Un monumento all’Italia: la Galleria Vittorio Emanuele

La Galleria Vittorio Emanuele è senza dubbio uno dei monumenti più caratteristici di Milano. E’ considerata il Salotto della città. I turisti restano estasiati dalla sua architettura e dalle prestigiose boutique che si aprono al suo interno. La Galleria, i cui lavori erano iniziati il 7 marzo 1865, fu inaugurata il 15 settembre 1867 alla presenza del Re. L’architetto Giuseppe Mengoni, che aveva diretto i cantieri, morì dieci anni dopo, il 30 settembre 1877, precipitando da un ponteggio mentre tentava di ultimare l’arco verso piazza del Duomo: uno dei casi più famosi di morte sul lavoro.

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Giuseppe Mengoni

Come ho ricordato in un articolo di qualche mese fa, non era la prima volta che Milano si arricchiva di un passaggio coperto: la Galleria De Cristoforis, che collegava corso Vittorio Emanuele con via Monte Napoleone, costituì per alcuni decenni un luogo importante di socialità cittadina. Non presentava tuttavia una veste grandiosa.

La nuova Galleria fu qualcosa di diverso. Finanziata dal consiglio comunale, che ne affidò i lavori alla società inglese City of Milan Improvements Company, essa rappresentò nelle sue dimensioni imponenti, nei temi delle decorazioni, l’emblema dell’Italia risorta, gemma preziosa dello Stato nazionale monarchico. Giuseppe Verdi in una lettera scritta a un amico francese nel 1868, non nascondeva la sua ammirazione per questo ardito passaggio vetrato che collegava piazza del Duomo con piazza della Scala:

La nuova Galleria è proprio un cosa bella: un’opera artistica, monumentale. Nel nostro paese c’è ancora il senso del Grande congiunto al Bello.

IMG_6762Alla sua apertura la Galleria ospitava novantasei negozi, un numero certamente rilevante se consideriamo che la Galleria De Cristoforis ne aveva allora una settantina. I caffè rivestivano un ruolo significativo nella vita sociale dei milanesi in Galleria. Chi fosse entrato a fine Ottocento da piazza del Duomo, avrebbe trovato sulla destra il celebre Caffè Campari gestito da Gaspare Campari. Giunto a Milano nel 1863 dopo aver lavorato a Torino e a Novara, Campari fece fortuna con i celebri liquori: il Fernet e il Bitter all’uso d’Olanda come si diceva a quel tempo (oggi conosciuto come Bitter Campari). Nel 1915, anno dell’ingresso dell’Italia nella Grande Guerra, Campari aprì un altro caffè sul lato opposto che dava sempre verso piazza del Duomo. Oggi questo spazio, tuttora adibito a caffé (nonché ristorante al piano superiore) non è più di Campari ma conserva il prezioso  bancone che gli antichi proprietari avevano fatto costruire in stile art nouveau.

Un altro caffè storico era quello aperto da Paolo Biffi nel 1867 al centro dell’Ottagono, nei locali in cui oggi si trovano gli stupendi negozi di Prada. Le vetrine di Biffi, che si era distinto per la produzione di panettoni artigianali, si estendevano lungo il braccio della Galleria verso via Ugo Foscolo.

Sul lato opposto si trovava una sede secondaria del caffè Gnocchi di Galleria De Cristoforis. Poi la proprietà passò alla Birreria Stocker, i cui gestori garantivano ai clienti la calda accoglienza di avvenenti cameriere in abito tirolese. Nel 1885 la proprietà fu acquistata da Virginio Savini, che ne fece la sede del suo celebre caffè frequentato dagli artisti del vicino teatro Manzoni. Dalla metà del secolo scorso il Savini divenne, com’è fin troppo noto, il centro della vita mondana: nelle sale lussuose di questo ristorante si ritrovavano politici, banchieri, intellettuali importanti nella storia nazionale.

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Il Ristorante Gambrinus – Gambrinus Halle in una immagine pubblicata nei primi anni del Novecento

Non possiamo chiudere questa rassegna sugli antichi ristoranti senza citare il secondo locale che Baldassarre Gnocchi aprì in galleria negli spazi ove oggi si trova la libreria Rizzoli. Si trattava di un caffé di notevole grandezza che acquisì una certa fama nella Milano di fine Ottocento: vi si tenevano regolarmente concerti ad opera di una solerte orchestra di signore viennesi.  L’atmosfera filotedesca – e più in generale filo germanica – che vi si respirava era certamente il risultato della politica conservatrice che il governo italiano seguì in quegli anni mediante la firma dei trattati della Triplice Alleanza con gli Imperi centrali (Impero germanico e Impero austro-ungarico). Una politica che recò i suoi frutti anche sul piano economico. Ricordiamo che a Milano furono istituite, grazie al contributo determinante di capitali tedeschi, le due più importanti banche del Paese: la Banca Commerciale Italiana (1894) e il Credito Italiano (1895) le cui sedi si trovavano a pochi passi dalla Galleria.

Tornando al ristorante Gnocchi, senza l’aiuto della casa  tedesca Siemens&Halsk esso non sarebbe certo riuscito ad illuminare i suoi locali con la luce elettrica, il 21 agosto 1880: fu un evento memorabile nella storia cittadina. Esso anticipava di alcuni anni l’illuminazione elettrica, che in città sarebbe stata possibile solo alcuni anni dopo grazie all’apertura della centrale Edison nella vicina via Santa Radegonda. Assunto nel 1882 il nome di Birreria Gambrinus, il ristorante Gnocchi continuò ad operare con tale denominazione fino all’entrata in guerra dell’Italia, nel 1915. A seguito delle campagne nazionaliste antitedesche,  le autorità obbligarono i gestori a chiamarlo “Grand’Italia”.

Se prendiamo in esame alcuni diari scritti da turisti stranieri in visita a Milano nella prima metà del Novecento, ci accorgiamo che il pubblico della Galleria era alquanto variegato. Del tutto indicative le riflessioni scritte nel 1923 dallo scrittore spagnolo Vicente Blasco Ibanez (1867-1928), che si soffermava sui tanti giovani artisti che puntavano sulla Galleria per incontrare un impresario che potesse fare la loro fortuna. La vicinanza al Teatro alla Scala sembrerebbe aver segnato l’identità del celebre edificio:

Vicente Blasco Ibanez
Vicente Blasco Ibanez

Qui si trattengono, mangiando maccheroni nelle trattorie a buon mercato, e aspettando il momento in cui il mondo farà loro giustizia cospargendo di milioni la strada della loro vita, tutte le reclute e i riservisti dell’arte musicale, gente infelice e degna di pietà che si prepara ad entrare nel tempio della gloria cantando per cinque o sei lire in qualunque teatrino municipale del “Milanesado”. Questo soltanto perché qualche giornale di infimo ordine scriva qualcosa su di loro così da poter inviare il ritaglio alla famiglia e agli amici, e convincerli dei grandi successi che ottengono nel paese dell’arte.

Qui ci sono anche i veterani, quelli che, dopo aver fatto la gioia di tutta una generazione in qualunque capitale d’Europa, mettono mano ai loro risparmi, e quelli che, più imprevidenti, debbono dedicarsi, in vecchiaia, a penose occupazioni per liberarsi dalla miseria, dopo aver trascinato sete e velluti sui palcoscenici e aver ricevuto deliranti ovazioni.

Non si può vivere a Milano senza imbattersi, ad ogni istante, nell’artista veterano, nel novellino o nell’audace che tira dritto, fresco come una rosa, di insuccesso in insuccesso e di fischiata in fischiata.

Trent’anni dopo, il quadro sembrava completamente mutato. Nelle brevi note scritte nel 1964 da Henry Vollan Morton (1892-1979), la Galleria assumeva le caratteristiche di un ambiente magico, staccato dalla convulsa vita cittadina dominata dal traffico e dalla frenesia lavorativa; ritrovo prediletto per innamorati, donne avvenenti, ricchi banchieri e politicanti.

Henry Vollan Morton
Henry Vollan Morton

La Galleria mi parve la moderna versione di un Foro romano. Non c’era il traffico viario, la gente poteva a suo piacimento fare acquisti, passeggiare, pettegolare o leggere le ultime notizie del mercato finanziario. Erano presenti tutte le figure tipiche dell’antico foro: gli innamorati che si incontravano nel luogo stabilito per l’appuntamento, i politicanti con l’ultima edizione del Corriere della Sera, le signore alla moda, i ricconi con la loro corte e perfino, come dubitarne, i seccatori! In Galleria non mi annoiavo di certo: là gli esseri umani, lontani dal fragore e dalla confusione del traffico, si pavoneggiavano come su una ribalta dove tutti sono, ad un tempo, attori e spettatori.  

Dall’uva dei ‘borghi’ alla vigna di Leonardo

Settembre è il mese della vendemmia.  Milano ha molto da raccontare. Nei secoli dell’età moderna e ancora a metà Ottocento, quando la città era racchiusa entro la cerchia dei bastioni, esistevano alcune zone ove si produceva e si vendeva il vino. Tale fenomeno interessava soprattutto i luoghi di campagna, i “borghi” come venivano chiamati in relazione alle sei porte medievali che si trovavano nelle vicinanze (Porta Orientale, Romana, Ticinese, Vercellina, Comasina, Nuova). Situati tra la cerchia del Naviglio Interno e il perimetro dei bastoni spagnoli, i borghi erano spazi agresti attraversati da una grande arteria stradale, dominati fino alla metà dell’Ottocento dai giardini delle ville patrizie, dagli orti dei conventi e dai campi di alcuni proprietari privati. In fondo, i borghi di Milano riproducevano in piccolo i tratti della campagna milanese che si stendeva fuori dalle mura, nei territori dei Corpi Santi e dei Comuni limitrofi.

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Il palazzo Castiglioni-Stampa in un’incisione settecentesca di M.A. Dal Re

Ma torniamo al punto dal quale siamo partiti: la vendemmia nella Milano Sette-Ottocentesca. Chi fosse entrato a Milano in questo periodo dell’anno, passeggiando lungo i borghi cittadini, avrebbe trovato in parecchi isolati il cartello “si vende uva”. Dalle fonti sappiamo che alcune case nei pressi delle vie Quadronno, Commenda (nel borgo di Porta Romana), Vivaio (nel borgo di Porta Orientale) o nel borgo delle Grazie in Porta Vercellina (oggi corso Magenta verso piazzale Baracca), possedevano ettari di terreno piantati a vite. Bisogna però ricordare che la produzione e la vendita dell’uva non riguardava solo i borghi fuori del naviglio. Anche all’interno delle mura medievali, nel fitto reticolo cittadino, c’erano residenze nobiliari i cui proprietari mettevano a disposizione i sotterranei per vendere l’uva. Un caso emblematico era la stupenda casa Castiglioni-Stampa (poi Silvestri), l’edificio bramantesco tuttora esistente in corso Venezia. Nel mese di settembre, quando era attivo il mercato dell’uva, i milanesi la conoscevano come la cantinetta  de Cà Castiona.

Certo, noi oggi fatichiamo a immaginare che in zone fittamente urbanizzate del centro potessero trovarsi spazi adibiti alla coltura della vite. Tale realtà diviene però comprensibile se consideriamo le dimensioni di Milano in età moderna (la città si attestava intorno al 1851 sui 158.000 abitanti), il ruolo fondamentale rivestito dall’agricoltura nell’economia del tempo e i tratti agresti dei borghi all’interno delle mura.

D’altra parte, piantare viti e produrre vino in centro città non è cosa irrealizzabile. Qualcuno ci sta provando con grande passione e competenza. In fondo, il centro cittadino non è così urbanizzato come sembra a prima vista. Molti palazzi dispongono di ampi spazi verdi. Ma chi ha avuto il coraggio di produrre il vino nella Milano di oggi?  Sei curioso eh? Per spiegartelo, devo raccontarti una breve storia.

Il Borgo delle Grazie dalla Pianta di Milano di Marco Antonio Dal Re, 1734
Il Borgo delle Grazie dalla Pianta di Milano di Marco Antonio Dal Re, 1734

Alla fine del Quattrocento Ludovico il Moro progettò di costruire un quartiere residenziale che avrebbe rivestito un ruolo ambizioso nella Milano sforzesca: il borgo delle Grazie attorno alla omonima chiesa di Santa Maria. Nelle intenzioni del duca, esso sarebbe stato ingrandito e impreziosito con edifici di notevole valore architettonico. Tra i progetti, rimasti per lo più incompiuti in seguito alla conquista francese del ducato di Milano avvenuta nel 1499, c’era il mausoleo degli Sforza da costruire nella basilica di Santa Maria delle Grazie. Una parte di quel progetto poté tuttavia essere realizzata. Il Cenacolo venne portato a compimento. La parte absidale di Santa Maria delle Grazie fu disegnata da Bramante in stile rinascimentale. D’altra parte Ludovico fece in tempo ad assegnare ai suoi favoriti alcune proprietà nella zona. Due case del borgo furono donate agli Atellani, funzionari ducali fedeli alla signoria sforzesca. Negli anni Venti del secolo scorso Piero Portaluppi le ristrutturò e ne valorizzò le parti rinascimentali fondendole in un unico complesso tuttora visitabile: la Casa degli Atellani.

Leonardo da Vinci, che si trovava a Milano al servizio del Moro come ingegnere militare, ricevette in dono una vigna che superava di poco l’ettaro di dimensione. Si trovava in un’area compresa tra le attuali vie Carducci (ove scorreva il naviglio di san Gerolamo), corso Magenta, via Zenale e via San Vittore. Qualcuno potrebbe chiedersi per quale motivo il duca di Milano avesse regalato a Leonardo una vigna. Il genio toscano era stato allevato in una famiglia di vignaioli ed è lecito ipotizzare che fosse un raffinato estimatore del vino.

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Quel che restava della Vigna di Leonardo in una foto del primo Novecento (Portaluppi)

Oggi, grazie agli studi storici rigorosi promossi dalla Fondazione Portaluppi, è stato possibile individuare il luogo ove si trovava una parte della vigna leonardesca, quella compresa nella proprietà della Casa degli Atellani. Dopo alcune analisi condotte sul terreno, gli studiosi della Facoltà di Scienze Agrarie dell’Università degli Studi di Milano hanno ritrovato le tracce del vitigno originario ricostruendone il profilo genetico. Si è così scoperto che il vitigno leonardesco apparteneva a un tipo di Malvasia assai diffuso nell’Italia del Quattrocento: la Malvasia di Candia Aromatica.

Oggi la Fondazione Portaluppi restituisce a Milano una pagina dimenticata di storia milanese: la vigna di Leonardo. Sessanta viti a piede americano prodotte in serra sono state piantate nel luogo dell’antica vigna rispettando i filari originali. Grazie a questo lavoro, la vigna di Leonardo è tornata a rivivere.

Se vuoi saperne di più, guarda questo video 😉

 

Il coraggio di un Re nella “battaglia dei giganti”

Sono in corso le celebrazioni per l’anniversario della celebre “Battaglia dei Giganti” combattuta nei pressi del paese di Marignano (oggi Melegnano) il 13 e il 14 settembre 1515.  Son passati 500 anni.

Di cosa si tratta? Vediamo di capirci qualcosa.

La battaglia ebbe luogo in uno dei periodi più tormentati della storia milanese. Persa l’indipendenza politica in seguito alla cacciata di Ludovico Sforza detto “il Moro”,  il ducato di Milano fu conteso per più di vent’anni tra francesi, svizzeri e spagnoli. Saccheggi e rapine furono compiute ai danni della popolazione. La nobiltà lombarda, divisa tra la fedeltà all’uno o all’altro dominatore, subì requisizioni, confische e tasse ingenti.

Massimiliano Sforza
Massimiliano Sforza, duca di Milano dal 1512 al 1515

Partiamo dagli antefatti. Conquistato dal re di Francia Luigi XII nel 1499/1500, il Milanese fu soggetto al dominio francese fino al 1512 quando gli Svizzeri, membri di una “Lega Santa” composta dal Papa, dalla Repubblica di Venezia, dal re di Spagna e dall’Inghilterra, riuscirono a mutare la situazione. Il congresso di Mantova stabilì che il ducato dovesse tornare agli Sforza nella persona del figlio primogenito di Ludovico il Moro, Massimiliano. Questi fu riportato a Milano sotto la “protezione” dei Cantoni elvetici. Una protezione per modo di dire: gli svizzeri obbligarono il duca a firmare provvedimenti tesi a favorire i loro interessi, tra i quali vi era il costoso mantenimento delle truppe. Divenuti padroni di vaste zone tra Como e Varese (in quegli anni conquistarono i distretti di Domodossola, Bellinzona, Lugano, Locarno), gli svizzeri avevano le idee chiare: il loro obiettivo era espandersi nelle terre tra il Lago Maggiore e il Lago di Como per farne un grande spazio soggetto al loro dominio.

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Il vescovo di Sion, il cardinale Matteo Schiner

Una nuova alleanza tra Francia, Venezia e Inghilterra cambiò gli equilibri geopolitici. Il re di Francia Francesco I tentò la riconquista del ducato di Milano. Si arrivò così alla cruenta battaglia del 13/14 settembre quando sui campi di Marignano gli svizzeri comandati dal vescovo di Sion, Matteo Schiner, si scontrarono contro i francesi guidati personalmente dal re: 30.000 francesi contro 20.000 svizzeri.

Da un secolo gli svizzeri erano guerrieri formidabili, specializzati nell’uso della picca. Le potenze europee del Quattrocento versarono ai Cantoni ingenti somme di danaro pur di avere i loro uomini in guerra. I fanti elvetici armati di picca, protetti ai lati da archibugieri e alabardieri, si erano rivelati una forza inarrestabile, un riccio contro cui si erano sfaldati molti eserciti fondati ancora sulla cavalleria nobiliare. Gli Svizzeri sapevano maneggiare la picca con precisione. Avanzavano compatti in formazioni quadrate.

batmarignano1La battaglia di Marignano si basò in gran parte su questo tipo di tecnica militare. Nella prima giornata i picchieri svizzeri ebbero la meglio sui francesi. La tattica consisteva nello sfondare le linee nemiche e catturare i pezzi dell’artiglieria. Il tentativo riuscì però solo in parte. I lanzichenecchi al servizio dei francesi furono decimati ma l’intervento personale del re, che affrontò il nemico esortando i suoi a resistere, impedì agli svizzeri di portare a termine il loro piano. Scriveva un cronista dell’epoca, il comasco Paolo Giovio, nel ricordare il coraggioso contributo di Francesco I:

 

Francesco I di re di Francia
Francesco I di Valois, re di Francia dal 1515 al 1547

Et esso con la sopravesta reale, di colore azzurro co gigli d’oro, generosamente appresso de nemici et de suoi facendosi conoscere per re, si mise nella prima battaglia [primo schieramento], dove animosamente feriva i nemici, et qua et là spronando il cavallo pericolosamente affrontava i più valorosi nemici; et finalmente non solo con le parole et con conforti, ma anchora con honorato essempio di vero valore faceva animo a suoi.

Al calare della notte gli svizzeri cantarono vittoria. Il giorno seguente si accorsero invece di essere in netta minoranza perché molti dei loro compagni erano morti.

Il re di Francia ebbe la meglio per tre fattori decisivi. Si servì dell’artiglieria (cannoni) che gli svizzeri non erano riusciti a neutralizzare: in tal modo annientò molti quadrati nemici. Comandò alcune cariche di cavalleria approfittando dell’estrema vicinanza tra i due fronti e dei pochi nemici rimasti sul campo. In terzo luogo l’arrivo della cavalleria veneziana, guidata dal condottiero Bartolomeo d’Alviano, fu decisivo nell’aiutare i francesi.

Il maresciallo Gian Giacomo Trivulzio, che combatté contro gli svizzeri, colpito dall’estrema durezza della lotta, sostenne che quello scontro era stata una “battaglia di giganti”. Così la ricordò Francesco Guicciardini in una pagina memorabile della Storia d’Italia (Libro XII, Cap.XV):

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Affermava il consentimento comune di tutti gli uomini non essere stata per moltissimi anni in Italia battaglia più feroce e di spavento maggiore; perché, per l’impeto col quale cominciarono l’assalto i svizzeri e poi per gli errori della notte, confusi gli ordini di tutto l’esercito e combattendosi alla mescolata senza imperio e senza segno, ogni cosa era sottoposta meramente alla fortuna; il re medesimo, stato molte volte in pericolo, aveva a riconoscere la salute più dalla virtù propria e dal caso che dall’aiuto de’ suoi; da’ quali molte volte, per la confusione della battaglia e per le tenebre della notte, era stato abbandonato. Di maniera che il Triulzio, capitano che avea vedute tante cose, affermava questa essere stata battaglia non d’uomini ma di giganti; e che diciotto battaglie alle quali era intervenuto erano state, a comparazione di questa, battaglie fanciullesche. Né si dubitava che, se non fusse stato l’aiuto delle artiglierie era la vittoria de’ svizzeri, che, entrati nel primo impeto dentro a’ ripari de’ franzesi, tolto la più parte delle artiglierie, avevano sempre acquistato di terreno; né fu di poco momento la giunta [l’arrivo] dell’Alviano, che sopravvenendo in tempo che la battaglia era ancor dubbia dette animo a i franzesi e spavento a i svizzeri, credendo essere con lui tutto l’esercito veneziano.

Nei giorni seguenti il re permise agli Svizzeri di tornare ai loro paesi. Stando al resoconto di un cronista furono molti i feriti, entrati a Milano da Porta Romana, ad attirare l’attenzione dei cittadini per lo stato miserevole in cui versavano:

Ma una meraviglia certo era et compassione a vedere li fugienti sviceri, che a Milano per Porta Romana ritornavano, l’uno avendo tagliato un brazzo, l’altro una gamba; et chi guasto dall’artiglieria, et chi fatto bressagio de passatori, l’un l’altro amorevolmente portandosi, che proprio pareano i peccatori imaginati da Dante nella nona bolgia dell’Inferno… 

G. A. Prato, Storia di Milano scritta in continuazione ed emenda del Corio dall’anno 1499 al 1519, a cura di Cesare Cantù in «Archivio Storico Italiano», anno I, tomo II (1842), pag.325.

Francesco fu talmente colpito dalle dinamiche fortunose di quella battaglia che, tornato in Francia, diede ordine a Leonardo da Vinci e a Domenico da Cortona di organizzare una festa di corte al castello di Amboise per ricordare quel fausto evento. Tale festa ebbe luogo tra il 1517 e il 1518.  Per saperne di più, ti consiglio di visitare il sito  Marignan: histoire d’une célébration ove alcuni filmati ripercorrono il lavoro svolto da storici, attori, costumisti ed esperti nella ricostruzione della festa reale.

 

Un viceré mancato: l’arciduca Ferdinando Massimiliano

Il 6 settembre 1857, pochi mesi dopo la nomina a governatore del regno Lombardo Veneto, Ferdinando Massimiliano, fratello dell’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe, fece un solenne ingresso a Milano. L’arciduca fu chiamato a sostituire l’anziano feldmaresciallo Radetzky, che aveva cumulato negli anni precedenti i poteri civili e militari impersonando, tra il 1849 e il 1853, il volto più truce e spietato della dominazione austriaca.

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Ritratto di Ferdinando Massimiliano governatore del regno Lombardo Veneto (1832-1867). Dipinto di E. Heinrich

Massimiliano entrò in città accompagnato dalla moglie Carlotta di Sassonia Coburgo Saalfeld. I due sposi erano giovanissimi: l’arciduca aveva solo venticinque anni, la moglie diciassette. Il clima che si respirava in città non era tale da suscitare entusiasmi. La repressione militare di Radetzky seguita alla rivoluzione del 1848 era rimasta nella coscienza di molti come il duro segno dell’oppressione.

La nomina di Massimiliano a governatore fu l’estremo tentativo compiuto dall’Austria per ristabilire un dialogo con la società lombarda. Per la verità altri provvedimenti erano stati emanati negli anni precedenti per rasserenare il clima nel rapporto con i sudditi italiani. Varrà la pena ricordare la ricostituzione nel dicembre 1856 delle congregazioni centrali di Milano e Venezia: organi collegiali di rappresentanza a carattere per lo più consultivo che, previsti dall’ordinamento lombardo veneto fin dal 1815, erano stati aboliti dopo il 1848. Un’altra misura adottata dal governo imperiale nel segno della pacificazione era stata la cessazione dello stato d’assedio che Radetzky aveva introdotto durante la repressione militare: a partire dal primo maggio 1854 si era deciso il ripristino dei codici ordinari in sostituzione del giudizio statario (militare). Altri provvedimenti avevano avuto l’effetto di limitare il governo dell’anziano maresciallo. A confermare una netta svolta nella politica dell’Austria verso il Lombardo Veneto era stato inoltre l’annullamento del sequestro dei beni appartenenti ai patrioti italiani emigrati in Piemonte, sequestro che era stato deciso da Radetzky nel 1853 e aveva suscitato grande scalpore nell’opinione pubblica internazionale.

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Carlotta Maria Clementina Amalia, moglie di Ferdinando Massimiliano e figlia di Leopoldo I del Belgio (1840-1927)

Si capisce quindi come l’arrivo di Massimiliano nella città del Duomo fosse accolto con cauta benevolenza. La missione affidata all’arciduca dal governo di Vienna consisteva nel favorire il ristabilimento di quel clima di simpatia verso le istituzioni imperiali che la dura amministrazione della cricca militare aveva dissolto negli anni precedenti. Il governatore, che rilevava da Radetzky le sole funzioni civili mentre quelle militari restavano al generale ungherese Ferencz Gyulai, ebbe successo per un certo periodo. Le sale del palazzo reale di Milano e della Villa Reale di Monza furono aperte alle élites della società lombardo veneta senza distinzioni di sangue. Massimiliano chiamò inoltre a collaborare con le autorità esponenti della borghesia intellettuale che avevano partecipato alla stagione rivoluzionaria del ’48 o erano noti per il loro liberalismo. Allo storico e letterato Cesare Cantù, che dopo l’Unità sarebbe divenuto il primo direttore dell’Archivio di Stato di Milano, affidò la stesura di un ambizioso progetto di riforma degli studi commisurato alla realtà italiana, volto a ridurre gli elementi di germanizzazione allora esistenti nei programmi educativi. Valentino Pasini, uno degli uomini più rappresentativi della Venezia insorta nel 1848-49, fu chiamato ad elaborare uno studio sulle finanze lombardo venete; a Stefano Jacini, esponente della corrente lombarda liberal moderata, fu dato incarico di studiare la situazione in cui versava la Vatellina perché il governo austriaco potesse adottare provvedimenti adeguati onde risollevare l’economia di quel territorio. Seguirono provvedimenti importanti che portarono al potenziamento delle Accademie di Belle Arti  di Milano e Venezia; entrò in vigore una riforma dei medici condotti che permise un miglioramento delle condizioni in cui erano chiamati ad operare.

Nel breve periodo in cui fu governatore del Lombardo Veneto (aprile 1857-aprile 1859) Massimiliano però si spinse oltre e, violando le istruzioni ricevute dal fratello, elaborò un progetto di riforma costituzionale che avrebbe garantito al regno un’autonomia amministrativa fino ad allora sconosciuta. L’arciduca ambiva a divenire viceré di uno Stato il cui governo avesse poteri incisivi. Si trattava di un piano che si poneva verosimilmente all’interno di una riforma federale che Massimiliano caldeggiava per la monarchia austriaca nel suo complesso, ove gli Asburgo avrebbe potuto regnare lasciando alle comunità larghe autonomie territoriali. In tal modo l’arciduca contava di recuperare il consenso dei sudditi lombardo veneti, guadagnando all’Austria un sostegno nell’opinione pubblica che fino a quel momento era impensabile.

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L’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe (1830-1916) in un ritratto risalente al 1850.

Le speranze di Massimiliano andarono deluse. I suoi progetti furono respinti dall’imperatore Francesco Giuseppe, che restava legato a un modello di Stato assolutista e accentratore che riscuoteva larghi consensi nella corte di Vienna. L’arciduca si vide rifiutare dal fratello anche i poteri militari nel Lombardo Veneto, poteri di cui invece era stato investito il suo predecessore Radetzky. In una lettera del 26 dicembre 1858, ove era facile intuire un acceso confronto tra i due, Francesco Giuseppe scriveva al fratello:

Non posso esigere che tu sia d’accordo su tutto ciò che decido, ma devo essere sicuro che ciò che ho deciso venga eseguito con zelo, e che l’opposizione che tale decisione può suscitare non sia incoraggiata dalla credenza che tu pure non sei d’accordo colla direttiva mia. Ciò non esclude naturalmente il tuo diritto di farmi delle obiezioni su quel che non ti sembra atto allo scopo a cui si mira…

L’arciduca fece ritorno in Lombardia consapevole del fallimento del suo ambizioso programma riformatore. In realtà dietro la sconfitta di Massimiliano c’era la sconfitta politica dell’Austria, che nel Lombardo Veneto perdeva irrimediabilmente il sostegno di settori importanti della società. L’altra sconfitta, quella militare, sarebbe giunta di lì a poco nella seconda guerra d’indipendenza (maggio-luglio 1859).

Il Piemonte, ove il governo di Cavour aveva promosso in quegli stessi anni un imponente sviluppo economico, costituiva l’unica alternativa credibile per i liberali delusi dall’Austria. Il fallimento della politica di Massimiliano spianò la strada al programma nazionale del Piemonte sabaudo.