di edilizia sociale, in residenze universitarie, in spazi destinati a verde permetterà di ricucire quartieri della città separati per lungo tempo da questi vecchi scali merci. Oggi gli scali sono grossi corridoi fatti di rotaie, di case officine abbandonate, ove dominano erbacce e numerosi alberi abbandonati. Questi vasti corridoi sono delimitati da barriere in cemento che tagliano interi quartieri in quella che un tempo era la cintura dei Corpi Santi di Milano, un’area a metà strada tra il centro e le più remote periferie.

Un interessante progetto elaborato grazie al supporto di Fondazione Cariplo, WWF, Comune di Milano, Rete Ferroviaria Italiana e Cooperativa Eliante è stato presentato la scorsa settimana all’Urban Center. Si tratta di Rotaie Verdi: gli spazi dei tre scali di San Cristoforo, Porta Genova e Porta Romana verrebbero convertiti in un parco ove sarebbero ricavate oasi naturalistiche per la tutela degli ecosistemi della campagna lombarda. Gli scali a Sud di Milano diverrebbero a tutti gli effetti una vasta area verde messa in collegamento con le aree limitrofe, tra cui spiccano la Fondazione Prada e il distretto Smart Symbiosis .

Sarà interessante seguire i prossimi incontri sul recupero degli scali situati in altre zone della città. Merita di essere ricordato un recente intervento di Sala, il quale ha proposto di utilizzare l’ex scalo Farini per costruire una nuova “cittadella del Comune” ove siano concentrati gli uffici che oggi si trovano in via Larga. Un trasloco che consentirebbe di vendere l’edificio in via Larga con grandi profitti per il Comune. Un’idea, questa della nuova cittadella nell’ex scalo Farini, che ha convinto anche l’assessore Maran, secondo il quale si potrebbero trasferire nella nuova sede anche gli uffici che si trovano in Largo Treves, in via Pirelli, in piazza Beccaria. Sono idee che si aggiungono alle tante avanzate in questi mesi.

Stefano Boeri ha proposto d’innalzare l’indice di verde negli scali fino al 80-85% facendo di essi un grande “fiume verde”, un immenso parco che potrebbe attraversare la città da nord a sud. Questa idea ha riscosso un certo interesse presso la cittadinanza e in alcuni esponenti del centrosinistra. Restano alcune perplessità sui costi di manutenzione di un’area così vasta.

Altre proposte verranno presentate nei prossimi mesi al fine di arricchire il nuovo accordo di programma con Ferrovie dello Stato. Si spera che questa volta, alla scadenza dell’estate 2017, il Consiglio Comunale darà l’ok definitivo alla realizzazione di una infrastruttura rimasta bloccata per troppo tempo.

La varietà dei dialetti lombardi nell’Italia padana

Il titolo IV della legge regionale 7 ottobre 2016 n.25 si intitola “Salvaguardia della Lingua Lombarda”. Gli articoli 24 e 25 riguardano le misure con cui i Comuni, anche in forma associata, possono promuovere la “lingua lombarda nelle sue varietà locali”. La consigliera Daniela Mainini ed altri membri dell’opposizione in Regione Lombardia hanno contestato il termine “lingua lombarda” sostenendo che non si tratta di lingua, bensì di dialetti lombardi. A suffragare la loro posizione, oltre agli istituti linguistici dell’Università degli Studi di Milano e di Pavia, è l’interessante relazione del professor Paolo D’Achille, membro dell’Accademia della Crusca, che si può leggere qui.

Qual è la differenza tra lingua e dialetto? In Italia con lingua intendiamo un insieme di convenzioni (fonetiche, morfologiche, sintattiche e lessicali) valide sia nella comunicazione orale che in quella scritta esistenti in una comunità etnica, politica, sociale, consacrate dalla storia, dal prestigio degli autori, dal consenso dei cittadini. La lingua acquisisce una sua dignità quando viene utilizzata da un regime politico (Stato o altre forme di potere pubblico) nella redazione di atti aventi valore giuridico. Dialetto è invece un sistema linguistico geograficamente delimitato, avente una sua letteratura, privo tuttavia di un uso politico da parte dei poteri pubblici storici.

Ma torniamo al caso in questione. E’ esistita storicamente una “lingua lombarda” utilizzata in via ufficiale da un potere pubblico nella formazione di atti giuridici e amministrativi? La risposta è no. I governanti di quelle parti del territorio che oggi chiamiamo Lombardia si servirono, nella stesura di editti, gride, patenti ed altre normative, del latino o del volgare fiorentino trecentesco (divenuto poi l’italiano). Il dialetto locale non fu mai utilizzato nella redazione di atti pubblici. Allo stato attuale delle ricerche – che io sappia – non si è trovato nei documenti archivistici, un solo atto pubblico scritto in “lingua lombarda”. La differenza con la Catalogna è qui radicale. Questo è un dato importante di cui tenere conto. A partire dal Tre-Quattrocento, negli Stati italiani il volgare fiorentino acquisì un prestigio enorme in tutta Italia (dal Nord al Sud) grazie alla diffusione delle opere delle Tre Corone (Dante, Petrarca e Boccaccio).

Occorre inoltre ricordare che, nei secoli del Medioevo e nell’Età Moderna non esisteva la Lombardia come la intendiamo oggi. Fino alla metà del Settecento, con questo termine si indicava un’area geografica corrispondente all’incirca alla pianura padana. Montesquieu, ai primi del Settecento, la descrisse molto bene:

montesquieu
Charles-Luis de Secondat , barone di Montesquieu (1689-1755)

La Lombardia è tutta quella pianura che si stende fra le Alpi e l’Appennino: queste due catene di montagne, unite all’inizio del Piemonte, divergono, formando un triangolo con il mare Adriatico che ne è come la base, e racchiudendo la più deliziosa pianura del mondo che comprende il Piemonte, il Milanese, lo Stato veneto, Parma, Modena, il Bolognese e il Ferrarese”.

La Lombardia attuale ebbe origine in un periodo storico compreso tra il trattato di Campoformio (1797) e i tredici mesi di amministrazione austriaca lombardo-veneta nel 1799/1800, quando i confini tra Lombardia e Veneto furono fissati in sostanza tra il Lago di Garda e il fiume Mincio. Essi furono ripristinati dopo il crollo del Regno d’Italia napoleonico, all’interno dell’amministrazione del Regno Lombardo Veneto asburgico.

Come si è visto nel passo di Montesquieu, la Lombardia antica era divisa al contrario in molti Stati, il che finì con l’influenzare l’evoluzione dei dialetti padano veneti. Si capisce allora che, a voler restringere l’indagine ai dialetti parlati entro i confini della Regione attuale, questi non si possono definire unitariamente “lingua lombarda”. I dialetti lombardi occidentali, esistenti nel territorio compreso tra il Ticino e l’Adda, gravitano sul milanese ma sono parlati anche in aree che non si trovano nella Regione Lombardia: pensiamo all’alto e al basso novarese o al Canton Ticino. Tali dialetti sono diversi dai dialetti lombardi orientali parlati nel bergamasco, nel bresciano, nel cremasco, i quali risentono tuttora dell’antica divisione politico amministrativa tra il Ducato di Milano e la Repubblica di San Marco. Un’ulteriore distinzione va fatta per il dialetto mantovano, più vicino ai dialetti emiliani.

In realtà, i dialetti gallo-italici sono tuttora parlati – se si tolgono le aree urbane più densamente popolate ove domina un ottimo italiano – in gran parte della pianura padana. Per un periodo di tempo limitato vi fu una lingua letteraria lombarda o padana: alcuni scrittori scrissero testi in prosa ispirati ai modelli cortesi dei prosatori in lingua d’oil (francese). Gli specialisti definiscono questa lingua come “franco italiana” presente in alcune opere tra il XIII e il XIV secolo. Questa lingua fu però adottata da un’esigua minoranza di scrittori nel Medioevo, mai usata dai poteri pubblici dell’Italia del Nord. Negli atti giuridici e amministrativi si preferì ricorrere al latino, destinato ad essere soppiantato dall’italiano nel corso dell’Età Moderna. E’ oltremodo significativo che Dante, quando scrisse il De vulgari eloquentia un trattato in latino composto tra il 1302 e il 1306 sull’arte di scrivere in volgare  – non avesse fatto alcuna menzione di questa  “lingua lombarda”. Il che è significativo se poniamo mente al fatto che l’autore della Divina Commedia soggiornò da esule in centri padani importanti quali Bologna, Verona o Ravenna. Com’è fin troppo noto, fu il veneziano Pietro Bembo nelle Prose della volgar lingua (1525) a proporre con successo il fiorentino trecentesco di Dante, Petrarca e Boccaccio quale lingua letteraria valida per l’Italia intera, da Nord a Sud.

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San Carlo Borromeo (1538-1584)

Un’altra istituzione che adottò l’italiano, affiancandolo al latino come lingua ufficiale nei testi scritti, fu la Chiesa cattolica dopo il Concilio di Trento. Le prediche dei sacerdoti, i catechismi, le opere rivolte ai laici e alle monache furono scritti in italiano. Nella Milano di San Carlo Borromeo (1564-1584), 1478 insegnanti attivi nelle scuole delle confraternite laicali assicurarono un’istruzione gratuita a 12.455 scolari su una popolazione complessiva di 113.875 abitanti: un esempio di alfabetizzazione e di catechismo in italiano secoli prima dell’unificazione in una popolazione che parlava abitualmente in dialetto milanese. A partire del Cinquecento il volgare fiorentino (italiano) si affermò sempre più, a fianco del latino, quale lingua ufficiale usata dagli Stati italiani e dalla Chiesa cattolica.

Per queste ragioni, ritengo fondate le critiche dell’opposizione alla legge regionale sulla “lingua lombarda”. Condivido la proposta della consigliera Mainini di definire “dialetti lombardi” i sistemi linguistici esistenti entro i confini della Regione: un’espressione valida per il complesso dei dialetti parlati nell’Italia settentrionale.

Credo che la Regione Lombardia – assieme alle Regioni Piemonte, Liguria, Emilia-Romagna, Veneto – debba valorizzare i dialetti gallo-italici o padani che sono certo diversi dal toscano e dall’italiano centro-meridionale.

Inoltre si potrebbero intraprendere iniziative tese a valorizzare la toponomastica locale, magari integrando i nomi italiani con l’indicazione degli antichi toponimi ove questi fossero stati deformati o completamente soppressi dopo l’Unità. Pensiamo ad esempio al Comune di “Capovalle” in provincia di Brescia, così denominato dal regio decreto 27 ottobre 1907 n.464 perché l’antico nome del paese, “Hano”, venne  giudicato dal legislatore “trasparente e volgare”. Un provvedimento centralistico, deciso dall’alto, che non mostrò alcun rispetto per la storia del territorio.

I Comuni italiani (al Nord come al Sud) potrebbero condurre d’altra parte un’altra operazione importante. Dopo l’Unità in molti municipi si scelse di sopprimere le antiche denominazioni delle vie e delle piazze sostituendole con i nomi di eroi o di battaglie risorgimentali. Per promuovere la conoscenza storica dei luoghi, si potrebbe aggiungere una targa che riporti l’antica denominazione della via a fianco di quella esistente. A Milano per esempio via Torino, istituita dopo l’Unità d’Italia con delibera comunale del 12 settembre 1865, unificò ben quattro antiche strade: la contrada di San Giorgio al Palazzo, la contrada della Palla, la contrada della Lupa e la contrada dei Pennacchiari. Forse, in questo come in altri casi, si potrebbero aggiungere alcune targhe aggiuntive come avviene a Firenze o in altre città italiane.

Un turista russo a Milano sulle orme di Stendhal

Uno dei turisti russi che nel secolo scorso visitò Milano ricavandone un’impressione indelebile è lo storico dell’arte Pavel Muratov (1881-1950). Dopo aver soggiornato a Roma nel novembre 1911, Muratov si spostò nell’Italia settentrionale ove visitò Venezia e Milano. Nella città del Duomo trascorse alcuni mesi del 1912. Le sue riflessioni su quel viaggio furono pubblicate molti anni dopo, in un volume, Obrazy Italii, pubblicato nel 1924. In effetti, non è la prima volta che mi occupo di un turista russo in visita a Milano. In un post di un anno fa ho descritto ad esempio il soggiorno del pittore Vladimir Jacovlev avvenuto nel 1847.

Torniamo allo storico Muratov. Quando giunse a Milano, questi fu colpito da un certa aria di modernità. Rispetto alle città d’arte che aveva visitato nei mesi precedenti – Roma e Venezia – la città ambrosiana gli appariva animata da uno spirito d’intraprendenza, da un dinamismo tipico delle grandi metropoli europee. Al turista che amasse l’Italia per le sue antichità, per le sue maestose rovine segno di un grande passato, il primo contatto con Milano avrebbe destato una certa delusione.

Al viaggiatore, di ritorno da Roma o da Venezia, Milano appare come una città europea qualsiasi, situata oltre i confini dell’Italia vera e propria, cui la unisce soltanto un tenue legame. Non senza sforzo egli si impone di soffermarsi sul passato artistico milanese, mentre inevitabilmente i suoi pensieri e i suoi sentimenti lo riportano a ciò che ha appena lasciato.

[Per questi e altri passi dell’opera di Muratov si veda la traduzione in italiano a cura di Patrizia Deotto pubblicata in “Storia in Lombardia”, anno XXXIII, n.1., 2013, pp.59-94]

Queste tuttavia – si affrettava a chiarire Muratov – erano impressioni superficiali che potevano cogliere il turista che ad esempio avesse prenotato un albergo vicino alla Stazione Centrale, che si trovava a quei tempi in piazza della Repubblica. Per chi invece avesse voluto visitare attentamente la città ambrosiana, entrando in contatto con il vero spirito milanese, il suggerimento era di pernottare nel centro cittadino, magari a Piazza Fontana dove – sono parole di Muratov – “gorgoglia l’acqua delle Sirene e fino al mattino risuonano i canti e le arie dei concittadini della Scala, che rientrano a casa dai teatri e dai caffè senza pretese”. Le sirene sono le statue in marmo di Carrara della fontana disegnata dal Piermarini e realizzata da Giuseppe Franchi nel 1782.

La Milano che visitò Muratov nel 1912 era un città che si andava urbanizzando: la costruzione di nuovi edifici varcò la tradizionale cerchia dei bastioni fino a lambire i Comuni limitrofi. Ricordiamo che l’annessione del vasto Comune anulare dei Corpi Santi era avvenuta nel 1873; pochi anni dopo, nel 1923, altri Comuni sarebbero stati uniti a Milano fino a farle raggiungere l’estensione attuale.

Nel descrivere la città, Muratov oscillava tra due posizioni. Da un lato traspariva la sua ammirazione per la capitale morale del Paese, la città simbolo dell’Italia che guarda al futuro, dell’Italia industriosa che vive nella modernità differenziandosi nettamente da un’Italia “museo” immersa nel culto delle sue rovine e dei suoi monumenti.

Milano rimane una grande città, dove la modernità prevale su tutto il resto. […] Il soggiorno a Milano, probabilmente, ci insegnerà a riconciliarci con l’Italia di oggi. Tutti noi, ospiti di questo paese, avremmo dovuto da tempo considerare come un nostro dovere tale atteggiamento. Guardare alle città italiane soltanto come a musei, a cimiteri o a rovine romantiche, dove gli abitanti di oggi non sempre sono le degne comparse, significa mostrarsi irriconoscenti verso l’ospitalità che il paese e la nazione ci riservano. Questa nazione vive, respira, esiste; ha non soltanto un passato, ma anche un presente.

D’altra parte Muratov era affascinato dal tessuto medievale della vecchia Milano, che nei primi anni del Novecento era possibile cogliere ancora in modo significativo. Egli pareva bocciare gli interventi radicali della seconda metà dell’Ottocento che avevano compromesso l’unità del nucleo urbanistico originario.

Muratov ricordava il viaggio che Stendhal aveva compiuto quasi un secolo prima. In una delle sue celebri passeggiate per il centro, lo scrittore francese era partito dal Teatro alla Scala e, dopo aver attraversato la contrada di Santa Margherita, era giunto alla piazza dei mercanti per terminare il suo giro in piazza del Duomo. Muratov decise di ripercorrere l’itinerario di Stendhal, ma non mancò di rilevare le grandi differenze tra la città che aveva visto lo scrittore francese (che nel primo Ottocento contava 120.000-150.000 abitanti) e la città da lui visitata. Una Milano popolata ai primi del Novecento da più di 700.000 abitanti.

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Caseggiati demoliti per l’apertura di Via Dante. Foto del 1886.

La demolizione dell’antica piazza dei Tribunali con le sue cinque porte storiche ove convergevano i principali corsi cittadini era ricordata dallo storico russo come esempio imperdonabile di cancellazione dell’antico isolato medievale: sulle loro macerie furono costruite via Mercanti e via Dante per collegare il Duomo al Castello Sforzesco. A proposito di via Dante, Muratov non esitò a bocciarla con un giudizio netto. Ricordava poi la demolizione degli isolati antistanti al Duomo, che furono abbattuti per far luogo alla piazza immensa esistente oggi:

La Piazza dei Mercanti, un tempo pittoresca, che si affacciava con le sue cinque porte sulle vie attigue, è attraversata da una nuova strada che poco più avanti assume un aspetto respingente, nonostante porti il nome di via Dante. Nel 1859 la piazza del Duomo ha perso i suoi antichi portici, che risalivano all’epoca di Gian Galeazzo Visconti. Innumerevoli tram compiono il loro eterno giro della piazza, accompagnati dal fastidioso stridere delle ruote e dal suono del campanello. La folla accorre a frotte all’imbocco della Galleria – prototipo di tutti i passages a vetrate.

Sugli “antichi portici” Muratov commetteva un errore. Il Coperto dei Figini era un  edificio quattrocentesco che non risaliva al governo di Gian Galeazzo Visconti, bensì al periodo sforzesco essendo stato edificato tra il 1467 e il 1480 su disegno di Guiniforte Solari:

In fondo la Milano più cara a Muratov era quella secolare risalente alla tarda romanità, al medioevo, all’antico regime fino a Napoleone, la cui cifra urbanistica egli era in grado di cogliere nelle antiche contrade che portavano verso l’Ospedale Maggiore, verso Sant’Eustorgio o il palazzo Borromeo nell’omonima piazza:

Lasciamo ora il Duomo e la Scala e inoltriamoci nell’intrico di vie che conducono verso l’Ospedale Maggiore, il Palazzo Borromeo, la Chiesa di Sant’Eustorgio. Qui non c’è quasi nulla della Milano moderna, mentre molto si conserva della Milano antica, costruita con impeccabile buongusto e discrezione nel Cinquecento, nel Seicento e persino nel Settecento fino all’epoca napoleonica. Questa Milano è rimasta, almeno per tre quarti, intatta….

A me pare che oggi sia molto difficile cogliere nella sua interezza il vecchio tessuto urbanistico della città. Qualcosa è possibile ancora vedere nel quartiere vicino al palazzo Borromeo, dove si trovano le Cinque Vie e i resti della Milano romana ma anche lì ci sono stati interventi radicali come ad esempio nella zona attorno alla Borsa e alla piazza degli Affari. Molto meno si è conservato in Porta Ticinese o verso l’Università degli Studi: qui gli interventi di epoca fascista hanno sconvolto ancor più in profondità l’antica impronta medievale. Gli isolati del Bottonuto furono demoliti – com’è noto – negli anni Trenta per costruire piazza Diaz. Considerazioni non molto dissimili possono essere fatte per la zona intorno a piazza della Vetra in Porta Ticinese. Il vecchio tessuto urbanistico riemerge qua e là, quasi a macchia di leopardo. Il turista attento, che possa contare su una buona guida, è ancora in grado di vedere gli edifici del tempo antico, spesso nascosti dietro i palazzi moderni.

In fondo, le memorie di Muratov sono importanti perché ci consentono di individuare i segni materiali, gli elementi tipici di questa Milano vecchia: dalle case nobili, che presentavano cortili interni articolati in colonne di granito secondo il disegno delle case patrizie dell’antica Roma, alle strade in pietra, agli stessi campanili delle chiese.

Queste antiche vie milanesi sono eleganti con le loro facciate dei palazzi in ombra, con le due caratteristiche strisce di listoni di pietra che corrono parallele al centro dell’acciottolato. Spesso alla fine di queste strade svettano tipici campanili lombardi quadrangolari, in laterizio, segnalando la presenza di alcune chiese storiche di Milano: Sant’Ambrogio, Sant’Eustorgio, San Sepolcro, San Gottardo. Molte di esse erano situate ad anello intorno alla vecchia Milano, lungo il “Naviglio”, lo stretto canale che circondava la città.

Questo, il Naviglio Interno, era un altro prezioso elemento della Milano di Stendhal che la Milano del 1912 ancora conservava. Una infrastruttura secolare che consentiva la navigazione dai laghi alla città. Elemento distintivo dell’identità milanese, il Naviglio interno fu costruito alla fine del Quattrocento. Com’è fin troppo noto, esso venne chiuso dai fascisti pochi anni dopo la visita di Muratov, nel 1929/30.

Lo storico russo osservava come il Naviglio cingesse ancora gran parte del centro storico, attraversando da un lato i quartieri di Porta Ticinese e di Porta Romana, popolati da un’operosa borghesia di artigiani, commercianti e impiegati, dall’altro i quartieri aristocratici di Porta Orientale e Porta Nuova, ove si trovavano gli eleganti giardini dei palazzi nobiliari, luoghi d’incantevole bellezza.

Sul Naviglio, che spesso lambiva non le rive, ma le facciate stesse delle case oppure i recinti dei giardini e dei cortili, si possono scorgere i lati più pittoreschi della vita milanese: quella popolare nei dintorni di San Nazaro e di San Lorenzo e quella signorile dalle parti della Chiesa di Santa Maria della Passione, famosa per l’iscrizione incisa sul suo portale: “Amori et dolori sacrum”.

Sulla riva del Naviglio si affaccia il Palazzo Visconti di Modrone, [tuttora esistente nella via omonima], che ispirò ad André Suarez queste righe per il suo Voyage du condottière:

Il giardino Visconti di Modrone sul Naviglio Interno di Porta Orientale, foto di Arnaldo Chierichetti risalente ai primi del Novecento,
Il giardino Visconti di Modrone sul Naviglio Interno di Porta Orientale, foto di Arnaldo Chierichetti risalente ai primi del Novecento,

“Sembra fatto apposta per offrire un rifugio agli amori segreti e forse peccaminosi. Un giardino di alberi secolari, pieno di gelsomini e di rose, cade a picco sullo specchio delle acque morte; è delimitato da una balaustrata di pietra, pomposa e un po’ pesante, e pur tuttavia elegante. Il verde e i fiori animano il silenzio, e la loro presenza appassionata è l’unica festa in questo quartiere miserabile della città. Degli amorini sorreggono uno stemma…la giovane vite e i rami degli alberi carezzano lievi ogni voluta, ogni riccio della balaustrata. Tra le foglie si delinea un loggiato a sei archi che separa le due ali del palazzo. Dolce giardino segreto, incantevole riparo! Lo zampillo di una fontana lancia il suo getto cangiante nel sole. Il canale riflette i rami degli alberi, lasciando galleggiare le foglie sulle sue acque meste. A Milano non c’è altro rifugio per il sogno, l’amore e la malinconia”.