Andreotti, un ritratto con molte ombre e poche luci

La morte di Giulio Andreotti impone alcune riflessioni sul ruolo da lui rivestito nel sistema politico italiano. Ora che se n’è andato nella sorpresa generale – già perché noi tutti eravamo convinti che avesse guadagnato l’immortalità in forza di un patto luciferino – ci sentiamo improvvisamente più leggeri ma al contempo più insicuri, come se avessimo perso con lui, nel bene e nel male, un pezzo di storia, una parte importante del nostro passato, della nostra memoria collettiva. Eppure, a ben vedere, tale sensazione coglie un’esigua minoranza di persone. La maggioranza di quanti sono vissuti negli anni della sua lunga carriera politica crede ancora oggi che sia l’incarnazione del “grande vecchio”, il malvagio custode dei misteri più occulti della cosiddetta Prima Repubblica. C’è poi chi non si pronuncia per ragioni anagrafiche. Provate a chiedere ai giovani di oggi cosa pensano di Andreotti. Molti vi rispondono candidamente che non lo conoscono.


Sarebbe tuttavia un grave errore dimenticarsi del politico romano. Cresciuto nella scuderia di Alcide de Gasperi, Andreotti ereditò dell’uomo trentino il senso dello Stato ma apparteneva a una generazione diversa, era fatto di una pasta diversa. Persona assai più di curia che di governo, sembrava affrontare le prove della vita con cinico distacco, foderato di quel compassato realismo che lo ancorava, nello stile di governo, ai più scaltri e navigati segretari di Stato dell’ancien régime. Insomma, quando penso alla sua condotta in politica, ai sette governi da lui presieduti tra gli anni Settanta e i primissimi anni Novanta, mi vengono in mente le sagge, ciniche massime del cardinale Armand-Jean du Plessis du Richelieu o del cardinale Giulio Mazzarino, due uomini che ressero il governo della Francia per buona parte del XVII secolo. Tra gli adagi più diffusi nelle corti europee di fine Seicento ve n’era uno che costituiva quasi una piccola guida pratica per gli uomini di governo

Non essere facile alle promesse e alle concessioni. Ridi poco. Non prendere decisioni affrettate e non cambiare mai quello che hai deciso. Non fissare le persone, non grattarti il naso e non arricciarlo, non fare l’aria severa, gesticola poco, tieni la testa eretta, parla poco e sentenzioso, cammina a passi misurati, muovi il corpo con dignità”. 

Se si toglie il riferimento alla testa eretta, questa massima attribuita al cardinale Mazzarino sembra uscita dalla penna di Andreotti.

Uomo realista, dotato di un eccezionale fiuto politico, di un senso della misura che superava di gran lunga quello dei suoi avversari, Andreotti aveva capito che per governare l’Italia non era sufficiente il rispetto e l’attuazione dei principi costituzionali. Occorreva agire per così dire dietro le quinte, passare attraverso la mediazione continua con i poteri effettivi di cui è intessuto da sempre il complesso ordito della penisola. Seppe mediare tra i partiti reggendo da maestro il gioco parlamentare. Curò i rapporti  con il Vaticano restando rigorosamente entro le rotaie della laicità dello Stato come insegnava la scuola cattolico liberale.

Relativamente ai rapporti con la mafia, la sentenza del Tribunale di Cassazione del 23 dicembre 2004 ha stabilito la sua assoluzione dal reato di associazione mafiosa dal 1982 in poi anche se restano molti dubbi sui suoi rapporti con uomini di Cosa Nostra nel periodo precedente. Il che peraltro non è bastato a provare una sua effettiva collusione con la mafia perché negli anni anteriori al 1980 il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso non esisteva nel codice penale: per quegli anni Andreotti ha avuto la prescrizione per il reato di associazione a delinquere semplice. Insomma, questa parte della sua vita è ancora avvolta nell’ombra.
 
Nel sistema di governo parlamentare Andreotti fu uno dei maggiori interpreti di quella politica della mediazione, della ricerca del juste milieu nella formazione dei governi di larghe intese per il bene del Paese che fu probabilmente uno dei pochi lasciti preziosi della Prima Repubblica; uno stile di governo che oggi Napolitano ha fatto bene a recuperare e ad incoraggiare – sia pure tra mille difficoltà – in seguito al pieno fallimento del bipolarismo nei vent’anni seguiti alla discesa in campo di Berlusconi.

Come avviene per tutti i grandi capi di governo, chi voglia abbozzare un ritratto del politico romano non può che ricorrere alla tecnica del chiaro scuro. E’ facile ricordare le molte ombre, più difficile scorgere le qualità che pure vi furono in quest’uomo mite, che curava i rapporti con gli elettori agendo con zelo, dedizione e impegno.

Tra le sue qualità non si può negare il senso dello Stato che ebbe fin dall’inizio della sua carriera politica. Un senso dello Stato che, nei momenti più difficili della democrazia italiana, lo pose dinanzi a scelte dolorose. Quando fu rapito Aldo Moro, Andreotti era presidente del consiglio in un governo monocolore appoggiato dalla Democrazia Cristiana e dal Partito comunista. Assieme ad Ugo la Malfa e ad Enrico Berlinguer, non esitò a guidare il fronte della fermezza contro ogni ipotesi di compromesso con i terroristi. Andreotti avvertì addirittura i suoi familiari e gli amici più cari che se la disgrazia di cui fu vittima Moro fosse capitata a lui o a qualsiasi altro politico, il dovere del governo era di non indietreggiare di un millimetro dalla linea della fermezza. Lo Stato non poteva scendere a patti con le Brigate Rosse, con chi aveva assassinato i suoi uomini più fedeli: magistrati e poliziotti. Se questo fosse avvenuto, le Brigate Rosse avrebbero raggiunto il loro scopo: mostrare che lo Stato era debole, incapace di assicurare ai cittadini le sue funzioni fondamentali: la pace sociale e il rispetto del diritto. Se il governo fosse sceso a compromessi con i terroristi, sarebbe stato evidente che il diritto dello Stato poteva essere combattuto, piegato dalle logiche della forza organizzata. Sarebbe scoppiata in altri termini una guerra civile. In un’intervista rilasciata a Radio 24 in cui ricordava a distanza di anni quei drammatici eventi, Andreotti disse:

Durante il rapimento di Aldo Moro, la linea della fermezza era l’unica via possibile. Se noi avessimo ceduto, ci sarebbe stato uno sciopero bianco di tutte quelle categorie che erano state colpite dai brigatisti perché tra morti e feriti un pezzo dell’Italia aveva pagato un contributo pesantissimo. Se noi avessimo trattato ci sarebbe stata la ribellione delle vittime del terrorismo. La linea della trattativa non avrebbe risolto il problema. Resto rammaricato per non essere riuscito a salvare Moro. Sicuramente c’è stata una correlazione tra l’insediamento del mio Governo e il rapimento Moro”.


La seconda qualità di Andreotti risiedeva nell’atteggiamento prudente, in quell’attenta comprensione dei fenomeni storico-sociali che egli si era formato probabilmente negli anni verdi della sua vita, nel periodo trascorso alla Biblioteca Vaticana quando attendeva ai suoi studi sulla marina pontificia. Il politico romano nutriva una grande passione per la storia. Occorre ricordare a tal proposito, tra i contributi da lui resi in questo campo, un interessante libro su Pio IX (G. Andreotti, La fuga di Pio IX e l’ospitalità dei Borbone, Roma, Benincasa 2003) in cui mostrava come papa Mastai Ferretti, negli anni tormentati del 1848-49, non fosse pregiudizialmente contrario alla concessione di una Carta costituzionale per gli Stati pontifici informata, sia pure in parte, ai principi del costituzionalismo moderno. In appendice al volume era allegato il documento della bozza elaborata dai giuristi del Papa.

Insomma, è difficile stilare un bilancio sull’operato di Andreotti in politica. La sua figura non cessa dividere l’opinione pubblica. I giudizi di natura politica, divisi come sono tra quelli che lo accusano e quelli che lo assolvono, rendono assai difficile comprendere con distacco il suo ruolo all’interno delle istituzioni in politica interna. Anche in politica internazionale la sua azione diplomatica filopalestinese e filoaraba tra gli anni Settanta e Ottanta, non è stata ancora studiata come meriterebbe.

Attendiamo dagli storici dell’età contemporenea uno studio che, muovendo dall’analisi rigorosa delle fonti documentarie e degli atti processuali, possa prendere in esame con metodo avalutativo la sua azione in politica interna e ancor più nelle complesse dinamiche della politica internazionale nell’età della guerra fredda.

Belle milanesi e truci impiccagioni nel diario di un celebre turista tedesco

Johann Kaspar Goethe (1710-1782), giurista, uomo di lettere, appassionato bibliofilo e collezionista di opere d’arte, è ricordato per essere il padre del famoso poeta Johann Wolfgang. Anticipando il figlio di quarant’anni, anche Johann Kaspar visitò l’Italia. Fece un breve soggiorno a Milano ai primi di agosto del 1740. Gli appunti riguardanti i suoi viaggi vennero pubblicati in Italia con il titolo Viaggio in Italia nel 1932. Si tratta di un’opera pressoché introvabile nelle librerie. Andrebbe ristampata, non foss’altro che per le preziose riflessioni sui costumi e sugli stili di vita delle popolazioni negli Stati italiani preunitari.

Lo scrittore tedesco forniva un ritratto significativo su Milano. Nelle pagine dedicate alla città del Duomo, in un italiano un po’ rude come poteva essere quello appreso da un tedesco dei primi decenni del Settecento, Johann Kaspar descriveva le principali chiese cittadine quali Sant’Ambrogio, Sant’Eustorgio, San Lorenzo. Del Duomo riconosceva la mole grandiosa anche se a quel tempo la facciata era incompiuta. In realtà, le sue riflessioni meritano di essere commentate e riportate per almeno due ragioni. Anzitutto perché forniva alcune interessanti descrizioni sullo stato della città. Ad esempio rilevava stupito come nei palazzi ci fossero “finestre di carta” mettendo in evidenza come tale realtà fosse del tutto inadeguata per una città importante come Milano, che era a quei tempi – non va dimenticato – capitale di uno Stato nel Nord Italia particolarmente importante sia da un punto di vista economico che geopolitico. Varrà la pena ricordare che l’uso dei vetri nelle abitazioni domestiche si imporrà molto lentamente in età moderna, affermandosi su scala generale solo nel corso del XIX secolo. Johann Kaspar ricordava inoltre come fosse diffusa la convinzione che le donne milanesi fossero particolarmente belle. A suo giudizio il grado di libertà di cui disponeva il gentil sesso sotto la Madonnina era assai maggiore rispetto a quanto avveniva in altri Stati italiani come il Regno di Napoli o la Repubblica di Venezia. Unico difetto delle milanesi risiedeva nella parlata: la pronuncia, l’inflessione della lingua meneghina “è peccato che non sia uguale allo spirito di cui sono dotate”.

Scriveva il padre di Goethe nei suoi appunti di viaggio:

 “E’ vero che le sue strade [di Milano, Ndr] sono storte e strette e le case, come anche i palazzi provveduti di finestre di carta, il che fa un cattivo aspetto in una gran città, la cui grandezza va fino a dieci miglia italiane di circuito; oltre che è popolatissima, contenendo più di 30.000 anime (in realtà la popolazione doveva attestarsi in quegli anni sulle 80-100.000 persone), tra le quali il sesso donnesco circa l’esteriore vien stimato il più bello di tutte le altre, poiché, giusta il calcolo d’uno molto intendente in questa materia e buon aritmetico, vi debbono essere cinque belle contro una brutta, calcolo ch’io né voglio né posso sottoscrivere. Gli abitanti in genere, per le differenti viste degli Spagnoli, Francesi e Tedeschi, hanno acquistato differenti maniere di vivere. Non v’è in uso quella soggezione delle donne, e non sono così rigorosamente osservate ed accompagnate dai cicisbei, e le ragazze restano nelle case paterne, sinché siano maritate, senza rinchiuderle tra le mura d’un oscuro chiostro, come fanno principalmente i gelosi Veneziani o Napoletani. Insomma, donne e zitelle godono gran libertà, ed è peccato che la loro pronunzia non sia uguale allo spirito con cui sono dotate”.

 La seconda ragione per la quale gli appunti di Johann Kaspar meritano di essere ricordati verte a mio parere su alcune descrizioni di vita quotidiana milanese che oggi stenteremmo a credere proprie di questa terra. A cogliere l’attenzione del nostro visitatore erano le truci esecuzioni capitali. Comminate dai tribunali dello Stato potevano essere confermate in ultima istanza dal Senato, la suprema istituzione giuridico amministrativa del ducato composta, come ricordava Johann Kaspar: “di un presidente e venti dottori nobili, tutti indipendenti dal governo generale”.

Tali sentenze, decise dai giudici d’ancien régime, da un lato si uniformavano alla comunis opinio, dall’altro potevano dipendere dal potere equitativo del giudice. Esse si informavano in particolar modo alle consuetudini secolari vigenti nello Stato, consuetudini che affondavano le loro radici nelle antiche normative locali: le Novae Constitutiones del 1541, gli Statuti del Comune, il diritto romano. L’impiccagione di due delinquenti viene descritta all’interno di una lugubre cerimonia i cui effetti teatrali dovevano colpire nel profondo la folla. Lo scrittore tedesco ricordava la confraternita della carità in San Giovanni alle Case Rotte (la chiesa si trovava nella via omonima, a pochi metri di distanza da palazzo Marino), una corporazione composta in larga parte di nobili la cui funzione consisteva nell’accompagnare i condannati sul patibolo fornendo un supporto religioso e provvedendo, al termine dell’esecuzione, alla loro sepoltura nel cimitero della chiesa.

Scriveva Johann Kaspar:

“Vidi ieri impiccare due birbi. Vi furono osservate tante solennità e circostanze che altrove non si usano. La confraternita della carità, che consiste di nobili ed altri cittadini, si radunava innanzi la prigione coll’abito del loro ordine che copre tutto il corpo, eccetto gli occhi, avendo in una mano una candela accesa, nell’altra una corona di stupenda grandezza. Messi in ordine, camminano a paio a paio, col crocifisso nel fronte, ed i loro servitori a canto [sic!], poi segue il delinquente, condotto tra un padre francescano ed uno della confraternita, che porge la mano al condannato vacillante, per pura carità; dietro di questo viene il boia”. “In tal guisa, con urli, canzoni e preghiere s’avvicinano verso la forca, per questa volta dirizzata in piazza del Duomo [normalmente le impiccaggioni avvenivano in piazza Vetra, NdR]. Quando i malefici furono giunti, si confessarono, e poi in su la scala tirati; dall’altra parte ascende uno de’ confrati [confratelli], a cui tocca, mostrando a quell’infelice il crocifisso, sino che il boia lo getta abbasso, tenendo due corde lunghe; l’una lo soffoca l’altra [sarebbe usata] se quella si rompesse; sospeso così in aria, il boia gli salta sul collo in cui resta, ballando sinché quell’infelice è morto, poi l’abbandona. Indi uno della confraternita monta in su battendo [tagliando] le corde, intanto che gli altri in terra l’aiutano, i quali insieme mettono il corpo levato dalla forca in una cassa, portandolo al cimitero della chiesa di San Giovanni delle Case Rotte; ed ivi vien seppellito. In quanto alle corde, servite a questo uso, vengono abbruciate, per non essere impiegate a qualche stragaria [sic!]. Non ho lasciato in questa relazione pur la minima circostanza, per essere molto differente dal nostro paese”. Evidentemente le esecuzioni a Francoforte avevano una dinamica assai più semplice e spedita.

Il turista tedesco concludeva le sue notazioni con un curioso appunto sulle persone che frequentavano piazza del Duomo. Qui si soffermava sui cicisbei – gentiluomini addetti all’accompagnamento delle dame – nonché  sulla moda curiosa dei preti e dei padri di famiglia. A tal proposito, annotava stupito come fossero soliti portare in pubblico gli occhiali sul naso, usanza che in Germania era inconcepibile. A Milano invece questi uomini potevano farlo perché: “la moda li libera dalle risa”. Varrà la pena ricordare che la piazza del Duomo, nella Milano del Settecento, aveva un’estensione assai più ristretta dell’attuale. Ma diamo la parola, per l’ultima volta, al nostro turista:

“Detta piazza del Duomo serve regolarmente per passeggio in carrozza ed a piedi, ove vidi i cicisbei ed altri di questa razza far il loro mestiere. Ma più mi meravigliai quando vidi gli abati e padri coll’occhiale sul naso. Si figuri un nostro Pantalone passeggiar per le strade in tal guisa armato, cosa direbbero i nostri cittadini. E poi qui la moda li libera dalle risa!”.

L’idea (ottima) della Convenzione rivela gli irriducibili oppositori alle riforme

L’opposizione di Stefano Rodotà alla Convenzione per le riforme costituzionali, resa pubblica in un’intervista al Fatto quotidiano , è stata preceduta dalla presa di posizione dei Comitati Dossetti per la Costituzione  i quali, in un appello rivolto al governo, hanno invitato il presidente del consiglio Letta – e implicitamente la maggioranza Pd-Pdl-Scelta civica che sostiene il governo – ad affossare qualsiasi progetto di riforma complessiva dell’ordinamento. Questi giuristi, concordi con il professor Onida, ritengono che l’unica via di riforma delle istituzioni debba passare attraverso la procedura indicata dall’articolo 138  “senza l’osservanza del quale l’intera Costituzione sarebbe delegittimata”.

Tali posizioni mostrano quanto sia ancora forte in questo Paese il fronte di chi considera la Carta del ’48 un feticcio da venerare quasi fosse una Bibbia civile, un testo intoccabile. Rodotà, al quale era stato proposto di presiedere la Convenzione, ha rigettato tale invito mostrandosi recisamente contrario a qualsiasi ipotesi di riforma. Non capisco come i grillini abbiano potuto avanzare la candidatura di Rodotà al Quirinale presentandola come un cambiamento per l’Italia. Si sa d’altra parte che le vere dinamiche che sottostanno alla politica si fondano in larga parte su atteggiamenti e decisioni che hanno ben poco di razionale.

L’elezione popolare di una Convenzione per la riforma della Costituzione costituisce una delle soluzioni più coerenti con il principio della sovranità popolare perché il popolo, quando la Convenzione avrà terminato la redazione della nuova Costituzione, sarà chiamato ad approvare con plebiscito la nuova Carta fondamentale. Questa è la procedura che si è sempre seguita in passato nei processi di revisione costituzionale mediante Convenzione.

Nel nostro ordinamento democratico l’elezione popolare di una Convenzione è possibile mediante una legge di riforma costituzionale che, approvata dai due rami del parlamento in forza dell’articolo 138, introduca nella Carta tale procedura. Una soluzione, quella della Convenzione, in fondo assai più democratica e liberale rispetto al vigente articolo 138, il quale autorizza una maggioranza dei due terzi della classe politica in Parlamento a riformare integralmente la Costituzione senza passare per il referendum popolare.

Ovviamente ci sono altre vie per modificare una costituzione e fondare una nuova repubblica. Ad esempio l’Assemblea costituente, la quale – come fecero i nostri ‘padri’ nel 1946-47 – sarebbe chiamata a riformare l’ordinamento costituzionale esercitando al contempo la funzione legislativa ordinaria.

Credo però che la Convenzione sia la via maestra per gestire il cambiamento salvaguardando non solo la legalità ma ancor più la piena legittimazione democratica delle riforme costituzionali.

Io non so richiamare a tal proposito esempio più prezioso dell’articolo 33 del progetto di costituzione girondino del 15-16 febbraio 1793. Redatto da Condorcet che lo presentò alla convenzione francese, esso recitava:

“Un popolo ha sempre il diritto di rivedere, di riformare e di cambiare la sua costituzione. Una generazione non ha il diritto di assoggettare le generazioni future alle sue leggi e ogni eredità nelle funzioni è assurda e tirannica”.

Tale articolo, che introduceva anche il principio del continuo ricambio della classe politica, dovrebbe costituire uno punto basilare di ogni ordinamento costituzionale poggiante su basi liberali e democratiche.

Non resta che augurarci che i politici seguano tale esempio. In caso contrario, se hanno intenzione di formare una commissione parlamentare aperta ai tecnici come sembrerebbe in base a recenti dichiarazioni rilasciate da politici di area Pdl, evitino di mascherare tale soluzione definendola subdolamente con il termine “convenzione”. Una commissione parlamentare per le riforme costituzionali sarebbe una moderna riedizione della bicamerali di infausta memoria. Infausta perché sappiamo il risultato fallimentare che hanno prodotto.