Le ragioni storiche che pesano sulla Brexit

Un’antica profezia risalente al XIII secolo assegnava agli inglesi una metamorfosi nella loro identità politica che li avrebbe portati a perdere i caratteri terrestri tipici del feudalesimo continentale per assumere i tratti della civiltà marinara. In poche parole era riassunto un singolare destino:

bandiera britannica
La bandiera britannica: nello scudo inquartato, i tre leoni in fila nei due quadranti rappresentano l’Inghilterra, il leone rampante su fondo giallo la Scozia, l’arpa su fondo blu l’Irlanda del Nord

I figli del Leone saranno trasformati in pesci del mare

La profezia si avverò. Gli inglesi (fatta eccezione per l’aristocrazia guerriera), nel Medioevo erano stati soprattutto pastori di pecore la cui lana era venduta nelle Fiandre ove operavano manifatture specializzate nella lavorazione delle stoffe. Nel corso del XVI secolo si trasformarono in “schiumatori del mare”. I Tudor, soprattutto sotto il regno di Elisabetta I (1558-1603), curarono l’allestimento di una flotta d’avanguardia: i velieri a vela quadra, d’invenzione olandese, erano in grado di sfruttare non solo il vento di poppa, ma anche quello di prua. Il destino dei vecchi galeoni, mossi in gran parte dalla forza delle braccia umane, era segnata. Fu l’avvento dei poderosi velieri che, sfruttando il vento di bolina, poterono allontanarsi con più efficacia dalle coste europee e lanciarsi con velocità nella navigazione oceanica alla scoperta di nuove rotte. L’impero britannico, di cui i sudditi di Sua Maestà vanno tuttora orgogliosi nel ricordarne i fasti sette-ottocenteschi, sarebbe stato impossibile senza quella moderna flotta di velieri dotata delle più avanzate tecniche di marineria.

Le conseguenze di questa metamorfosi investirono l’essenza stessa dell’identità inglese, che imparò a convivere con l’insicurezza e l’instabilità tipiche della navigazione. Qual era la differenza tra l’elemento “mare” e l’elemento “terra”? Nel mare, nelle distese sterminate degli oceani, non era possibile tracciare confini, non esistevano spazi da dividere. Una civiltà marinara si fondava sul commercio – per sua natura instabile, aleatorio – ma anche sulla rapina contro le imbarcazioni inermi. Non esistevano diritti acquisiti, diritti da rivendicare in base a una storia radicata nei segni di una civiltà terrestre. Non si poteva vivere con le rendite di una terra i cui cicli produttivi erano regolati dal costante alternarsi delle stagioni. Il mare era il regno dell’ignoto, del pericolo costante, dell’instabilità perenne. Era il regno di nessuno, il regno del bellum omnium contra omnes, in cui l’uomo tornava alla sua natura primigenia di predatore. Gli inglesi, da modesti pastori e valorosi cavalieri, si trasformarono in marinai spregiudicati. Fu l’avveramento della profezia: i figli del leone si trasformeranno in pesci del mare.

Elisabetta I
Elisabetta I, regina d’Inghilterra e d’Irlanda dal 1558 al 1603

Quando i corsari e i pirati – soprattutto inglesi – costituirono una formidabile minaccia per gli Stati europei tra la fine del XVI e la prima metà del XVIII secolo, la metamorfosi dell’Inghilterra era compiuta. I corsari potevano contare su un atto giuridico quale la lettera di “corsa”, in cui era affidata la missione da intraprendere. Per quelli inglesi si trattava di affrontare in piena libertà i pericoli dell’oceano esplorando nuove vie commerciali, liberi di arricchirsi saccheggiando le navi europee a patto che una parte cospicua del tesoro fosse andata ad impinguare le casse della corona. A un ambasciatore spagnolo che aveva protestato contro gli atti della pirateria, la regina Elisabetta rispose nel 1580 chiedendo con grande sense of humour se non era vero che il mare, come l’aria, fosse libero all’uso di tutti.

Scrisse con una punta di amara ironia il giurista tedesco Carl Schmitt in un saggio memorabile del 1954:

da tutti i mari affluivano all’isola britannica i favolosi bottini dei corsari e dei pirati inglesi. La regina si rallegrava di tali tesori e se ne arricchiva. Da questo punto di vista, con tutta la sua verginità non fece niente di diverso da ciò che facevano un gran numero di uomini e di donne inglesi del suo tempo, sia nobili che borghesi. Tutti partecipavano al grande affare del bottino. Centinaia e migliaia di uomini e di donne inglesi divennero in quel tempo corsairs-capitalists “corsari capitalisti”. Anche questo rientra nella svolta elementare dalla terra al mare…

[C. Schmitt, Terra e mare, Adelphi, Milano 2006, pag.48]

In fondo, la natura anfibia degli inglesi (per metà europei, per metà “atlantici”), il loro orgoglioso isolamento, nascono da qui: da un istinto selvaggio, quasi primordiale, alla libertà assoluta che li ha portati a fondare un impero marittimo i cui territori, visti con gli occhi del navigatore, erano relitti dispersi nel mondo oceanico.  Questo fu lo spirito dello Stato britannico, del Leviathan inglese per usare un termine tratto dal titolo di una celeberrima opera di Thomas Hobbes. Questo spiega la politica estera condotta per secoli dagli inglesi, che si sforzarono (con successo) di ostacolare la formazione sul continente di un potere pubblico di dimensioni imperiali: dall’Impero napoleonico al Reich germanico. L’avversione della parte più profonda dell’Inghilterra verso le istituzioni europee ha radici profonde. La civiltà marinara, che ha forgiato in misura indelebile l’identità nazionale inglese caratterizzandola per almeno cinque secoli, ci aiuta a capire il senso della Brexit.

Queste le riflessioni che mi son venute in mente nell’ascoltare il discorso di Cameron pronunciato quattro giorni fa in occasione delle sue dimissioni. Nel commentare il senso della sua decisione, egli si è servito di una metafora afferente al mondo della marineria:

Cameron
David Cameron, Primo ministro britannico

I will do everything I can as Prime Minister to steady the ship over the coming weeks and months but I do not think it would be right for me to try to be the captain that steers our country to its next destination.

“Farò tutto quel che posso come Primo Ministro per rendere stabile la nave nelle prossime settimane e nei prossimi mesi. Non penso tuttavia che sarebbe giusto per me tentare di essere il capitano che fissa la rotta del paese per la sua prossima destinazione”.

Resta da vedere se il Regno Unito riuscirà a tutelare la sua unità politica evitando il distacco di territori i cui cittadini hanno votato per restare nell’Unione Europea: dalla Scozia all’Irlanda del Nord, alla Grande Londra metropolitana. Qualora ciò avvenisse, l’Inghilterra tornerebbe al suo passato di orgoglioso isolamento, nave “corsara” nell’oceano della globalizzazione. Pur nelle contraddizioni e nei limiti tipici del popolo inglese, resta l’amore per una patria che è stata culla delle prime istituzioni liberali e che, per riprendere uno stupendo verso di Shakespeare, resta una “pietra preziosa incastonata nell’argento del mare”.

La solitudine dell’eroismo civile

Venerdì scorso, presso il Palazzo delle Stelline in Corso Magenta, ho assistito alla presentazione dell’ultimo libro di Umberto Ambrosoli: Ostinazione civile. Idee e storie di una rigenerazione civica (Guerini e Associati, Milano 2016). L’autore è stato intervistato da Daniela Mainini, presidente del Centro Studi Grande Milano, una istituzione che opera da anni mettendo in campo iniziative di grande spessore culturale.

ostinazione civileAl centro del libro di Ambrosoli sono i valori fondanti di una comunità politica. In primo luogo, la legalità, il rispetto delle regole che ha senso nella misura in cui risponde all’utilità sociale, al senso profondo di una comunità. Il titolo del volume, Ostinazione civile, esprime la passione per la buona politica che deve orientare l’agire quotidiano di chi è chiamato a ruoli di responsabilità pubblica. L’uomo pubblico deve agire per il bene comune nell’interesse esclusivo dei cittadini contro la prepotenza dei più forti, che tendono a prevaricare violando le regole per i loro interessi personali. La vera politica è tale nella misura in cui si fa umile servizio, praticata con coerenza per migliorare il benessere della comunità. Ascolto Ambrosoli e mi rendo conto che la sua ostinazione civile è un convincimento profondo, che solleva inevitabilmente il tema del rapporto di ciascuna persona con gli altri.

In un Paese come l’Italia, venato da secolari pulsioni individualiste e corporative contrarie al civismo, Ambrosoli rilancia la missione di educare i cittadini perché lo spirito pubblico prevalga sempre sull’interesse privato. Nell’ascoltare il suo discorso appassionato, il pensiero corre al fondamento dell’obbligo politico e alla cultura anglosassone della rule of law, che non è solo rispetto della legalità formale, ma ancor più il senso di appartenenza a una comunità politica fondata sui valori della libertà e del bene comune. Mi è venuta in mente la lezione di alcuni filosofi politici, in particolar modo di Alessandro Passerin d’Entrèves (1902-1985), il quale non si stancava di sottolineare l’importanza cruciale che in una democrazia liberale ha il nesso legalità-legittimità. Il fondamento di una comunità non può reggersi soltanto sulla legalità, sul rispetto esteriore delle regole; occorre che vi sia la legittimità, vale a dire il consenso dei governati sulla bontà delle leggi e sul diritto dello Stato. Un consenso che si ottiene nella misura in cui i cittadini vengono coinvolti nel funzionamento delle istituzioni politiche mediante gli istituti di democrazia diretta e rappresentativa.

Lo Stato liberaldemocratico non è un sistema di potere basato esclusivamente sul “monopolio della forza”: occorre che quella forza – per riprendere una bella espressione di Max Weber – sia “legittima”. La legittimità riposa sull’autorità dell’ordinamento costituito: i cittadini prestano obbedienza perché si riconoscono nei suoi valori fondanti. Uno Stato liberaldemocratico, uno Stato di diritto e sociale è tale non solo quando garantisce ai cittadini la “libertà positiva” – partecipazione alla vita della comunità mediante l’esercizio della democrazia diretta e della democrazia rappresentativa – ma ancor più quando si erge a salvaguardia della libertà negativa dei cittadini, quando rende operanti i diritti dell’uomo e del cittadino presenti nelle costituzioni moderne.

Oggi siamo in una situazione a dir poco allarmante: il divorzio dei cittadini dalla politica, dall’esercizio dei diritti di libertà positiva è evidente nell’astensionismo dilagante. Un fenomeno dovuto certamente alla mancanza di credibilità di una classe politica corrotta e inefficiente, ma anche all’incapacità dei partiti di intercettare il malcontento per una riforma delle istituzioni che assicuri il miglioramento della governabilità e la piena partecipazione dei cittadini alle istituzioni repubblicane.

Ricordo tuttavia che alle ultime elezioni amministrative le liste civiche hanno coinvolto strati importanti della società civile sulla base di programmi e obiettivi concreti, sia a destra che a sinistra. Un risultato certamente positivo, che tuttavia non è bastato a coinvolgere gli elettori: in un Comune come Milano, l’affluenza alle urne si è fermata al 54,67%. Insomma, per recuperare consenso la politica deve tornare ad essere credibile.

Umberto Ambrosoli ha appreso in famiglia il senso dello Stato e la passione per la buona politica. Il padre Giorgio, commissario liquidatore delle banche di Michele Sindona, sacrificò con la vita la sua dedizione alla causa della legalità. “L’insegnamento di mio padre” – avverte Umberto – “non è l’unico caso di persone che sono morte per il bene comune, che hanno anteposto il bene collettivo agli interessi individuali”. Umberto non torna sulla storia del padre, un tema che scava nel profondo della sua storia familiare. Si limita a commentare con umiltà: “Mio padre non ha sacrificato la sua vita, ha vissuto l’unica vita che avrebbe voluto vivere”.

Nell’incontro organizzato dal Centro Studi Grande Milano, Ambrosoli si sofferma soprattutto sulla sua esperienza politica. Ricorda un episodio della campagna elettorale per la corsa alla presidenza della Regione Lombardia nel 2013; un episodio che gli fece capire il senso della buona politica:

“Ricordo una giornata di lavoro intensissimo. Eravamo nel pieno della campagna elettorale per la corsa al Pirellone. Partiti da Lecco, andammo a Colico, a Sondalo e in altri comuni dell’alta Lombardia. Tornati a Lecco a notte fonda, verso le 2.30 mi chiesero un’intervista sui valori del civismo. Decisi di rilasciare l’intervista nonostante l’ora tarda. In quell’occasione, nel momento in cui occorreva essere svegli nonostante il fisico stesse per cedere alla stanchezza dopo una giornata intensa fatta di comizi e incontri elettorali, ebbi la forza d’insistere consapevole del legame profondo che ci unisce agli altri; nei comportamenti deve guidarci costantemente lo spirito di servizio perché noi politici e amministratori pubblici, rappresentando i cittadini che ci hanno eletto, dobbiamo essere d’esempio”. Il fine di un politico onesto e competente  – ricorda – “non è la vittoria ma vivere in coerenza con le sue motivazioni”.

Il libro è incentrato su questo valore civico: lo spirito di servizio, la dedizione al bene comune. Ambrosoli porta l’esempio di quanti, operando in uffici pubblici di responsabilità, hanno mostrato di non volersi piegare alla prepotenza dei forti, battendosi con coraggio fino a sacrificarsi per la legalità, per il rispetto delle regole.

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Renata Fonte (1951-1984)

Uno dei personaggi citati nel libro è ad esempio Renata Fonte, assessore del partito repubblicano a Nardò in provincia di Lecce, uccisa dalla criminalità organizzata nel 1984 per non essersi piegata alle lobby dei costruttori che intendevano edificare nelle coste salentine in violazione delle leggi sul patrimonio naturalistico. Un delitto reso ancor più vile perché macchiato dal tradimento di un collega venduto alle mafie, ansioso di succedere alla Fonte nell’ufficio ch’ella rivestiva in Comune. Questo caso – come gli altri riportati nel libro – dimostra l’immensa solitudine che comporta l’eroismo. Chi esercita funzioni pubbliche è chiamato non solo a lavorare con probità e onestà, ma ad agire con coraggio dimostrando sul campo di avere la forza di amministrare la cosa pubblica nell’esclusivo interesse dei cittadini. Questo è il senso nobile della politica, questa deve essere l’ostinazione civile di chi è chiamato ad amministrare per il bene della comunità. Per conseguire tale traguardo occorre però una selezione nei partiti che porti ad escludere i profittatori, gli arrivisti, gli incompetenti  e – quel che più conta – i tanti Don Abbondio pronti a chinare il capo davanti alle prepotenze, vasi di terracotta in mezzo a tanti vasi di ferro.

Banca d’Italia: Lombardia in (lenta) ripresa nel 2015

Quando si afferma che la crisi ha segnato profondamente l’economia italiana, che non siamo ancora usciti dal tunnel, che la ripresa è minima, bisogna riconoscere che ci si muove spesso su percezioni della realtà settoriali, su impressioni che spesso ricaviamo dalle nostre relazioni o dalla conoscenza di alcuni eventi specifici di cui siamo venuti a conoscenza: l’azienda che chiude o licenzia, i giovani laureati che vanno all’estero, il flebile aumento del Pil previsto per quest’anno.

Qual è la situazione effettiva? Il Paese è in ripresa oppure è vero quello che si dice da più parti, ossia che arranchiamo ancora nella crisi? Uno sguardo sull’economia della Lombardia, conosciuta come la locomotiva del Paese, può forse aiutarci a capire di più.  Uno studio di Banca d’Italia apparso nel bollettino n.3/giugno 2016 dedicato alle analisi regionali fornisce un quadro definito su quanto avvenuto nell’anno passato.

banca d'Italia
A sinistra, il palazzo della Banca d’Italia a Milano in via Cordusio 5 in una vecchia cartolina

I dati disponibili, relativi al 2015, confermano una ripresa per l’economia lombarda, il cui Pil è cresciuto dell’1,1%. Rispetto al dato nazionale, che è dello 0,8%, si tratta però di un aumento tenue.

Le aziende manifatturiere hanno registrato una crescita di fatturato che si è consolidata rispetto all’anno precedente. Su un campione di quasi 360 imprese industriali con almeno 20 addetti, il fatturato a prezzi costanti è aumentato del 3,3% rispetto al 2014, quando si era attestato a +0,7%. La produzione industriale è cresciuta nel 2015 dell’1,5% confermando il dato dell’anno precedente. Si tratta di un risultato positivo ma ancora insufficiente per recuperare il livello pre-crisi: basti ricordare a tal proposito che l’indice della produzione industriale è ancora sotto di 9 punti percentuali rispetto al picco del terzo trimestre 2007. Insomma, c’è ancora molta strada da fare per tornare ad essere competitivi.

I comparti che hanno registrato i migliori incrementi di fatturato nel 2015 hanno interessato le imprese del settore della gomma, dei mezzi di trasporto e della meccanica. In Lombardia – come nel resto del Paese – la crisi ha operato tuttavia una selezione feroce. Le aziende in difficoltà sono quelle che operano nei comparti tradizionali, che non sono riuscite ad innovare a sufficienza: operano nei settori dell’abbigliamento e del tessile, nel comparto dei minerali non metalliferi, ove è impiegata metà della forza lavoro totale nella manifattura.

Le imprese che son riuscite a resistere e ad espandersi guadagnando nuovi mercati sono invece quelle che hanno saputo investire in ricerca e sviluppo, aggiornando soprattutto i sistemi informatici e quelli di automazione. Molte di queste aziende usa sistemi quali internet mobile e Cloud, spesso introdotti da più di due anni. Le imprese che hanno mostrato maggiore vitalità sono quelle specializzate nel settore high-tech, situate in larga parte nella Città metropolitana di Milano e nella provincia di Monza e Brianza: si tratta in molti casi di aziende attive nel campo dei medicinali e della farmaceutica che danno lavoro a 20.000 persone. Si è stimato che per queste aziende il fatturato è cresciuto del 24,2% tra il 2007 e il 2014, registrando le migliori performance nel settore manifatturiero. Le vendite all’estero sono cresciute qui del 19,3% tra il 2013 e il 2014.

Incrementi positivi nel fatturato – ma ancora deboli – si sono registrati invece, secondo Banca d’Italia, nei settori industriali caratterizzati da una produzione a tecnologia medio bassa: ad esempio le aziende attive nella lavorazione dei metalli, dei prodotti chimici e della plastica. Il fatturato del 2014 è in questo caso lievemente superiore rispetto a quello del 2007 .

Dallo studio di Banca d’Italia emergono inoltre due dati importanti. Il primo si lega al mercato immobiliare, che nel 2015 è tornato ad espandersi dopo anni di contrazione. Il numero delle compravendite è aumentato del 9% ma resta ancora lontano dai livelli pre-crisi del 2006.

Expo 2015Il secondo dato verte sul terziario, che nell’anno preso in esame ha registrato una netta ripresa, soprattutto grazie ad Expo 2015. L’affluenza dei visitatori  nei sei mesi di apertura è stata pari a 21,5 milioni di persone. Le strutture alberghiere di Milano hanno registrato un aumento di clientela del 17,8% nel 2015, mentre in Lombardia è stato del 9,2%. Banca d’Italia – che cita in proposito l’indagine Travel condotta da Unioncamere Lombardia, CERST e Regione Lombardia – stima che i visitatori italiani hanno speso mediamente 150-200 euro pro-capite, mentre gli stranieri 250-300 euro. Relativamente a questi ultimi, si è stimato che un terzo è giunto in Italia appositamente per Expo, dedicando ad esso quasi quattro giorni di visita; il resto della permanenza in Italia ha premiato le principali città d’arte italiane: Venezia, Firenze, Roma. Expo ha quindi svolto una funzione di traino per la crescita del turismo in Italia. Gli stranieri hanno concentrato le loro spese nella Città metropolitana di Milano per una percentuale attestata sul 69,6%: a dimostrazione che l’Esposizione Universale ha contribuito in misura notevole alla crescita del turismo a Milano nel 2015.

Dal focus di Banca d’Italia emerge inoltre il grande ruolo che Expo 2015 ha avuto nell’economia lombarda: le imprese della regione si sono aggiudicate gli appalti nel 21% dei casi per la costruzione del sito (588 milioni di euro: fonte OpenExpo) e nel 52% per la fornitura di beni e servizi (216,5 milioni).

Nel sito della Esposizione Universale, ben collegato con Milano sul piano dei mezzi di trasporto, si pensa nei prossimi mesi di costruire Human Technopole, un parco tecnologico dotato di sette centri di ricerca attivi nei campi della genomica, della scienza dei dati, dei modelli computazionali, delle valutazioni di impatto sociale, delle nanotecnologie; un parco che potrebbe dare lavoro a più di 1500 addetti. Si tratta di un tema importante per Milano che dovrà essere affrontato dal prossimo sindaco, chiunque vinca le elezioni.

Cattaneo e il trasporto merci via acqua

In alcune lettere scritte all’amico federalista Enrico Cernuschi tra il 1854 e il 1855, Carlo Cattaneo,  che dopo il fallimento della rivoluzione del ’48 si era stabilito nella svizzera Castagnola per sfuggire agli arresti della polizia austriaca, si faceva promotore di un progetto assai ardito. Val la pena soffermarsi su questo tema perchè può aiutare a comprendere non solo l’originalità del pensiero di Cattaneo, ma anche il diverso modo di affrontare una questione attuale come il trasporto merci nell’area metropolitana milanese.

Così Cattaneo descriveva il delicato tema delle infrastrutture in Lombardia e nell’Italia del Nord in una lettera all’amico dell’ottobre 1854:

Il Lago Maggiore che tocca i tre territorj piemontese, svizzero e lombardo veneto ha la sua superficie a poco meno di 200 metri sopra il livello del mare. Dal lago le barche discendono per un tronco del fiume Ticino (lungo 26 chilometri) fino a Tornavento ov’entrano in un Canale (lungo 50 chilometri) pel quale discendono fino a Milano. Da Milano per altro Canale (lungo 33 chilometri) scendono a Pavia; quivi entrano nel basso Ticino (5 chilometri) e di là pel Po (104 chilometri) arrivano all’Adriatico. La discesa continua dal Lago Maggiore al mare somma a chilometri 251 e si può percorrere senza dispendio di forza motrice. La linea passa in vicinanza di molte buone città e attraversa tutte le linee ferrate dell’Alta Italia.

[I carteggi di Carlo Cattaneo, a cura di Margherita Cancarini Petroboni  e Maria Chiara Fugazza, Serie I, vol.III, 1852-56, pag.182]

Il trasporto merci lungo i fiumi e i canali era quindi opportuno secondo Cattaneo – si tenga presente questo punto – perché avveniva “senza dispendio di forza motrice”.

Le merci che giungevano a Milano dal Nord Europa erano trasportate a quei tempi mediante la “forza motrice” degli animali da tiro (al cui nutrimento bisognava provvedere mediante l’acquisto di mangimi), delle prime locomotive (che occorreva alimentare con il carbone importato) oppure attraverso la via “gratuita” dell’acqua fluviale.

Oggi in Paesi dell’Europa settentrionale e centrale come ad esempio la Germania, la Francia, l’Olanda, l’Austria, l’Ungheria, la Repubblica Ceca, il trasporto di alcune tipologie di merci avviene ancora su chiatte: questi tipi d’imbarcazione attraversano non solo i grandi fiumi come il Reno, la Mosella, il Danubio, la Senna, ma anche i canali artificiali come ad esempio avviene in Olanda: penso ai legnami, alla calce, al cemento. L’Italia fa eccezione: da noi si ricorre in via pressoché esclusiva ai treni merci e al trasporto su gomma. Risultato: autostrade e strade piene di Tir e camion di ogni specie.

Ai tempi di Cattaneo la situazione in Lombardia – fatte ovviamente le distinzioni di tempo – era più vicina ai paesi del Nord Europa. Nella lettera a Cernuschi era fornita una descrizione assai indicativa del commercio tra Milano e i comuni lombardi da una parte e il Lago Maggiore dall’altra mediante le “vie d’acqua” lungo il Naviglio Grande e il Ticino. Cattaneo faceva previsioni ottimistiche su un incremento di questo tipo di trasporti:

Il Lago Maggiore somministra graniti, marmi, torba, carbone, legna da fuoco e costruzione. Il nuovo sviluppo della navigazione del Po potrà estendere il consumo dei graniti, dei marmi saccaroidi, e d’altre pietre cristalline in lastre e in ciottoli provenienti dalle Alpi, alle costruzioni e al selciato d’altre città, come Piacenza, Parma, Modena, Bologna, Ferrara etc. alle quali li Appennini non possono somministrare se non pietre calcari e arenarie assai deboli.

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Carlo Cattaneo (1801-1869)

Veniamo però al progetto che Cattaneo presentò a Cernuschi. Esso era teso a risolvere un grave problema, assai sentito a quell’epoca: la navigazione contro corrente. Era relativamente facile trasportare le merci dai laghi verso Milano con la corrente favorevole. Il problema si poneva quando si faceva il percorso inverso. I milanesi avevano cercato di risolverlo facendo trainare le cobbie – così erano chiamate le barche vuote – da vecchi cavalli ai quali restavano pochi anni di vita. La lentezza del trasporto era però notevole. Quando scriveva Cattaneo – siamo verso la metà del XIX secolo: la ferrovia si stava imponendo come mezzo privilegiato sulle lunghe distanze – i tempi del trasporto su acqua in risalita erano sempre meno convenienti.

L’attenzione dell’economista lombardo era concentrata soprattutto nel tratto del Ticino tra Sesto Calende e Tornavento. Il Naviglio Grande, che dal XIII secolo porta l’acqua del fiume alla Darsena di Porta Ticinese, è il canale più facile da navigare perché la pendenza è tendenzialmente progressiva e non ha conche lungo il suo percorso. A quei tempi le operazioni di risalita delle barche avvenivano senza grandi difficoltà lungo il Naviglio. I problemi si ponevano dopo Tornavento. La corrente del Ticino diveniva fortissima. Cattaneo, nella lettera a Cernuschi più volte citata, spiegava il problema operando un raffronto tra il dislivello (la caduta) del Ticino tra Sesto Calende e Tornavento e quello del Danubio tra Vienna e il Mar Nero:

Il fiume [Ticino] in questo breve intervallo di 26 chilometri ha una caduta di metri 47. Per dare un’idea comparativa dell’intensità di questa caduta basti dire che la caduta del Danubio da Vienna al Mar Nero, sopra una lunghezza quasi cento volte maggiore, è di soli metri 133, ossia nemmeno il triplo. E nulladimeno la navigazione del Danubio è giudicata ancora difficile. Inoltre questa discesa di 47 metri è ripartita molto ineguabilmente formando undici Rapide, alcune delle quali ammontano al 6 per mille.

[I carteggi di Carlo Cattaneo…cit, pag.183]

Si era tentato di risolvere il problema caricando le merci su imbarcazioni più piccole in quel tratto di fiume, più adatte da manovrare per affrontare le rapide senza pericoli. Così commentava Cattaneo i dati del dazio milanese ove era segnato il numero delle barche arrivate in Darsena:

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La Darsena di Milano in una foto del 1954

Consta dai registri della Dogana di questa capitale [Milano] che il numero annuo delle barche pervenute dal Lago Maggiore varia da 4 mila a 7 mila. Consta inoltre che codeste barche nell’intervallo tra Sesto Calende e Tornavento, ossia tra l’uscita del lago e l’ingresso del canale, non possono in molti mesi dell’anno scendere per le rapide del Ticino senza subire la necessità di alleggerirsi; e che a tal fine il carico si divide momentaneamente sopra due o tre barche, per riunirsi poi nuovamente in una sola barca all’ingresso del canale. Perloché il numero di 4 mila a 7 mila barche che figura alla dogana di Milano, rappresenta il movimento di 7 mila a 10 mila tra Sesto Calende e Tornavento. […]

Compiuta la discesa e deposto il carico, tutte le barche rimontano vuote il canale: 1) perché questo ha un corso assai rapido, dovendo esso portare una gran massa d’acqua ad uso della irrigazione; 2) perché non ha chiuse, essendo stato costruito tre secoli prima che nel Paese medesimo si facesse l’invenzione delle chiuse. Giunte le barche all’estremità superiore del Canale presso Tornavento, rimontano, parimenti vuote, il fiume Ticino fino al Lago Maggiore presso Sesto Calende.

Restava il grande problema della lentezza del trasporto merci non solo nelle fasi di risalita del fiume, ma anche in quelle della discesa perché, come ricordava Cattaneo, nel tratto di fiume tra Sesto Calende e Tornavento occorreva trasferire le merci su barche più piccole. Come rendere più veloci i commerci?

L’idea di Cattaneo si basava sull’utilizzo della ferrovia. Egli non pensava affatto a una linea ferroviaria da Milano a Sesto Calende. La sua proposta consisteva nell’utilizzare un tronco di strada ferrata che il governo austriaco aveva messo in vendita. Gli austriaci restavano i suoi nemici, ma quando si trattava di affari non si guardava in faccia nessuno. Il tratto di ferrovia messo in vendita dal governo interessava l’altopiano tra Sesto Calende e Tornavento. Le barche provenienti da Milano e dirette al Lago Maggiore, anziché risalire quel tratto impervio di fiume, sarebbero state sistemate su un “treno all’americana” e trasportate su un tratto di ferrovia a gestione privata fino a Sesto Calende. In tal modo non ci sarebbe stato alcun bisogno di caricare o scaricare le merci su imbarcazioni più piccole nel tratto delle rapide. Il risparmio di tempo era assicurato, soprattutto nella risalita. Scriveva a Cernuschi:

Da ciò nacque il pensiero di costruire sull’altipiano che domina le rapide del fiume un breve tronco di via ferrata all’Americana, ossia a semplice forza animale (Tram Road) con armamento leggero e con più commodo limite nelle pendenze. Su questa rotaia devono le barche vuote ritornare dalla estremità superiore del Canale Naviglio al Lago Maggiore, senza lottare coll’impeto del fiume…

Mentre la linea d’acqua colle sue tortuosità misura 26 chilometri, la linea ferrata sarebbe meno di 17. Il tempo della salita che ora varia da tre giorni a due settimane e anche più si ridurrebbe costantemente a 4 ore di marcia a piccolo passo.

A questo punto sorgono spontanee tre domande:

  1. Perché Cattaneo pensò a una ferrovia leggera trainata da sola forza animale e non a un treno merci mosso da una locomotiva?
  2. Per quale motivo Cattaneo non propose la costruzione di una linea ferroviaria diretta da Milano a Sesto Calende, magari limitata al trasporto merci?
  3. Perché Cattaneo volle rendere partecipe di questa idea l’amico Cernuschi?

Procediamo con ordine. In effetti Cattaneo aveva preso in considerazione la possibilità di fare uso di una locomotiva: non riteneva tuttavia che fosse conveniente per le spese elevate di costruzione e di allestimento di officine specializzate. In questo sbagliava giacché il trasporto merci su rotaia mediante l’uso di locomotive alimentate a carbone si sarebbe affermato in modo sempre più marcato nella seconda metà dell’Ottocento. Occorre però considerare che il suo progetto si rivolgeva al finanziamento dei privati, il che lo portava ad evitare spese eccessive e a ricercare soluzioni economiche, alla portata di singoli finanziatori che non fossero lo Stato. Il che ci consente di rispondere alla terza domanda: vale a dire per quale ragione avesse scritto al suo vecchio amico e patriota federalista.

Enrico Cernuschi
Enrico Cernuschi (1821-1896)

Cernuschi, emigrato in Francia dopo il fallimento dei moti del ’48 – ’49, stava percorrendo una luminosa carriera nel settore della finanza parigina. Nel giro di pochi anni era divenuto membro del consiglio di amministrazione del Credit Mobilier, una banca che era stata fondata nel 1852 dai fratelli Emile e Isaac Pereira. Cattaneo intendeva convincere l’amico a finanziare il suo progetto o a trovare persone disposte a farlo. Le sue attese andarono però deluse. Cernuschi chiarì che il Credit Mobilier era un istituto specializzato nella compravendita di titoli e azioni; non rientrava nei suoi compiti quello di farsi promotore di imprese industriali. E’ probabile tuttavia che Cernuschi, banchiere con un acuto senso degli affari, volesse evitare di esporsi in un’operazione i cui ritorni erano molto incerti. Occorre inoltre aggiungere che il Credit Mobilier non versava in buone acque: di lì a pochi anni, nel febbraio 1859, Cernuschi si sarebbe dimesso abbandonando la barca prima che affondasse. Il fallimento del Credit sarebbe arrivato nel 1867. Tutto questo spiega per quale motivo il piano di Cattaneo fosse destinato a restare sulla carta.

Eppure, in queste lettere, traspare la preferenza di Cattaneo per il trasporto via acqua, più conveniente perché consentiva di operare “senza dispendio di forza motrice”. I costi d’importazione del carbon fossile per l’utilizzo di una locomotiva rendevano nettamente migliori le vie d’acqua. In una lettera a Cernuschi del 17 maggio 1855 l’economista si esprimeva in questi termini:

I rapporti tra il Lago Maggiore e la pianura sono indistruttibili; la discesa di legname, carbone, torba, calce, marmo e granito non può non accrescersi al contatto di tante nuove linee navigabili e ferroviarie…La discesa per forza spontanea e gratuita d’acqua costerà eternamente meno di qualsiasi altro espediente, massime in paese privo di carbon fossile.

[I carteggi di Carlo Cattaneo…cit, pag.222. Le parole sono sottolineate da Cattaneo]

Qui Cattaneo riecheggiava il pensiero di Beccaria il quale, ottant’anni prima, nei suoi corsi di economia pubblica presso le Scuole Palatine di Milano, aveva toccato l’argomento in questi termini:

Rifletteremo…essere voce universale di tutti gli scrittori d’economia che i trasporti per acqua siano di gran lunga preferibili ai trasporti per terra. Calcolano essi il trasporto per acqua essere un quinto del trasporto per terra; vale a dire che una nazione che trasportasse quattro volte più lontano d’un’altra per acqua quelle stesse merci che la seconda deve portare una sol volta per terra, averebbe ciò nonnostante la preferenza.

[C. Beccaria, Elementi di economia pubblica in C. Beccaria, Scritti economici, vol.III della Edizione Nazionale delle Opere di Cesare Beccaria, Milano, Mediobanca 2014, pag.172].