Carlo Cattaneo fu autore di un’interessante guida di Milano rimasta purtroppo incompiuta. Mentre leggevo la sua opera, scritta nella prima metà dell’Ottocento, mi son imbattuto in una descrizione dei milanesi che sembra esser fatta da un contemporaneo. Un ritratto straordinariamente moderno se consideriamo che venne scritto nella prima metà dell’Ottocento, nella piccola Milano austriaca popolata da soli 125.000 abitanti:
“In confronto alle altre città d’Italia, Milano ha minor numero di cruscanti, di puristi, di periodisti, di parolaj d’ogni razza e d’ogni partito. Qui le persone studiose si ingegnano di essere contemporanei del loro secolo e non s’affannano di ritardare, per quanto è lor possibile, i progressi dell’intellettuale perfezionamento ne’ loro concittadini distraendoli dallo studio delle cose a quello di una insetata verbosità”. Appunti per una guida di Milano: un manoscritto inedito di Carlo Cattaneo in «Il Risorgimento», anno XLI (ottobre 1989), fasc. n.3, pp.226-227.
Archivio mensile:Settembre 2010
Date milanesi
La casa delle Convertite di Santa Valeria venne istituita nel 1532 da alcuni cittadini milanesi, nobili e mercanti. La finalità dell’istituto era di aiutare le prostitute che avessero desiderato cambiar vita per intraprendere un percorso di spiritualità e di purificazione.
Con il federalismo Roma non sarà l’unica capitale d’Italia
Ieri il presidente della repubblica Giorgio Napolitano ha commemorato il centoquarantesimo anniversario della breccia di Porta Pia. Roma, conquistata dalle truppe italiane il 20 settembre 1870, cessava di essere la sede del potere temporale del Papa e diveniva la nuova capitale del regno d’Italia sabaudo.
Le conseguenze di tale avvenimento furono notevoli e bene ha fatto il Capo dello Stato a ricordarne l’importanza storica. La capitale del regno italiano, che fino a quel momento era stata Firenze, veniva fissata in una città i cui abitanti avevano accolto con scarso entusiasmo i nuovi arrivati, ritenuti quasi responsabili di aver interrotto la pace secolare del paterno governo pontificio. Ora il nuovo status della città pareva aver esaltato i romani, inducendoli a rivolgere al governo una serie di richieste che potessero degnamente salvaguardare i loro interessi. Ne scriveva amareggiato un uomo politico che aveva voluto ardentemente l’annessione di Roma, Bettino Ricasoli: “i Romani, invece di ringraziare Iddio che senza virtù loro, sono esciti (sic!) da una situazione intollerabile per un popolo che senta un poco di sé, son in piazza di continuo disposti ad agitarsi e ad agitare, e ad imporsi, ultimi aggiunti, alla grande famiglia, con le loro impazienze, con le loro bambocciate. V’è dunque in questa Roma una fatalità che deve rendersi maledetta per l’Italia?” (Ricasoli a Luigi Torelli, 20 novembre 1870). Poche ore prima il generale piemontese Alfonso La Marmora aveva scritto stizzito al primo ministro Giovanni Lanza: “Se i romani anziché esser liberati dagli Italiani, avesser loro fatta l’Italia, non avevano ancor il diritto di elevare tante pretese, e imporsi orgogliosamente alle rimanenti Provincie. A furia di gridare che senza Roma capitale l’Italia non poteva sussistere, questi Signori l’hanno preso sul serio. Ma non mi stupirebbe che tali smodate pretese provocassero una reazione contro Roma” (La Marmora a Lanza, 19 novembre 1870).
Centoquarant’anni dopo la breccia di Porta Pia, le lettere di La Marmora e Ricasoli rivelano una straordinaria attualità. Il governo Berlusconi ha approvato da pochi giorni un decreto legislativo ove sono accresciuti i poteri del Sindaco di Roma in un quadro di speciali autonomie riconosciute alla capitale. Insomma, i discendenti dei romani ex papalini paiono aver degnamente corrisposto ai desideri dei loro avi. Ma il leader della Lega Nord, Umberto Bossi, dopo aver votato in consiglio dei ministri a favore di quel decreto, ha sostenuto la necessità di istituire un’altra capitale nel Nord Italia. Il Capo dello Stato, nel discorso tenuto ieri, ha respinto in via categorica la legittimità di tale ipotesi, sostenendo che Roma continuerà ad essere la sola capitale dello Stato unitario nazionale. Le parole di Napolitano, com’è facile immaginare, hanno finito per deludere quanti si augurano una riforma quasi integrale della Costituzione in chiave confederale.
Ma il presidente della repubblica ha fatto molto di più. Egli ha svelato la sua natura di convinto unitarista e antifederalista, non foss’altro perché, in un ordinamento informato al principio del pluralismo politico territoriale, esiste certamente una capitale sede del potere centrale, ma in essa hanno sede solo una parte dei dicasteri pubblici, essendo gli altri ministeri dislocati nelle città che continuano ad essere capitali di Stati regionali.
Finché non modificheremo l’articolo quinto della Costituzione, la nostra repubblica resterà uno Stato unitario, non federale. L’articolo quinto riconosce infatti l’esistenza di una sola Italia indivisibile, fondata sul decentramento amministrativo e su una vigilata autonomia degli enti locali. Ma un vero ordinamento federale è informato a princìpi diversi: le comunità territoriali membri della confederazione, lungi dal rinunciare alla loro sovranità, ne delegano una parte soltanto al potere federale, il quale, per questo motivo, non può presentare in alcun modo i caratteri di unitarietà e indivisibilità tipici dello Stato moderno.
La proposta di Bossi mi sembra quindi sensata in un quadro di riforma costituzionale in senso autenticamente federale. Plausibile d’altra parte sarà anche ogni proposta che i politici centro meridionali volessero avanzare in Parlamento o in Consiglio dei Ministri per restituire a Napoli, a Firenze, o a Palermo il loro antico status di capitali.
La boutade di Bossi e i ministeri da riportare nelle ex capitali italiane
Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha detto no ad Umberto Bossi che ieri, al tradizionale raduno di Venezia, proponeva di decentrare alcuni ministeri nelle città italiane, in particolar modo nei maggiori centri della Padania. Tale ipotesi,, ha affermato Alemanno, sarebbe irrealizzabile perché, oltre ad avere costi altissimi, nuocerebbe gravemente alla funzionalità del governo. Sono seguite le dichiarazioni dei ministri Renato Brunetta, Maurizio Sacconi e Giancarlo Galan, i quali hanno tranquillizzato il sindaco di Roma affermando che in consiglio dei ministri non è stato presentato alcun disegno di legge che vada in quella direzione.
La proposta di Bossi sembrerebbe avere il sapore della boutade lanciata dal leader per galvanizzare i suoi seguaci. Eppure, a ben vedere, l’idea è assai meno peregrina di quanto si potrebbe immaginare.
Alemanno ha ragione nell’indicare i problemi economici legati al trasferimento del personale o all’acquisto di vasti edifici nelle città ove verrebbero fissate le sedi centrali dei dicasteri. Tuttavia, in una riforma dell’ordinamento repubblicano che vuole essere autenticamente federale mi sembra naturale mettere in conto, tra i vari provvedimenti, il decentramento di una parte dei ministeri che oggi hanno sede a Roma. Non credo siano spese inutili e, se fatte in modo sensato, contribuirebbero certamente ad avvicinare i cittadini alle istituzioni.
I tedeschi, quando fondarono la repubblica federale nel 1949, lungi dal concentrare nella capitale tutti i dicasteri, decisero fin dall’inizio di realizzare il decentramento dei ministeri rompendo definitivamente con la vecchia organizzazione accentrata di stile prussiano e in parte weimariano.
Uno studio pubblicato sedici anni fa dalla Fondazione Agnelli, Capitale reticolare e riforma dello Stato («XXI Secolo», anno VI, numero 1/9, gennaio 1994), ha dimostrato come in Germania la soluzione di decentrare gli uffici federali nelle città tedesche si sia rivelata vincente e abbia consentito nel tempo il buongoverno del paese.
Certo, la riunificazione ha indotto i tedeschi a trasferire a Berlino la sede centrale di molti ministeri. Questo tuttavia non ha impedito che molti uffici e dipartimenti pubblici restassero nelle altre città germaniche. Oggi, delle quattordici sedi centrali di ministeri federali, otto hanno sede a Berlino, sei nell’antica capitale della repubblica federale, la cittadina di Bonn. I supremi tribunali federali come la Corte Costituzionale e la Corte Suprema Federale hanno sede a Karlsruhe (Land Baden Wurtemberg); gli uffici centrali della Bundesbank, com’è fin troppo noto, sono a Francoforte (Land Assia).
Se vogliamo fare dell’Italia una repubblica federale, faremmo bene a prendere seriamente in considerazione la proposta della Lega. D’altra parte la storia italiana è caratterizzata dalla presenza secolare di città che furono antiche capitali di stati regionali, sedi di burocrazie fin dalla costituzione dei primi poteri pubblici territoriali.
In assenza di un disegno di legge, concludo lanciando un’ipotesi di spostamento di alcune istituzioni, ministeri e supremi tribunali dello stato in città italiane ex capitali:
Ministero dell’Università a Bologna
Ministero dell’Economia a Milano
Banca d’Italia a Milano
Ministero delle Infrastrutture e Trasporti a Milano
Consiglio di Stato a Genova
Corte Costituzionale a Venezia
Ministero della Difesa a Torino
Ministero dei Beni Culturali a Firenze
Ministero degli Affari Esteri a Roma
Direzioni generali del Ministero dell’Interno a Roma e a Modena
Ministero della Giustizia a Napoli
Direzioni generali del Ministero dell’Ambiente, Tutela del territorio e del Mare a Palermo e a Parma.
Date milanesi
Fini e la svolta di Mirabello
Moratti bis? Non è il caso…
L’anno prossimo i milanesi saranno chiamati ad eleggere il sindaco. Il bilancio dell’amministrazione Moratti non è entusiasmante. Milano continua ad essere una città invivibile, inquinata e sporca. I lavori per l’Expo 2015 sembrano bloccati o in colpevole ritardo nella tabella di marcia. Le infiltrazioni della criminalità organizzata nel mondo degli appalti sono diventate comuni e restano per lo più impunite. La scelta di introdurre l’Ecopass facendo pagare agli automobilisti l’ingresso nel centro storico è stata a dir poco negativa: ha salassato i milanesi e non mi pare sia riuscita a ridurre in modo incisivo l’inquinamento, che resta il nemico più pericoloso per quanti abitano nella città del Duomo. D’altra parte bisogna riconoscere che nei quattro anni di amministrazione Moratti ci siano anche delle belle pagine. Ad esempio il bike sharing – il noleggio delle biciclette che il Comune ha reso disponibile da pochi anni – costituisce per i milanesi un servizio importante. Eppure, anche qui, non mancano i dati negativi: le piste ciclabili non sono sufficienti a garantire una perfetta circolazione dei velocipedi e le stazioni ove è possibile noleggiare la bicicletta sono pressoché assenti nelle periferie. Insomma, c’è ancora molto da fare.
Il sindaco Moratti intende ricandidarsi alle elezioni amministrative del prossimo anno. Nel Pdl cittadino serpeggiano malumori. Evidentemente si devono essere accorti che la giunta attuale ha deluso una parte notevole di milanesi. La Lega Nord non ha esitato a render note, alcuni mesi fa, le più forti riserve nei confronti della nuova candidatura della signora Moratti. Alla fine Berlusconi, come al solito, riuscirà a sciogliere il nodo gordiano e preparerà accuratamente la nuova scalata a palazzo Marino. A mio parere, è auspicabile che il centrodestra richiami il buon Gabriele Albertini, che ha già amministrato la città dal 1997 al 2006 e non mi pare che abbia fatto in quel periodo una pessima prova. I milanesi lo riconfermarono infatti nelle elezioni amministrative del 2001. Se verrà dato l’ok alla ricandidatura del sindaco Moratti, il centrodestra rischierà di perdere clamorosamente il Comune di Milano.
Dall’altra parte dello schieramento politico, nel centrosinistra, si sono fatti avanti Stefano Boeri e Giuliano Pisapia. Sono convinto che Philippe Daverio sia l’unica persona che potrebbe far vincere il centro sinistra. Brillante uomo di cultura, milanese doc, Daverio saprebbe amministrare bene la città perché conosce a fondo la storia di Milano (il che, al giorno d’oggi, non è da tutti) e possiede quelle doti intellettuali che, messe adeguatamente a frutto, potrebbero contribuire a fare di Milano una capitale europea, una città più aperta all’innovazione di quanto lo sia ora, amministrata da una squadra impegnata a 360 gradi nella valorizzazione del patrimonio storico, artistico e paesaggistico (i Navigli in primis).
Mi chiedo se il dottor Daverio sia disponibile a ricoprire l’ufficio di Sindaco di Milano. Il sottoscritto, che non è elettore del centrosinistra ma appartiene ai federalisti milanesi parzialmente delusi dall’amministrazione Moratti, lo voterebbe senza esitazioni.
Date milanesi
Il 3 settembre 1402 moriva a Melegnano Gian Galeazzo Visconti, primo duca di Milano. Sotto il suo governo lo Stato milanese conseguì la sua massima estensione territoriale.
Fu uomo di Stato e politico spregiudicato. Nel 1385 uccise lo zio Bernabò conquistando la signoria su Milano e sulle altre città lombarde. Negli anni seguenti condusse un’audace e brillante campagna di espansione territoriale, ottenendo il dominio sulle città di Verona, Vicenza, Padova, Pisa, Siena, Perugia, Assisi e Bologna.
Sotto il suo governo Milano divenne una città ricca e popolosa. A lui si deve la costruzione del Duomo di Milano e della Certosa di Pavia.
Per volontà testamentaria, il suo corpo venne smembrato: le viscere portate nella chiesa di Sant’Antonio di Vienne in Francia, il cuore conservato nella chiesa di San Michele di Pavia, il corpo nella Certosa. Il funerale fu grandioso e spettacolare. La cura per gli allestimenti scenici era fatta per mostrare la potenza cui era giunto il ducato visconteo. Lo storico erudito Giorgio Giulini, nella sua storia di Milano pubblicata tra il 1760 e il 1775, ne fornì una memorabile descrizione.
“La gran processione cominciò dal castello di Porta Giovia (l’attuale Castello Sforzesco, ndr), e terminò nella chiesa maggiore (il Duomo), e così lunga fu la funzione che appena potette compirsi nello spazio di quattordici ore. […]
Fra i legati del Milanese v’ebbero luogo quelli di Varese, di Lecco e di Monza…a tutti questi aggiungevasi un gran numero di nobili delle medesime città e luoghi dello stato. Vennero poi tutti gli ordini religiosi, i canonici regolari, ed il clero secolare, e poi gli abati e i vescovi di tutte le città suddite. Seguivano le insegne delle medesime città e de’ luoghi principali, portate da dugento quaranta (240) uomini a cavallo, dietro ai quali otto uomini a cavallo con le insegne ducali. Dopo questi si videro 2000 uomini vestiti a bruno, colle armi della vipera del ducato di Milano e del contado di Pavia cucite nel petto e sulle spalle, portando in mano grossi torchi (torce) di cera. Quindi cominciò ad apparire il clero e i canonici ordinari della metropolitana, e per ultimo l’arcivescovo Pietro da Candia con altri arcivescovi e vescovi, avanti la cassa.
Quella cassa, per altro vuota, era portata da gran numero de’ signori principali forestieri, e così pure era portato il baldacchino di broccato d’oro foderato d’ermellini sopra di essa, circondato da ogni parte da gran numero di cortigiani tutti vestiti a lutto, dodici de’ quali, e poi dodici altri, portavano gli scudi delle varie insegne del duca e fra le altre la tortorella o piccione col raggio di sole ch’egli aveva eletta per suo simbolo, ed il simbolo della ginestra e quello dell’imperatore”.
G. GIULINI, Memorie di Milano ne’ secoli bassi, Milano, Cisalpino Goliardica 1975 (ristampa anastatica dell’edizione del 1857), vol. VI, pp.59-60
Bozzetti satirici da frammenti di storia/2
Pseudolettera di Pietro Verri ai fratelli e agli amici, Milano 2 settembre 1761
“Il Signor Conte di Firmian (Carlo di Firmian, ministro plenipotenziario della Lombardia austriaca, potente uomo di governo in costante rapporto con l’imperatrice Maria Teresa e con i supremi funzionari di Vienna, ndr) mi fece cento proteste di amicizia, e che voleva che travagliassimo assieme, m’invitò varie volte a pranzo, e non mi ha mai dato cosa alcuna da fare.
Io ho creduto di dargli un saggio di me con una scrittura che mette in chiaro le regalie del sale (diritto del sovrano in materia fiscale, Ndr), le variazioni che hanno sofferte nei tempi passati, il sistema attuale etc. e con questa occasione vi si è fatto luogo a toccare alcune idee generali. Gliel’ho consegnata ricopiata di mio carattere nel mese scorso, e non vi ho acquistato altro se non che ora nemmeno m’invita a pranzo”.
Pseudolettera di Gianfranco Fini ai suoi fratelli di partito e agli amici, 2 settembre 2010
“Il Signor Gianni Letta (ministro plenipotenziario, potente uomo di governo dell’imperatore di Arcore) mi fece cento proteste di amicizia, desiderava che lavorassimo assieme per tutelare gli interessi comuni e m’invitò varie volte a pranzo.
Io credetti di dargli un’idea della mia fedeltà alle istituzioni repubblicane, facendogli un discorso che voleva mettere in chiaro le regole del sistema parlamentare – sale della democrazia – i mutamenti che esso ha sofferto nei tempi passati, la degenerazione in cui versa l’attuale regime. Finimmo per parlare di questioni costituzionali. Alla fine….non vi ho acquistato altro se non che ora nemmeno m’invita a pranzo”.