Mentre è guerra tra Porcellum e Mattarellum si avvicina l’ora X delle grandi riforme per il Paese


La legge elettorale che ci troviamo tra i piedi è volgarmente conosciuta come Porcellum grazie a un fortunato articolo di Giovanni Sartori che ebbe a coniarla con questa curiosa espressione dopo che il suo estensore, il ministro Roberto Calderoli, non aveva esitato a definirla una “porcata”. La legge non è certamente un modello di democrazia. Due i tratti distintivi che l’hanno resa indigeribile allo stomaco forte degli italiani, i quali – com’è noto – digeriscono (quasi) tutto. Anzitutto il premio di maggioranza pari al 55% dei seggi con cui alla Camera dei Deputati viene favorita la coalizione che ha riscosso il maggior numero di consensi. Nessuno avrebbe alcunché da obiettare se tale coalizione avesse una maggioranza del 51% degli elettori. Il guaio è che il premio scatta in favore di alleanze tra partiti che, pur avendo raggiunto il 40%, il 30% o addirittura il 20% dei voti, costituiscono non già la maggioranza, ma una minoranza ancorché fortissima; una legge che consente ai partiti che sono minoranza nel paese la maggioranza assoluta dei seggi nella Camera dei Deputati è scarsamente compatibile con un regime democratico. Diversa la composizione del Senato, regolato da premi di maggioranza su base regionale. In fondo, la filosofia che sorregge il Porcellum non è molto diversa da quella della legge Acerbo del 1923: promossa per volontà del presidente del consiglio Benito Mussolini in regime non ancora fascista, assegnava il 66% dei seggi alla lista che avesse conseguito il 25% dei voti. Come si vede, cambiano le percentuali ma la filosofia resta la stessa. I partiti – di tutti i colori – non hanno mai cessato di fabbricarsi una legge elettorale tesa ad agevolare la loro marcia per la conquista e la conservazione del potere.

Attualmente sono due gli schieramenti che raccolgono le firme per indire un referendum abrogativo contro la legge vigente. Sono alquanto popolari perché navigano con andatura di poppa grazie al forte vento della partecipazione popolare che è spirato negli ultimi mesi, Del primo fanno parte i “paladini dell’alternanza”: si tratta di un gruppo composto in larghissima parte di esponenti del centrosinistra, da Arturo Parisi a Sofia Ventura, da Antonio Di Pietro a Nichi Vendola. Hanno le idee abbastanza chiare. Intendono ristabilire la normativa precedente al Porcellum, il Mattarellum, denominazione anch’essa di conio sartoriano risalente al suo inventore Sergio Mattarella. Questa legge, che nel nostro paese ha regolato le elezioni politiche dal 1994 al 2005, distribuiva i seggi di Camera e Senato in forza di un meccanismo che per il 75% era informato al sistema uninominale a un solo turno in piccoli collegi (passa il candidato che ha ricevuto i maggiori consensi sul modello inglese) e per il restante 25% da un sistema proporzionale a liste bloccate redatte in via esclusiva dalle segreterie di partito. In altri termini il voto di preferenza dei cittadini, previsto nelle schede dell’uninominale, era limitato dal “proporzionale” a liste bloccate. Si diceva che tale legge avrebbe assicurato stabilità con l’elezione diretta del premier e l’alternanza tra due schieramenti. Come ben previde a suo tempo Giovanni Sartori, i fatti smentirono ampiamente tali  teorie.

I promotori del Mattarellum ritengono che tale legge sia positiva per tre ragioni. Anzitutto perché reintroduce l’importante voto di preferenza. In secondo luogo perché la ristretta dimensione dei collegi uninominali lega maggiormente i candidati ai territori vietando la possibilità di presentarsi contemporaneamente in più collegi. In terzo luogo perché il sistema cosiddetto maggioritario determinerebbe una maggiore tenuta del bipolarismo, il sistema politico fondato sull’alternanza al potere di due schieramenti contrapposti ritenuto fondamentale per la stabilità del Paese. 

Sul primo punto è lecito nutrire alcuni dubbi, visto che il voto di preferenza riguarda solo il 75% dei collegi uninominali dai quali dipenderebbe l’elezione di gran parte del Parlamento. Non si capisce per quale motivo i promotori del Mattarellum, decisi ad abrogare il Porcellum perché antidemocratico, vogliano reintrodurre una legge che, sia pure per il 25% dei seggi, prevede la conservazione delle liste bloccate fatte dai partiti. Se questi sono i democratici che si oppongono al berlusconismo, stiamo freschi. Quanto al secondo punto nulla da obiettare, anche se l’uninominale secco a un turno non mi sembra un procedimento rispettoso delle minoranze, non foss’altro perché vincerebbe qualsiasi candidato abbia riscosso una percentuale di consensi inferiore alla maggioranza assoluta degli elettori (51%). E’ vero che tale sistema funziona bene in Inghilterra, ma questo non è un buon motivo per importarlo in Italia. Il bipartitismo anglosassone, che ha dato buona prova in un sistema di antica unità, non si attaglia al nostro Paese irriducibilmente policentrico, innervato di tradizioni storico culturali, interessi economici e politici troppo diversi per essere ridotti a due partiti o schieramenti contrapposti. Sulla presunta alternanza e governabilità garantite dal Mattarellum, basta confrontare il numero di elezioni con il numero dei governi formati tra il 1994 e il 2005 per accorgersi come tali traguardi siano stati clamorosamente mancati: tre elezioni politiche (1994, 1996, 2001) alle quali si son succeduti sei governi (Berlusconi I, Dini, Prodi, D’Alema, Amato, Berlusconi II).

Il secondo gruppo di oppositori al Porcellum, lungi dal desiderare il Mattarellum, punta ad emendare con referendum abrogativo i tratti più antidemocratici della legge vigente lasciandone invariato l’impianto “proporzionale”. In sostanza vorrebbero tornare alla “Prima Repubblica”, anche se – dell’attuale legge in vigore – resterebbe la clausola di sbarramento al 4% estesa a tutti i partiti. A questo secondo gruppo, animato dal senatore Stefano Passigli e sostenuto dal leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, hanno aderito uomini di cultura come Valerio Onida, Giovanni Sartori, Enzo Cheli, Claudio Abbado. Non è scorretto definirli “i conservatori della Prima Repubblica” perché vorrebbero una legge elettorale con i seguenti requisiti: 1. abolizione del premio di maggioranza  2. reintroduzione del voto di preferenza. 3. divieto ai partiti di unirsi in coalizione; 4. abolizione della norma che prescrive l’indicazione sulla scheda elettorale del candidato premier. Relativamente a ques’ultimo punto, si oppongono all’elezione diretta del presidente del consiglio perché darebbe al nostro ordinamento, formalmente parlamentare, le sembianze di un semi-presidenzialismo non previsto dalla Carta del 1948.

Bisogna riconoscere che il secondo gruppo è mosso da istanze autenticamente democratiche, certamente più vicine alla complessa realtà italiana di quanto non siano i “paladini dell’alternanza”. L’abolizione del premio di maggioranza e la  p i e n a  reintroduzione del voto di preferenza sono proposte condivisibili, ispirate a un maggiore rispetto del voto popolare nella composizione degli organi di rappresentanza e di governo. Qualcuno potrebbe affermare che, senza il premio di maggioranza, torneremmo all’instabilità della Prima Repubblica. E’ un’obiezione palesemente infondata: se i governi – allora come oggi – cadevano dopo pochi anni, questo era dovuto non già alla legge proporzionale, ma alla mancanza nella Costituzione di clausole tese ad assicurare la governabilità. In Germania la sfiducia costruttiva consente esecutivi tendenzialmente stabili, obbligando il Bundestag a dimettere il governo con una maggioranza che sia concorde nell’indicare il nuovo cancelliere. In Francia, ove vige una forma di governo semi-parlamentare, l’assemblea elettivo-rappresentativa  può sfiduciare la parte collegiale del governo (premier e ministri), non il presidente della repubblica titolare del potere esecutivo; quest’ultimo, eletto direttamente dai francesi, detiene peraltro il delicato potere di scioglimento delle camere.

I punti deboli della proposta Passigli sono essenzialmente due: il divieto di formare coalizioni di partiti e il rifiuto dell’elezione popolare del premier, ritenuta incostituzionale. Su quest’ultimo punto i “conservatori della Prima Repubblica” hanno ragione a giudicare scarsamente conciliabile con la forma di governo parlamentare una legge elettorale (sia essa il Porcellum o il Mattarellum) che consente l’iscrizione del candidato premier nella scheda elettorale. Credo tuttavia che i benefici di un’elezione diretta del premier siano senz’altro positivi perché spingono i partiti ad unirsi sulla base di programmi sottoposti al controllo dei cittadini. 

Il problema dell’Italia è la diffusa convinzione che il principio dell’alternanza – principio basato sul sistema politico bipolare – sia un bene per il Paese e non debba in alcun modo essere abbandonato. Hanno ragione i “conservatori della Prima Repubblica” quando sostengono che il bipolarismo di questi ultimi vent’anni sia stato un male per il Paese. Il problema non si risolve tuttavia cambiando unicamente il Porcellum. La “Prima Repubblica” ha sofferto mali peggiori: governi di breve durata, frequenti elezioni, perenne instabilità, politiche economiche irresponsabili. L’unico punto di forza del sistema politico anteriore a Tangentopoli risiedeva nel metodo di concertazione tra i maggiori partiti che sedevano in Parlamento e formavano il governo. Occorre recuperare quel metodo, oggi quanto mai necessario per far dialogare le varie parti del Paese. Ma un governo di larghe intese, sottoposto al controllo dei cittadini, che possa durare una legislatura per affrontare serenamente i problemi del Paese con adeguati strumenti legislativi, può essere ottenuto a mio giudizio con un mutamento della forma di governo parlamentare. Alcuni storceranno il naso ma sessantacinque anni di parlamentarismo hanno dimostrato assai bene come la classe politica italiana sia rimasta in gran parte lontana dall’etica del servizio ai cittadini. Com’è possibile allora conciliare la governabilità con l’esigenza di aprire il governo alle principali forze politiche radicate nelle varie aree del Paese?  

Credo che le soluzioni più opportune siano essenzialmente due, alle quali dovrebbero accompagnarsi riforme radicali che oltrepassano il tema della legge elettorale. Anzitutto occorre inserire nella nostra Costituzione un articolo che introduca un meccanismo di sfiducia costruttiva ancor più rigoroso rispetto a quello vigente in Germania. La sfiducia costruttiva, completamente assente nella nostra Costituzione, andrebbe rafforzata per evitare i colpi di mano dei parlamentari ai danni del governo. La maggioranza qualificata del Parlamento (2/3 dei membri) dovrebbe sfiduciare l’esecutivo a due condizioni: essa sarebbe tenuta ad indicare un candidato premier e, in caso di approvazione della mozione di sfiducia,  lo scioglimento dell’assemblea dovrebbe essere immediato. In tal caso si andrebbe ad elezioni anticipate e gli italiani sarebbero chiamati non solo a rinnovare il parlamento, ma ad eleggere direttamente il presidente del consiglio scegliendo tra il premier sfiduciato e il candidato proposto dall’assemblea. 

La seconda riforma di cui avrebbe bisogno il nostro Paese riguarda la separazione netta tra il governo e il parlamento: chi siede nell’assemblea non dovrebbe mai far parte dell’esecutivo e lo stesso dovrebbe valere per chi esercita funzioni di ministro. In tal modo si taglierebbero alla radice quei conflitti di interesse che spesso decidevano la sorte dei governi nella “Prima Repubblica”. Tale  riforma, come ho già accennato poco sopra, presuppone il cambiamento della forma di governo parlamentare. Non credo che il presidenzialismo statunitense o il sistema semi-parlamentare francese siano adatti al nostro Paese. Credo invece che una forma di governo direttoriale possa conciliare nel modo migliore le diverse Italie in cui il Paese è da sempre articolato.  

L’introduzione di una forma di governo non parlamentare, direttoriale per l’appunto, non può andar disgiunta dall’altra grande riforma clamorosamente mancata nel nostro Paese: il mutamento della forma di Stato. La Repubblica Italiana, una e indivisibile, unitaria e parlamentare, dovrebbe essere sostituita da una Confederazione di tre Repubbliche (Nord Italia, Centro Italia, Sud Italia) governata da un Direttorio composto dai Governatori dei tre Stati italiani (eletti dalle rispettive popolazioni) e da un presidente federale eletto direttamente dai cittadini italiani in due tornate. Composto di poche persone (5 o al massimo 7 direttori), il governo federale sarebbe in grado di esercitare le sue funzioni in modo rapido e incisivo nel rispetto del pluralismo politico territoriale in cui il Paese è articolato da sempre e sotto gli occhi di tutti. In questo modo, trasferendo larga parte delle funzioni politiche e amministrative oggi gestite dal governo nazionale a poteri pubblici territorialmente estesi e soggetti al controllo dei cittadini, sarà possibile conciliare la governabilità con il rispetto rigoroso del pluralismo politico territoriale. I governi delle tre Repubbliche italiane sarebbero anch’essi a forma direttoriale composti dal  Governatore e dai presidenti delle attuali Regioni. 

Un cambiamento di tale portata, che comporterebbe la riforma pressoché integrale della Costituzione repubblicana,  può essere fatto solo in circostanze drammatiche. La situazione critica in cui versa l’Italia dovrebbe spingere gli italiani a (ri)scoprire un modello di convivenza poggiante sul ruolo basilare del pluralismo territoriale. Il che è poi la sostanza del federalismo che, come ci insegnava Gianfranco Miglio, lungi dal fondare l’Unità, tende per sua natura a tutelare e a gestire le diversità. 

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