L’indole dei Milanesi secondo Carlo Cattaneo

Carlo Cattaneo fu autore di un’interessante guida di Milano rimasta purtroppo incompiuta. Mentre leggevo la sua opera, scritta nella prima metà dell’Ottocento, mi son imbattuto in una descrizione dei milanesi che sembra esser fatta da un contemporaneo. Un ritratto straordinariamente moderno se consideriamo che venne scritto nella prima metà dell’Ottocento, nella piccola Milano austriaca popolata da soli 125.000 abitanti: 

“In confronto alle altre città d’Italia, Milano ha minor numero di cruscanti, di puristi, di periodisti, di parolaj d’ogni razza e d’ogni partito. Qui le persone studiose si ingegnano di essere contemporanei del loro secolo e non s’affannano di ritardare, per quanto è lor possibile, i progressi dell’intellettuale perfezionamento ne’ loro concittadini distraendoli dallo studio delle cose a quello di una insetata verbosità”. Appunti per una guida di Milano: un manoscritto inedito di Carlo Cattaneo in «Il Risorgimento», anno XLI (ottobre 1989), fasc. n.3, pp.226-227. 

Date milanesi

25 settembre 1622. Dopo quattordici anni di reclusione nelle tetre case delle Convertite di Santa Valeria (anticamente situate nella via omonima, non molto distanti dal luogo ove oggi si trova l’Università Cattolica), la suora Virginia de Leyva veniva liberata dalla prigionia grazie all’intervento dell’arcivescovo di Milano Federico Borromeo. Si trattava della monaca di Monza, che il Manzoni rese celebre nei capitoli IX e X dei Promessi Sposi


La casa delle Convertite di Santa Valeria venne istituita nel 1532 da alcuni cittadini milanesi, nobili e mercanti. La finalità dell’istituto era di aiutare le prostitute che avessero desiderato cambiar vita per intraprendere un percorso di spiritualità e di purificazione. 
L’anno 1532, facendo riflesso alcuni Cittadini Milanesi parte Nobili e parte Mercanti con zelo del servizio di Dio che nella città scandalosamente vivevano in pubblico peccato molte Donne, risolsero di procurarne a tutto loro potere l’emendazione, e rudurre a stato di penitenza quelle, alle quali si fosse potuto fare conoscere il loro peccato. Per l’effetto suddetto comprarono que’ buoni Cittadini una Casa situata in porta Vercellina sotto la Cura di Santa Valeria, ed in essa cominciarono ad introdurvi tali Donne peccatrici, quali si mantenevano a spese degli Autori di tale conversione.  (S. LATUADA, Descrizione di Milano, Milano 1734, ristampa a cura delle Edizioni La Vita Felice, Milano 1997, tomo IV, pag.213).  
Nel 1561 il Senato, il prestigioso organo giuridico amministrativo che assieme al governatore reggeva la politica dello Stato di Milano, stabilì che le convertite fuggite o sorprese nel tentativo di lasciare le celle non solo fossero bandite da Milano, ma dovessero subire la tortura del marchio infuocato sulla fronte “in segno della disonestà loro”.
Insomma, una specie di San Patrignano per le prostitute, retta però da un regolamento lievemente più severo….

Con il federalismo Roma non sarà l’unica capitale d’Italia

Ieri il presidente della repubblica Giorgio Napolitano ha commemorato il centoquarantesimo anniversario della breccia di Porta Pia. Roma, conquistata dalle truppe italiane il 20 settembre 1870, cessava di essere la sede del potere temporale del Papa e diveniva la nuova capitale del regno d’Italia sabaudo.

Le conseguenze di tale avvenimento furono notevoli e bene ha fatto il Capo dello Stato a ricordarne l’importanza storica. La capitale del regno italiano, che fino a quel momento era stata Firenze, veniva fissata in una città i cui abitanti avevano accolto con scarso entusiasmo i nuovi arrivati, ritenuti quasi responsabili di aver  interrotto la pace secolare del paterno governo pontificio. Ora il nuovo status della città pareva aver esaltato i romani, inducendoli a rivolgere al governo una serie di richieste che potessero degnamente salvaguardare i loro interessi. Ne scriveva amareggiato un uomo politico che aveva voluto ardentemente l’annessione di Roma, Bettino Ricasoli: “i Romani, invece di ringraziare Iddio che senza virtù loro, sono esciti (sic!) da una situazione intollerabile per un popolo che senta un poco di sé, son in piazza di continuo disposti ad agitarsi e ad agitare, e ad imporsi, ultimi aggiunti, alla grande famiglia, con le loro impazienze, con le loro bambocciate. V’è dunque in questa Roma una fatalità che deve rendersi maledetta per l’Italia?” (Ricasoli a Luigi Torelli, 20 novembre 1870). Poche ore prima il generale piemontese Alfonso La Marmora aveva scritto stizzito al primo ministro Giovanni Lanza: “Se i romani anziché esser liberati dagli Italiani, avesser loro fatta l’Italia, non avevano ancor il diritto di elevare tante pretese, e imporsi orgogliosamente alle rimanenti Provincie. A furia di gridare che senza Roma capitale l’Italia non poteva sussistere, questi Signori l’hanno preso sul serio. Ma non mi stupirebbe che tali smodate pretese provocassero una reazione contro Roma” (La Marmora a Lanza, 19 novembre 1870).

Centoquarant’anni dopo la breccia di Porta Pia, le lettere di La Marmora e Ricasoli rivelano una straordinaria attualità. Il governo Berlusconi ha approvato da pochi giorni un decreto legislativo ove sono accresciuti i poteri del Sindaco di Roma in un quadro di speciali autonomie riconosciute alla capitale. Insomma, i discendenti dei romani ex papalini paiono aver degnamente corrisposto ai desideri dei loro avi. Ma il leader della Lega Nord, Umberto Bossi, dopo aver votato in consiglio dei ministri a favore di quel decreto, ha sostenuto la necessità di istituire un’altra capitale nel Nord Italia. Il Capo dello Stato, nel discorso tenuto ieri, ha respinto in via categorica la legittimità di tale ipotesi, sostenendo che Roma continuerà ad essere la sola capitale dello Stato unitario nazionale. Le parole di Napolitano, com’è facile immaginare, hanno finito per deludere quanti si augurano una riforma quasi integrale della Costituzione in chiave confederale.

Ma il presidente della repubblica ha fatto molto di più. Egli ha svelato la sua natura di convinto unitarista e antifederalista, non foss’altro perché, in un ordinamento informato al principio del pluralismo politico territoriale, esiste certamente una capitale sede del potere centrale, ma in essa hanno sede solo una parte dei dicasteri pubblici, essendo gli altri ministeri dislocati nelle città che continuano ad essere capitali di Stati regionali.

Finché non modificheremo l’articolo quinto della Costituzione, la nostra repubblica resterà uno Stato unitario, non federale. L’articolo quinto riconosce infatti l’esistenza di una sola Italia indivisibile, fondata sul decentramento amministrativo e su una vigilata autonomia degli enti locali. Ma un vero ordinamento federale è  informato a princìpi diversi:  le comunità territoriali membri della confederazione, lungi dal rinunciare alla loro sovranità, ne delegano una parte soltanto al potere federale, il quale, per questo motivo, non può  presentare in alcun modo i caratteri di unitarietà e indivisibilità tipici dello Stato moderno.

La proposta di Bossi mi sembra quindi sensata in un quadro di riforma costituzionale in senso autenticamente federale. Plausibile d’altra parte sarà anche ogni proposta che i politici centro meridionali volessero avanzare in Parlamento o in Consiglio dei Ministri per restituire a Napoli, a Firenze, o a Palermo il loro antico status di capitali.

La boutade di Bossi e i ministeri da riportare nelle ex capitali italiane

Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha detto no ad Umberto Bossi che ieri, al tradizionale raduno di Venezia, proponeva di decentrare alcuni ministeri nelle città italiane, in particolar modo nei maggiori centri della Padania. Tale ipotesi,, ha affermato Alemanno, sarebbe irrealizzabile perché, oltre ad avere costi altissimi, nuocerebbe gravemente alla funzionalità del governo. Sono seguite le dichiarazioni dei ministri Renato Brunetta, Maurizio Sacconi e Giancarlo Galan, i quali hanno tranquillizzato il sindaco di Roma affermando che in consiglio dei ministri non è stato presentato alcun disegno di legge che vada in quella direzione.

La proposta di Bossi sembrerebbe avere il sapore della boutade lanciata dal leader per galvanizzare i suoi seguaci. Eppure, a ben vedere, l’idea è assai meno peregrina di quanto si potrebbe immaginare.
Alemanno ha ragione nell’indicare i problemi economici legati al trasferimento del personale o all’acquisto di vasti edifici nelle città ove verrebbero fissate le sedi centrali dei dicasteri. Tuttavia, in una riforma dell’ordinamento repubblicano che vuole essere autenticamente federale mi sembra naturale mettere in conto, tra i vari provvedimenti, il decentramento di una parte dei ministeri che oggi hanno sede a Roma. Non credo siano spese inutili e, se fatte in modo sensato, contribuirebbero certamente ad avvicinare i cittadini alle istituzioni.

I tedeschi, quando fondarono la repubblica federale nel 1949, lungi dal concentrare nella capitale tutti i dicasteri, decisero fin dall’inizio di realizzare il decentramento dei ministeri rompendo definitivamente con la vecchia organizzazione accentrata di stile prussiano e in parte weimariano.

Uno studio pubblicato sedici anni fa dalla Fondazione Agnelli, Capitale reticolare e riforma dello Stato («XXI Secolo», anno VI, numero 1/9, gennaio 1994),  ha dimostrato come in Germania la soluzione di decentrare gli uffici federali nelle città tedesche si sia rivelata vincente e abbia consentito nel tempo il buongoverno del paese.

Certo, la riunificazione ha indotto i tedeschi  a trasferire a Berlino la sede centrale di molti ministeri. Questo tuttavia non ha impedito che molti uffici e dipartimenti pubblici restassero nelle altre città germaniche. Oggi, delle quattordici sedi centrali di ministeri federali, otto hanno sede a Berlino, sei nell’antica capitale della repubblica federale, la cittadina di Bonn. I supremi tribunali federali come la Corte Costituzionale e la Corte Suprema Federale hanno sede a Karlsruhe (Land Baden Wurtemberg); gli uffici centrali della Bundesbank, com’è fin troppo noto, sono a Francoforte (Land Assia).

Se vogliamo fare dell’Italia una repubblica federale, faremmo bene a prendere seriamente in considerazione la proposta della Lega. D’altra parte la storia italiana è caratterizzata dalla presenza secolare di città che furono antiche capitali di stati regionali, sedi di burocrazie fin dalla costituzione dei primi poteri pubblici territoriali.

In assenza di un disegno di legge, concludo lanciando un’ipotesi di spostamento di alcune istituzioni, ministeri e supremi tribunali dello stato in città italiane ex capitali:

Ministero dell’Università a Bologna
Ministero dell’Economia a Milano
Banca d’Italia a Milano
Ministero delle Infrastrutture e Trasporti a Milano
Consiglio di Stato a Genova
Corte Costituzionale a Venezia
Ministero della Difesa a Torino
Ministero dei Beni Culturali a Firenze
Ministero degli Affari Esteri a Roma
Direzioni generali del Ministero dell’Interno a Roma e a Modena
Ministero della Giustizia a Napoli
Direzioni generali del Ministero dell’Ambiente, Tutela del territorio e del Mare a Palermo e a Parma.

Date milanesi

9 settembre 1861. Il sindaco di Milano Antonio Beretta rese noto il trasferimento della giunta e degli uffici comunali nel palazzo Marino. Allo Stato italiano, costituito da pochi mesi, venivano ceduti i locali dell’antica sede del municipio, il “Broletto novissimo” sito nella via omonima.
Costruito dal finanziere genovese Tommaso Marino, che aveva accumulato ingenti ricchezze mediante la gestione dell’appalto del sale per lo Stato di Milano, il palazzo si segnala per la veste architettonica fastosa e imponente. I lavori iniziarono nel  1558, diretti dall’architetto Galeazzo Alessi. L’andamento delle operazioni fu assai lungo e si rivelò ben presto oneroso per le tasche del ricco genovese, il quale fu costretto a chiedere aiuti e sovvenzioni alla Regia Camera. Ciononostante, due anni dopo il Marino continuò a dare disposizioni perché “gagliardamente si fabbrichi nel suo palatio, il quale, finito, sarà il più bello che si trovi in cristianità e costaragli un pozzo d’oro” (sic!). 
Sul palazzo circolava tra i milanesi una lugubre profezia legata alle spregiudicate e criminose operazioni della famiglia Marino: 
Congeries lapidum, multis congesta ruinis, 
Aut ruet aut uret aut alter captor rapiet
(Ammasso di pietre, messo insieme con molte sciagure, 
o crollerà, o brucerà oppure un altro prepotente conquisterà).
E’ lecito chiedersi se gli inquilini di palazzo Marino siano a conoscenza di questa innocua profezia meneghina.

Fini e la svolta di Mirabello

Il discorso che Gianfranco Fini ha tenuto nella cittadina ferrarese di Mirabello ha il sapore di una sfida lanciata a Silvio Berlusconi e a Umberto Bossi. Certo, Fini si è guardato bene dall’attaccare frontalmente il governo, denunciando tout court la politica seguita dal centro destra. Ma è facile intravedere, nella studiata moderazione delle sue parole, un attacco esplicito ai partiti che hanno vinto le elezioni del 2008.
Il Popolo della Libertà e la Lega Nord vengono accusati di aver perseguito troppo spesso, nell’azione del governo, interessi particolari di territori o di categorie di cittadini a danno di altre. Fini ha criticato i provvedimenti di contenimento della spesa pubblica portati avanti dal governo, puntando l’indice contro i tagli ai fondi per la polizia, alle risorse per la pubblica istruzione, lasciandosi andare a una serie di critiche che neppure l’opposizione ha saputo fare in questi anni con pari intensità. Sulla riforma del processo breve, il presidente della Camera ha difeso la Magistratura affermando che “il garantismo non può essere mai considerato una sorte di immunità permanente”. Evidente il riferimento ai progetti del governo sul “processo breve” o alla polemica insorta alcuni mesi fa sul disegno di legge relativo alle intercettazioni.
Insomma, il suo è stato un discorso da vero leader politico, il che finisce per rendere assai poco credibile il ruolo di terzietà e di garanzia richiesto dall’ufficio di presidente della Camera. Oggi Berlusconi, dopo l’accordo preso ieri al vertice di Arcore con Umberto Bossi, salirà al Colle per chiedere al presidente della Repubblica di convincere Fini a dimettersi dall’incarico che attualmente ricopre. Una richiesta che i finiani hanno buon gioco a definire irricevibile, visto che in questa Costituzione parlamentare il Capo dello Stato, quale garante dell’ordinamento repubblicano, non può arrogarsi il compito di dimettere il presidente di un’assemblea parlamentare o fare pressioni perché questi lasci l’incarico.        
A Mirabello Fini ha denunciato l’assenza nel Popolo della Libertà di uno spazio per una sana dialettica tra le varie correnti, sostenendo che la politica – nel senso etimologico del termine – dovrebbe tendere costantemente alla promozione del bene della comunità (dal greco antico: polis, città, comunità). Fini ha ragione nel contestare al Pdl una gestione scarsamente rispettosa nei confronti di chi la pensa diversamente da Berlusconi. Ma un partito ove la linea del Capo riscuote il consenso del 90% dei seguaci attivi, avrebbe dovuto fargli capire che la discussione di idee alternative a quelle della stragrande maggioranza viene a cessare una volta che la linea da seguire sia stata decisa. Rilasciando continue dichiarazioni in polemica con Berlusconi, Fini sembra aver rubato il mestiere all’opposizione. Berlusconi e Bossi hanno buone ragioni per chiedere le dimissioni al presidente della Camera, ma sbagliano a fare pressioni sul Capo dello Stato perché la Costituzione vigente non prevede che il presidente della Repubblica possa svolgere il compito ch’essi vorrebbero attribuirgli.
Prendendo in esame con il metodo della scienza politica quanto sta avvenendo nel centrodestra,  non Fini, ma  il Cavaliere sembra esser rimasto coerente  alla  s u a   politica, il che può sembrare un paradosso ma è difficilmente contestabile. Berlusconi ha ottenuto un notevole sostegno popolare nel corso di questi quindici anni: assieme alla Lega, rappresenta la promessa di un cambiamento radicale dell’ordinamento costituzionale in netta rottura con i tradizionali equilibri della cosiddetta Prima Repubblica. La riforma della Carta in senso federale e presidenziale costituisce la chiave di volta dell’accordo tra Berlusconi e Bossi. 
In questi ultimi anni, Fini ha dimostrato invece di credere nella validità dei principi cardine su cui si regge la Costituzione parlamentare. Egli si è posto in tal modo sulla stessa linea d’onda del centro sinistra. Credo che il  partito che si accinge a fondare non avrà molta fortuna, e questo per la sua affinità con il Partito democratico, con l’Udc di Casini, con il movimento di Rutelli. 
Le leggi della politica, diceva Max Weber, non si fondano sui dubbi e sui compromessi, bensì sulle certezze e sulla fedeltà del leader ai valori guida del movimento. Gianfranco Fini, criticando pubblicamente una parte rilevante dei provvedimenti del governo, non solo ha tradito la funzione di terzietà che dovrebbe spettare al presidente della Camera, ma ha finito per smontare i valori guida su cui si regge l’operato del governo. In tal modo, egli si è fatto portatore di  valori   a l t e r n a t i v i  ed  o p p o s t i  a quelli di Berlusconi e della Lega, seguendo una politica che non può essere accettata in alcun modo dai suoi (ex) compagni di coalizione.
E’ facile immaginare che nei prossimi mesi i gruppi parlamentari di Futuro e Libertà, costituiti per iniziativa di Fini, avranno due obiettivi. Annientare il Pdl berlusconiano e fermare la Lega. Una strategia condivisa ovviamente dall’Udc, da  Rutelli, dal Partito democratico e dall’Italia dei Valori: tutti uniti nel fermare ogni ipotesi di cambiamento radicale dell’ordinamento costituzionale.
Ma il presidente della Camera intende fare molto di più. Egli vuole salvare l’Italia così com’è,  “una e indivisibile”, opponendosi ad ogni riforma in senso autenticamente federale. Difatti a Mirabello non sono mancati attacchi nei confronti del programma della Lega. “Solo un ignorante di storia e geografia può credere all’esistenza della Padania” ha detto il presidente della Camera, aggiungendo che uno Stato regionale indipendente non potrebbe reggere in alcun modo una crisi economica come quella appena passata. “Se la crisi ha provato duramente un colosso come la Germania, figuriamoci cosa sarebbe accaduto se ci fosse stata una Padania indipendente” ha detto Fini. Sull’attendibilità di quest’analisi è lecito nutrire qualche dubbio. Seguendo il suo ragionamento, gli Stati piccoli non avrebbero alcuna chance nel mondo globale. Se le cose stessero realmente in questi termini, paesi come la Repubblica Ceca, la Slovenia, l’Austria, il Belgio, l’Olanda o i paesi scandinavi  – tutti con  popolazioni al di sotto dei 20 milioni di abitanti – non dovrebbero esistere. Invece non solo esistono,  ma sono anche ben governati e amministrati come dimostrano le statistiche del World Economic Forum.
Ma, tornando al tema Padania, credo siano opportune alcune precisazioni. Relativamente alle nozioni geografiche, basta aprire il manuale di Geografia economica e sociale di Angelo Mariani, edito da Hoepli or son precisamente cent’anni, nel 1910, per trovare notizie particolarmente “scomode” per quanti negano l’esistenza di una Padania geografica: il concetto geoeconomico di Padania viene infatti preso in esame mettendo in luce i suoi elementi di diversità dall’Appenninia. Non basta. Quasi settant’anni dopo, il geografo Jean Gottmann, in un saggio pubblicato nel 1978 nel volume curato da Calogero Muscarà (Megalopoli mediterranea,  Milano, Franco Angeli 1978) confermò la prospettiva di una megalopoli padana. Insomma, solo i geografi influenzati dai valori dello Stato nazionale italiano hanno negato negli ultimi mesi  l’esistenza geografica della Padania.
Relativamente alla storia, Fini ha ragione nel sostenere che uno Stato esteso a tutto il Nord Italia non è mai esistito. Ma non si può sapere cosa avverrà nei prossimi anni. In fondo, chi avrebbe mai immaginato, nell’Europa della Restaurazione, che gran parte della penisola italiana sarebbe stata unificata in soli due anni da un piccolo Stato regionale come il Piemonte dei Savoia? Eppure fu quel che accadde, principalmente grazie all’opera di un politico spregiudicato come il conte di Cavour. Allo stesso modo, non vedo come si possa escludere che l’Italia torni ad essere nei prossimi anni un’espressione geografica, una penisola articolata in più Stati come la Scandinavia. 

Moratti bis? Non è il caso…

L’anno prossimo i milanesi saranno chiamati ad eleggere il sindaco. Il bilancio dell’amministrazione Moratti non è entusiasmante. Milano continua ad essere una città invivibile, inquinata e sporca. I lavori per l’Expo 2015 sembrano bloccati o in colpevole ritardo nella tabella di marcia. Le infiltrazioni della criminalità organizzata nel mondo degli appalti sono diventate comuni e restano per lo più impunite. La scelta di introdurre l’Ecopass facendo pagare agli automobilisti l’ingresso nel centro storico è stata a dir poco negativa: ha salassato i milanesi e non mi pare sia riuscita a ridurre in modo incisivo l’inquinamento, che resta il nemico più pericoloso per quanti abitano nella città del Duomo. D’altra parte bisogna riconoscere che nei quattro anni di amministrazione Moratti ci siano anche delle belle pagine. Ad esempio il bike sharing – il noleggio delle biciclette che il Comune ha reso disponibile da pochi anni –  costituisce per i milanesi un servizio importante. Eppure, anche qui, non mancano i dati negativi: le piste ciclabili non sono sufficienti a garantire una perfetta circolazione dei velocipedi e le stazioni ove è possibile noleggiare la bicicletta sono pressoché assenti nelle periferie. Insomma, c’è ancora molto da fare.

Il sindaco Moratti intende ricandidarsi alle elezioni amministrative del prossimo anno. Nel Pdl cittadino serpeggiano malumori. Evidentemente si devono essere accorti che la giunta attuale ha deluso una parte notevole di milanesi. La Lega Nord non ha esitato a render note, alcuni mesi fa, le più forti riserve nei confronti della nuova candidatura della signora Moratti. Alla fine Berlusconi, come al solito, riuscirà a sciogliere il nodo gordiano e preparerà accuratamente  la nuova scalata a palazzo Marino. A mio parere, è auspicabile che il centrodestra richiami il buon Gabriele Albertini, che ha già amministrato la città dal 1997 al 2006 e non mi pare che abbia fatto in quel periodo una pessima prova. I milanesi lo riconfermarono infatti nelle elezioni amministrative del 2001. Se verrà dato l’ok alla ricandidatura del sindaco Moratti, il centrodestra rischierà di perdere clamorosamente il Comune di Milano.                 

Dall’altra parte dello schieramento politico, nel centrosinistra, si sono fatti avanti Stefano Boeri e Giuliano Pisapia. Sono convinto che Philippe Daverio sia l’unica persona che potrebbe far vincere il centro sinistra. Brillante uomo di cultura,  milanese doc, Daverio saprebbe amministrare bene la città perché conosce a fondo la storia di Milano (il che, al giorno d’oggi, non è da tutti) e possiede quelle doti intellettuali che, messe adeguatamente a frutto, potrebbero contribuire a fare di Milano una capitale europea, una città più aperta all’innovazione di quanto lo sia ora, amministrata da una squadra impegnata a 360 gradi nella valorizzazione del patrimonio storico, artistico e paesaggistico (i Navigli in primis).

Mi chiedo se il dottor Daverio sia disponibile a ricoprire l’ufficio di Sindaco di Milano. Il sottoscritto, che non è elettore del centrosinistra ma appartiene ai federalisti milanesi parzialmente delusi dall’amministrazione Moratti, lo voterebbe senza esitazioni.

Date milanesi

Il 3 settembre 1402 moriva a Melegnano Gian Galeazzo Visconti, primo duca di Milano. Sotto il suo governo lo Stato milanese conseguì la sua massima estensione territoriale.
Fu uomo di Stato e politico spregiudicato. Nel 1385 uccise lo zio Bernabò conquistando la signoria su Milano e sulle altre città lombarde. Negli anni seguenti condusse un’audace e brillante campagna di espansione territoriale, ottenendo il dominio sulle città di Verona, Vicenza, Padova, Pisa, Siena, Perugia, Assisi e Bologna.
Sotto il suo governo Milano divenne una città ricca e popolosa. A lui si deve la costruzione del Duomo di Milano e della Certosa di Pavia.

Per volontà testamentaria, il suo corpo venne smembrato: le viscere portate nella chiesa di Sant’Antonio di Vienne in Francia, il cuore conservato nella chiesa di San Michele di Pavia, il corpo nella Certosa. Il funerale fu grandioso e spettacolare. La cura per gli allestimenti scenici era fatta per mostrare la potenza cui era giunto il ducato visconteo. Lo storico erudito Giorgio Giulini, nella sua storia di Milano pubblicata tra il 1760 e il 1775, ne fornì una memorabile descrizione.

“La gran processione cominciò dal castello di Porta Giovia (l’attuale Castello Sforzesco, ndr), e terminò nella chiesa maggiore (il Duomo), e così lunga fu la funzione che appena potette compirsi nello spazio di quattordici ore. […]
Fra i legati del Milanese v’ebbero luogo quelli di Varese, di Lecco e di Monza…a tutti questi aggiungevasi un gran numero di nobili delle medesime città e luoghi dello stato. Vennero poi tutti gli ordini religiosi, i canonici regolari, ed il clero secolare, e poi gli abati e i vescovi di tutte le città suddite. Seguivano le insegne delle medesime città e de’ luoghi principali, portate da dugento quaranta (240) uomini a cavallo, dietro ai quali otto uomini a cavallo con le insegne ducali. Dopo questi si videro 2000 uomini vestiti a bruno, colle armi della vipera del ducato di Milano e del contado di Pavia cucite nel petto e sulle spalle, portando in mano grossi torchi (torce) di cera. Quindi cominciò ad apparire il clero e i canonici ordinari della metropolitana, e per ultimo l’arcivescovo Pietro da Candia con altri arcivescovi e vescovi, avanti la cassa.

Quella cassa, per altro vuota, era portata da gran numero de’ signori principali forestieri, e così pure era portato il baldacchino di broccato d’oro foderato d’ermellini sopra di essa, circondato da ogni parte da gran numero di cortigiani tutti vestiti a lutto, dodici de’ quali, e poi dodici altri, portavano gli scudi delle varie insegne del duca e fra le altre la tortorella o piccione col raggio di sole ch’egli aveva eletta per suo simbolo, ed il simbolo della ginestra e quello dell’imperatore”.

G. GIULINI, Memorie di Milano ne’ secoli bassi, Milano, Cisalpino Goliardica 1975 (ristampa anastatica dell’edizione del 1857), vol. VI, pp.59-60

Bozzetti satirici da frammenti di storia/2

Pseudolettera di Pietro Verri ai fratelli e agli amici, Milano 2 settembre 1761

“Il Signor Conte di Firmian (Carlo di Firmian, ministro plenipotenziario della Lombardia austriaca, potente uomo di governo in costante rapporto con l’imperatrice Maria Teresa e con i supremi funzionari di Vienna, ndr) mi fece cento proteste di amicizia, e che voleva che travagliassimo assieme, m’invitò varie volte a pranzo, e non mi ha mai dato cosa alcuna da fare.

Io ho creduto di dargli un saggio di me con una scrittura che mette in chiaro le regalie del sale (diritto del sovrano in materia fiscale, Ndr), le variazioni che hanno sofferte nei tempi passati, il sistema attuale etc. e con questa occasione vi si è fatto luogo a toccare alcune idee generali. Gliel’ho consegnata ricopiata di mio carattere nel mese scorso, e non vi ho acquistato altro se non che ora nemmeno m’invita a pranzo”.

Pseudolettera di Gianfranco Fini ai suoi fratelli di partito e agli amici, 2 settembre 2010

“Il Signor Gianni Letta (ministro plenipotenziario, potente uomo di governo dell’imperatore di Arcore) mi fece cento proteste di amicizia, desiderava che lavorassimo assieme per tutelare gli interessi comuni e m’invitò varie volte a pranzo.

Io credetti di dargli un’idea della mia fedeltà alle istituzioni repubblicane, facendogli un discorso che voleva mettere in chiaro le regole del sistema parlamentare – sale della democrazia – i mutamenti che esso ha sofferto nei tempi passati, la degenerazione in cui versa l’attuale regime. Finimmo per parlare di questioni costituzionali. Alla fine….non vi ho acquistato altro se non che ora nemmeno m’invita a pranzo”.