In questi giorni di inizio giugno ricordiamo un avvenimento importante per la storia di Milano: la battaglia di Magenta.
Avvenuta il 4 giugno 1859 all’inizio della seconda guerra d’indipendenza, essa vide opporsi l’esercito imperiale asburgico all’esercito franco-piemontese. Più di un mese dopo, le battaglie cruente di Solferino e San Martino avrebbero segnato la definitiva sconfitta degli austriaci, obbligati a cedere la Lombardia (tranne Mantova) all’imperatore dei francesi Napoleone III. L’imperatore Francesco Giuseppe di Asburgo, ostile alla causa italiana, non riconobbe alcuna legittimità internazionale al regno di Sardegna di Vittorio Emanuele II: questo spiega per quale motivo all’armistizio di Villafranca, firmato l’11 luglio, l’imperatore cedette la Lombardia alla Francia, non al Piemonte sabaudo. Fu Napoleone a cedere graziosamente la Lombardia al suo alleato.
Quattro giorni dopo la vittoria di Magenta, Vittorio Emanuele II e Napoleone III fecero il loro ingresso a Milano accolti con entusiasmo dai milanesi. Il re sabaudo, che aveva dormito a Lainate, raggiunse l’alleato alla cascina Pobbietta, un casolare (oggi scomparso) all’altezza di via Novara nei pressi di Quarto Cagnino. Da lì i sovrani entrarono a Milano dall’Arco della Pace: decisione non casuale se pensiamo che il celebre monumento era stato voluto mezzo secolo prima da Napoleone I per celebrare le sue vittorie. Dopo aver percorso il lato sinistro del Castello Sforzesco, Vittorio Emanuele II e Napoleone III attraversarono le vie Cusani, dell’Orso, Monte di Pietà, Monte Napoleone fino al corso di Porta Orientale (oggi corso Venezia). Da qui raggiunsero il palazzo Serbelloni, che costeggiava il naviglio interno, seguiti da una folla in delirio.
L’entusiasmo dei lombardi per la vittoria di Magenta e la liberazione di gran parte della regione non era casuale. C’erano attese, speranze in un futuro di buongoverno.
Difatti, nei mesi immediatamente precedenti alla guerra, Cavour, che era a capo del governo piemontese, convocò a Torino una commissione di notabili lombardi presieduta dal nobile milanese Cesare Giulini della Porta. Questa commissione predispose per le terre liberate un ordinamento che avrebbe dovuto consentire l’ordinato svolgersi della vita civile. Il tutto nel rispetto di quel che poteva essere conservato degli istituti amministrativi esistenti, istituti cui i lombardi erano affezionati perché li consideravano patrimonio storico della loro regione. D’altra parte lo stesso Cavour, in un interessante colloquio con il nobile milanese Cesare Giulini della Porta, riconobbe che dalla Lombardia “il Piemonte per gli ordini amministrativi ha più da imparare che da insegnare”.
La commissione propose la conservazione dell’autonomia comunale che costituiva il vanto della tradizione amministrativa lombarda. Basti pensare che nella Lombardia austriaca i proprietari di un immobile nei Comuni di terza classe (quelli con popolazione inferiore ai 300 estimati che erano la stragrande maggioranza dei municipi), avevano diritto di intervenire nel convocato, un’assemblea – organo di democrazia diretta – in cui si gestiva l’amministrazione del Comune.
La commissione Giulini propose inoltre la formazione di un governo lombardo separato da quello piemontese per assicurare piena autonomia alla regione. In seguito all’unione politica con il Piemonte, la Lombardia sarebbe stata amministrata da un governatore – con sede a Milano – dotato di poteri considerevoli. Questi avrebbe assommato infatti le funzioni del luogotenente austriaco (nomina dei delegati provinciali, corrispondenti all’incirca ai nostri prefetti; controllo sulle direzioni di polizia, sugli istituti di istruzione pubblica, sulle autorità municipali), i poteri del governatore austriaco e quelli che facevano capo all’amministrazione di Vienna, ad esempio nella gestione della prefettura lombarda delle finanze, della direzione di contabilità di Stato o della giunta del censimento.
La politica di Cavour, informata a uno stile moderato, conservatore, rispettoso entro certi limiti delle tradizioni storiche preunitarie, aveva le sue ragioni. Molte istituzioni del Lombardo Veneto austriaco riscuotevano l’ammirazione dei lombardi, suscitando in essi un vivo attaccamento per questi ordinamenti. In alcuni casi essi ne riconducevano l’origine all’epoca gloriosa del Regno Italico napoleonico, quando Milano fu capitale di uno Stato nazionale esteso a una parte significativa dell’Italia del Centro-Nord. Così un membro della commisione Giulini descriveva la complessa amministrazione austriaca in Lombardia:
Se noi lasciamo i roveti, i muschi e le edere, troviamo che l’ossatura murale di sotto, annerita dal tempo, corrosa dall’umidità, è ancora l’antica. Così noi troviamo che il censo, la legislazione comunale, le esattorie comunali, l’ammirando servizio delle condotte mediche, i regolamenti di acque e strade, le leggi sulla servitù di acquedotto e tutta la giurisprudenza in materia di acque, il contributo arti e commercio, le Camere di Commercio, l’istituto notarile, i conservatori delle ipoteche, le scuole comunali…sono tutte creazioni indigene che la dominazione straniera ha dovuto rispettare. E diciamo indigene anche quando ci riferiamo al Regno Italico, quantunque negli ordini militari e nella politica esterna dovesse dipendere dalla fortuna napoleonica.
Dopo la vittoria di Magenta, il governo piemontese emanò alcuni decreti che, seguendo le indicazioni della commissione, diedero inizio a quella che possiamo chiamare la luna di miele tra il governo sabaudo e i lombardi. Con decreto 8 giugno 1859, il governo Cavour nominava governatore della Lombardia Paolo Onorato Vigliani, un giovane funzionario piemontese, originario di Pomario Monferrato, in provincia di Alessandria.
Il decreto 8 giugno assegnò i pieni poteri a Vigliani, escluso quanto concerneva la guerra. Egli fu posto a capo di una nuova istituzione che ereditava, sia pure ridotti da 9 a 5, gli ex dicasteri della luogotenenza austriaca così riorganizzati: 1. Amministrazione politica, intendenze generali e pubblica sicurezza; 2. Comuni, beneficenza e corpi morali; 3. Commercio, agricoltura e lavori pubblici; 4. Istruzione pubblica e culto; 5. Amministrazione della giustizia.
L’entusiasmo dei lombardi per la nuova amministrazione si manifestò negli atti di omaggio resi a Vittorio Emanuele II da parte di numerosi funzionari. Tuttavia, le dimissioni di Cavour in seguito all’armistizio di Villafranca (11 luglio) portarono alla fine di questa “luna di miele”. Rattazzi, succeduto a Cavour nel governo sabaudo, con decreto 31 luglio stabilì che “i pieni poteri conferiti al Governatore della Lombardia” erano cessati. Un trend inesorabile che portò in breve tempo alla soppressione di ogni autonomia amministrativa. Di lì a poco, con l’emanazione dei decreti regi 23 ottobre 1859, alla Lombardia fu esteso l’ordinamento sabaudo informato a un accentramento amministravo disegnato sul modello franco-belga. Se si eccettua la Toscana – ove continuò ad essere vigente il codice penale leopoldino fino al 1889 – i territori della penisola che entrarono a far parte del regno d’Italia sabaudo furono sottoposti rigidamente, nel giro di pochi anni, alla legislazione e all’amministrazione piemontese. L’Italia si faceva “piemontesizzando” i suoi ordinamenti. Come scrisse un grande storico dell’amministrazione negli anni Sessanta del secolo scorso, fu come vestire un gigante con l’abito di un nano.
Sì…. i lombardi ammiravano l’amministrazione austriaca e molti poi rimpiansero l’annessione violenta da parte dell’espansionismo piemontese che si fondava su motivi economici più che patriottici ; la concorrenza economica del Lombardo-Vento pesava infatti sulle finanze del suo vicino sabaudo che non sembra avesse in progetto di annettersi anche il Sud. Piccolo dettaglio degno di Dan Brown; Cavour, Napoleone III e Garibaldi erano tutti e tre massoni…. un Paese unificato da un complotto?
Ciao Giovanni! Grazie per essere intervenuto. In realtà il Regno di Sardegna, durante il decennio di preparazione, fece progressi considerevoli nell’economia, nelle infrastrutture, nel sistema bancario, nei trasporti. Ciò fu dovuto in larghissima parte ai governi Cavour che si susseguirono in Piemonte a partire dal 1852. In dieci anni (1848-1858) il Piemonte recuperò il ritardo nei confronti del Lombardo Veneto, la cui economia (ma ciò valeva soprattutto per la Lombardia, meno per il Veneto ancora arretrato) era assai fiorente e sviluppata rispetto ad altri territori dell’impero asburgico. Gli storici parlano a tal proposito, riferendosi al periodo di governo cavouriano, di “decennio di trasformazione” facendo riferimento al mutamento profondo dell’economia sabauda. Il Piemonte del 1859 non era più il Piemonte arretrato, ostile alla modernità, ottuso quale era apparso a Cattaneo nel 1848. Questo spiega il favore con cui i moderati lombardi avevano aderito con entusiasmo all’unione politica della Regione con il Piemonte, fatta salva l’autonomia amministrativa, come ho accennato nell’articolo.
Occorre inoltre ricordare che dopo il 1848 l’Austria – senza dubbio per vendicarsi contro quel che era successo a Milano nel ’48 – governò il Lombardo Veneto per almeno sette anni in modo autoritario, dispotico. Tra il 1849 e il 1855, furono soppresse molte istituzioni lombardo venete, abolito il codice penale e civile e introdotto il giudizio statario, il che voleva dire che chiunque fosse stato sospettato di commettere reati contro l’autorità austriaca, era deferito alla commissione militare e condannato a morte. Furono gli anni che videro le condanne a morte di molti patrioti lombardi, dal tappezziere Amatore Sciesa al parroco don Tazzoli. Per i lombardi gli anni 1849-55 furono i più duri della dominazione austriaca. Il generale Radetzky, che in quegli anni rivestiva la carica di governatore militare e civile della Lombardia, governò in modo autoritario al preciso scopo di colpire l’aristocrazia lombarda che si era resa protagonista nelle Cinque Giornate di Milano. Ma ad essere colpiti furono tanti altri nobili e cittadini che dovettero subire la requisizione dei beni, l’esilio – chi in Svizzera, come Carlo Cattaneo, chi in Piemonte come Achille Mauri, Emilio Broglio, Cesare Correnti. Senza contare le contribuzioni straordinarie imposte da Radetzky alla nobiltà lombarda.
A partire dal 1855, soprattutto dal 1856 al 1858, l’Austria mutò politica nel Lombardo Veneto cercando di ristabilire un dialogo con la società locale. Furono ricostituite le istituzioni lombardo venete, fu messo da parte l’ormai anziano Radetzky, venne nominato governatore del Lombardo Veneto l’arciduca Ferdinando Massimiliano che fu un grande uomo politico che contese per alcuni mesi a Cavour le simpatie dei lombardi. Il programma del nuovo governatore, fratello dell’imperatore Francesco Giuseppe, puntava a garantire una maggiore autonomia del Lombardo Veneto all’interno dell’impero ma il suo programma, quantunque avesse prodotto alcuni effetti positivi, fallì per l’opposizione di Vienna, il cui governo – informato a un rigido assolutismo – non aveva alcuna intenzione di cedere poteri ai popoli dell’Impero. In fondo, il peccato originale dell’impero asburgico fu di non essere mai stato in grado di riformare le sue istituzioni in senso federale sul modello svizzero come chiedeva Cattaneo e tanti altri patrioti cechi, ungheresi, galiziani, croati. Se lo avesse fatto, la storia italiana ed europea sarebbe stata senz’altro diversa e forse ci saremmo risparmiati la Grande Guerra del 1914-18 visto che l’avvenimento che ne provocò lo scoppio, l’assassinio a Sarajevo dell’erede al trono austriaco Francesco Ferdinando, fu dovuto alle rivendicazioni nazinali serbe ostili al dominio asburgico negatore dei diritti delle minoranze etniche.
Tra il 1849 e il 1859 i lombardi furono quindi delusi dall’Austria. Basti pensare ad esempio al progetto di aprire a Milano una banca di emissione che potesse sostenere l’economia della regione favorendo le operazioni di cambio e di sconto. Tale progetto fu bloccato da Vienna. Il bilancio del regno Lombardo Veneto era attivo ma le risorse disponibili non erano impiegate a sostegno dell’economia locale andando a beneficio di altri territori dell’impero (risultato della politica neoassolutista dell’imperatore Francesco Giuseppe realizzata nel corso degli anni Cinquanta). Il debito pubblico del Lombardo Veneto ascendeva in quegli anni a 100 milioni di fiorini (pari a 250 milioni di lire). In Piemonte il debito pubblico, se facciamo riferimento al 1859, si attestava sui 725 milioni di lire. Ma a Torino le risorse erano impiegate dallo Stato per sostenere l’economia locale, in Lombardia questo non avveniva a causa del centralismo viennese. Ad accrescere l’ostilità dei lombardi verso l’Austria era poi la decisione di iscrivere nel debito pubblico lombardo veneto alcuni titoli di credito dell’Impero, il che significava far pagare ai lombardi debiti fatti da altri sudditi asburgici. La situazione, negli ultimi anni della dominazione austriaca, non era quindi così rosea come a molti appare.
L’abilità di Cavour fu di garantire ai Lombardi alcuni interventi a sostegno della Regione: nel 1859, dopo la guerra contro l’Austria, fu aperta a Milano una sede della Banca nazionale degli Stati Sardi venendo incontro alle richieste dei Lombardi per l’apertura in città di una banca di sconto. Coronamento di questa politica avrebbe dovuto essere l’autonomia amministrativa della Regione ma le dimissioni di Cavour e l’instaurazione del nuovo governo “dittatoriale” La Marmora-Rattazzi, come ho accennato in chiusura, annullò completamente i primi risultati della politica moderata e autonomista di Cavour.
Sull’annessione del Sud i progetti erano in effetti diversi. Il trattato di Plombiéres tra Regno di Sardegna e Impero francese prevedeva la divisione dell’Italia in tre regni uniti in una confederazione presieduta dal Papa. Un regno dell’Italia settentrionale governato da Casa Savoia; un regno dell’Italia centrale governato da un cugino di Napoleone, Gerolamo Napoleone; un regno del Sud Italia affidato a Luciano Murat o ai Borbone. Le rivoluzioni in Italia centrale (ducati di Parma, Modena, Legazioni romagnole, Toscana) fecero saltare gli accordi di Plombiéres. Il successo della spedizione dei Mille e l’improvviso crollo del Regno delle Due Sicilie – fatto non previsto da nessuno, nemmeno da Cavour – finirono per mutare radicalmente i piani del governo piemontese, mettendolo di fronte al problema drammatico di gestire in breve tempo l’annessione di territori che non avevano sperimentato alcuna fase di transizione o preparazione per l’annessione al Regno di Sardegna.
Sulla massoneria e sui complotti ho sempre creduto poco. La massoneria era un’associazione assai diffusa in Europa e, dal Settecento, vedeva tra i suoi affiliati re, nobili e intellettuali europei. Nulla di sensazionale.