“Quando le modelle sfilavano con i miei abiti al Grand Hotel et de Milan…”

Delia Riva, titolare dell’omonima boutique di moda prêt-à-porter in via Carducci 34, racconta la sua vita di imprenditrice nella Milano del secondo ‘900. Dal 2006 Carlotta Ferrari, figlia di Delia, gestisce il negozio con la madre: “Il tempo passa, i mezzi cambiano, i valori restano”.

Via Carducci oggi è una strada ad alto scorrimento, molto trafficata, in cui gli spostamenti sono resi difficili dai lavori – in via di ultimazione – legati al cantiere della M4, da pochi mesi aperta sull’intera tratta da Linate a San Cristoforo.

È una delle zone del centro più ricche di storia, custodi di un passato che ha reso grande Milano. Ci troviamo nell’antico sestiere di Porta Vercellina, a due passi dalla basilica di Sant’Ambrogio, una delle più antiche chiese di Milano. Poco oltre, la pusterla omonima nelle mura medievali segnava l’ingresso nella città antica per chi proveniva dalle campagne circostanti; al di là scorreva il Naviglio di San Girolamo che, dopo aver attraversato l’attuale via Carducci, si congiungeva a sud presso il ponte degli Olocati con il Naviglio Interno per sfociare in Darsena dopo aver attraversato la celebre Conca di Viarenna. 

È un quartiere in cui si trovavano i palazzi di importanti famiglie del patriziato e più in generale della nobiltà milanese: se si consulta un prezioso documento risalente al 1770 riguardante le famiglie illustri milanesi intitolato Catalogo della Nobiltà conservato nell’Archivio di Stato di Milano, si nota che in questa zona si trovavano le vaste proprietà immobiliari dei Borromeo, i palazzi dei Litta Visconti Arese in corso Magenta, dei Visconti d’Aragona in via Sant’Agnese, dei Terzago in via Cappuccio, dei Pusterla e degli Andreotti nello stradone di San Vittore. Da un po’ di tempo mi chiedo quale sia l’anima pulsante di questa zona e, se esiste, come sia legata al passato illustre che ho ricordato. Un aiuto importante per capire alcuni aspetti della perenne vitalità del quartiere, tuttora abitato da illustri esponenti di famiglie milanesi, mi è stato dato dall’incontro con la signora Delia Riva, il cui negozio di alta moda femminile (Delia Riva Boutique: https://www.rivadeliaboutique.it) si trova in via Carducci 34. 

Suono il campanello. Mi apre la dottoressa Carlotta Ferrari, figlia della Signora Riva, attuale direttrice e responsabile della divisione social media della boutique. È una giovane elegante, raffinata, dall’eloquio lucido, che mi accoglie con affabilità. Mi invita ad entrare in un secondo ambiente del negozio, dove ho il piacere di conoscere la signora Delia Riva, colei che avviò l’attività commerciale nella Milano anni Sessanta portandola agli attuali livelli di eccellenza. Il rito della moka è fondamentale e, mentre sorseggio l’ottimo caffè portatomi da Carlotta, ascolto con interesse la signora Riva, nel cui viso risaltano gli occhi lucenti di una personalità forte, tutta proiettata nell’azione appassionata della commerciante di moda che nella stessa gestualità esprime una intraprendenza mai venuta meno con il passare degli anni. 

Delia Riva e Carlotta Ferrari

In che tipo di famiglia è cresciuta?

“Mio padre Celestino, che è stato chiamato a servire la patria in guerra, gestiva un’attività specializzata nella rottamazione dei metalli (soprattutto ferro): la sua azienda si trovava nell’area delle antiche Cascine Pismonte [oggi purtroppo scomparse, furono demolite circa vent’anni fa, NdR]. In realtà, la sua attività di “Rottamatt” si estendeva a diversi altri campi: ricordo ad esempio che rivendeva i vecchi vestiti della Scala a un signore il cui negozio si affacciava sul Naviglio Grande”. 

L’area delle cascine Pismonte nella zona sud di Milano, in aperta campagna, confinava con rogge e canali (tra cui la Vettabbia) che scorrono tuttora fino a Chiaravalle. In quelle zone erano molto presenti un tempo gli stabilimenti per la fabbricazione della carta, anche con gli stracci che servivano a produrre quella di pregio.

“Mio padre era molto bravo a rivendere la merce. Venivo da una famiglia di commercianti. Mio padre Celestino e mia mamma Giovanna lavoravano lì in azienda: erano conosciuti come sciur Riva e sciura Riva. Io e mia sorella Giusy siamo cresciute in quegli ambienti, fatti di duro lavoro e sacrifici. Le cascine Pismonte sono state per tutta la mia infanzia e adolescenza una presenza costante. Pensi che per il compleanno i miei genitori erano soliti regalarmi una pecora o un asino!”

Che tipo di formazione ha avuto?

“Non ero molto portata negli studi e andai subito a lavorare. Terminata la scuola dell’obbligo, all’età di diciassette anni frequentai un corso in via Larga sulla moda: ci insegnavano come adattare la vestibilità dei capi alla figura del corpo femminile”.  

Delia Riva Boutique

Quando ha deciso di aprire la boutique?

“Fu nel 1967: io e il ragazzo che frequentavo all’epoca, assieme a un’altra coppia, decidemmo di aprire il negozio con il nome “Shop 34”. È stata una delle prime boutique “a scaffale aperto”: ricordo che all’epoca c’era solo “Lella Sport” in via San Pietro all’Orto ad avere questo tipo di allestimento degli ambienti: niente cassettiere o armadi ove riporre gli abiti; solo scaffali dove sistemarli per lasciare alle clienti la libertà di vederli, di toccarne i tessuti e di chiederli per una prova”. 

Gli anni Sessanta sono stati indubbiamente cruciali. Usciva alla ribalta una generazione di giovani desiderosi di mettersi in gioco, animati dal desiderio di affermarsi, spesso in opposizione a una società – quella della fine anni Cinquanta e primi anni Sessanta – vista in un processo di tumultuosa crescita economica, giudicata corrotta e ancora arretrata culturalmente, intrappolata da costumi patriarcali. Gigliola Cinquetti vinceva nel 1964 il Festival di Sanremo con Non ho l’età: il look semplice della giovane cantante, tutta “acqua e sapone”, divenne presto il simbolo della purezza contro il marciume del decadimento morale. 

Caterina Caselli cantava la celebre Nessuno mi può giudicare nel 1966, una canzone che esprimeva non solo la libertà femminile, ma anche la rivolta di tanti giovani contro le convenzioni sociali. Lei come ha vissuto la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta?

“Eravamo una bella compagnia che si divertiva. Milano era una città che rifletteva tutte le contraddizioni di quegli anni. Ricordo che ci portavano in giro per la città su meravigliose macchine sportive, erano spider di colore rosso. Dopo il cinema, si andava al Derby di via Monterosa, poi al Charlie Max che era uno dei locali più alla moda. Furono anni indimenticabili. Fu proprio allora che organizzai una sfilata al Grand Hotel et de Milan di via Manzoni in cui feci sfilare le modelle con gli abiti della mia boutique: pensi che in quell’occasione vennero a suonare i “Ragazzi della via Gluck”, cioè il gruppo di Adriano Celentano! Fu un evento memorabile!”

Poi sono arrivati gli anni Settanta…

Milano, 14 maggio 1977, foto di Paolo Pedrizzetti

“La lotta armata, gli scontri tra manifestanti e polizia, i primi morti. Il 14 maggio 1977, durante una manifestazione, uno spezzone di “autonomia operaia” si staccò dal corteo portandosi verso il carcere di San Vittore; all’incrocio con via De Amicis ebbe inizio uno scontro a fuoco con la polizia che era schierata a pochi metri. L’agente Antonio Custra fu colpito a morte. Uno dei manifestanti più violenti venne fotografato in quei momenti: la testa coperta da un passamontagna, le gambe divaricate, le braccia tese e due mani che impugnavano una pistola puntata verso la polizia. Quella fotografia, scattata a pochi metri dal negozio, divenne il simbolo dell’Italia negli anni di piombo”. 

“Ricordo che furono lanciati lacrimogeni contro le mie vetrine e questo gettò nel terrore le persone che erano in strada: io ne feci entrare alcune in negozio perché potessero attendere la fine dei disordini ed essere fuori pericolo”.

Qui ci troviamo in una delle vie centrali di Milano: anche a quell’epoca questa zona era costosa da un punto di vista immobiliare?

“Si, questo è un quartiere da sempre legato a doppio filo con la storia del patriziato, della nobiltà e della illustre borghesia milanese. A pochi metri da qui ci sono le case dei Borromeo, di fronte si trova un immobile dei Caccia Dominioni”. 

“Il palazzo in cui ci troviamo fu costruito nei primi anni Sessanta dall’INPS. Quando si rese libero il locale e facemmo richiesta per prenderlo in affitto, ci proposero un canone di locazione di cinque milioni all’anno, che negli anni Sessanta era una cifra altissima. Mio padre mi impose di non accettare e aveva ragione perché  non saremmo certamente riusciti a sostenere i costi di affitto. Fu così che decidemmo di optare per una soluzione mensile dal canone più ragionevole”. 

“Gli affari per fortuna furono buoni fin dall’inizio e con il passare degli anni si accrebbero progressivamente, anche grazie alla mia capacità di seguire il nuovo che stava arrivando e fissando al contempo una mia linea”. 

“Il punto in cui si trovava il negozio fu fondamentale per il nostro successo: ricordo ad esempio che da noi venivano spesso le dipendenti della Rinascente, i cui uffici erano vicinissimi, in via Olona”.

L’interno del negozio in un allestimento recente

Quali marchi tenevate?

“Ricordo ad esempio le camicie di seta disegnate da Emmanuel Schvili, che negli anni seguenti avrebbe diversificato, investendo soprattutto nella produzione di capi con le stampe dei cartoni animati. Poi avevo Alberta Ferretti, Giorgio Grati, Bibak, Renato Balestra, Enrico Coveri Jeans. Ma il cambiamento più radicale e rivoluzionario nella moda femminile arrivò negli anni Settanta con i Jeans Bible di Jesus con il celebre slogan pubblicitario: “Non avrai altro Jesus all’infuori di me”. Quello slogan suscitò la reazione della Chiesa cattolica, che spinse le autorità a ritirare i cartelloni pubblicitari”.

Sulla vicenda Pier Paolo Pasolini scrisse un lungo articolo il 17 maggio 1973 in cui, criticando i “censori” ecclesiastici, prendeva le difese di quella pubblicità: “C’è, nel cinismo di questo slogan – scrisse Pasolini sul “Corriere della Sera” – un’intensità e una innocenza di tipo assolutamente nuovo, benché probabilmente maturato a lungo in questi ultimi decenni (per un periodo più breve in Italia). Esso dice appunto, nella sua laconicità di fenomeno rivelatosi di colpo alla nostra coscienza, e già così completo e definitivo, che i nuovi industriali e i nuovi tecnici sono completamente laici, ma di una laicità che non si misura più con la religione”.

“Fu un inno alla libertà femminile. Le donne giravano con gli zoccoli Louis Vuitton e la moda di quegli anni vedeva l’affermarsi della borsa LV e dei Rolex. Noi vendevamo gli abiti di Gianni Baldini, le camicie di seta a 12.000 lire e i Jeans Jesus. Poi in quegli anni Settanta si affermò l’attenzione per il fondo schiena”. 

Ricordo che Baldini fu il primo nel 1962 ad affidare a Walter Albini la propria collezione “Le mille e una notte”. 

“Se penso ad Alberta Ferretti e alla filosofia che sottostava alla linea dei suoi abiti, si puntava chiaramente all’immagine di una donna sportiva ed elegante. Le clienti venivano da noi e ordinavano tanti capi di una stessa taglia scegliendoli tra i vari marchi. Ricordo che all’epoca la donna si cambiava tre volte al giorno: la mattina si sceglieva un abbigliamento sobrio per il lavoro, il pomeriggio uno per le “commissioni” come allora si diceva a proposito degli acquisti dopo il lavoro, poi il vestito per la sera a teatro o nei locali della mondanità. Uno stile di vita che vide in noi negozianti delle figure fondamentali per indirizzare le clienti negli ordini significativi che venivano fatti”. 

In quegli anni Settanta quali cambiamenti vi furono nella gestione del negozio?

Giusy Riva, sorella di Delia

“Cambiò anzitutto il nome della boutique perché divenni l’unica proprietaria con l’insegna Riva nel 1970. Nel 1973, in seguito alla chiusura del negozio in via Pismonte, mia sorella Giusy venne ad aiutarmi: le clienti aumentavano e anche piuttosto velocemente”.

Se potesse scegliere un decennio tra gli anni Settanta, Ottanta, Novanta e Duemila, quale fu quello in cui i guadagni furono maggiori?

“Senza dubbio gli anni Ottanta. Seppi instaurare un rapporto di fiducia con le persone che venivano in negozio, tutto basato sull’eccellenza del servizio: seppi costruirmi uno zoccolo duro di clienti affezionate. Alcune continuano tuttora a passare da me per comprare abiti e rinnovare il guardaroba. Se questo è successo, è stato anche il risultato di un certo rapporto di amicizia che si è stabilito con molte di loro”.  

Cosa ricorda degli anni Novanta?

“Introdussi nuove linee. Decisivo fu l’incontro con Mariella Burani, i cui abiti tenni in negozio per tanti anni. Qui può vedere alcuni poster pubblicitari della Burani, in cui si nota l’attenzione per una linea molto sofisticata, ma ‘sdrammatizzata’ con l’inserimento di elementi grintosi come i biker boots abbinati a gonne di seta stampate con pizzi meravigliosi .”

Com’è cambiato lo stile di vita delle donne? 

“A partire dagli anni Duemila abbiamo avuto un cambiamento notevole nei costumi femminili. L’uso di cambiarsi due o tre volte al giorno è divenuto raro. Ora si tende a portare un vestito per tutta la giornata. Questo ha comportato una netta riduzione negli ordini alla casa madre: le ditte producono solo sul venduto, in base agli ordini dei negozianti. Questo significa che non abbiamo capi in più qualora ci sia una richiesta ulteriore di merce per un riassortimento della linea durante la stagione. Il negoziante deve effettuare gli ordini in modo oculato, cercando di intuire le richieste del mercato: non può ordinare capi in quantità eccessiva che poi non riesce a vendere”. 

Allestimento natalizio della boutique Delia Riva

Carlotta Ferrari, che dal 2006 dirige il negozio con la madre, dopo avermi mostrato gli ambienti della boutique – i cui arredi presentano gli stessi allestimenti degli anni Sessanta – mi descrive i cambiamenti degli ultimi anni. Oggi le clienti possono trovare capi di abbigliamento delle seguenti aziende: Angelo Marani, Clips, 1-One, Le Tricot Perugia, Tricot Chic, Diego M. 

Carlotta poi mi racconta che è intervenuto un mutamento radicale nei rapporti con la clientela: il contatto con il cliente avviene in modi completamente diversi rispetto all’epoca in cui sua madre avviò giovanissima la sua attività. La pubblicità sui social, l’investimento nella comunicazione sono oggi fondamentali per raggiungere nuovi target. Vedo in lei la stessa determinazione ed entusiasmo della signora Riva: l’eleganza del portamento, la signorilità ed estrema affabilità nell’accogliere la clientela, la passione con cui segue gli andamenti del mercato e va alla ricerca delle novità nel campo della moda.

Carlotta Ferrari e Delia Riva

La dottoressa Ferrari mi spiega come la promozione di nuove collezioni sui social sia stimolante, ricca di sorprese: consente di entrare in contatto con una clientela enormemente più vasta rispetto a quella a cui si rivolgeva la signora Riva.  Precisa tuttavia che “se i mezzi cambiano, i valori restano”: la visita in negozio resta fondamentale e l’assistenza alla cliente è un rapporto umano che si costruisce nel tempo, da cui nascono legami che l’uso ragionato dei social contribuisce a consolidare. Il rito della moka è un tratto distintivo di Delia Riva Boutique: consente alle clienti di conoscere la storia del negozio, esprimere i propri gusti e preferenze nella scelta degli abiti, indirizzare con serenità gli acquisti sui capi più adatti.

“Amo vestire, non sopporto chi si copre”

Lino Ieluzzi si racconta: “Sono cresciuto in una famiglia severa vecchio stampo. Mia mamma era una sarta e mi ha trasmesso la passione per i vestiti. Ho iniziato a lavorare presto”

Per chi proviene dal centro, via Antonio Scarpa è una delle prime strade che si incrociano sul lato destro con corso Vercelli. Siamo in una fascia della città vicinissima alla cerchia dei Bastioni, che un tempo faceva parte del Comune dei Corpi Santi, a due passi dal sestiere di Porta Vercellina. Una zona il cui paesaggio, fino all’Unità d’Italia, era dominato da campi, rogge, canali ai lati dell’antica strada verso Vercelli. All’inizio del corso si trovava l’Osteria della Berta Filava, ritrovo per cacciatori e compagnie di amici che ne apprezzavano la vicinanza alle campagne circostanti. L’area fu densamente urbanizzata nel periodo successivo e divenne – a partire dagli anni Ottanta del Novecento – uno dei quartieri più importanti della città. Oggi, corso Vercelli, con le sue vie laterali, resta un ricco quartiere di Milano, anche se negli ultimi anni ha cambiato la sua identità. 

Mercoledì entro in via Scarpa, la percorro per alcuni metri e subito vedo, sulla soglia della sua boutique, Lino Ieluzzi, con cui ho un appuntamento alle 15 per un’intervista. Due taxi sono in sosta davanti a questo negozio di notevoli dimensioni: cinque vetrine ben riconoscibili dalle eleganti tende parasole di colore verde scuro, ove risaltano i fregi dello stemma dell’azienda: “AB” (Al Bazar). Lui mi saluta con affabilità, scambiamo quattro chiacchiere con i dipendenti della sua boutique. Vedo alcuni clienti aggirarsi per questi ambienti eleganti, tra raffinate scrivanie in legno, tavolini, mensole, armadi di squisita fattura. Ieluzzi mi accompagna in un piccolo spazio nel cortile sul retro: ci sediamo ai lati di un semplice tavolino da giardino a forma circolare. Qui ha luogo l’intervista. 

Lino Ieluzzi in una foto recente tratta dal suo account Instagram

Chi è Pasquale Ieluzzi conosciuto come “Lino Ieluzzi”,  insignito il 27 dicembre 2010 del titolo di  “Commendatore” dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano su iniziativa del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi?  Classe 1945, Ieluzzi con la sua boutique “Al Bazar” è da tempo una istituzione nella Milano dell’alta moda uomo. Intervistarlo mi consente di accedere alla preziosa testimonianza di un imprenditore che si è fatto da sé, si è costruito una posizione nel commercio di vestiti e questo unicamente grazie alla passione, alla cura meticolosa nel lavoro, nel lanciare il suo stile di abbigliamento.

In che tipo di famiglia sei cresciuto? Quale mestiere facevano i tuoi genitori?

“Sono nato in una famiglia vecchio stampo di origini pugliesi. I miei genitori abitavano a Baggio. Io, mio fratello e mia sorella siamo cresciuti in un ambiente povero ma dignitoso, in una famiglia in cui vigevano le dure regole di mio padre, che lavorava nel corpo della guardia di finanza. A lui dovevamo sempre dare del ‘voi’ quando ci rivolgevamo alla sua persona.  Mia madre invece lavorava in casa, faceva la sarta. Ero certamente più legato a lei, che mi ha trasmesso il gusto per il vestire”.  

Come sono stati gli anni della tua adolescenza? Qual è stato il tuo percorso di studi prima di lavorare?

“Ho iniziato a lavorare presto, prima in un negozio di mobili a Baggio, poi in una ditta di traslochi. Ricordo bene quando che mi chiamavano per smontare e montare mobili. Era un modo per guadagnare qualcosina. Certo, un periodo minimo di formazione ho dovuto farlo: frequentai le scuole serali. Avevo una gran voglia di riuscire, di farcela nella vita, di guadagnarmi una posizione che mi potesse consentire di vivere bene. Era la voglia di farcela a spingermi in avanti. Non mi facevo problemi nel tentare un lavoro che attirava la mia curiosità: mi mettevo in gioco. Ho seguito anche un corso di parrucchieri da donna in corso Vercelli. Non stavo mai con le mani in mano, come si dice. Tieni presente che provenivo da una famiglia che non navigava nell’oro: i miei genitori facevano sacrifici per mantenerci. Sentivo l’esigenza di uscire dalla povertà, seppur dignitosa, in cui ci trovavamo”. 

Quando hai capito che il commercio nell’alta moda uomo sarebbe stata la tua strada?

“La moda mi è sempre piaciuta. Come ti dicevo, mia mamma era sarta. Con i primi soldi che feci con i lavoretti di cui ti parlavo, iniziai ad acquistare grandi stock di abiti e li vendevo fuori dalle scuole e dalle università. Gli anni Sessanta sono stati per me un periodo di continua sperimentazione: ho lavorato in un parrucchiere da donna, poi in una ditta di orologi petrolio, finché sono stato impiegato come commesso in un negozio di abbigliamento uomo, qui, in via Scarpa”. 

Ieluzzi mi accompagna in uno dei molti ambienti della sua boutique e mi dice:

Lino Ieluzzi in una foto dei primi anni Settanta

“Vedi questo spazio?  Qui si trovava il negozio di appena 20 metri quadri, con una sola vetrina sulla via, in cui iniziai a lavorare come commesso. Allora – anni Sessanta e primi Settanta – era una semplice jeanseria. I titolari erano una famiglia romagnola: eravamo in due a lavorare come commessi. Vendevamo, oltre ai jeans, camicie indiane, giacche usate. Era un mondo sideralmente opposto rispetto a quello che sarebbe arrivato di lì a poco. La gente si vestiva in modo semplice, l’uomo era completamente dimenticato nella cura del vestire. Dominava la cultura hippie, il culto della libertà interiore senza regole,  le simpatie di tanti giovani andavano verso forme di egalitarismo e di comunitarismo, per non parlare di tanti fanatici ubriacati dall’ideologia comunista o da quella fascista”.

Quelli sono stati anni difficili. La contestazione nel 1968, la bomba di piazza Fontana nel 1969 e gli anni Settanta, gli anni di Piombo con le violenze dei gruppi terroristici. Tu come li hai vissuti?

“Vero, sono stati anni controversi, di passaggio ma anche pieni di sfide e di opportunità. Quando i titolari della jeanseria si ritirarono, nel 1971, ebbi l’opportunità di proseguire nell’attività rilevando il negozio. Nel 1975 chiamai Maurizio Morazzoni, un mio caro amico d’infanzia che aveva fatto alcune esperienze sul campo e gli chiesi di entrare come socio nella società Al Bazar Srl. Fu allora che iniziò la nostra impresa in un mondo completamente nuovo: trasformammo radicalmente quel piccolo spazio di 20 metri quadrati. Da attività commerciale di jeanseria diventammo un negozio completamente diverso.

Fu un’intuizione. Capii che la moda stracciona non sarebbe durata a lungo: in quella Milano di metà anni Settanta intravedevo il profilarsi di una società nuova, fatta di uomini nuovi, che sentivo avrebbero contato moltissimo di lì a poco; una generazione di imprenditori tanto ambiziosi quanto determinati nel lavoro per conseguire il successo nell’intrapresa privata. Capii in anticipo che l’uomo, tanto smitizzato fino ad allora, sarebbe stato più ambizioso e avrebbe meritato di essere vestito con la stessa cura e attenzione ai particolari che si seguono nell’abbigliamento femminile. Abbassai la saracinesca e, quando la rialzammo, il negozio era completamente diverso: sobrio, elegante, con abiti gessati, giacche raffinate al posto delle vecchie ceste ove prima erano ammassate le semplici camicie americane. 

A guidarmi è stata la passione, la fiducia nelle mie capacità, l’ottimismo e il desiderio di costruirmi una vita fatta di benessere economico. Con il nuovo negozio iniziammo a vendere bene: stavamo conseguendo ottimi risultati, il che non passò inosservato. Il risultato fu che ben presto fummo vittima di quello che all’epoca si chiamava “esproprio proletario”: una rapina a mano armata. Però, ripeto, fatta eccezione per quella brutta pagina, ricordo con piacere e un po’ di nostalgia gli anni Settanta! Sarà che ero anch’io un’altra persona: un ragazzo giovane, bello, con tanti capelli biondi e una voglia matta di affermarmi, di farmi strada. Volevo realizzarmi in quello che avevo ormai scoperto essere il lavoro per cui mi sentivo portato: il commerciante”.

Gli anni Ottanta hanno segnato un cambiamento nei costumi degli italiani, nel loro stile di vita. I cittadini volevano dimenticare gli anni della tensione, delle sparatorie, degli estremismi di destra e di sinistra. 

Raggiunsero il successo tante aziende nella moda, nel design, nell’artigianato: il Made in Italy si affermava con le produzioni di alta qualità. Gli italiani si arricchivano, spendevano di più. Nel privato si affermava una classe di piccoli e medi imprenditori di notevole livello, determinati nella realizzazione dei loro obiettivi.

Berlusconi, ad esempio, dopo aver costruito quartieri e case residenziali di notevole eleganza immerse nel verde, negli anni Ottanta investe con profitto nella tv commerciale. Il successo imprenditoriale del Cavaliere fu clamoroso. Cosa ricordi di quegli anni per quanto riguarda il tuo lavoro?

“La gente amava vestirsi con stile. Noi abbiamo vissuto bene quel periodo. Tante persone che lavoravano nelle tv e nelle aziende di Berlusconi venivano da noi per acquistare abiti eleganti. Il Cavaliere era attentissimo alla forma, all’eleganza nel vestire. Ci teneva: per lui lavorare sulla propria immagine, sapersi presentare in modo impeccabile era un requisito fondamentale perché, diceva, ‘voi grazie alla televisione entrate nelle case degli italiani’. 

Per noi furono anni di grandi guadagni. Raggiungemmo un volume di affari tale da consentirci di ingrandire la superficie del negozio arrivando alle dimensioni attuali: questo fu possibile perché acquistammo i locali di un colorificio e di un ristorante che nel frattempo avevano cessato l’attività. L’allestimento degli spazi e l’arredamento caratteristico che si vede ancora oggi con i mobili in legno di noce di alta finitura sono interventi che feci proprio allora. 

Cosa ricordi di quella Milano? La Milano socialista di Tognoli e Pillitteri? 

Era una città in cui le persone si aiutavano, sicura di notte, in cui era possibile – per capirci – farsi una partita a pallone per le vie del centro e tornare a casa facendo l’autostop. Un altro mondo rispetto alla Milano di oggi, sconvolta da tanti reati di microcriminalità con scippi e violenze che sono all’ordine del giorno.

Arrivano poi gli anni Novanta, che segnarono una svolta nel bene e nel male. Caduto il Muro di Berlino, scoppiò il caso Tangentopoli con decine di politici arrestati e messi sotto processo. Milano viene amministrata da giunte di colore politico assai diverso rispetto a quelle che erano state protagoniste della vita cittadina fin dal dopoguerra. È la Milano di Marco Formentini (primo sindaco leghista di una grande città ad essere eletto direttamente dai cittadini nel 1993), poi di Gabriele Albertini che amministrò Milano per ben due mandati dal 1997 al 2006. Come sono stati questi anni per il tuo lavoro?

Lino Ieluzzi nella sua boutique in una foto degli anni Novanta.

“Abbiamo continuato a fare affari”.

Erano gli anni in cui l’amministrazione comunale vietava la libera circolazione di auto introducendo le “targhe alterne”; nel 1990-91 scoppiò la prima guerra del Golfo con l’aumento del prezzo del petrolio e le conseguenti ricadute nella contrazione dei consumi. In un’intervista rilasciata al “Corriere del Sera” nel 1990 sostenevi che, diversamente da altri negozianti, voi eravate riusciti ad uscirne bene e motivavi il buon andamento delle vendite con il rapporto di fiducia con la clientela. Affermavi: “le vendite nel 1990 sono state uguali all’anno passato…credo che i risultati vengono quando alla base c’è un buon servizio e una serietà nel rapporto con la clientela. Noi, per esempio, non abbiamo mai fatto e non faremo mai i saldi. Per correttezza verso chi compra sempre da noi”.

Confermo quello che dissi 35 anni fa. Mentirei tuttavia se ti dicessi che quelli sono stati anni facili. Nel 1990 una banda di criminali siciliani telefonò in negozio chiedendomi il pizzo e minacciandomi di morte. È stato un periodo difficile, in cui vissi per sette-otto mesi con la scorta che mi accompagnava in tutti i miei spostamenti, in particolar modo da casa al negozio. La questura mise sotto controllo i telefoni per intercettare le chiamate dei criminali. Tutto alla fine si risolse senza danni. Consapevoli che la polizia era sulle loro tracce, quei criminali mi lasciarono in pace. 

Il periodo tra la fine degli anni Novanta e gli anni Duemila è stato memorabile. Anzitutto ho introdotto nuove collezioni di abiti, che hanno ulteriormente arricchito il negozio con le ormai celebri giacche colorate in doppiopetto e monopetto. 

Ricordo poi le iniziative imprenditoriali all’estero, dove iniziarono a conoscermi negli ambienti del commercio: ho venduto le mie collezioni Al Bazar nei mall in Corea del Sud, in Giappone. In Corea mi recavo mediamente due volte all’anno: rimanevo là venti giorni per controllare l’esposizione dei miei prodotti nei negozi con cui avevamo stipulato affari. In quei paesi fui accolto con tutti gli onori e mi riservarono un trattamento speciale. Ricordo che venivano a prendermi in aeroporto con un auto di lusso, come se fossi un capo di Stato. Pensa che in Corea del Sud mi fecero ottenere un permesso di poche ore per visitare una fabbrica di vestiti che aveva sede in Corea del Nord: fu un’esperienza istruttiva. 

Lino Ieluzzi in uno scatto fotografico di Scott Schumann in S. Schumann, “The Sartorialist”, 2009.

Le mie apparizioni sulle riviste di moda iniziarono ad essere numerose. Quelli furono anni in cui mi ritrassero fotografi del calibro di Scott Schumann, le cui immagini apparvero nella rivista “The Sartorialist”. 

So che abiti in centro, in zona Porta Ticinese, non molto distante da piazza XXIV maggio. Perché hai scelto questa parte della città invece della zona di corso Vercelli dove hai il negozio?

Sono molto legato alla casa in cui abito: me la sono acquistata con i guadagni di una vita. Ho scelto questa zona perché mi piace passeggiare lungo la Darsena e i Navigli. È una parte di Milano che mi è particolarmente cara: in fondo mi ricorda Parigi e il fluire della Senna”.  

Cosa pensi della zona in cui ci troviamo, il quartiere che ti ha formato come imprenditore, in cui hai mosso i primi passi e in cui sei rimasto con la tua splendida boutique?  

“Corso Vercelli era fino a quindici anni fa la seconda via più importante di Milano nel campo delle boutique di alta moda, dopo via Montenapoleone. Oggi la realtà è un po’ cambiata”. 

E via Antonio Scarpa?

“Io sono qui da più di cinquant’anni e contribuisco tuttora a mantenere elevata la qualità dell’offerta nel campo del commercio. Da alcuni anni hanno aperto altri negozi che contribuiscono ad assicurare alla via questi livelli.

Nel libro “Un sogno così” Colombo racconta il Giambellino, Milano e l’Italia negli anni della Ricostruzione

Milano negli anni Cinquanta, in una forbice temporale che va dal 1952 al 1958: Paolo Colombo ci trasporta nell’atmosfera di quegli anni, quando la città usciva faticosamente dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale e si avviava verso un futuro di ricchezza e benessere. È la storia di una generazione che aveva trascorso l’adolescenza nella dittatura fascista e gli anni della giovinezza li aveva passati a lavorare duramente per costruirsi una vita migliore. 

Il libro (PAOLO COLOMBO, Un sogno così, Milano, Feltrinelli 2024, 348p.) racconta la storia dei genitori dell’autore che, sposati nel 1954, si stabiliscono in un modesto bilocale in via dei Gelsomini, nel quartiere del Giambellino, una periferia in cui i primi palazzi furono costruiti già in epoca fascista: come Colombo mostra nel libro, proprio negli anni del dopoguerra il Comune di Milano andò accrescendo quello spazio urbano con nuove abitazioni e giardini pubblici. 

I due sposini, Carlo e Liliana, vanno ad abitare là. Lui apre un negozio di ferramenta nel quartiere, dopo aver finito nel 1952 il servizio di leva presso il Quartier Generale del terzo Comando Militare Territoriale (COMILITER) in collegamento con il comando americano (ancora presente in Italia nonostante fossero passati sei anni dalla fine della guerra). Liliana, orfana di entrambi i genitori, cresciuta in un collegio di suore in Liguria, diplomata in pianoforte al conservatorio di Parma, conosce Carlo all’interno del gruppo di amici che si dedicano alle escursioni in montagna organizzate dal CAI: moglie sensibile, alle volte testarda, si rivela una madre premurosa nelle cure del piccolo Marco, il primo figlio nato nel 1955. 

Il libro è scritto seguendo il metodo narrativo dell’History Telling, una modalità di comunicazione, una tecnica di trasmissione del sapere storico cui Colombo si dedica da anni nell’insegnamento universitario; uno stile di grande efficacia, lo stesso con cui sono impostati i suoi lavori di successo messi in scena nei teatri e preparati da Storia e Narrazione, il format da lui diretto con Chiara Continisio. Occorre inoltre sottolineare che History Telling è il nome di una fortunata serie di podcast storici curati dall’autore, che si vanno ad aggiungere ad altre produzioni dello stesso genere da lui sviluppate e pubblicate per “Chora Media” e “Il Sole 24 Ore”. 

In questo volume la storia dei genitori di Paolo Colombo si incrocia con la storia della città e con quella più generale dell’Italia degli anni Cinquanta: un periodo attraversato da profondi cambiamenti in campo economico e sociale. Solo per citarne alcuni, l’avvento della televisione con le trasmissioni Rai, il boom economico e il successo di vendite di una utilitaria FIAT come la 600, la costruzione dell’autostrada del Sole. 

La storia della Milano anni Cinquanta viene raccontata con uno stile diretto, coinvolgente, con una prosa che si legge con piacere, caratterizzata da un periodare e da un lessico di immediata comprensione. I dialoghi tra i personaggi e le riflessioni dell’autore sono molto vicini nello stile a una sceneggiatura teatrale. Nel leggere il libro è come se si assistesse a una delle coinvolgenti lezioni di storia tenute da Colombo a teatro con il già citato format Storia e Narrazione. Ho letto questo libro con passione e partecipazione dall’inizio alla fine.

Colombo riesce da par suo a condurre per mano il lettore nell’atmosfera di quegli anni, raccontando mediante i dialoghi dei suoi personaggi fatti di cronaca allora seguitissimi: ad esempio la discussa relazione tra Fausto Coppi e la Dama Bianca o la rapina in via Osoppo avvenuta il 27 febbraio 1958; in politica, Carlo non apprezza la “legge truffa” del 1953 e vota alle elezioni di quell’anno per il piccolo partito di Piero Calamandrei, piccolo granellino di sabbia che bastò a bloccare il meccanismo poco democratico di quella legge. Liliana discute con un’amica i provvedimenti del governo per introdurre la scala mobile a tutela del potere di acquisto dei salari dei lavoratori. Nel cinema, le riflessioni dell’autore sono per film come “Il dittatore ” e “Luci della ribalta” di Charlot, “Il Cigno” con Grace Kelly. Colombo racconta inoltre la prima proiezione del “Don Camillo” nel 1952, film che il padre vide al cinema Arlecchino – allora appena aperto – pagando 200 lire di biglietto.

Oltre alla storia di una famiglia nella Milano degli anni Cinquanta, il libro è basato su un racconto che mostra i cambiamenti avvenuti in città negli anni del Dopoguerra: per fare degli esempi, la riapertura del Teatro alla Scala nel 1946, la costruzione della Torre Velasca e della linea 1 della metropolitana, l’apertura del primo supermercato Esselunga nel 1957. 

Carlo e Liliana vivono le difficoltà del loro tempo con dignità. Amano la montagna, sono giovani e come tali capaci di sognare lavorando con costanza e umiltà nella realizzazione del loro progetto di vita. Un’impresa difficile, quella di amarsi in una città che stava uscendo faticosamente dalla povertà. Da esperti di montagna quali sono, raccolgono la sfida senza mai perdere la determinazione nel voler costruire una famiglia fondata sui valori in cui credono: la probità, l’onestà, la bontà, il senso della misura, la cura del bene comune, l’attenzione per l’altro, la fiducia nell’avvenire. Un cammino, quello che intendono intraprendere, irto di insidie ma non impossibile. Toccante – qui come in tanti altri passi del libro – il racconto di Paolo Colombo. La decisione di sposarsi di Carlo e Liliana viene paragonata alla scalata del K2, impresa che proprio allora era stata portata a termine dal gruppo guidato da Ardito Desio, composto da Walter Bonatti, Lino Lacedelli e Achille Compagnoni.  É Carlo a ricorrere alla similitudine della montagna.

Doveva aver riprovato quella sensazione, Bonatti, ai piedi dell’imponente K2. Un misto di attrattiva e repulsa, di entusiasmo e timore davanti alla sola idea di affrontarne la scalata.

Così si sentiva lui, il povero Carluccio, ragioniere e ferramenta, quando lo assaliva la vertigine per la vita che aveva di fronte, piena di richiami e imprevedibilità. Come si è già detto, non era un letterato, Carlo…ma immaginava la propria vita a venire. Pensare di sposarsi, e metter su famiglia, in un paese povero, martoriato dalla guerra appena conclusa, ancora gonfio di dolore e incertezza. Sposarsi. La scelta più fragile che gli esseri umani si imponevano come risolutiva: non era così stupido da non capirlo. Lo insegnavano Coppi e la Dama Bianca.

Eppure.

Era come pensare di andare in vetta al K2. Potevi farcela. Per questo gli era venuta fuori quella frase, quel 12 settembre, al Parco Sempione. Dai, sposiamoci. Non facciamo caso a quanto è verticale quella parete. Lascia perdere tutti quelli che ci hanno già provato e hanno fallito. Andiamoci, in cima. Sputeremo sangue, ma come fai a non sentire l’attrazione. Come fai a non lasciarti andare alla vertigine. Potrebbe essere bellissimo. [pag.119]

La famiglia Colombo, grazie all’ottima gestione del negozio di ferramenta portata avanti dall’intraprendenza e dalla tenacia di Carlo, restò unita, migliorò le sue condizioni economiche con spirito di sacrificio, determinata a perseguire i traguardi che si era posta, partecipando a quel veloce processo di arricchimento che interessò la Milano di fine anni Cinquanta.

Annale 2023 di ASL: tra armi e comunità

L’ultimo numero dell’Annale della Società Storica Lombarda si segnala per diversi contributi afferenti al tema della guerra dal Medioevo all’Età Moderna.

L’Annale 2023 dell’Archivio Storico Lombardo presenta notevoli spunti d’interesse nel panorama degli studi storici. La linea editoriale che si è affermata negli ultimi anni presenta la prima sezione del volume dedicata a un tema di attualità o ritenuto meritevole di analisi specifiche. Nell’Annale 2023 ci si è dedicati al tema delle guerre e dell’amministrazione militare nel ducato di Milano tra Medioevo ed Età Moderna con saggi di notevole spessore scientifico.

Il contributo di Paolo Grillo si concentra sulla devastazione di Como avvenuta nel 1127 ad opera dei milanesi, trentacinque anni prima della celebre distruzione di Milano compiuta dalle truppe filoimperiali delle città ghibelline lombarde. 

Il saggio di Giancarlo Andenna, muovendo da un robusto apparato di fonti, ricostruisce gli anni difficili vissuti dai cittadini di Novara alla fine del XV secolo, quando dovettero far fronte non solo a una lotta aspra tra le fazioni locali dei guelfi e ghibellini, ma anche ai problemi legati all’occupazione francese di Louis d’Orléans e all’assedio del duca Ludovico Maria Sforza nel 1495. Eventi ulteriori che segnarono profondamente la storia cittadina furono nel 1500 la cattura dello Sforza da parte dell’Orléans, re di Francia da alcuni anni con il nome di Luigi XII, la pestilenza scoppiata l’anno successivo e un nuovo assedio, questa volta francese, avvenuto nel 1513. 

Il saggio di Emanuele Pagano si concentra su un tipo particolare di uomini armati presenti negli Stati italiani tra XVI e XVIII secolo. Oltre agli eserciti regolari comandati dalla grande nobiltà specializzata nel mestiere delle armi, articolati in corpi di archibugieri, picchieri, moschettieri e cavalieri, vi erano infatti le milizie che si aggiungevano alle truppe regolari e venivano impiegate per lo più nella difesa delle piazzeforti o nel controllo del territorio al posto delle guarnigioni professionali. In alcuni casi le milizie erano impiegate anche in guerra, al fianco degli eserciti regolari. Le caratteristiche di questi corpi paramilitari risiedevano nella loro diretta dipendenza dal sovrano e nella presenza di personale che non apparteneva solo alla grande nobiltà. Si trattava di uomini reclutati nelle fasce comprese tra i 16 e i 60 anni di età, con una netta prevalenza di giovani provenienti per la maggior parte dallo strato sociale dei contadini o degli artigiani. I cavalieri, per lo più nobili, erano gli unici che potevano permettersi di pagarsi la cavalcatura e le armi. Diverso il caso dei fanti, le cui spese per l’apparato militare ricadevano in parte su di essi, in parte sullo Stato e sui corpi locali. 

La nobiltà che comandava i vari corpi di milizia era uno strumento fondamentale per il sovrano, perché assicurava da un lato un valido collegamento con la nobiltà più influente presente negli eserciti regolari attraverso legami di fedeltà di natura clientelare, dall’altro assicurava il servizio di un maggior numero di uomini comuni in forza dei legami – anch’essi clientelari – esistenti a livello locale nei più remoti interstizi della società civile. Queste dinamiche assicuravano al sovrano il consenso della popolazione. Varrà la pena ricordare che i miliziani godevano di particolari diritti rispetto al resto della società: oltre al porto d’armi, gli arruolati in questa tipologia di corpi paramilitari potevano contare su specifiche tutele giuridiche, come il diritto di essere giudicati per alcuni reati da tribunali speciali oppure una serie di privilegi connessi anche al diritto di proprietà. 

Interessanti le analisi di Pagano sulla milizia nazionale mantovana, un corpo paramilitare che ebbe una storia di notevole rilievo nell’amministrazione del ducato gonzaghesco, molto simile alle “cernide” della repubblica di Venezia. Il prestigio di cui godeva la milizia mantovana fu decisivo nel garantirne la sua conservazione anche nel corso del Settecento e questo per volontà degli Asburgo di Vienna, nei cui domini il ducato era stato inglobato dopo l’estinzione della dinastia ducale. Nettamente diverso il caso delle milizie nel ducato di Milano, che non furono formate con la stessa regolarità e sistematicità. Questo fu dovuto probabilmente all’esistenza di forze regolari assai ben munite e articolate nel periodo della dominazione spagnola e nei primi decenni del Settecento. I corpi paramilitari delle milizie furono impiegati quindi in modo per lo più saltuario, solo in anni di particolare crisi internazionale, quando le guerre del primo Seicento o del primo Settecento richiedevano l’impiego di formazioni ausiliarie da dislocare nelle piazzeforti o in campo aperto al fianco delle truppe regolari impegnate in battaglia. 

Al centro del saggio di Alessandra Dattero vi è la battaglia di Tornavento (22/VI/1636), presa in esame nelle sue ricadute in campo politico e finanziario nell’amministrazione del ducato nel periodo particolarmente complesso costituito dalla guerra dei Trent’Anni.

Oltre alla sezione dedicata alla guerra che si è per sommi capi ricordata, sono presenti altri saggi di argomento diverso che si concentrano su  molti aspetti della storia lombarda e italiana dal Medioevo al Novecento. Due contributi, il primo di Lavinia M. Galli e il secondo di Annalisa Zanni si focalizzano sulle origini del Museo Poldi Pezzoli di Milano e sulla nascita della omonima fondazione artistica. Giampiero Fumi prende in esame il primo periodo di attività di un istituto di credito dalla storia lunga e prestigiosa come la Cassa di Risparmio delle Province Lombarde, focalizzandosi sugli anni dal 1823 al 1860.

Ancora al tema della guerra è dedicato il saggio di Marino Viganò, che pone al centro della sua indagine i primi mesi del 1945 nel periodo sofferto e drammatico che vide nel Nord Italia lo scontro feroce tra i partigiani e l’esercito della repubblica di Salò: Viganò prende in esame la milizia francese, un battaglione della forza militare ausiliaria della repubblica di Vichy di cui il governo nazifascista di Salò si servì in Valtellina contro i partigiani. 

Pietro Verri

Occorre infine ricordare i due contributi di Maria Francesca Turchetti e Carlo Capra che prendono in esame la corrispondenza epistolare tra l’economista milanese Pietro Verri ed esponenti del patriziato della Milano settecentesca quali Francesco IV d’Adda e Alfonso Castiglioni. Lettere preziose perché consentono non solo di capire la mentalità dei gentiluomini del Settecento e il loro modo di rapportarsi di fronte ai problemi della vita, ma anche di comprendere sotto diversi punti di vista eventi importanti come la guerra dei Sette Anni o le riforme asburgiche nel ducato di Milano. Sull’epistolario di Pietro Verri – una fonte straordinaria per capire il Settecento europeo – si attende un lavoro di ripubblicazione integrale all’interno dell’Edizione Nazionale delle Opere di Pietro Verri.

ASL 2021: studi su Milano napoleonica e sulla città universitaria del primo ‘900

Il volume pubblicato dalla Società Storica Lombarda è dedicato alle istituzioni culturali e scientifiche che fiorirono in città nei primi anni del secolo scorso; la seconda sezione centrata sul bicentenario napoleonico e portiano.

L’Archivio Storico Lombardo 2021 (Milano, Scalpendi Editore, 415p). presenta contributi di notevole interesse nel campo degli studi storici. La prima sezione del libro è dedicata alla Milano degli anni Venti del Novecento, la seconda al bicentenario dalla morte di Napoleone e del poeta milanese Carlo Porta (1821-2021). In questa sede ci si soffermerà brevemente su queste parti, anche se occorre precisare che le altre sezioni del volume presentano saggi di notevole originalità, come ad esempio quello di Marino Viganò su Varese negli anni tormentati della dominazione francese del ducato di Milano (1499-1512; 1515-1521) oppure il contributo di Elisa Occhipinti sulle Tracce di Lombardia nella Divina Commedia ove è preso in esame il concetto medievale di Lombardia in Dante. 

Nella prima sezione dell’Annale 2021 i contributi prendono in esame le istituzioni universitarie e culturali esistenti nella Milano dei primi anni del XX secolo, una città interessata all’epoca da un profondo cambiamento nella sua struttura urbanistica. L’aumento demografico della popolazione, che superava largamente il mezzo milione di abitanti nel 1911 (600.612 cittadini) costrinse l’amministrazione a superare il vecchio piano regolatore Beruto sostituendolo a partire dal 1912 con quello Masera-Pavia: il nuovo piano creò le condizioni per l’imponente trasformazione del comune urbano. Varrà la pena ricordare in proposito la sostituzione dei viali alberati lungo il tracciato dei Bastioni, che furono demoliti per costruire nuove arterie stradali. 

Come mette in evidenza Adele Buratti Mazzotta nel saggio di introduzione alla prima sezione, il piano Masera-Pavia, nell’allargare ulteriormente la struttura urbanistica ad anelli concentrici fino a comprendere nuove aree dell’antico contado, intese rispondere all’accresciuta attività industriale della città; esso intese pure far fronte alla richiesta di nuove abitazioni dovuta all’aumento demografico che si è sopra ricordato. Fu in questa Milano in tumultuoso sviluppo urbanistico che si costruirono le prime case, rese effettive ad opera dell’Istituto Autonomo Case Popolari (fondato nel 1908) sotto la guida energica dell’architetto Giovanni Broglio.

In questa Milano rinnovata sorsero istituzioni universitarie e culturali destinate ad arricchire la vita sociale della città. Occorre ricordare in primo luogo il Politecnico, il cui edificio venne costruito nell’area un tempo agricola delle Cascine Doppie tra il 1915 e il 1927. Un’altra importante novità, come messo in evidenza nel saggio di Lorenzo Ornaghi, fu la fondazione nel 1921 dell’Università Cattolica per volontà di padre Agostino Gemelli e di un gruppo di cattolici italiani particolarmente sensibili al progresso della scienza e della cultura. La prima sede si trovava in via Sant’Agnese 2, poi trasferita nei chiostri bramanteschi dell’ex Ospedale Militare di Sant’Ambrogio negli anni Trenta. Padre Gemelli volle che i giovani cattolici italiani ricevessero una formazione rigorosa, informata ai più aggiornati metodi didattici allora esistenti, sul modello di atenei quali l’università di Lovanio o di Berlino: l’obiettivo era la costituzione di una classe dirigente cattolica culturalmente attrezzata per favorire la rinascita cristiana nell’Italia del primo Dopoguerra. 

Agli anni Venti del Novecento risale anche la fondazione dell’Università degli Studi di Milano: fu in seguito alla riforma Gentile che fu possibile costituire nel capoluogo lombardo un ateneo pubblico in grado di competere con quello antico e prestigioso di Pavia. Nel 1924 l’Università degli Studi con sede negli antichi chiostri dell’Ospedale Maggiore in via Festa del Perdono si aggiunse quindi alla Cattolica nel panorama delle istituzioni accademiche milanesi, articolata nelle facoltà di Medicina e Chirurgia, di Lettera e Filosofia, di Giurisprudenza, di Scienze fisiche, matematiche e sperimentali. 

Di notevole interesse per la qualità e l’originalità dei saggi è anche la seconda sezione dell’Annale dedicata come si è accennato al bicentenario napoleonico. Carlo Capra si sofferma sulle numerose pubblicazioni dedicate al tema negli ultimi due anni, prova di un rinnovato interesse per il periodo napoleonico. Di immediata lettura è ad esempio il libro di Andrea Merlotti e Paola Bianchi, Andare per l’Italia di Napoleone (Il Mulino, Bologna 2021)ove sono presi in esame i luoghi della penisola di più stretta relazione con la famiglia Bonaparte, con una penetrante analisi delle dimore e monumenti napoleonici i cui ambienti rivestirono un ruolo importante non solo nell’Italia del Risorgimento, ma anche nell’Italia liberale e negli anni del regime fascista. 

Un altro studio interessante è quello di Vittorio Criscuolo dedicato all’esilio di Sant’Elena e in particolar modo alla formazione del culto romantico di Napoleone (Ei fu. La morte di Napoleone, Bologna, Il Mulino 2021); sulla base delle memorie scritte negli ultimi anni della sua vita, Bonaparte volle essere ricordato come erede della Rivoluzione, promotore delle scienze e delle arti, combattente e difensore della libertà dei popoli. Un’immagine distante anni luce dall’effettivo stile di governo e dalla natura dei regimi autoritari ch’egli instaurò in Europa negli anni in cui il suo potere raggiunse l’apogeo; un’immagine ch’egli tuttavia riuscì a trasmettere con successo a tanti patrioti romantici che nel culto della sua memoria, nel ricordo delle gesta militari e delle esperienze fondamentali che pure furono possibili nel campo della cultura, delle arti, delle scienze nelle monarchie amministrative napoleoniche, trovarono ispirazione per immaginare un nuovo ordine costituzionale da opporre all’Europa conservatrice uscita dal Congresso di Vienna. 

Un altro saggio di notevole interesse è il contributo di storia demografica di Emanuele Pagano che, sulla base dello studio sistematico degli atti di matrimonio firmati dai nubendi davanti all’ufficiale di stato civile negli anni 1807, 1808 e 1809, ha preso in esame il tema dell’immigrazione, dei mestieri e delle professioni nella Milano capitale del regno italico: la modernità delle istituzioni napoleoniche con le novità portate in tanti ambiti della vita civile non intaccarono fenomeni di lunga durata come le scelte matrimoniali che coinvolsero famiglie che appartenevano nella stragrande maggioranza dei casi alla stessa classe sociale; relativamente alla mobilità del mercato del lavoro, Milano si confermava città di immigrazione di tanti lavoratori i cui territori di provenienza restavano però in gran parte quelli legati a Milano per la vicinanza geografica o per i tradizionali legami storico-culturali risalenti allo Stato di Milano di antico regime.

Occorre inoltre ricordare il saggio di Gian Marco Gaspari che si sofferma sull’ode in morte di Napoleone scritta da Pietro Custodi, ex funzionario del ministero delle finanze italico, celebre economista del primo Ottocento: la poesia, composta poco tempo dopo il celebre Cinque Maggio, è interessante perché, originata anch’essa dalla notizia della scomparsa dell’Empereur, rivela ideali e giudizi nei confronti di Napoleone notevolmente diversi da quelli di Manzoni. Se questi – come noto – rinviava ai posteri un giudizio complessivo sulle sue imprese, Custodi nei suoi versi non perdonò a Bonaparte di aver tradito gli ideali di libertà instaurando regimi autoritari le cui strutture amministrative servirono ai vincitori per rendere ancor più schiave le popolazioni conquistate.

Il 2021 è stato anche il bicentenario della morte del poeta milanese Carlo Porta. Nel saggio che chiude questa seconda sezione sui due bicentenari, Renato Marchi si è soffermato sullo studio del Giovanni Maria Visconti, opera che il Porta scrisse con Tommaso Grossi per uno spettacolo che si sarebbe dovuto tenere al Teatro della Canobbiana nel Carnevale del 1818. L’argomento, tratto dalla storia medievale di Milano, verteva sulle malefatte del duca Giovanni Maria Visconti: questi, assunto il governo del Ducato nel 1402 alla morte del padre Gian Galeazzo, venne assassinato nel 1412 nella chiesa di San Gottardo per una congiura di palazzo. L’opera teatrale, in stile tragicomico, mescola elementi di storia e di finzione, contiene parti in milanese e parti in italiano. Marchi ricostruisce le origini di questo lavoro, da cui risalta lo stile romantico di Grossi e Porta in un periodo storico caratterizzato dalla nota querelle tra classici e romantici. L’opera, scritta di getto in soli quindici giorni, non potè essere rappresentata a teatro per l’intervento di una censura austriaca in quegli anni particolarmente attiva. Varrà la pena ricordare in proposito la coeva chiusura del Conciliatore, la rivista cui collaborarono gli esponenti più illustri della Milano romantica.

Milano torni ad essere culla del riformismo

Questo articolo è stato pubblicato in versione ridotta su “Il Giorno” del 17 luglio 2021.

Uno dei tratti caratteristici di Milano è la vocazione al riformismo, la capacità delle sue classi dirigenti e politiche di ripensare le istituzioni lavorando per migliorarle con pragmatismo e coraggio. Tale fenomeno è un dato di lungo periodo nella storia della città.

Si potrebbero citare numerosi esempi in proposito. Mi limito a portarne tre emblematici. Nel corso del Settecento in Lombardia i monarchi assoluti realizzarono incisive riforme nel campo dell’economia, del fisco, dell’amministrazione locale, dell’istruzione, della giustizia: furono rese possibili grazie all’impegno di funzionari austriaci, trentini, istriani, toscani, napoletani che operarono a Milano al servizio di sovrani come Maria Teresa e Giuseppe II che li impiegarono nei loro governi esclusivamente per la competenza ed esperienza che avevano dimostrato nei campi in cui si intendeva operare. Un contributo non trascurabile fu reso anche da giovani patrizi milanesi come Pietro Verri e Cesare Beccaria, che nutrivano simpatie per il governo riformatore degli Asburgo e condividevano l’esigenza di svecchiare le istituzioni dei loro padri giudicate inadeguate e barbare. I sovrani absburgici capirono che per reggere il confronto con gli Stati europei più potenti occorreva cambiare il vecchio sistema giuridico-amministrativo, risanare i bilanci pubblici, fare in modo che l’amministrazione fosse meno imbrigliata nella lentezza di procedure di cui non si capiva più il senso. Bisognava puntare unicamente al conseguimento degli obiettivi della monarchia, tra i quali vi era la cura della felicità dei sudditi mediante il buongoverno. Una lezione quanto mai attuale nell’Italia di oggi: mai come in questi anni si sente la necessità di riformare seriamente le istituzioni della repubblica perché possano reggere il confronto con quelle dei migliori Stati europei. Il fine ultimo è sempre lo stesso: per i sovrani illuminati dell’Europa germanica si chiamava Wohlfahrtsstaat (Stato del benessere) per la cura della felicità dei sudditi, oggi è il Welfare State, quel complesso di apparati pubblici tesi a garantire la salute e il bene comune.

Il secondo esempio di riformismo si lega al periodo tra il 1796 e il 1814, agli anni in cui Milano fu capitale di uno Stato cisalpino esteso a una parte rilevante del Nord Italia. A pochi mesi di distanza dall’ingresso del generale Bonaparte nella città del Duomo, l’Amministrazione generale della Lombardia organizzò una delle iniziative più importanti per il tema che qui interessa: si trattava di un concorso in cui decine di intellettuali, provenienti da ogni parte d’Italia, presentarono progetti per la formazione di un Stato italiano esteso a tutta la penisola nella soluzione federale o unitaria a seconda delle varie proposte. Il concorso era intitolato: “Quale dei governi liberi meglio convenga alla libertà d’Italia”. Quel concorso, vinto – com’è noto – dallo statistico ed intellettuale Melchiorre Gioia, si rivelò una delusione per i patrioti perché ben presto Bonaparte rivelò i suoi piani di dominio che cozzavano contro il progetto italiano di unire la penisola facendone una nazione in grado di reggere il confronto con la Francia. 

Il culmine di questa attività riformatrice si ebbe tuttavia nel periodo in cui Milano fu capitale della repubblica e del regno d’Italia napoleonico (1802-1814). Fu in quella stagione che tanti patrioti provenienti da ogni parte della penisola, che avevano combattuto generosamente per la libertà negli anni 1796-1800, vennero a Milano, abbandonarono l’impegno politico, lavorarono come probi funzionari negli uffici della macchina amministrativa voluta da Napoleone: Milano seppe assumere il ruolo di capitale di uno Stato moderno in cui operava una burocrazia efficiente, veloce nell’andamento delle operazioni, attenta al conseguimento dei risultati fissati dal governo, in dialogo costante con i suoi terminali periferici – prefetti e viceprefetti – allo scopo di migliorare l’efficacia dei suoi interventi.

Il terzo caso ci porta a un periodo più vicino a noi, agli anni Sessanta-Novanta del secolo scorso, quando Milano fu una delle città che più si distinsero nel campo del riformismo. Tra i vari centri di ricerca che allora operarono in tale ambito desidero ricordare in particolare modo la fondazione dell’Isap (Istituto per la Scienza dell’Amministrazione Pubblica), avvenuta grazie al sostegno del Comune e della Provincia di Milano nel 1959. Questo diede al Paese uno dei più avanzati centri di ricerca nel campo delle istituzioni politiche, i cui progetti di riforma erano in grado di competere con quelli elaborati dagli uffici legislativi del parlamento e dei ministeri. L’istituto, che ebbe quale primo direttore Feliciano Benvenuti e vicedirettore Gianfranco Miglio, si segnalò fin dall’inizio per l’originalità delle sue pubblicazioni afferenti alla storia dei poteri pubblici, alla loro tipologia, alla scienza dell’amministrazione. L’Isap è stata una fucina di studi in cui hanno lavorato storici e giuristi chiamati a collaborare esclusivamente per la loro professionalità. Si è operato con rigore, seguendo in molti casi il metodo avalutativo che il professor Miglio, riprendendo la memorabile lezione di Max Weber, non cessava di raccomandare agli allievi: la Wertfreiheit, il fermo distacco dello scienziato e dello storico dalle ideologie di qualsiasi colore. Purtroppo l’istituto ha interrotto da alcuni anni la sua attività per mancanza di fondi pubblici.

E’ importante che la prossima amministrazione torni a finanziare questo prestigioso ente di ricerca scientifica: la capitale morale potrà tornare a competere con Roma quale laboratorio di riforme politiche e amministrative. La Milano del futuro deve avere non solo le idee, ma anche gli strumenti per realizzare concretamente il buongoverno al servizio del Paese.

Tre proposte per Milano

Questo articolo è stato pubblicato in versione ridotta su “Il Giorno”, 27/06/2021

Gli obiettivi ambiziosi che Milano dovrà raggiungere nei prossimi anni sono quelli con cui si confrontano le città più avanzate del pianeta riunite in C40 Cities: oltre alla riduzione dell’inquinamento da combustibili fossili, la formazione di spazi urbani in cui siano garantiti standard elevati di vivibilità e di cura per l’ambiente. In realtà, una delle sfide maggiori per le metropoli di tutto il mondo continuerà ad essere la riduzione del traffico automobilistico. 

In via generale la prossima amministrazione dovrà intervenire con maggior forza su tre fronti. Anzitutto occorre aumentare la rete delle metropolitane. Bene il prolungamento della M5 verso Monza e della M1 verso Baggio; ci sono però aree della città (come la zona sud verso Noverasco o Ponte Lambro) che non sono servite bene. Si riprenda il progetto della M6.

Il secondo fronte riguarda la formazione di vere e proprie autostrade per le biciclette che colleghino in modo organico le periferie con il centro. E’ vero che si sono realizzate piste ciclabili di rilievo come in corso Venezia, in corso Buenos Aires o in viale Monza. Serve tuttavia una rete organica di percorsi che offra ai cittadini il mezzo per raggiungere il centro in sicurezza, lungo tracciati che tutelino la salute degli utenti limitandone la diretta esposizione agli scarichi di camion e automobili. Oggi questo non avviene. Se vogliamo che Milano sia davvero una città degna di stare sullo stesso piano di metropoli quali Amburgo, Copenhagen, Parigi e Berlino, serve una rete ciclabile sicura, pulita, in grado di essere utilizzata da tutti i cittadini metropolitani. Ad Heidelberg questo già avviene, ma il caso di Berlino è ancor più importante, non foss’altro perché si tratta di una metropoli che per dimensioni è paragonabile a Milano. Nella capitale tedesca è in fase di concreta realizzazione “InfraVelo”, una vera e propria rete di piste ciclabili attrezzate con apposita segnaletica e stazioni di deposito per le bici. Come ha affermato la senatrice tedesca responsabile per l’ambiente, il traffico e la difesa del clima, Regine Günther: “Der Aufbau einer sehr guten Radinfrastruktur ist eine der zentralen Aufgaben in den kommenden Jahren. Denn je besser die Radwege, desto mehr Menschen steigen aufs Fahrrad um. So wird Berlin sauberer, sicherer und klimafreundlicher“. (Traduzione. La creazione di una buona infrastruttura per biciclette sarà uno dei compiti centrali nei prossimi anni. Tanto migliori saranno le piste ciclabili, quanto più persone passeranno ad usare le biciclette. Così Berlino diventerà più pulita, sicura e amica del clima”). Milano dovrà essere all’altezza di questa grande trasformazione urbanistica, se vorrà competere ad armi pari con le metropoli europee.

Il terzo intervento investe il tema del risparmio nel consumo energetico degli edifici: molto deve essere fatto, soprattutto per i vecchi fabbricati. Varrà la pena ricordare a tal proposito che la città di Heidelberg negli ultimi dieci anni ha ridotto del 50% i consumi di energia in edifici datati (scuole e altri stabili). 

Idee per una riforma: la regione metropolitana lombarda

Questo articolo è stato pubblicato su “Il Giorno” del 15/4/2021

Da una ricerca curata da Mario Abis per il Centro Studi Grande Milano sulle condizioni in cui vivono gli abitanti della città metropolitana milanese è emerso come il 60% della popolazione ritiene fondamentale per la ripresa economica una costruzione adeguata dell’ente “Città metropolitana”. E’ evidente che fino ad oggi tale istituzione non ha funzionato: ha sollevato unicamente conflitti tra i municipi. Mai come in questi tempi si rende necessario un intervento legislativo teso a migliorare tale comparto amministrativo.

Nel programma della “Città a 15 minuti” il Sindaco Sala intende garantire nei quartieri migliori servizi pubblici a cittadini che, cessata la pandemia, continueranno in più occasioni a lavorare da casa. Perché questo piano non si riduca a una visione localistica, occorre però un intervento coraggioso: la divisione della città nei suoi antichi comuni. Questi, assieme ai municipi della Città metropolitana, a quelli della provincia di Monza-Brianza, a quelli legati a Milano ma inclusi nelle province di Novara, Varese, Como, Lecco, Pavia, Bergamo, Brescia, Lodi, Cremona, dovranno formare una grande Regione metropolitana. Il Presidente di questo nuovo ente, eletto direttamente dai sette milioni di cittadini che vi abitano, dovrebbe risiedere a Palazzo Marino e dividere con i Sindaci dei municipi l’amministrazione nel campo delle infrastrutture, dei trasporti, dell’urbanistica, dei parchi, della viabilità.

La grande Milano non potrà che essere una Regione amministrativa, al cui interno vi sia un fitto reticolo di comuni integrati nella nuova istituzione. Altrimenti la “Città a 15 minuti” rischia di essere un’idea grettamente municipalista, un po’ come quei milanesi che – come scriveva Ludovico di Breme a Federico Confalonieri in una lettera del 16 maggio 1814 – non sapevano guardare oltre “il borgo degli Ortolani”. 

La natura nel cuore di Milano: le sfide della forestazione urbana

Uno degli elementi che stanno contribuendo a mutare in profondità le fisionomia urbanistica di Milano è la progressiva espansione delle aree destinate a parchi, giardini, spazi verdi. 

La pandemia, lungi dall’interrompere questo processo,  ha finito con l’accelerarlo. E’ altamente probabile che nei prossimi anni le aree urbane acquisiranno i caratteri di “città-foreste”, in cui la presenza di alberi e spazi verdi finirà per essere un elemento fondamentale nel panorama urbanistico. Le aree metropolitane sono in poderosa espansione: si calcola che entro il 2050 all’incirca sei miliardi di persone vivranno al loro interno, a fronte di una popolazione complessiva pari a nove miliardi (dati ONU). La realizzazione di maggiori spazi per il verde contribuirà a contrastare l’aumento delle temperature, mantenendo le città più fresche e vivibili. Si capisce quindi come i sindaci delle maggiori metropoli del pianeta si stiano attrezzando per gestire questo cambiamento epocale con politiche che siano in grado di salvaguardare l’ambiente. 

Rientra in questa accresciuta sensibilità per la riduzione dell’inquinamento la costruzione di edifici in cui il verde dei giardini e dei parchi è divenuto un elemento fondamentale nella loro costituzione. A Milano un caso emblematico è il famoso Bosco Verticale realizzato dallo Studio Boeri nel 2014. Si tratta di due eleganti palazzi residenziali che ospitano più di 900 tipologie di alberi per un totale di 15.000 piante in uno spazio di 20.000 metri quadrati.

Il Bosco Verticale. Studio Boeri, 2014.

Occorre inoltre ricordare che in via Serio è in corso ad opera della società Covivio la costruzione di Vitae, un edificio pronto per il 2022: nel palazzo, ove verranno stabiliti gli uffici di ricerca oncologica e molecolare, sarà realizzata una vigna le cui piante saranno costantemente presenti nel percorso dei visitatori, accompagnandoli per così dire fino al tetto, a 200 metri di altezza. Anche qui la filosofia che ha ispirato l’architetto, Carlo Ratti, si lega perfettamente alle politiche ecologiche di “forestazione urbana” sopra richiamate: l’obiettivo, come ha dichiarato Ratti, è “riportare la natura nel cuore delle nostre città”; un traguardo, in quella zona a pochi metri dalla Fondazione Prada, destinato ad essere raggiunto in pochi anni: com’è noto, la stessa Covivio, Prada Holding e Coima si sono aggiudicati pochi mesi fa i lavori per la valorizzazione dell’ex scalo di Porta Romana ove verrà realizzato il villaggio olimpico e un parco di quasi 100.000 metri quadrati. 

E’ opportuno chiedersi se questa attenzione per gli spazi verdi possa contare su precedenti storici. Nella Milano medievale e moderna era del tutto assente quell’attenzione ecologica che è dominante nelle nostre società: vale a dire l’idea per cui gli alberi, i parchi e più in generale gli spazi verdi siano elementi del paesaggio da curare attentamente in politiche ambientali di riduzione dell’inquinamento e di contrasto agli effetti del riscaldamento climatico. 

Nella Milano di antico regime – e tale sarebbe rimasta fino alla metà dell’Ottocento – la città era divisa in due parti. Da un lato il centro cittadino fittamente urbanizzato compreso entro il tracciato delle antiche mura medievali, al di qua del Naviglio interno; dall’altro le “periferie”, denominati “borghi” in base alle porte di riferimento, che si estendevano fino ai Bastioni, ove il paesaggio era in larghissima parte agricolo, limitato a pochi palazzi patrizi con giardini, chiese o conventi lungo i principali assi viari. 

Nel corso del XVIII secolo la città fu interessata tuttavia da una profonda opera di rinnovamento edilizio che interessò non solo le autorità pubbliche (gli Asburgo di Vienna) ma anche i privati – nobili e redditieri – che ingrandirono le loro case rifacendone le facciate, ristrutturando i giardini allo stile italiano o inglese. 

Il conte Giacomo Sannazzari abitava in un elegante palazzo in piazza San Fedele che nella numerazione asburgica introdotta all’epoca dell’imperatore Giuseppe II corrispondeva  al civico 1912. Il Sannazzari fu un raffinato collezionista di opere d’arte e di libri antichi. Occorre ricordare in proposito che nella sua abitazione non solo si trovava il celebre dipinto Lo Sposalizio di Raffaello ma era conservato pure un prezioso manoscritto della Divina Commedia risalente al 1321.

Il conte Giacomo Sannazzari in un ritratto di Paolo Borroni (1805).

Alla sua morte, avvenuta nel 1804, l’immobile passò in eredità all’Ospedale Maggiore di Milano, che lo ebbe tuttavia per poco tempo. Con decreto del 4 luglio 1805, in tre concisi articoli, Napoleone ordinò che il palazzo di piazza San Fedele fosse ceduto allo Stato italico. In cambio della cessione dell’immobile, all’Ospedale Maggiore furono assegnati alcuni terreni a livello le cui rendite furono tali da eguagliare il valore della casa. Perché Napoleone volle che lo Stato entrasse in possesso di quell’elegante casa nel centro della città? Il decreto stabiliva che l’immobile dovesse servire di “abitazione al Ministro delle Finanze”. Da quell’anno il palazzo divenne proprietà del demanio italico e al suo interno, oltre ad esservi alcuni uffici della finanza, abitò il ministro Giuseppe Prina, uno dei funzionari più brillanti e probi dell’amministrazione italica. 

Nell’archivio dell’Ospedale Maggiore di Milano, nel faldone che comprende i documenti dell’eredità Sannazzari, si trova una preziosa perizia eseguita dai delegati Gaetano Faroni per il ministro delle finanze e Pietro Castelli per l’Ospedale Maggiore. Vi sono descritti in dettaglio i locali e gli arredi del palazzo di San Fedele. All’epoca le case da nobile erano articolate in tre ambienti: un cortile interno consentiva l’accesso ai locali al pianterreno generalmente riservati alle scuderie e ai depositi per le carrozze; il primo piano – definito piano nobile – era riservato alla famiglia proprietaria dell’edificio, mentre al secondo piano viveva la servitù. 

Molti si chiederanno che relazione abbia tutto questo con le aree verdi milanesi. Se si consulta la perizia, tra le stanze e arredi descritti al secondo piano si legge questa curiosa annotazione: “18. Terrazza ad uso di Giardino alla Genovese”. Che cosa significa questa espressione? Nel Dizionario di cognizioni utili alla studiosa gioventù pubblicato nel 1864 questi giardini erano definiti “spaziosi, digradati a terrazzi”, diffusi nelle città europee. Nel caso in esame si trattava del celebre giardino pensile che il conte Sannazzari aveva ricavato in una parte del tetto. Le memorie di quegli anni ricordano come il suo palazzo fosse divenuto famoso per quel giardino, al quale si accedeva salendo le scale che dal primo piano portavano ai locali della servitù. Si trattava certamente di uno spazio esclusivo ricavato sul tetto di un’elegante casa da nobile che il Prina trovò praticamente intatto. Esso non fu destinato però a lunga vita: il 20 aprile 1814, nel corso della rivolta popolare contro il governo napoleonico che sarebbe costata la vita al ministro Prina, il palazzo al civico 1912 venne completamente distrutto. 

Quel giardino pensile, che tanto aveva affascinato i visitatori nella Milano settecentesca e napoleonica, può essere ritenuto con buone ragioni uno dei primi tentativi con cui in Europa si cercò di realizzare un’ambiente domestico in cui le piante e le varie specie arboree fossero tutelate e valorizzate.

La sfida di un’esistenza rinnovata

Gli effetti della pandemia cambieranno non solo i nostri stili di vita e comportamenti, ma anche le stesse forme di convivenza.

In un interessante articolo pubblicato il 20 marzo, Cinque domande aperte sul dopo-Covid, Piero Bassetti ha delineato con grande lucidità gli interrogativi cui dovrà rispondere l’Italia per risolvere nei prossimi anni i problemi collegati agli effetti sociali e civili dalla pandemia. Come l’amico Carlo Alberto Rinolfi, cercherò anch’io di rispondere a tali domande: riprendendo l’insegnamento del professor Giuseppe Lazzati, il quale invitava alla “fatica del pensare”, spero di poter contribuire, sia pur in piccola parte, al dibattito in corso. 

Piero Bassetti, presidente di Regione Lombardia dal 1970 al 1974.

La prima domanda di Bassetti insiste sul conflitto tra le opinioni amplificate a dismisura dai media e, dall’altra parte, le conoscenze scientifiche, le “conoscenze incarnate dalla prassi” (come le chiama lui) le quali rinviano ai progressi impressionanti conseguiti negli ultimi anni dall’innovazione tecno-scientifica. In questi mesi il conflitto è stato lampante: da un lato le fake news, le notizie di complotti nella confezione del virus che, nei giorni del panico, hanno rapito l’attenzione di molti; dall’altro gli interventi degli specialisti, degli infettivologi, dei maggiori luminari della scienza. 

Ai cittadini che vanno in cerca di certezze sul futuro, gli scienziati non danno però risposte definitive. Non possono. Le loro ipotesi si fondano sul metodo della “probabilità” proprio di tutte le scienze, compresa quella storica. Il Coronavirus è piombato nella nostra vita cogliendoci impreparati. Non ne sapevamo nulla e per certi versi ancora oggi non sappiamo abbastanza sulla sua evoluzione. Gli scienziati, grazie agli strumenti tecnologici di cui dispongono, sono stati in grado di studiare in breve tempo questo virus, ma sono anch’essi lontani da una piena conoscenza. Non sappiamo quello che ci attenderà nei prossimi mesi, se vi sarà un ritorno dell’epidemia con il calare delle temperature in autunno. E’ meglio tuttavia seguire i consigli di persone competenti come i medici, piuttosto che abboccare alle facili dietrologie e alle spiegazioni semplicistiche di persone non qualificate.

L’amico Rinolfi sostiene, nel suo interessante articolo La grande riabilitazione, che “sul piano della società globale l’evento pandemico sembra segnare l’avvento di una nuova forma di tecnopolitica più adatta alla società biotecnologica, capace di sospendere e trasformare le libertà individuali assicurando la sopravvivenza in salute e di condizionare l’economia di mercato prevalente”. 

L’attenzione è per una civiltà che torni ad essere rispettosa degli equilibri della natura, in cui i diritti della comunità dovranno essere salvaguardati e posti al di sopra degli interessi dei singoli: il diritto alla salute, il diritto a vivere in un ambiente sano e non inquinato grazie al progresso tecno-scientifico dovrà obbligare i sistemi industriali a riconvertirsi. E’ un quadro che mi sento di condividere in massima parte. Teniamo però in considerazione anche questo: quei cittadini che hanno bisogno di risposte sul futuro non fanno che esprimere domande ai poteri pubblici, domande cui governanti responsabili dovranno rispondere non solo con l’aiuto degli esperti. Servono politiche di lungo periodo perché non basta sopravvivere in salute, bisogna assicurare un futuro sostenibile alle nuove generazioni.

Il secondo tema riguarda il lavoro e la formazione, due realtà che sono state letteralmente sconvolte dall’esplosione della pandemia. E’ evidente che tali ambiti di vita sociale e lavorativa dovranno essere ripensati radicalmente: lo stiamo vedendo in questi giorni di quarantena. Il rischio concreto di perdere il lavoro o di essere costretti a bloccare le attività produttive per ragioni di sicurezza pubblica non dovrà più avvenire in futuro perché si è visto che le conseguenze nell’impoverimento economico del Paese sono devastanti. Nei prossimi anni lo sviluppo delle tecnologie informatiche sarà decisivo nell’implementare su larga scala il lavoro da casa: cambieranno i nostri comportamenti, saremo più legati alle nostre case, che diventeranno “case-lavoro” assai più di quanto non sia accaduto negli ultimi anni. 

Lo stesso riguarderà la formazione: la scuola si dovrà aggiornare. E’ facile immaginare che le lezioni tradizionali continueranno a tenersi negli istituti, non foss’altro che per consentire ai genitori di recarsi al lavoro. Il rischio legato all’insorgere di nuovi contagi costringerà però a ripensare il modo di stare in classe: penso al numero degli alunni nelle varie aule o alla stessa disposizione dei banchi. Già la ministra della pubblica istruzione Azzolina ha rilasciato dichiarazioni che sembrano anticipare provvedimenti che vanno in questa direzione. Credo che si dovrà anche ripensare ai programmi e alle didattiche, aprendo in modo significativo ai sistemi di formazione online, come già sta avvenendo nelle scuole più aggiornate. 

C’è però un altro scenario che si potrebbe realizzare. Lo smart working, se dovesse affermarsi su larghissima scala, consentirebbe in molti casi ad almeno un genitore di restare in casa: questo risolverebbe in parte il problema della didattica a distanza, perché i figli potrebbero assistere in modo proficuo alle lezioni online come avviene oggi. Questo però non è sufficiente perché sappiamo bene che non tutti possiedono abitazioni grandi e non tutti dispongono di una connessione internet. La scuola aperta a tutti continuerà pertanto a basarsi sulla classica didattica nelle aule. E’ facile immaginare che si andrà verso un sistema di istruzione misto: in parte online e in parte classico. 

Il terzo interrogativo posto da Bassetti riguarda il potere. A suo giudizio il virus avrebbe annullato l’antica opposizione che divideva Stati o gruppi umani in base ad interessi di potenza. Il virus li avrebbe resi solidali di fronte all’epidemia. Io non sono così ottimista. Credo al contrario che le reazione dei poteri pubblici più sviluppati di fronte al virus abbia fatto venire in luce i punti di forza e i punti di debolezza dei vari Stati nel mondo; credo che tutto questo abbia rivelato le contraddizioni interne in molti Stati-nazione, soprattutto in Europa. Non si può escludere che la crisi economica successiva alla pandemia, se non gestita in modo prudente e lungimirante dalle istituzioni europee, finirà con il mettere in discussione lo stesso sistema monetario dell’Euro, provocando cambiamenti geo-politici in alcuni Stati del Vecchio Continente. D’altra parte l’ intervento poderoso dell’Europa a sostegno dei paesi più colpiti dall’epidemia dovrebbe consentire agli Stati di riprendersi. L’Italia nei prossimi anni dovrà riconvertire pezzi importanti della sua economia con politiche di largo respiro contro l’inquinamento ambientale. Penso soprattutto all’Italia padano cisalpina, in particolar modo all’area metropolitana milanese e lombarda .  Difatti gli scienziati non hanno escluso che le polveri sottili delle aree più inquinate siano state tra le cause di maggiore diffusione del virus. Saprà l’Italia impiegare con efficacia i fondi che l’Europa sta mettendole a disposizione se permangono le inefficienze nella burocrazia pubblica dello Stato centrale? Riusciremo noi Italiani ad impiegare quei fondi e a non disperderli nei mille rivoli della spesa pubblica improduttiva? 

Bassetti si chiede, nella sua quarta domanda, quali istituzioni potranno meglio governare comunità di cittadini che chiedono alle amministrazioni risposte adeguate ai loro bisogni locali e al contempo si sentono parte della comunità globale grazie ad Internet. “Per effetto dell’innovazione – scrive Bassetti – il bottom up e la rete seppelliscono le certezze della gerarchia, della democrazia rappresentativa, del centralismo democratico, dell’assolutismo di mercato”. Difficile rispondere a questa domanda.

A mio parere i problemi più grandi per noi italiani sono essenzialmente tre: 1. Uno Stato unitario (non-federale) che, fin dalla sua fondazione, ha preteso di governare allo stesso modo comunità territoriali completamente diverse per storia, tradizioni, stili di vita. 2. Un apparato burocratico amministrativo del tutto inefficiente, agli ultimi livelli nelle classifiche internazionali, che in troppi casi non è in grado di fornire ai cittadini servizi pubblici in tempi certi e ragionevoli. 3. Uno scollamento tra cittadini e istituzioni pubbliche che traspare nella scarsa partecipazione alle elezioni politico amministrative e nel fallimento dell’istituto del referendum quale è stato previsto nella Costituzione del 1948. Per queste ragioni, credo che una coraggiosa riforma costituzionale e amministrativa in senso federale e presidenziale sia fondamentale per assicurare il buongoverno del Paese e delle sue comunità. Una riforma che dia maggiore responsabilità ai territori (federalismo) e consenta al contempo ai cittadini un più stretto controllo sulla classe politica (locale, regionale e nazionale) mediante un potenziamento degli istituti di democrazia diretta (referendum abrogativi, territoriali, ma anche propositivo deliberativi senza quorum come in Svizzera). Si dovranno inoltre impiegare le piattaforme informatiche per rendere possibile ai cittadini l’esercizio del diritto di voto da casa in completa sicurezza, come già avviene in tanti Stati nel mondo.

Questo però non basta perché, per cercare di risolvere il secondo punto, occorrono riforme radicali anche nell’impianto generale dell’amministrazione pubblica: sarà fondamentale velocizzare al massimo l’andamento delle operazioni negli uffici portandole ai livelli europei. Un risultato per nulla scontato perché oggi dobbiamo fare i conti con una macchina burocratica che negli anni passati non è stata neppure in grado di utilizzare i fondi europei. Servirà nei prossimi anni una classe politica coraggiosa e incorruttibile, che sappia intervenire in modo chirurgico nell’amministrazione centrale e periferica dello Stato per snellire gli apparati, semplificare leggi e atti burocratici, abbreviare drasticamente i tempi delle operazioni seguendo i migliori esempi europei sul campo. Federalismo per mettere in competizione le Comunità territoriali in cui l’Italia è naturalmente articolata da secoli e porre le condizioni per un miglioramento nel servizio pubblico grazie all’esempio dei migliori. Buongoverno nel potere centrale mediante una riforma presidenziale che dia al governo una completa autonomia per organizzare gli uffici e assicurare la buona amministrazione nei servizi che da esso ancora dipenderanno. Rafforzamento degli istituti di democrazia diretta per rendere più incisivo il controllo dei cittadini sulla classe politica ed evitare che quest’ultima, a tutti i livelli, viva in una dimensione di potere che la separa dalla Società. 

Siamo giunti infine alla quinta domanda di Bassetti, il quale si chiede quali tipi di comunità saranno destinate ad affermarsi al crepuscolo degli Stati-nazione. E’ difficile fare previsioni e da storico, occupandomi di passato e non di futuro, preferisco non inoltrarmi in un terreno ignoto.

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